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Sull'art. 416-bis ed in particolare sull'uso della forza intimidatrice.
Giur. merito 1995, 2, 313
Alessandra Arceri
Magistrato
1. L'ordinanza del Tribunale di Lecce si allinea alla già copiosa giurisprudenza pugliese in materia di associazione di tipo mafioso.
Senza cercare di definire dommaticamente la fattispecie descritta dall'art. 416- bis c.p., la pronuncia delinea gli elementi sufficienti ed al tempo stesso necessari ad integrare il reato in oggetto. In particolare, quanto alla capacità intimidatoria dell'associazione - capacità esplicitamente menzionata dalla norma quale caratteristica dei gruppi mafiosi - l'ordinanza fa riferimento a precedenti «avvertimenti» posti in essere nei confronti dei titolari di attività economiche prese di mira dai malviventi, per desumere l'esistenza di una condizione di evidente timore anche in assenza di min 15315y248p acce verbali.
Sembrerebbe, dunque, che i giudici leccesi abbiano aderito all'orientamento che ritiene l'associazione di tipo mafioso un reato non meramente associativo, richiedendo, oltre agli elementi propri e caratteristici dei reati associativi, la sussistenza della cd. «forza di intimidazione del vincolo associativo, ed il suo esercizio finalizzato al perseguimento degli scopi tipici» (1).
Il reato di associazione di tipo mafioso risulterebbe insomma normativamente costruito, rispetto a quello di associazione per delinquere (art. 416 c.p.), come un cerchio più grande e complesso, tale da ricomprendere in sé la fattispecie strutturata in modo più semplice, che ne costituisce il nucleo di base.
D'altronde, assegnare alla cd. «forza intimidatrice» una natura giuridica piuttosto che un'altra può comportare conseguenze di non poco conto: si pensi soltanto al fatto che, considerando l'uso della forza intimidatrice come elemento specializzante dell'associazione di tipo mafioso rispetto al reato di associazione per delinquere, non sussisterebbero ostacoli alla derubricazione della fattispecie complessa alla fattispecie più semplice, qualora difetti la prova del compimento di atti di violenza o minaccia, o delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano.
Viceversa, assegnando a detto elemento la differente valenza di nucleo centrale della nuova fattispecie, in mancanza di prova circa la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato non sarebbe possibile, una volta contestato il reato di cui all'art. 416- bis c.p., pronunciare condanna per il diverso reato di associazione per delinquere (2).
Salva l'ipotesi, naturalmente, in cui il P.M. non ritenga, se il fatto risulta diverso da quello descritto nell'imputazione, di modificare quest'ultima ai sensi dell'art. 516 o dell'art. 423 c.p.p.
2. Già agli albori dell'entrata in vigore della nuova fattispecie descritta dall'art. 416- bis c.p., l'inusuale tecnica legislativa, densa di pericolose ed evanescenti terminologie metagiuridiche, fomentò accesissimi dissidi dottrinali sulla interpretazione del disposto, ed in particolare sugli elementi caratterizzanti dello stesso.
Il polo di maggiore discordia era infatti rappresentato proprio dall'inciso «si avvalgono della forza di intimidazione» che, secondo alcuni, rappresentava il nucleo centrale, la condotta penalmente rilevante della nuova fattispecie, cosicché quest'ultima si poneva su un piano completamente autonomo rispetto al reato di cui all'art. 416 c.p. (3).
Ma la maggior parte della dottrina riconobbe all'art. 416- bis c.p. natura di norma speciale rispetto all'art. 416 c.p., interpretando la norma nel senso che fossero richiesti, da una parte, tutti gli elementi costitutivi dell'associazione criminosa, e fosse altresì necessario, dall'altra, che gli adepti facessero ricorso al «metodo mafioso» per il raggiungimento degli scopi della congregazione, leciti o illeciti che fossero.
Ma l'effettivo ricorso al «metodo mafioso» si poneva quale elemento imprescindibile per la configurabilità della fattispecie, o era piuttosto sufficiente che tale «modus operandi» rientrasse nel programma criminoso dell'associazione, anche se non realizzato?
I primi autorevoli commentatori della novella legislativa (4), interpretando l'intento del legislatore, ritennero che la dimostrazione dell'effettivo ricorso, da parte degli associati, ad atti intimidatori, non fosse necessaria, purché gli stessi si proponessero di avvalersene per il raggiungimento degli scopi dell'associazione.
Era certo infatti che, rientrando tra le finalità della novella quella di anticipare la soglia della punibilità , creando una definizione della consorteria mafiosa tale da cogliere anche l'aspetto sociologico del fenomeno, subordinare l'applicabilità della sanzione alla prova dell'effettivo compimento di atti intimidatori, significava ridurne sensibilmente il campo operativo nonché le concrete possibilità di applicazione.
Anche perché, si diceva, la forza intimidatrice non è una modalità esecutiva del programma criminoso degli associati, ma si sostanzia nella capacità dei sodalizi mafiosi di creare intorno a sé un alone di timore diffuso, spesso derivante dal vincolo in sé e per sé considerato, nonché dalla consapevolezza delle sue enormi potenzialità o minacce, assai difficili da provare proprio in virtù di quella condizione di assoggettamento ed omertà che ad essi consegue.
Tale lettura della norma, sebbene retta dal lodevole intento di agevolare la repressione del fenomeno mafioso, non ha convinto coloro che vi hanno ravvisato il pericolo di aprire la strada ad inammissibili processi alle intenzioni, contrari al principio costituzionale di materialità (5).
La condotta punibile descritta dall'art. 416- bis c.p., insomma, non poteva e non doveva consistere nell'associarsi con l'intenzione (non necessariamente manifestata) di valersi del «metodo mafioso», poiché in tale comportamento non avrebbe potuto ravvisarsi alcuna lesione dell'oggetto giuridico della tutela penale.
Era ovvio, allora, scorgere la peculiarità dell'associazione di tipo mafioso nell'associarsi non già per un determinato scopo, bensì con determinate caratteristiche, consistenti in comportamenti, o anche in semplici atteggiamenti, traducibili nell'ambiente ove si manifestano in ben precise minacce, dirette a chi volesse eventualmente non assoggettarsi alle condizioni dettate dall'associazione.
3. La soluzione interpretativa scelta da ultimo in dottrina (ed anche in giurisprudenza) trova chi scrive, per diversi motivi, concorde: non è possibile, come pure taluno ha fatto, aggirare il preciso disposto letterale della norma «si avvalgono» (che ha sostituito il gerundio «valendosi» contenuto nell'originario progetto di legge), sostenendo che l'uso dell'indicativo corrisponderebbe ad esigenze meramente definitorie del legislatore, non interferenti nella struttura obiettiva della norma, atta a reprimere il fenomeno mafioso già dal momento meramente associativo (6).
Infatti: o l'associazione mafiosa è formata, ed allora essa necessariamente possiede le sue caratteristiche, tra le quali, primariamente, la forza intimidatrice, che è stata dal Turone paragonata, con felice espressione, all'«avviamento» dell'azienda; ma se la forza di intimidazione non sussiste, pur in presenza di una congregazione di persone che si propongono il perseguimento dei medesimi scopi di cui all'art. 416- bis c.p., è evidente che la fattispecie applicabile, ove ne ricorrano gli estremi, sarà solo e soltanto l'art. 416 c.p.
D'altra parte, se l'art. 416- bis c.p. delineasse un reato meramente associativo, il legislatore avrebbe adoperato formule analoghe a quelle degli altri reati meramente associativi (art. 270 c.p., art. 306 c.p., art. 416 c.p.): il fatto è che nell'associazione di tipo mafioso il dolo specifico, descritto nei reati meramente associativi con proposizioni come «dirette a» (art. 270 c.p.), «per commettere» (art. 306 c.p.), «allo scopo di commettere» (art. 416 c.p.), è stato in parte assorbito dall'elemento oggettivo del reato.
Se, infatti, si presta attenzione alla formulazione letterale e strutturale della norma («L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti..«»), non potrà non notarsi che l'elemento caratterizzante, vale a dire il «metodo mafioso», è logicamente e strutturalmente antecedente a quello, di natura prettamente soggettiva, costituito dalla descrizione delle finalità , lecite e non, per il raggiungimento delle quali l'associazione viene costituita.
D'altra parte, la definizione stessa di dolo specifico, come fine particolare dell'azione che sta oltre il fatto materiale tipico (7), non si attaglia ad un comportamento già di per sé idoneo a rappresentare il disvalore penale sanzionato dal precetto.
Se così non fosse, l'associazione mafiosa cd. «pulita», che persegue cioè il fine di «acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazione, appalti e servizi pubblici», sarebbe assoggettabile a sanzione penale per la sola intenzione di avvalersi della forza intimidatrice del vincolo, dato che, in tal caso, non sarebbe possibile individuare elementi di illiceità penale nel fine perseguito dagli associati.
La forza di intimidazione fa dunque parte, e nello stesso tempo individua, l'associazione di tipo mafioso (8), ed è per questa ragione che il giudice non può prescindere dall'accertamento della sussistenza di tale elemento.
Ecco perché, come si è giustamente rilevato, l'aver sussunto il metodo mafioso all'interno della struttura oggettiva del reato, oltre a creare problemi interpretativi dovuti all'indeterminatezza del precetto, ha aggravato la situazione probatoria, in quanto non è sufficiente dimostrare l'esistenza dell'associazione, ma è altresì necessario dimostrare l'uso della forza intimidatrice.
A tal fine, tuttavia, si è sostenuto che la prova della sussistenza della forza intimidatrice non postula il compimento, da parte dei singoli associati, di atti diretti ad intimidire, purché la presenza di quel clima di timore diffuso nei confronti dell'associazione, e soprattutto la consapevolezza delle conseguenze di una eventuale disobbedienza alle richieste esplicite o larvate dei suoi membri, possano essere desunti da altre circostanze obiettive.
La decisione in commento, per esempio, giunge ad affermare l'esistenza della forza intimidatrice non già sulla base dell'acquisita prova del compimento di violenze o minacce, bensì in considerazione del tenore di un colloquio telefonico tra il capo della associazione ed un commerciante della zona, dal quale, anche in mancanza della formulazione di esplicite minacce, «emerge però l'evidente timore, e quasi la certezza, dell'imprenditore che un suo rifiuto sarebbe seguito da ritorsioni».
4. Gli accesi contrasti sorti intorno all'interpretazione dell'art. 416- bis c.p. impongono qualche considerazione sulla formulazione della norma, nonché sulla necessità e sul significato della sua introduzione.
Il ricorso, nel linguaggio normativo, ad elementi sociologici vaghi o indeterminati (forza intimidatrice, condizione di assoggettamento, omertà ) non è infatti mai auspicabile, in quanto, riferendosi a parametri estremamente equivoci, rende assai ardua, nonostante gli sforzi interpretativi, l'individuazione dei confini dell'area dell'illiceità penale, aumentando le possibilità di verificazione di decisioni di segno opposto (9).
Indubbiamente, le difficoltà ermeneutiche generate dalla insolita formulazione della norma, hanno avuto riflessi negativi sulla capacità della stessa di rispondere alle esigenze repressive sottostanti alla sua introduzione.
Si pensi soltanto alle decisioni che, interpretando rigidamente il concetto di omertà , come condizione di rifiuto sistematico, assoluto e generalizzato di collaborazione con la giustizia, sono giunte ad affermare la non configurabilità del delitto poiché, avendo un solo soggetto denunciato l'attività illecita dell'associazione, sarebbero venute meno quelle barriere di intimidazione ed omertà che caratterizzano il comportamento punibile (10).
Ma l'introduzione dell'art. 416- bis c.p. era veramente necessaria?
Secondo l'orientamento dottrinale tradizionale, la riconduzione delle associazioni mafiose entro i confini dell'art. 416 c.p. non assicurava la repressione delle stesse, in quanto tale norma richiede il perseguimento di finalità criminose, mentre le finalità perseguite dalle congregazioni mafiose possono anche essere, notoriamente, di natura economica, politica, o comunque non illecite in sé e per sé (11).
Altri autori hanno invece sostenuto che la difficoltà di applicare l'art. 416 c.p. alle associazioni mafiose «pulite» (che perseguono, vale a dire, scopi non criminosi) avrebbe potuto essere agevolmente superata, in quanto la formazione di un sodalizio avente simili caratteristiche «implica necessariamente un accordo sul ricorso ad un comportamento penalmente rilevante, quantomeno nella prospettiva dei reati di minaccia e di violenza privata tentata; sicché l'applicabilità dell'art. 416 c.p. avrebbe trovato giustificazione nella circostanza che i (presunti) fini leciti delle associazioni mafiose vengono perseguiti attraverso un obiettivo strumentale rappresentato dalla realizzazione di condotte intimidatrici dotate di rilevanza criminosa» (12).
Tali illecite condotte, quindi, sono insite nella struttura stessa dell'associazione.
Spesse volte, poi, non può tacersi che la minaccia mafiosa è sottile ed allusiva, talché potrebbe ben affermarsi che la condizione di assoggettamento e di timore diffuso derivi più dalla esistenza stessa del vincolo che da espliciti «avvertimenti» (13).
Posto dunque che l'associazione mafiosa, anche se «pulita», non è mai lecita, per il suo stesso porsi nei confronti dei consociati, deve concludersi che la nuova fattispecie di cui all'art. 416- bis c.p. era già astrattamente ricomprensibile entro quella, più generica, di cui all'art. 416 c.p.
Chi si è interrogato sulla funzione della nuova fattispecie (14) vi ha individuato un significato «educativo», in quanto la criminalizzazione dell'associazione mafiosa ne evidenzierebbe il disvalore morale e sociale, ed un significato «politico - giuridico», in quanto la maggior severità sanzionatoria si giustificherebbe in virtù dell'attitudine necessariamente plurioffensiva dell'associazione di tipo mafioso (15).
Mi sembra tuttavia che gli scopi dell'introduzione della norma, riassumibili nell'anticipazione della soglia dell'illiceità penale e nel maggior rigore repressivo, siano stati nella realtà frustrati dalle difficoltà interpretative, e quindi applicative, generate dall'infelice tecnica legislativa.
Note
(1) Trib. Bari 24 ottobre 1987, Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 1731 ss., con nota di Spagnolo, Ai confini tra associazione per delinquere ed associazione di tipo mafioso.
(2) Spagnolo, cit., 1732-1733.
(3) Antonini, Le associazioni per delinquere nella legge penale italiana, Giust. pen., 1985, 288-289; Neppi Modona, Il reato di associazione mafiosa, Dem. dir., 1983, 41, in part. p. 52.
(4) Fiandaca, Commento all'art. 1 della legge 13 settembre 1982 n. 646, Leg. pen., 1983, 261; Bertoni, Prime considerazioni sulla legge antimafia, Cass. pen., 1983, 1017.
(5) Madeo, Riscossione organizzata di tangenti da parte di pubblici ufficiali, intimidazione dei concussi e configurabilità dell'associazione di tipo mafioso, in nota a Cass. pen., Sez. VI, 10 giugno 1989, e App. Genova 22 gennaio 1988, Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 1177 ss., in part. p. 1203; De Liguori, L'oggetto giuridico della tutela penale nell'art. 416 bis: limiti e funzioni, in nota a Cass. pen., Sez. I, 30 gennaio 1990 n. 1345, in part. p. 1714.
(6) Fiandaca, op. cit., 262.
(7) Mantovani, Diritto penale, Padova, 1988, 314.
(8) Turone, Le associazioni di tipo mafioso, Milano 1984, 81.
(9) Mantovani, op. cit., 102.
(10) Trib. Savona 8 agosto 1985; App. Genova 22 gennaio 1988, cit.
(11) Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. I, Milano 1982, 714.
(12) Fiandaca, op. cit., 265.
(13) Non si dimentichi, tra l'altro, che per la costante giurisprudenza i reati di minaccia e di violenza privata (art. 610 e 612 c.p.) sono integrati anche qualora l'agente non formuli esplicite minacce, ma si limiti ad assumere un atteggiamento intimidatorio: Cass. 11 giugno 1980, Cass. pen. 1982, 110; Cass. 10 ottobre 1979, Cass. pen. Mass., 1981, 565.
(14) Fiandaca, op. cit., 266.
(15) Sulla natura plurioffensiva dell'associazione mafiosa vedi in particolare: De Liguori, L'oggetto giuridico, cit., 1715-1716.
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