a Silvana Rovelli
Rivedo le tue lettere d'amore
illuminata, adesso, dal distacco;
senza quasi rancore...
L'illusione era forte a sostenerci;
ci reggevamo entra 22222g67w mbi negli abbracci
pregando che durassero gli intenti,
ci promettemmo il «sempre» degli amanti,
certi nei nostri spiriti d'Iddii...
... E hai potuto lasciarm,
e hai potuto intuire un'altra luce
che seguitasse dopo le mie spalle!
Mi hai suscitato dalle scarse origini
con richiami di musica divina,
mi hai resa divergenza di dolore,
spazio per la tua vita di ricerca
per abitarmi il tempo di un errore...
... E mi hai lasciato solo le tue lettere
onde ne ribevessi la mia assenza!
Gennaio 1949
Quando l'angoscia spande il suo colore
dentro l'anima buia
come una pennellata di vendetta,
sento il germoglio dell'antica fame
farsi timido e grigio
e morire la luce
E contro me le cose inanimate
che ho creato dapprima
vengono a rimorire dentro il seno
della mia intelligenza
avide
richiedenti ricchezza ad un mendìco.
a Pietro De Paschale
Vorrei un figlio da te che sia una spada
lucente, come un grido di alta grazia,
che sia pietra, che sia novello Adamo,
lievito
più quietamente questa nostra sete!
Ah, se t'amo, lo grido ad ogni vento
gemmando fiori da ogni stanco ramo
e fiorita son tutta e d'ogni velo
vò scerpando il mio lutto,
perché genesi sei della mia carne.
Ma il mio cuore, trafitto dall'amore
ha desiderio di mondarsi vivo.
E perciò dàmmi un figlio delicato,
un bellissimo, vergine viticcio
da allacciare al mio tronco, e tu, possente
olmo, tu padre ricco d'ogni forza pura
mieterai dolci ombre alle mie luci.
Cesare amò Cleopatra,
io amo Pierri divino
che non conduce nessuna guerra
che è solo condottiero di nostalgia,
ma il mio povero letto
giace nel solstizio d'estate
ed è un audace triclinio
quando lui a sera in vena d'amore
mi dice parole di patriottismo segreto.
Manicomio è parola assai più grande
delle oscure voragini del sogno,
eppur veniva qualche volta al tempo
filamento di azzurro o una canzone
lontana di usignolo o si schiudeva
la tua bocca mordendo nell'azzurro
la menzogna feroce della vita.
O una mano impietosa di malato
saliva piano sulla tua finestra
sillabando il tuo nome e finalmente
sciolto il numero immondo ritrovavi
tutta la serietà della tua vita.
Ore perdute invano
nei giardini del manicomio,
su e giù per quelle barriere
inferocite dai fiori,
persi tutti in un sogno
di realtà che fuggiva
buttata dietro le nostre spalle
da non so quale chimera.
E dopo un incontro
qualche malato sorride
alle false feste.
Tempo perduto in vorticosi pensieri,
assiepati dietro le sbarre
come rondini nude.
Allora abbiamo ascoltato sermoni,
abbiamo moltiplicato i pesci,
laggiù vicino al Giordano,
ma il Cristo non c'era:
dal mondo ci aveva divelti
come erbaccia obbrobriosa.
Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch'io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c'era anche il Messia
confuso dentro la folla:
un pazzo che urlava al Cielo
tutto il suo amore in Dio.
Noi tutti, branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso la messe,
la messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.
Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.
Ma un giorno da dentro l'avello
anch'io mi sono ridestata
e anch'io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all'inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.
Le dune del canto si sono chiuse,
o dannata magia dell'universo,
che tutto può sopra una molle sfera.
Non venire tu quindi al mio passato,
non aprirai dei delta vorticosi,
delle piaghe latenti, degli accessi
alle scale che mobili si dànno
sopra la balaustra del declino;
resta, potresti anche essere Orfeo
che mi viene a ritogliere dal nulla,
resta o mio ardito e sommo cavaliere,
io patisco la luce, nelle ombre
sono regina ma fuori nel mondo
potrei essere morta e tu lo sai
lo smarrimento che mi prende pieno
quando io vedo un albero sicuro.
Ho acceso un falò
nelle mie notti di luna
per richiamare gli ospiti
come fanno le prostitute
ai bordi di certe strade,
ma nessuno si è fermato a guardare
e il mio falò si è spento.
Il mio primo trafugamento di madre
avvenne in una notte d'estate,
quando un pazzo mi prese
e mi adagiò sopra l'erba
e mi fece concepire un figlio.
O mai la luna gridò così tanto
contro le stelle offese,
e mai gridarono tanto i miei visceri,
né il Signore volse mai il capo all'indietro
come in quell'istante preciso
vedendo la mia verginità di madre
offesa dentro a un ludibrio.
Il mio primo trafugamento di donna
avvenne in un angolo oscuro
sotto il calore impetuoso del sesso,
ma nacque una bimba gentile
con un sorriso dolcissimo
e tutto fu perdonato.
Ma io non perdonerò mai
e quel bimbo mi fu tolto dal grembo
e affidato a mani più «sante»,
ma fui io ad essere oltraggiata,
io che salii sopra i cieli
per avere concepito una genesi.
I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere Iddio.
Ma i poeti nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.
Spazio spazio io voglio, tanto spazio
per dolcissima muovermi ferita;
voglio spazio per cantare crescere
errare e saltare il fosso
della divina sapienza.
Spazio datemi spazio
ch'io lanci un urlo inumano,
quell'urlo di silenzio negli anni
che ho toccato con mano.
I miei poveri versi
non sono belle, millantate parole,
non sono afrodisiaci folli
da ammannire ai potenti
e a chi voglia blandire la sua sete.
I miei poveri versi
sono brandelli di carne
nera disfatta chiusa,
e saltano agli occhi impetuosi;
sono orgogliosa della mia bellezza,
quando l'anima è satura dentro
di amarezza e dolore
diventa incredibilmente bella
e potente soprattutto.
Di questa potenza io sono orgogliosa
ma non d'altre disfatte;
perciò tu che mi leggi
fermo a un tavolino di caffè,
tu che passi le giornate sui libri
a cincischiare la noia
e ti senti maestro di critica,
tendi il tuo arco
al cuore di una donna perduta.
Lì mi raggiungerai in pieno.
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
Mi sono innamorata
delle mie stesse ali d'angelo,
delle mie nari che succhiano la notte,
mi sono innamorata di me
e dei miei tormenti.
Un erpice che scava dentro le cose,
o forse fatta donzella
ho perso le mie sembianze.
Come sei nudo, amore,
nudo e senza difesa:
e sono la vera cetra
che ti colpisce nel petto
e ti dà larga resa.
A me piacciono gli anfratti bui
delle osterie dormienti,
dove la gente culmina nell'eccesso del canto,
a me piacciono le cose bestemmiate e leggere,
e i calici di vino profondi,
dove la mente esulta,
livello di magico pensiero.
Troppo sciocco è piangere sopra un amore perduto
malvissuto e scostante,
meglio l'acre vapore del vino
indenne,
meglio l'ubriacatura del genio,
meglio sì meglio
l'indagine sorda delle scorrevolezze di vite;
io amo le osterie
che parlano il linguaggio sottile
della lingua di Bacco
e poi nelle osterie
ci sta il nome di Charles
scritto a caratteri d'oro.
Buon Natale, Marina,
mia rondine felice
mia adorata figliola
piena di mille grazie,
che non perdoni mai
gli sprechi di denaro:
tu non perdoni
l'usura dei poeti
la loro fantascienza
e l'eterno dolore.
Se tu non mi perdoni
che debbono dire i figli
dell'intero Naviglio
sopra cui giace inerte
la nera poesia,
quelle luci lontane
il seno della colpa
e il lubrico miraggio
di un amore perduto.
Buon Natale, Marina,
per ciò che non ho avuto.
A Manuela
Oh donna,
il tuo violino superbo
apre angeliche voci
e un perno di metallo
anima l'usignolo.
Lui, Alberto, la mia rima,
subì questo momento
e divenni la dea
di vasta ipotenusa,
sberleffo di parole
o silloge del sole?
Io come voi sono stata sorpresa
mentre rubavo la vita,
buttata fuori dal mio desiderio d'amore.
Io come voi non sono stata ascoltata
e ho visto le sbarre del silenzio
crescermi intorno e strapparmi i capelli.
Io come voi ho pianto,
ho riso e ho sperato.
Io come voi mi sono sentita togliere
i vestiti di dosso
e quando mi hanno dato in mano
la mia vergogna
ho mangiato vergogna ogni giorno.
Io come voi ho soccorso il nemico,
ho avuto fede nei miei poveri panni
e ho domandato che cosa sia il Signore,
poi dall'idea della sua esistenza
ho tratto forza per sentire il martirio
volarmi intorno come colomba viva.
Io come voi ho consumato l'amore da sola
lontana persino dal Cristo risorto.
Ma io come voi sono tornata alla scienza
del dolore dell'uomo, che è la scienza mia.
Liberatemi il cuore
da questa assurda stagione d'amore
piena di segreti ricordi.
La sua bellezza come un sandalo d'oro
mi ha colpito la fronte
in cima ai miei pensieri.
La sua bellezza, unica al mondo possibile,
e il suo giovane cuore
buttato tra le siepi delle mie povere cose
mi hanno donato la speranza del fiore.
Lui stesso è un fiore, madre,
un fiore di giovinezza,
il fiore del gaudio e del dominio,
il fiore della mia lenta stagione.
Lui stesso è zolla, madre,
ma le zolle vogliono essere fecondate
e io non ho semi.
ad Antonello S.
Tu che passi fischiando
lungo i tuoi rivi di vita assente,
giovane adolescente gagliardo
che guardi l'erba e la falce
con divina sapienza, ascolta:
chinato sulla terra
è forse il fiore della tua rivolta,
la rosa che disfatta
geme l'apoteosi
della maturità di donna, e tu la vedi
dissepolta tra i numi delle zolle
e non osi toccarla ché sarà,
dici a te stesso, infame.
Se forse a un certo gravido momento
questa rosa disfatta sulla terra
sorriderà al tuo piede che cammina,
adolescente, impara:
non sono soltanto verginali
a volte le fanciulle,
che anche i vecchi
han palpiti d'amore,
di amore chiuso dalle rimembranze.
Eppure nella mia eterna avarizia
qualcosa io sogno:
l'anima di Dio gentile,
il volare bianco della colomba,
il tuo immacolato disegno
d'amore,
il piangere di bagliori del vento
perduto
e le serpi leggere
che fluttuano alla tua destra.
Ma piangere sui carmi divoratori
è inutile, amore mio.
Apro la sigaretta
come fosse una foglia di tabacco
e aspiro avidamente
l'assenza della tua vita.
È così bello sentirti fuori,
desideroso di vedermi
e non mai ascoltato.
Sono crudele, lo so,
ma il gergo dei poeti è questo:
un lungo silenzio acceso
dopo un lunghissimo bacio.
Mi dissero sei una santa
perché a volte tu tremi
per via dei tuoi ricordi.
Io non ho mai avuto ricordi,
solo visioni acute, profezie:
so il giorno prima che viva
e il congedo di qualche giusto
che qui dimora,
ma come faccio a dire alla questura
che domani scoppierà la bomba
della mia voce?
Ogni sospiro
è un immediato pensiero.
O viola del mio sentimento,
chi ti ha bruciato la vita?
Ero una donna oscena
che andava alle feste d'amore
e cantava le fiabe alle campane,
poi arrivò un uomo solo
che disse «sono il corriere del re».
La festa fu rovinata
e Cenerentola fu rapita.
Coi capelli di donna lontana,
a immagine di lei quasi perfetta,
volevi farti una bianca minestra
e dirti che l'amavi. Nella buca
del tuo sogno selvaggio qualche volta
certo ti sei arrischiato di cadere
e mi tenevi come beduina,
volto fasciato dalla mia follia.
L'oste che al crocevia
mesce vaghi bicchieri di candore
mi aveva detto che una bancarella
vendeva fosse per emarginati
e mi offriva camelie di peccato,
poi mi diceva «solo che volessi
noi manderemmo al diavolo il Titano,
quello che ti percuote nella mente».
Ero al balcone della tua fortuna
e guardavo un cavallo, o monumento,
pari a un discorso fisso senza data.
Se tu domandi ciò che vedo intorno
alla giustizia, ti dirò che il volto
della paura ha un senso maledetto,
ti dirò che cercare il rosmarino
o le felci nel buio di un teatro
è come ricordare il paradiso
e i colli della prima giovinezza,
ti dirò di cercar la voce nuova
di cui io forse sono sentimento
e che profonda come la tua voce
mi tolse dall'inferno del sapere.
Quella cultura che forse mi devasta
non è altro che un suono dell'amore
e la chiusura della sua speranza:
egli morì di folle sentimento
come attaccato a un germe di vergogna
e si rinnova in estasi profonda
e si rinnova a ogni rinverdire
di fronde, come fosse là nel solco
di quel cortile cieco e maledetto
dove questo poema si conclude
dentro una forza fredda di natura.
La cosa più superba è la notte
quando cadono gli ultimi spaventi
e l'anima si getta all'avventura.
Lui tace nel tuo grembo
come riassorbito dal sangue
che finalmente si colora di Dio
e tu preghi che lui taccia per sempre
per non sentirlo come un rigoglio fisso
fin dentro le pareti.
Il mio. La luce
gli striscia d'ombre il volto sotto i capelli
segnando gli zigomi, la fronte.
Il bambino. Produce unghie, cheratina. Verranno recisi
capelli e unghie. Evapora. Il mio bambino
evapora tutto nella sua epidermide fresca - sogna
avventure, giochi - le cellule si sfaldano, glandole
emettono odori. I cani li avvertono. Gioca
sotto i gerani. Io sono potente per lui,
e sua madre è lui stesso. Congegni elettronici
gli calcolano destini nuovi, trasformazioni. Con
ticchettii implacabili
lo sottopongono a collaudi e adattamenti. Si allontanerà
da me, sarò un impiccio, un vecchio disadatto
pieno di memorie noiose
e che discorre con gli alberi.
Si sente che ha girato,
basta strusciare con la gamba la siepe,
anche l'odore delle foglie è diverso, il musco delle pietre,
non so come, è diverso, è fiorito il gelsomino
e i tronchi sono già intrisi di una luce
che riconosco
vibra sulle cortecce verdi
ricorda costiere bianche
di conchiglie rosa e frantumate.
Il giardino ha balsami, insidie -
davvero su questo rosso l'aria è espansa
d'atomi profumati, che rappacificano noi con noi;
anche i colori profumano, con lunghezze d'onda che mandano
respiri,
non so come, e li inaliamo, e il clima
ha una densezza dolce, non si può più
pensare sotto le coronate magnolie. A pochi è dato.
- Ho carezze, erbe, che un tempo si chiamavano smalti,
ed è proprio vero, con pietre preziose, e non si può
non sentire una donna. Sebbene i sensi
di chi abita ampi giardini vadano placandosi
per palpiti di ali, forse colombi o morbide tortore lì
su quel ramo, e per il lamentoso verso
della tortora, e numerosi minimi uccelli ci distraggano
e gutturali
attutiti richiami, noi siamo attratti, fiutiamo
l'umanità del caprifoglio
coi suoi tepori tra i capelli e l'orecchio,
femminili, giovani -
e noi senza età; e un tessuto di suoni
e lucenti e brevi, e modulazioni
e velluti, e gracchi nascosti e lontani fischi
fanno una partitura d'inafferrabili e molteplici ritmi
che, simili a foglie, aghiformi
e fruscianti o pennate o impari -
pennate e le obovate e a cuore tutt'intorno
sono piacere e bellezza femminile,
né si percepisce più la complicata struttura del macchinario.
Ma poi non si sa, l'uomo nelle città
trova altre bellezze, e sia qui,
per gli intimi viottoli di casa, che per i viali
il dolore è segreto. È lì sotto, il veleno
è nelle fiabe dei funghi, e a sorpresa ti prende,
e nei mimetici aspidi.
Quando il Maestrale marino nella sua sovranità
spinge
nubi sagittate e bianche
e impeti di luce
e trombe dai suoi lacerati
in aspirazioni a vortici
un nembo con la fessura divina ci abbaglia -
apre
montagne di nevi
sopra le terre
e strascichi, veli
assorbiti dall'azzurro
La curva generatrice della conchiglia
e l'attorcigliamento del guscio
hanno il moto pietrificato
della violenza marina
- grande forma a uncino delle ondate temporalesche.
Ma le tenere ondulazioni del tubo fragilissimo
- il rosso e cinereo calcare, privo di una mente
che lo osservasse
riponendolo con cura in una mano -
e il rapporto amoroso tra la sua curvatura
e il raggio interno
formano l'orecchio delle altitudini delle Alpi, l'udito
della memoria, con mareggiate orchestrali.
- Lunazioni delle maree.
Scultura delle dimore del fondo.
L'invertebrato che l'abitava e che appetiva i sali
secerneva il suo scheletro
secondo le più surreali geometrie degli spazi
e le sembianze dello spirito.
Un archetto di luna - il sesto la curva
dolce de l'òmero
che la maglia bianca fasciava -
al limpido tatto ridona memoria.
Se vado non posso
che nascondere in tasca
la mano visionaria.
Nel buio mi scrivi
col dito la falange del dito
sul polso
mobile stazione del cuore
una croce.
Lì dove s'attacca
il bacio del catodo freddo
quando scende la folgore
sul povero egro
che il bianco cotone ha sconvolto.
Gialleggia il vercellese
l'oro mi fa
stringere gli occhi di splendore
e a giri concentrici
sui risi sui risi
dopo la fila dei pioppi
discende la giana.
Con rauca strozza mi chiama!
Alla crocera a quattro
fossili pali ancora resistenti
compagni traditi alzati ai capestri
di fresche ferite vestiti.
Per chi per chi?
Forse per altre spighe.
Di cui tanta luce non è che l'ombra.
Algida era la sizza novembrina
- già sui fronti epiroti e nelle sirti
cadevan falciati i primi fratelli -
sotto il piede tenace l'arenosa ripa.
Avevo in tasca la cartolina
anch'io del bramasangue
da dio percosso nella trebisonda:
l'ora
quella d'un mezzo coprifuoco.
E tu aliasti dietro uno steccato
frangivento in quell'over-coat
d'incerato come una suora.
Caldo fu il nicchio il più caldo
che mai colsi: onde m'acclaran gli anni
che più in sommo ch'amore
risplenda cortesia.
Rompeva
il mare alla spiaggia non un fosforo
per ovunque si vedeva. Sola
in cielo e stupenda la luna romea.
Era un plèd scozzese
più provato d'una bandiera
garibaldina. L'aprivi tu
(riquadrandolo poi) ed alcunché
a tratti nella mente mi vampiva
di due prische già visse vite
due giovani evedim
tra il Sur e il Sin
erranti oltre l'Horeb.
L'aprivi
tu sulle glebe insollite
sul forteto più croio
... e non s'ebbe il re di Francia
più caldo accoppiatoio.
I miei amici i poeti
servito ho sempre
di quel servo l'uguale
che del padrone il gesto accarna
il vizio l'accento stretto
nel gozzo serbando al palegro
un rovente segreto.
Il sole m'è nemico
perché biondo. Scavezza
biondezza sulle lontane
forre che visitammo insieme
dagli abbaini di Milano
flave trecce discioglie
di sottilissimi capelli
che l'occhio mi gattigliano
la faccia mi coprono mi vengono
in bocca mi soffocano.
Miei pugillari... di nefa vivo
d'enuèg di splin o pur già sotto
i soranti vanni dell'imbecillità
queto ed imbelle suddito son fatto?
Velocior dunque l'aspo ordunque prilla
tempi statuti da costituisti
di severi legati item di mete
affidabili ai venturi item di fiaccole
protese ai prossimi tedofori?
Brevi e concinni
miei pugillari saltem scrivete
che se Polimnia al mio labbro non soccorre
né ai baci ebbromordaci né ai duttili
simplemmi me più cimenta Cloe lungi
col piè cansando l'imicola lacinia
poca - non troppa! - è la strizza dell'Orco
e tali sensi consacrate ai Mani.
Essere un Faldellin poetico
cuor nobile e gentile
poiché sono un buzzurro!
Essere uno Scrofo del secolo
ventesimo poiché sono padano
con la fissa del fiore anziché del forello!
E di felicità morrei!
O se pur mi dicesse il nobile
Alberto Carlo Pisani Dossi:
«benché tu sii ginofilo
non sei mediocre!»
|