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Pasquale Almirante
Viva Stalin
Andò in bagno senza premura.
Le mani in tasca e gli occhiali da sole appollaiati sul naso, raggiunse il corridoio, tendendo le orecchie per sentire se nelle aule di quel piano gli alunni pestiferassero, facendola in barba ai colleghi, ormai ingrigiti sulle cattedre infioccate di scritte, di buchi, di gomme essiccate dall' incuria dei bidelli e dallo schifo dei professori che spesso ne rimanevano invischiati.
Stranamente quel gior 727d31h no aleggiava un silenzio diffuso e sembrava proprio che si fosse dentro al mitico tempio, quello che da sempre il preside andava predicando e che cercava di spiegare ai professori, affinché, con la loro indispensabile collaborazione, il sapere e la cultura fossero finalmente venerati sull'altare della scuola.
"L'alunno è un caminetto da accendere", ripeteva con enfasi nei collegi insegnanti, "e non un vaso da riempire. Voi dovete riuscire ad accendere il caminetto della curiosità, del desiderio della ricerca e del sapere! E la scuola è come un tempio, dentro il quale i ragazzi vengono messi a parte dei misteri della conoscenza!"
Che quel messaggio fosse stato improvvisamente recepito dai colleghi?
Ma no! Era l'ora che non consentiva ai soliti scalmanati perditempo di fare baraonda, e ora, insieme alla curiosità, dormivano anche quelle giovani membra per cinque ore in movimento: riposava la lingua, languivano le braccia, scivolavano le gambe, cedevano le palpebre, russava la mente e a lui era venuto di fare pipì.
Si accese una sigaretta, pensando che fra non molto sarebbe ritornato a casa; e con quel fiammifero avrebbe voluto incenerire, oltre il tempo interminabile, quella classetta di facinorosi, fioccati sopra i banchi come i pezzetti del fatidico diploma che qualcuno, prima o dopo, avrebbero loro strappato in faccia.
Passò davanti alla sala dei computer, di cui una buona metà era stata già distrutta, e notò, con apprensione, che la porta era socchiusa e con la chiave nella toppa.
Diede una sbirciata nella stanza, credendo di trovarvi qualcuno: un collega che si esercitasse, qualche tecnico, forse la bidella col suo perenne grembiule nero.
Vuota! La stanza era inspiegabilmente vuota, con le macchine allineate e a disposizione dei raptus vandalici dei ragazzi, sempre pronti al blitz guerrigliero.
Ebbe un attimo di risentimento per quell'assurda dimenticanza, che avrebbe potuto innescare una serie di "reazioni" a catena, difficilmente controllabili, qualora si fosse verificato un furto o un ulteriore danneggiamento delle macchine. Pensò ai lamenti della presidenza, alle ispezioni, alle denuncie che il "tempio" avrebbe dovuto inevitabilmente inoltrare e pure alla ulteriore richiesta di finanziamento allo Stato: povero, indebitato e distante; distante come la sede centrale, da dove il "capo dei capi" non si muoveva mai, nonostante le sue circolari invadessero il miserabile banchetto accostato al muro di quella stanzetta che i colleghi si ostinavano a chiamare: sala insegnati.
Pensò di chiudere la "cappella" incustodita e dare una tiratina di orecchie al bidello tenutario delle chiavi. Una sorta di rimprovero bonario, tra l'amichevole e il paterno, nella speranza che la smettesse di fare la spia: un ricatto velato e di complice intesa.
Stava per richiudere la porta, quando un soffio d'aria infilò il fumo della sigaretta dietro le lenti. Le lacrime lo costrinsero a lasciare la maniglia per togliersi la cicca dalla bocca e in quel mentre la porta si spalancò, denudando così del tutto l'antro sibillino del futuro.
Quel piccolo incidente lo fece indispettire e, invece di continuare nel nobile progetto, scrollò la cenere dalla sigaretta e s'avviò deciso verso il bagno.
"Ci pensino loro!", si disse indignato, "qui ciascuno fa ciò che vuole .."
Cercava il fazzoletto, ora, per asciugarsi gli occhi; ma appena lo palpò e capì che era indurito e sporco, gli uscì dalla bocca distintamente: "Ma vaffanculo anche a mia moglie!" e con la manica si pulì le goccioline di lacrime già sulla guancia.
Incominciava ad avvertire intanto il fetore dei cessi e con il suo montare, aumentavano pure le scritte sulle pareti con un crescendo riprovevole, fin dentro alle due ritirate, dove mani esperte avevano seviziato, con ferocia sapiente, i lavabi, le tazze, gli zainetti dello sciacquone e pure intasato le fognature con lattine, turaccioli, fazzoletti, cartacce, gessetti e forse anche con qualche profilattico.
"Matteo è bono", "Franco è frocio", "le ragazze sono tutte puttane"; e poi miriadi di disegni assai volgari, parolacce e i soliti: "W" e "abbasso" imbrattavano i muri di quel recesso ingannevole e immondo e nel quale più d'una volta aveva trovato insieme maschi e femmine che si toccavano e si palpavano.
"Figli di puttana! Ai miei tempi toccare una ragazza era pressoché impossibile e i bagni nostri erano alla punta opposta da quelli delle femmine. E poi non scrivevamo queste cose. S'imbrattava con slogan di partito, parole d'ordine politico: W Mao, W Lenin, W il CHE, professore-uguale-padrone. Ci fosse almeno una sola scritta di tipo ideologico! Ma guarda, anche un invito a drogarsi."
Aprì allora le imposte che davano sul balcone del primo piano, con un'alta ringhiera sul cortile, per respirare un po' d'aria pura di quello strano maggio, più freddo del solito, e che ancora si ostinava a nascondere l'Etna dietro cumuli incupite di nuvole. Proseguì verso il bagno, continuando ad indagare quei messaggi, quei segnali arabescati che, tappezzandolo, sembrava ornassero quell'ant'inferno d'abominio.
La sigaretta stava quasi per consumarsi, ma prima di dare un'altra boccata, fu tentato di prendere la penna e aggiungere ad una di quelle frasi qualche motto, una parola, un'arguzia, uno schizzo.
"Ma vaffanculo" sbottò di nuovo e le parole ora rimbombarono in quella parte di edificio che improvvisamente gli parve più nauseabonda, più schifosa e ripugnante delle latrine della caserma dove aveva fatto il miliare.
Andò dritto verso una tazza.
Una puzza selvaggia lo investì e cambio rotta. L'altra era peggiore della prima. Tornò indietro.
Aspirò l'ultimo fumo e stava per buttare la cicca nell'acqua melmosa del buco del gabinetto, quando si accorse che, sul copri water alzato, campeggiava una scritta tutta nera: "W il fascismo".
Era troppo! Un rigurgito di furore sessantottesco sommerso dal tempo e dal riflusso, pestato dal precariato, vilipeso da promesse di ricchezza, rimosso per altre carriere, stressato da ripetizioni ad alunni neghittosi, umiliato perfino dal tradimento dei compagni di partito, esplose improvviso e incontrollato: un mistico fervore lo pervase e la sua mente si trasfigurò:
"Io v'insegno il superuomo!", mormorava ora all'interno di quella specie di cloaca.
La puzza non lo infastidiva più, né i rigagnoli limacciosi che strisciavano sulle mattonelle spaccate, né la mota ammorbante di quel buco e neanche i peli attorno al cantero.
Gettò via il mozzicone e prese la penna, tolse il cappuccio, s'abbassò e, tenendo il coperchio del cesso con una mano, vi scrisse sopra: "W STALIN".
Ma l'ultima lettera non era terminata, l'orgasmo non ancora concluso, la vendetta non ancora consumata nell'opera finita, che alle sue spalle sentì d'imperio tuonare: "Professore, ma cosa fa!"
Riconobbe al volo il timbro della voce e l'inflessione: era il preside!
S'alzò di scatto e gli occhi del "gran sacerdote" gli entrarono feroci per i suoi e poi di colpo giù scesero, giù, fin nei pressi del bacino.
Non percepiva ormai nulla pulsare nel suo corpo e improvvisamente tutto gli parve un sogno, un incubo mostruoso e angosciante dell'infanzia più tenera: e desiderò fuggire!
Tentò di fianco disperata una sortita, ma si scontrò negli occhi umiliati del bidello. S'osservarono. Con uno strattone lo scansò e via di corsa, in fuga verso l'uscita.
In budello si trasformava il corridoio, mentre la sua corsa echeggiava sinistra insieme al suo urlo straziante. E dalle aule, famelici di curiosità, uscivano gli alunni e i suoi colleghi che al suo passaggio arretravano atterriti.
"Ma chi urla!" "Collega dove corre!" "E' venuto il preside a fare un'ispezione."
Una folata nera gli venne incontro per fermarlo: "Professore, il preside non l'ha trovata in classe..."
"Professore! Professore, la cercava il preside...!" "Collega, si fermi, c'è il preside!"
Fu una vertigine, un turbinio, un singolare stordimento del suo animo che lo fecero trovare sulla ringhiera del balcone del primo piano che dava sul cortile di quella succursale del Liceo.
"Ecco! V'insegno il superuomo", gridava ai suoi alunni, mentre con la penna in mano la percorreva come un funambolo.
PASQUALE M. I. ALMIRANTE
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