L'infanzia dalle lunghe calze nere
Logorate ai ginocchi sugli spigoli
Dei banchi, l'infanzia delle preghiere
Assonnate ogni sera, delle nere
Albe dei morti, della litania
Di zoccoli cristiani sul selciato,
L'infanzia che m'ha dato
Questo caro sgomento mio d'esistere...
Non onorate i vecchi,
abbiatene pietà
perché sono gli specchi
di come finirà
tutta la vita per noi
che non abbiamo virtù:
vogliono i vecchi eroi
amore, ma non c'è più
nei vecchi nulla da amare,
lacrime, sesso e vino:
tutto dobbiamo odiare
nei vecchi, nostro destino.
Ladri di notti corte,
il giorno ci perderà:
coi vecchi la stessa morte
misura le nostre età.
Quanti hanno avuto ciò che non avevano:
un lavoro, una casa - ma poi
che l'ebbero ottenuto vi si chiusero.
Ancora per poco sarò tra voi.
Gli scherzi, le meraviglie della natura,
i nani, i nidi, le uova con due tuorli,
scoprirli come ti piace - più sicura
ti fanno che un miracolo è possibile,
non qui, ma altrove, dove attraversano
la strada tra bosco e bosco gli scoiattoli,
e la vita è vicina, il tiranno invisibile,
e gli uomini, senza fretta, conversano.
Se sia opportuno trasferirsi in campagna
spesso pensiamo: qui ci tiene il lavoro
che non manca, il civico decoro
di cui partecipiamo, la cuccagna
delle vetrine addobbate, dei cinema aperti,
dello stadio, dei dancing, dell'ippodromo,
di ciò che vuoi pronto a tutte le ore
della voglia improvvisa... Ti diverti
anche tu nella festa cittadina,
ma se una sera d'estate troppo calda
l'afa della pianura ti stagna in cuore,
t'affanna il respiro, ti fa meschina,
per noi è facile andare in Brianza,
una mezzora di macchina se è sgombra
la via da chi ritorna, se la danza
dei fari non è cominciata. E l'ombra
è chiara, il giorno ancora non si perde,
la strada sale appena e più lontana
la città più veri si fanno i paesi:
Desio, Seregno e la musica verde
dei cipressi che avvolgono Inverigo:
bianche, grige, celesti ville, austere
o d'una grazia semplice, un intrigo
settecentesco invitano o severe
meditazioni nel cortile interno:
il sabato una visita in città
e a primavera una festa in giardino
per chi le abiterà nel lungo inverno.
Se sia opportuno trasferirsi in campagna,
se tanto costa pagare la vita,
mangiare, amare, respirare l'aria
viziata dallo smog che fa patita
anche una piccola pianta sul balcone:
qui, dove accampa prigioniera un'orda
per un settimo giorno d'evasione
sei giorni cupa, e su strade a raggera
domenicale un allegro padrone
emula e crede liberarsi - sorda
alla voce di rabbia che ogni sera
strozza un singulto assonnato... Se sia
giusto appassire qui tutta la vita
in attesa di trasformarla oppure
rassegnarsi ai perduti, dar partita
vinta ai traffici, al corso degli onori,
e scegliere il treno del mattino,
la corriera alle sette da Bosisio
sulle rive del vago Eupili - fuori
la notte almeno da questa città,
dove un me stesso a un tavolo, a uno scranno
servile insegue vana libertà
di giorno in giorno rinviata, 17317h73r e spera
ritrovare per sé l'ultima luce dell'anno
l'ultimo anno di vita con forza intera...
Sarà opportuno trasferirsi in campagna,
una più salubre aria ci invita:
questo chiedono il tempo, le migliori
condizioni che allietano la vita,
il progresso, i miracoli, i conforti
della tecnica nostri servitori,
questo l'industria dei semplici cuori
che ci apparecchia le felici morti
delle poche letture, pochi amici,
pochi giuochi serali, pochi storti
ribelli umori... Così ci vuole il mondo
che invecchia delle nostre vecchie sorti:
e anch'io, vinto pudore, mi dispongo
nei numeri d'attente previsioni,
coltivo fiori, inchiodo legni, rispodo
con lacrime a elette commozioni
pubbliche - e sono là, così diverso,
chiudo un cancello, sciolgo un cane
guardia al piccolo mondo d'un disperso
villino nella fitta schiera uguale
dei simili, depreco il tempo avverso:
«quello che sono è bene, il resto è male»
penso nel coro - e un'altra libertà
benedico, riposo domenicale.
..............
Qui di me si perdeva la miglior parte,
che maledice e spacca la noce tra i denti,
e a quel minuscolo crac ancora prossima spera
la fine di ormai remoti stenti.
Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.
Il rancore è di chi non ha speranza:
dunque è pietà di me che mi fa credere
essere altrove una vita più vera?
Già piegato, presumo di non cedere.
Non puoi cambiarti, ma almeno cambia ditta,
Il posto di lavoro è più che una metà
(Inutilmente resisti) della tua anima:
E quante cose per te cambieranno!
Avranno altri volti e strade le tue mattine,
T'illuderai quasi di aver cambiato città,
Di avere davanti una vita. Un nuovo gergo
Imparerai nelle file dei nuovi conservi:
Ti ci vorranno due mesi per scoprirlo banale.
E poi nuovi padroni, nuove regioni dei tuoi nervi
In evidenza agli uffici del personale,
Nuovi prodotti e una nuova misura
Di quel che è bene e male - ed infine te stesso
Di cui tutti diranno che sei nuovo.
Annuncerai ai lontani la tua novità:
«Questa mia è per dirti che adesso mi trovo...»
Con tutta semplicità devo dire
che un tempo sembrava lontano
il tempo in cui morire.
Ora non è più un pensiero strano.
Ora è sempre lontano (almeno spero) ma
posso già prefigurarmelo. Ho l'età
in cui dovrei fare ciò che volevo
fare da grande e ancora non l'ho deciso.
Faccio quello che faccio, altra scelta non ci sarà:
leggo di miei coetanei che muoiono all'improvviso.
Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un'altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti coi giornali, i suoi guaìti commenti.
Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l'educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.
Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall'angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni
siano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega al suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.
Potremo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?
Ma che si viva o si muoia è indifferente,
se private persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tiene
qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di futuro che mi estenua,
ma poi d'un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?
Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani... pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo.
C'è più onore in tradire che in esser fedeli a metà.
Le tue ore migliori... ma non sono per me:
sono le ore del lavoro domestico,
che è troppo trascurabile realtà
per essere degno di storia. Progredisce
la storia, infatti, ma il tuo lavoro
semplicemente ricomincia e finisce.
Le tue ore migliori sono della mattina,
quando ti lascio e tento per vie diverse
variare l'obbligato itinerario
che sempre da un punto parte e ad uno arriva.
Batte il sole al balcone di cucina,
prima di cominciare tu guardi in strada.
Io guardo invece nel fondo del mio cortile,
mentalmente bisbiglio Dirigere
et sanctificare, la breve preghiera,
mia virtuosa abitudine prima di lavorare:
lucida è la mente al quotidiano servizio
e la stanchezza impossibile appare.
Intanto passano le tue ore migliori,
quando potresti parlarmi e sorridere.
Tali bruciavano gli anni di gioventù
nell'aspettare più sereni giorni:
e tu riassetti, rigoverni, spolveri, sola
(i figli sono a scuola) e aspetti che torni.
Dice decoro la tavola apparecchiata,
possiamo avere tutto quel che vogliamo:
all'opulenza mancano forse i fiori.
Il buon cibo conforta dopo l'onesta fatica.
Ma già si ammucchiano stoviglie mentre mangiamo
troppo avidamente, per fare presto.
E ricominci: i necessari rifiuti
in un solo piatto raccogli, riempi
il lavandino ove galleggiano sughi,
affondano fili di pasta, bucce. Adempi
la tua virtù necessaria, riordini
ancora una volta la casa. Io ad altro
lavoro attendo, al mio ufficio, sperando
di fornir l'opra e non me, anzi che giunga la sera,
per godermi la luce residua e, di me
stesso padrone, qualche ora d'avanzo.
Ma non sarà quella la vita vera:
sono queste ore migliori e non ci appartengono.
Eccoci ancora intorno alla mensa serale,
tra le risse dei figli allegramente spietate:
e nuovamente si guasta la linda cucina,
la tovaglia è chiazzata di vino. «Lascia
così - suggerisco - penserai domattina
a tutto. Adesso resta un poco con me».
Nessuno ci corre dietro. Ma tu
macchinalmente solitaria persisti
nel ritmo ordinario in cui ogni ora
ha la sua norma: sai già che il mattino avrà stanze
disfatte e l'odore del sonno e l'aria
che un brivido nebbioso vi porta o il sole
nella bella stagione. Bisogna dunque concludere
tutto perché tutto ricominci,
dopo un riposo di affrante bestiole,
col primo atto del domani:
vivrà la vita per chi non ha tempo
di vivere. Così anche ora da me ti allontani,
spingi cassetti, fai scattare sportelli,
ammàini l'avvolgibile con fragore:
e siamo soli con tutte le storie
dei libri che promettevano
in cambio di virtù felicità.
Così finiscono le tue ore migliori,
quando da un capo all'altro della città
si chiudono i portoni dei casamenti:
e in buie menti un comune pensiero
apre un barlume del meglio a venire...
Così non riconosci l'inganno
di chi ci ha fatti a servire.
Nelle sole parole che ricordo
Di mia madre - che «Dio
- diceva - è in cielo in terra
E in ogni luogo» - la gutturale gh
Disinvolta intaccava il luò d'un l'uovo
Contro il bordo d'un piatto
- Serenamente dopo in cielo in terra
Dal guscio separato in due metà
Scodellava sul fondo il tuorlo intatto
- La madre sconosciuta parlava
Religione entrava
Nella mia tenera età.
La ragazzetta che voleva mostrarmi una cosa
innocente benché misteriosa - noi due
sotto il letto accucciati sul freddo pavimento
- mi sussurrava «aspetta» - era soltanto un gioco
diverso un poco dagli altri - ma lì entrando
la sua sorella più grande alzò la coperta ci vide
gridò corse a chiamare venne gente
- mai più giocammo insieme noi che semplicemente...
Vivranno per sempre?
Sempre, sì - mi dicevo
e le vedevo
alla distanza del tempo rimpicciolire
lontanissime, in piedi, a braccia conserte
su quelle stesse soglie, o leggendo gli stessi giornali
crollando il capo, scuotendo gli stessi grembiali,
di nero o di grigio vestite e decisamente
fuori di moda come diventerà
ogni persona vivente
- ovunque e su quella stessa
strada fra il mare e una fila di platani
dove quieta ubbidiente e dimessa passò
la mia età infantile
- quelle persone viventi
che passarono poi come l'età
rispondendo di no alla domanda
che avevo dimenticata: no (dicendo)
non vivremo per sempre
- senza notizia alcuna, senza coscienza
di storia o di giustizia, senza il minimo dubbio
che un'altra vita sarebbe stata a venire
più vera, con più intelligenza:
e dunque senza viltà consegnate alla sorte
- alcune con stupore della morte,
con desiderio altre, con sofferenza.
Metti in versi la vita, trascrivi
Fedelmente, senza tacere
Particolare alcuno, l'evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
Sapere, né potere, bensì ridicolo
Un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s'allacciano
Complicità di visceri, saettano occhiate
D'accordi. E gli astanti s'affacciano
Al Limbo delle intermedie balaustre:
Applaudono, compiangono entrambi i sensi
Del sublime - l'infame, l'illustre.
Inoltre metti in versi che morire
È possibile a tutti più che nascere
E in ogni caso l'essere è più del dire.
Come una scia si richiude la favola
sugli sbruffi dell'elica lussureggiante di schiuma.
Guardala a poppavia che s'appiattisce
levigata da diavoli mulinelli.
L'essere è più del dire - siamo d'accordo.
Ma non dire è talvolta anche non essere.
Ah discreta più del dovere fu l'incoscienza.
Presto tutte le acque saranno uguali e lisce.
«Quanti dollari quante sterline.
Al posto di una lira loro ne prendono mille.
Va' pure in Francia ma attento con tutti quei soldi.
C'è chi gira nel mondo solo per quello scopo.
Ti vedono subito che sei italiano.
Ti vedono che cerchi di non far brutta figura.
Ti fanno l'amico ti invitano a mangiare.
Ti portano dalle donne d'accordo con loro.
Francesi portoghesi e turchi in modo speciale.
Con tanti soldi sta in guardia da quella gente.
Gli inglesi sono ricchi loro non te li rubano.
Gli americani sono lontani.
In tasca ci stanno male mettili nelle scarpe.
Ma poi mi domando e dico cosa ne fai.
Bisogna non averne per sapere come spenderli.
Faresti meglio una parte darmeli a me da tenere».
Zac - e con uno sciancato saltello
si issa sul trespolo dal quale sulle prime
per gioco dando a vedere che è un gioco
mima l'indefinito bipede fratello.
Volatile tra da cortile (per l'odore
e la palpebra grinzosa che ambirebbe
chiudersi da sotto i su)
e notturno - ma imbelle ma non rapace.
Ma di ciò vedremo - per adesso
siamo sul trespolo dove umanamente
scorriamo come su una tastiera le unghiette
tentiamo note di ilarità.
L'odore verrà col cibo col sonno e oltre.
E tuttavia sul trespolo ci recitiamo
maestri della parte che fingiamo.
Di noi sarà corpo o morte.
Issati anche tu se non vuoi perire di demenza.
Assumi dallo sterco la squama.
Impiastrìcciati addosso le piumette del piumino.
Ci sono stecchi e pidocchi per quanti trespoli vuoi.
Rattrappisci nella tua pancia
le zampette, rilassa culo e dorso,
da' un morso all'aria che lo scambino per sbadiglio
e non si tengano offesi quelli che guardi passare.
Il muso di bulldog del segretario generale.
Il muso atlantico. Il muso spaziale.
Il musetto volpino del più cretino.
Al muro dell'amore e del dolore.
Infossa il corto collo
a protezione del mento contro il montante eventuale.
Giù gli occhi - ma non ciechi completamente.
Deridi il buffo animale.
Sul trespolo eravamo uno.
Sul trespolo eravamo due.
Sul trespolo allocchiti e sepolti.
Eravamo molti.
Il tempo di uscire dalla fila,
una cosa da nulla, imbucare una lettera
- andavamo per tre con me primo a sinistra
della prima terziglia, in divisa di fatica
d'un grigio bianco sporco adatto a vedersi in un sogno
- o era il collegio, vestiti alla marinaia
di blu camminavamo: dunque, un attimo e vengo,
sbucati appena da un sottopasso
ferroviario, ma era già il tempo di adesso
d'un grigio bianco sporco adatto a vedersi in un sogno:
o allontanandomi forse per un bisogno
- e la buca era lì
- era scritta la lettera ma diretta
a chi
- e il maestro chi mai redarguiva tirandogli
le orecchie
- e il tenente voltato laggiù
anche lui sottomano accesa la sigaretta
- e impassibili i due della terziglia mutilata
nudi da un lato ma come se niente fosse
- una cosa da nulla il tempo d'imbucare una lettera
il tempo d'un bisogno e rientrare immediatamente
ma oh quale voragine i quei brevi attimi fra me e voi
marcianti in fila anime candidate d'eroi
un traffico inesorabile fluiva macchine e macchine
e gli autotreni carogne le ghigne di quegli autisti
odor di nafta e affanno di sabato pomeriggio
e io lì bloccato sul marciapiede inesistente
e la mia assenza che si dilatava,
monca terziglia di testa, di secondo in secondo
e la mia bocca che parlava domandava
a un grigio bianco sporco adatto a vedersi in un sogno
altro che lettera a quest'ora altro che bisogno,
è tardi per ritornare - sbatti lì schioppo e giberne
divisa alla marinaia, oh miei ridicoli impicci,
è tardi - ripetendo - non so più
come fare,
per un piccolo sbaglio tutto che va alla malora:
pure - come sei caro coi tuoi pasticci,
lì sopraggiunta mi disse la buona signora
Deve essere stato l'abbaglio di un momento
un tac di calamita da una parola mia o sua.
E io che ci ricasco benché lo so come sono.
Ma ti amo - mi ha ripetuto e come faccio
a non riamarlo io che non chiedo altro.
Poi tutti a bocca aperta che uno come lui
con una come me che nemmeno col pensiero avrei osato
Continuo a domandarmi come è possibile che.
Chissà lui cos'ha in mente chissà in me cosa vede.
Chissà cosa ama se pure ama.
Potrei supporre di non sapere come sono
e che anche lui si domandi come è possibile che.
Ma temo sia più vero quello che so di sapere
e lui se non oggi domani riaprirà gli occhi.
Forse ci sta già pensando a come cavarsene fuori
più avanti dei miei timori.
Non devo illudermi perché dopo sarà peggio.
Meglio dirglielo subito che se ha un sospetto è vero.
Che faccia conto sia stato come uno sbaglio al telefono.
Insomma niente - e che se vuole può andarsene.
«Cependant
le berceau remue, et il ondule tout
seul... Elle est saisie, et entend une petite
voix très douce, si basse, qu'elle la croirait
en elle: "Ma chère et très chère maîtresse, si
j'aime à bercer votre enfrant, c'est que je
suis moi-même enfant"... Dès ce jour elle n'est
plus seule...»
J. Michelet, La sorcière
Dice: ti cullo il bambino perché
anch'io sono un bambino - ma è assurdo.
Non può avere la voce uno che non è qui
né braccia né potrei volendo cullarlo a mia volta.
Pure il bambino vero tace se resto in ascolto
della sua finta voce nella mia finta pace.
Pure gli posso far dire ogni parola che voglio:
mio amore quanto errore e dolore ci divide
quanto futuro senza futuro si spalanca.
Vuole mettere ordine vuole che mi riposi.
Gli posso far pensare ogni pensiero che voglio:
lei pensa che io penso - mi penserà.
Pensami nella mia camera ingombra del mio niente.
Pensami nel mio niente carico di tutto.
Di me diranno che ho visioni che sono magra.
Di me diranno abbia cura della salute.
Ma tace il bambino vero se resto in ascolto.
Tace se resto in ascolto il tic-tac dell'orologio.
Mi ha detto non avere paura non è quello il tempo vero
non guardare non toccare le vene sulle tue mani.
Una diavoleria ci vorrebbe - mentre ripeto
quasi che tu mi senta «le mie notizie
sono che adesso ho guardato la mia ombra»:
ma come puoi sapere che non mentisco?
Ti assicuro la guardo tutta nera sul rosso
a questo bel sole del gres del terrazzo - se almeno
potessi toccarti con l'ombra e questi minimi atti,
pèsca sotto i miei denti, muro contro i miei occhi,
sotto i ginocchi pavimento, un taglio
sulla mano, negli orecchi la mia voce...
Una diavoleria ci vorrebbe - per spiragli
di porte di finestre di tubi sottoterra
sul fruscìo tra gomme e asfalto o dov'è neve
questa luce ti arrivasse questa ombra:
perciò l'ora che il sole mi stampi esatta
dovrò scegliere e una pietra meno fredda
per i tuoi miei ginocchi e un graffietto da niente
se anche sulla tua pelle si farà e cantasse
questo sapore sulla tua bocca - m'ama non m'ama,
sentimentale peggio d'una puttana.
Lontano come la luna mi domando come puoi
dirmi se è stata quella davvero l'ultima volta.
Ma prima di cancellarti devo saperlo.
In verità non è stata una volta speciale
come altre che a lungo mi avevi guardata
perché nei tuoi occhi restassi - dicevi,
mentale inerme immagine presto dimenticata.
Toccare è più che vedere, sentire è più che pensare,
ti rispondevo - non mi guardare.
La fine vera non è la fine aspettata.
Dovessi tornare alla scuola e mi dessero un compito
in cui si ordinasse «descrivi l'ultima volta»
potrei raccontare soltanto che «dunque a fra poco»
mi disse - ma non sospettavo che fosse l'ultima volta.
Se è stata proprio l'ultima seppellisci
il nome della strada e la bocca che ti sfiorava.
Non dovrò più cercarti in chi ti ha veduto
né ascoltare chi ti ha ascoltato - non tenterò
di toccare parole che ti hanno parlato.
Ma se non è stata l'ultima vieni a dirmelo.
Dico che arriverai da un lungo treno del mattino.
E devo voltarmi a ogni socchiudersi di porta
se non sia tu - o trasalire allo squillo uguale
a ogni altro se mai non fosse la tua voce
dall'altro capo a parlare, immaginarmi
rispondendo nel tenore convenuto
che a tutti indifferenza significhi e a te
invece: dove sei, mio amore, mio benvenuto?
Quale dei lunghi treni ti porterà?
Quale dei lunghi treni ti avrà portato?
Ho guardato l'ora all'orologio sul muro.
Ho aspettato lo squillo già
scusato come e perché non hai potuto chiamarmi,
ho pensato: e pensare che ero qui sola.
Brevi minuti ancora mi restano per supporre
il tempo che tu raggiunga la strada della mia casa
e un suono di citofono a questi miei inferi emerga
definitivo come un lieto annuncio di morte...
Ti scambieranno per uno come un altro - ho scherzato.
Arriverai domani se oggi non sei arrivato.
La cosa che affastello per molte notti
nel sonno che s'interrompo frequentemente
e più nel dormiveglia dell'alba fastidiosa
che domani è già oggi e porta una nuova cosa.
Eppure la certezza è che tu non sei presente
nell'attimo a noi ben noto - il NO
di altra cosa che altro non può aggiungersi:
la verità del dubbio che tu sia niente
pensiero della mia mente
ma veri i giorni gli anni che per sempre non ti avrò.
Inerme contro il niente m'interrogo se tu sei
giuoco burla o passione irrevertibile
o un disegno sottile che mi sfianca o il vuoto
di tenerezza reciproco che è da riempirsi:
aspetto tue parole ma è luce di astro già spento.
Vorrei poterti abolire abolendo me stessa
come abolendo te stesso tu mi potresti abolire
per fare a tutti dire - di cosa mai parla
questa pazza senza pudore
senza il coraggio di morire per amore.
Tuttavia un minimo d'impostura è necessario - mi disse.
La verità non coincide con la saggezza.
Stanno contro il disordine alcune regole del gioco.
Sii grato al rituale. La verità ti divora.
Hai ragione - si aspettava che rispondessi.
Recitiamola pure la farsa del ragionevole.
Anch'io ripeterò che tutto non si può avere
pronto a morire purché non crolli il letto dove muoio.
Ma anche per me era l'ultima occasione che restava.
E prima di sottoscrivere solo chiedevo se in cambio
dell'accettare quel molto di finzione che diceva
un minimo di verità sarebbe stato compatibile.
giugno 1968
Comico suo malgrado è il colmo del comico.
Spesso patetico fu il comico con intenzione.
Tragico suo malgrado è il solo possibile
esito imprevedibile della commedia.
Non cerco la tragedia ma ne subisco la vocazione.
Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra
arrampicato su una scala di corda
affacciato dal fuori in posizione precaria
dentro i tuoi occhi celeste vetro
dentro i tuoi vizi capitali
dentro i tuoi tremori e mali
Beatrice sui tuoi seni io ci sto a spiare
ciò che fanno seduti intorno a un tavolo
i tuoi pensieri su sedie di paglia
ospiti appena arrivati o sul punto di partire
raccolti sotto la lampada gialla
uno che ride uno che ascolta e uno che parla
Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa
dalla notte esteriore superstite luce
nella selva selvaggia che a te conduce
dalla padella alla brace
estrema escursione termica che mi resta
più fuoco per me tua minestra
Beatrice - costruttrice
della mia beatitudine infelice
Beatrice dai tuoi seni io vengo a esplorare com'è
la stanza dove abitare
se convenienti vi siano i servizi
e sufficiente l'ordine prima di entrare
se il letto sia di giusta misura
per l'amore secondo natura
Beatrice dunque di essi non devi andare superba
più che dell'erba il prato su cui ci sdraiamo
potrebbero essere stracci non ostentarli
per tesori da schiudere a viste meravigliate
i tuoi semplici beni di utilità strumentale
mi servono da davanzale
Beatrice - dal verbo beare
nome comune singolare
Corpo - io non ignoro
la tua pietà.
Io - che senza posa esploro
il tuo pensarti e pensare.
E al fondo dell'immenso mare
paragono il tuo fondo:
quel che in te e di te
viaggia oltre questo apparente
esser fermo in un luogo o su un letto
e si modifica - sostanza del tuo aspetto
oltre questa apparente
tua identità.
Corpo - di odore e calore,
di fuoco, di luce e di vapore.
Corpo - votato alla cenere
e all'incoscienza solitaria di sé.
Tu che per darti non puoi non bruciarti.
Tu che non puoi aggrapparti all'attimo che ti ama.
Corpo - curiosità
animalmente inerme che si fruga
in un gioco di bambini fra le siepi.
Corpo - che in altro corpo si verifica
e in esso è bramoso di specchiarsi,
di stamparsi con un'impronta di tremore.
Corpo - chiusa monade
se spranghi le porte e finestre dei tuoi sensi.
Corpo - spogliato e illuminato.
Corpo - di luna e di sole.
Corpo - silenzioso e paziente.
Corpo - che nessuno sguardo ha ricordato.
Corpo - quando deborda
oltre gli stretti confini della mente
e naviga verso la sua propria distruzione.
E per un'ombra, una ruga minima sul ventre
o un tratto sgraziato del piede dichiara
la sua melanconia irrimediabile.
Corpo - offeso e adorabile.
O puro spirito.
Quanti graffi quanto dolore
Quante lacrime quanto seme
Quanta rabbia quanto sudore
E quanto di me distrutto.
Quanto battere senza senso
Chiodi su legni slabbrati.
Sarà stato inutile tutto
Poi che tutti saremo stati.
O mia fabbrica temeraria
O mia scala mentre ti salgo
O mia acqua scavata nella sabbia
O mio castello d'aria.
O beatrice senza manto
senza cielo né canto.
Beatrice tutta di terra
attraversata in guerra.
Beatrice costruttrice
della mia distruzione felice.
Beatrice ultimo gioco.
Beatrice salto nel fuoco.
Beatrice da sempre nata.
Beatrice stella designata.
Beatrice fiato e voce
dell'inchiodato in croce.
Beatrice delle paure.
Beatrice delle venture.
O beatrice senza santi
senza veli né oranti.
Beatrice tutta di furore
di febbre e tremore.
O beatrice di lacrime.
Beatrice furtiva bestiola.
O beatrice infinita.
Beatrice nella tagliola.
Beatrice pietosa
filia et mater mea gloriosa.
Beatrice che si spezza
per troppo di tenerezza.
O beatrice mia apprensiva.
O beatrice viva.
Poiché era ormai una questione di ore
Ed era nuova legge che la morte non desse ingombro,
Era arrivato l'avviso di presentarmi
Al luogo direttamente dove mi avrebbero interrato.
L'avvenimento era importante ma non grave.
Così che fu mia moglie a dirmi lei stessa: prepàrati.
Ero il bambino che si accompagna dal dentista
E che si esorta: sii uomo, non è niente.
Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente,
Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno,
Appena un po' deglutendo nel domandare: c'è altro?
Ero io come sono ma un po' più grigio un po' più alto.
Andammo a piedi sul posto che non era
Quello che normalmente penso che dovrà essere,
Ma nel paese vicino al mio paese
Su due terrazze di costa guardanti a ponente.
C'era un bel sole non caldo, poca gente,
L'ufficio di una signora che sembrava già aspettarmi.
Ci fece accomodare, sorrise un po' burocratica,
Disse: prego di là - dove la cassa era pronta,
Deposta a terra su un fianco, di sontuosissimo legno,
E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza.
Pensai per un legno così chi mai l'avrebbe pagato,
Forse in segno di stima la mia Città o lo Stato.
Di quel legno rossiccio era anche l'apparecchio
Da incorporarsi alla cassa che avrebbe dovuto finirmi.
Sarà meno d'un attimo - mi assicurò la signora.
Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto.
Era una specie di garrota o altro patibolo.
Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura.
Sapevo che ero obbligato a non avere paura.
E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli
Domandando se mi avrebbero rasato
Come uno che vidi operato inutilmente.
La donna scosse la testa: non sarà niente,
Non è un problema, non faccia il bambino.
Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta,
Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo.
Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada,
Che importa anche se era questione solo di ore.
C'era un bel sole, volevo vivere la mia morte.
Morire la mia vita non era naturale.
Ormai sfibrate le asole e sapienti
Rammendi qua e là - ma gli abiti
Sembravano come nuovi. Egli
Accurato ogni sera li deponeva
Sopra una sedia - quali
Che fossero l'umore o la stabilità
L'uxorio brontolamento che lo affliggeva.
E deponeva con essi il tic-tac
Che gli scandiva giorni e notti, l'oriolo
Da tasca con una croce
Elvetica in campo rosso - emblema
Di esattezza agganciato a una teca di cristallo
Con dentro una trapunta di velluto
In attesa di reliquie microscopiche.
Gli abiti duravano anni:
Il nero, il grigetto, un altro a spina di pesce.
E ognuno col suo panciotto sul quale durante il giorno
La catenella che pareva di diamanti
Tra un'asola e l'oriolo nel taschino si stendeva.
Lui certe sere era greve di vino.
Si spogliava nel sonno, puntava al mattino.
Ma si destava fresco come certe volte io
Adesso forse più vecchio di quella sua età,
Che lo sbirciavo ritrovare le sue spoglie:
La giacca dignitosa, i pantaloni
Dall'impeccabile piega. E perché
Non dire del fregio rosa sulle mutande?
Perché tacere il colletto inamidato?
Tutto così ringiocondiva a ogni
Risveglio - sbarbato e tranquillo
E di un colore chiaro se distese dal riposo
Sbiadivano sulle guance le venuzze capillari.
Quale decoro l'abito
Rinnovato ogni giorno, restaurato
Dal persistere della giovinezza!
Dico il nero, il grigetto, un altro a spina di pesce
E un quarto credo ereditato da un parente
Defunto: duravano anni.
Io li spiavo mattina dopo mattina
E lui spiavo impassibile a tutto:
Al passare del tempo,
Al male dei creditori.
C'è un calare di forze, un calare di brache.
Le note dei taccuini si pasticciano, né
Più giova registrare i nomi delle amanti
O gli incontri, i doni. Chi se ne frega,
Uno si dice, dell'ordine. E lì
Lui non ebbe più forza da dare ai suoi vestiti:
Di colpo furono vecchi.
Primo fu il nero umiliato dal lustro.
Poi sparì il grigio, poi quello a spina di pesce. Di-
Menticamioli. Altri ne furono addotti
In vece - da sartucoli azzeccagarbugli
Asserenti per mezzo delle vesti
Di portargli vigore.
Tra gli OH
Dei familiari che COME TI STA
BENE COME TI FA
GIOVANE mentivano e lui
Lasciava fare ma lo sapeva benissimo
Che anche i più ricchi panni perdono il loro pregio
Quando è mutato il corpo che li indossa.
Non ha più gloria da dargli.
In tre giorni si sfa il bel vestito.
Lui lo trascina nel suo precipitare.
Strappi e frittelle e bottoni penzolanti
Presto divelti da pestiferi infanti.
Muoia con me ogni orpello - sembra dire.
L'oriolo diventa aritmico.
Anche la Svizzera dà ore da impazzire.
Ah il triste riprovare - ché lui stava
Ancora in piedi tenuto su
Dall'appretto del nuovo ma per poco.
Nel cupio dissolvi di tutto poi ripiombava.
Ma ancora vivo da spaccare
Il guscio che l'imbracava
Quando gridava BASTA CON QUESTE FREGNACCE.
Perché come se fossero
Vivi vestiamo i morti?
Quanto più casta e giusta
È la nudità dei corpi che li avvicina
Al loro finalmente disincarnarsi!
Ma noi li mascheriamo così copriamo le ossa
Troncate perché fingano la supinità della catarsi
Bisognava vederlo. Cos'era
Una giornata di lavoro per lui?
Niente - avreste detto allo spettacolo
Di quando tornava a casa, contento
Come una pasqua, fresco come un fringuello,
Un grillo che saltava
Di stanza in stanza «dove sei» squittendo
«O mia adorata».
E ilare al ritrovarla «cucù»
Lanciava il suo gridolino
E poi subito all'opera «buona tu adesso»
Esordiva rivolto alla pigra befana
Tutto il giorno a fumacchiare sdraiata
A far parole crociate o solitari di carte.
Aveva l'arte di non vederla un orrore
Ma anzi le sette beltà, la grazia.
Per prima la cucina - oh il lustro
Che gli dava quell'uomo a quelle piastrelle
Alle pentole ai piatti alle maniglie,
Faceva tutto come nuovo ogni sera.
E altrettanto la sala lo stanzino
Il casto nido coniugale dove
A lei diceva con dolcezza «passa
Cara in poltrona intanto che faccio il letto».
Poi d'un balzo ai fornelli - e in un battibaleno
Che intingoli a quella golosa apprestava:
Salse bearnesi, vol-au-vent, supreme
Squisitezze di caccia e pesca, brodini
Di tartaruga, pasticci di funghi
A ogni stagione, ananassi.
Miracoli di economia - sempre meno
Spendendo del gramo peculio.
Mai che si chiedesse lei «come fa»,
Tutto accettava per dovuto battendo
Talvolta imperiosa la posata
Per una crème-brûlé troppo calda o un raviolo
Dalla minima crepa. Ed egli pazientissimo
Si scusava «hai ragione, che sciocco».
Poi l'assisteva in toilette
E la metteva a nanna sprimacciando il cuscino.
Davvero «che stronzo» avreste detto
E tanto più sapendo quanto sgobbava in ditta
Sotto il sopruso dei capi
E dei compagni la perenne irrisione:
Così per molti anni
Finché la beneamata morì per occlusione.
Ma nessuno ha saputo mai più
Di che libertà fosse il prezzo la sua servitù.
Perché con occhi chiusi?
Perché con bocca che non parla?
Voglio guardarti, voglio nominarti.
Voglio fissarti e toccarti:
Mio sentirmi che ti parlo,
Mio vedermi che ti vedo.
Dirti - sei questa cosa hai questo nome.
Al canto che tace non credo.
Così in me ti distruggo.
Non sarò, tu sarai:
Ti inseguo e ti sfuggo,
Bella vita che te ne vai.
Era oro il nome e suono
Nella forma di campana
Non più ora mattutina
Ma ancora antimeridiana
Era verde negli ulivi
Era blu della marina
Nudo piede delicato
Su rugiade di declivi
Era oro il nome e vetro
Di bicchiere musicale
Fermo incedere nuziale
Nel decoro delle sfere
Netta nota e lontana
Lucenza al cervello tetro
Fiato a fiato che rideva
Nell'abbraccio della tana
Era oro il nome e mare
Era il chiaro della stanza
Era il niente del sublime
E un patire di speranza
Era il sole della neve
Era il bianco della fine
E poi il gelo crudo e lieve
Sull'estremo della danza
Voglio mostrarti un giorno com'era
La sua scrittura. Si appartava di là
Il foglio su un qualcosa
Di liscio con la mano sinistra sul bordo
Superiore a tenerlo ben fermo.
E intingi giù l'asticciòla
Col pennino nuovissimo a vergare
Missive... Egregio, esordendo, commendatore
Avvocato chiarissimo esimio
Ingegnere ammiraglio comandante
Eccellentissimo monsignor vescovo Graziosa
Regina... O intestando
In compìti caratteri sulla busta
N. H. un tànghero di bottegaio.
Quando osterie e compagni stornava
Nel chino silenzio a cui segrete
Drittissime le righe scorrevano
Del bel corsivo senza pentimenti
E gli stilemi - un ove a preferenza
Del dove in accezione
Temporale scarsamente impiegabile.
Stendeva suppliche, chiedeva dilazioni,
Esponeva le circostanze imprevedute per cui,
Deprecava l'infausta sorte
Che a questo punto rendeva la morte
Unica cosa desiderabile per lui.
Purché gli concedessero il minimo di respiro
Creditori e benefattori.
Spesso di quelle lettere protagonista
Con gli occhi io lo aiutavo nella penombra della stanza
Dove a un raggiro di parole
Egli affidava la nostra speranza:
Di salute così delicata
Questo mio povero bambino
Impressionabile come un artista.
Li abbindolava li teneva a bada sagace
Politico a parare
I colpi in ritirata necessaria,
A rattoppare l'impostura con una nuova
Ovvero giocoliere del circo
Un turbinìo di palle a palleggiarsi
Tra le annaspanti abili mani nell'aria.
Quale fatica - sembrava dirmi
Da quel tavolino adesso penso a tre gambe
A evocare virtù tropi similitudini
Esempi da pio debitore,
Alla fine del mese senz'altro pagherò,
Ma poi riposto il calamaio riuscire
Col suo sereno sorriso nel sole.
Doctor Subtilis... Anche lui scriveva il nulla.
Anche lui rinviava tutta la vita a domani.
Con quella prestidigitazione di segni
Anche lui remigava nel lieve vuoto impeccabile.
Fin quando le sue righe cominciarono a incurvarsi
Verso il finire i margini a farsi incerti
La forbita sintassi a guastarsi.
Fino al delirio d'inchiostri e indirizzi sbagliati.
Fino al via-vai sulla porta
Di strozzini per reverendi
Di ciabattini per prìncipi apostrofati.
Ma chi s'è visto s'è visto
Risponde la mente morta.
Così i debiti saranno pagati.
Ahimè - dicono - si piega.
Ahi si svuota e si inarca.
Alfa include già omega
Navigato in chiusa barca.
Mentre nell'estranea forma
Ti intuisco e custodisco,
Mutazione, chiesa e norma,
Buio in cui mi definisco.
O diversa sapienza.
Presente che bruci il prima.
Sapienza d'inesperienza.
Mia fabbrica e mia ruìna.
Credo che fosse la sola scappatoia - travestirsi.
Perché, nessun dubbio, non ero dei loro.
Identificabile a vista, basta
Che passassi per via - eccolo
Dicevano subito.
Esposto stefano protocristiano
E lì i sassi a portata di mano.
Non mancavano stracci di cui camuffarmi
Non propriamente di stoffa - smorfie occhi bassi
Parole prese a prestito da libri e labbra
E gattamorta e rumori scurrili e tutto
Il turpiloquio dei modi d'esistere.
Timorato bambino che ognora paventavo
Carabinieri ammanettanti il mio caro.
Gli stracci mi andavano larghi però
E quasi sempre la mia fatica sprecata:
Vieppiù i lanzi infierivano
Alla maldestra mascherata.
Io - braccato tarcisio in corsa ai suoi misteri.
A chi vorresti darla a bere piccioncino?
Ma chi vorresti prendere per il sedere?
Due o tre me li ricordo bene, mi facevano la posta
Sulla punta biforcante due strade
Una piana e diritta e l'altra un viale
Planante giù con platani e una grande ansa.
Due o tre, pensati in faccia - e poi chissà come
Angariati offesi a loro volta
Nel volgere di future storie. Parce
Nobis Domine, tanto più che io stesso
Proprio di lì ho appreso il sopravvivere:
A lapidare Stefano, a acchiappare per la tunica Tarcisio.
Cresciuto negli stracci che mi vennero a pennello
E non parvero più travestimento.
Confortato dalla loro malizia
In più di un'occasione ne fui gaglioffo e contento.
E a questo punto spogliarmene? Chi mai
Penserà a molestare un ometto così grigio
Nell'ordine mentito come di queste strofe?
Rischiarla adesso la santità?
Mio tribunale che mi frughi incerto
Fra essere e diventare - ho un bel dirti
Che non è quel che sembro.
Come delicato ti appanni, specchio del mio nome.
Svaniscono oro e viola
Verdolino e beige - se ne vanno via
I bei pensieri - il luccichìo
Della nostra esistenza diventa grigio e vero.
L'ex-rosa è un lenzuolo bianco -
Precipita ogni damina nella sua cipria.
Ti guasta tutta questa fatica
Va-e-vieni carica di borse e paure
E io che ti arranco dietro senza idea di dove andiamo.
Come siano - domandiamolo agli altri:
Consumati che basta un malocchio
E subito un trac
Ci manda in frantumi.
Eh sì, mio tiziano e cranach -
Presto anche noi vetro e polvere
Dita di santi stantìe nelle tèche,
Ci mangeremo le nostre ombre:
Tutto il vedere e toccare tutto il sentire
Navigare sul mare
Del corpo tuo e mio.
Principalmente per questo io credo
Insistiamo nel camminare.
Eh sì tu te la fai a suon di chiacchiere
A suon di poesie e altre
Bischerate che poi
Vorresti anche metterle sui giornali - ma guarda me
Guarda lui a questa ora della sera dopo un'intera
Giornata che tu arrivi tutto pimpante
Guarda un po' noi se ancora ne abbiamo
Voglia o piuttosto se
Melancolia dell'intelletto
Su e giù per la prigione
Nome scavato del suo oggetto
Cosa che sta sta senza il nome
Luce spiccata già
Che gli occhi mai non sapranno
Pane che indorerà
I forni del remoto anno
E più non ci avrà questo luogo
Dove aspettammo il vano segno
Fissi sul quadro appeso al chiodo
Da quel telefono di legno
Noi che improvvisa visitò
La nuvola del tuo odore
Quando sparita ti frugava
Il piccolo cane amore
O che ci apparve muto suono
Fermo nel puro movimento
Marciante uomo dietro uomo
Il misterioso reggimento
Però non erano risorti
Sfioravano appena la via
Dondolavano lievi e morti
Avanzi di fanteria
Mirabilia della vista
Che si sgranò a zoi e giostre
E improbabile catechista
Raggio di socchiuse imposte
Eccomi al tuo fruscìo
Balbetto il più che mi chiedi
Mio male sacro - mio
Ritmo che mi precedi
Avevano parlato di un possidente di Parma
Che la aspettava quando usciva dal collegio
In fila con le altre per guardarla e riguardarla
Contento di quel minimo privilegio
Benché ligia agli ammaestramenti
Lei sempre andava a occhi bassi
Badando a non trascinare le suole
A misurare i propri passi
E che davvero avrebbe voluto sposarla
Unico modo per scambiare due parole
E come moglie presentarla in tutta Parma
Scrisse ai parenti per consiglio delle suore
Ma perché no? Quale vita tranquilla
Per suo padre e sua madre nel paese di mare
Dal rispettoso marito della figlia
Formaggi e auguri ricevere per Natale
Come mai non l'avesse più sposata
La risposta è che lei disse no
Non lo voleva perché era innamorata
Di un altro che la storia mi raccontò
Quello stesso di cui fu detto:
Meglio perderlo e fior di canaglia -
Scriveva versi ed era di bell'aspetto
Come tanti ce n'è in Itaglia
Da molti mesi un mesto sogno
Avevo da raccontarti
Nel quale tu mi comparivi
E io temevo di guardarti
Non con il viso tuo di quando
Già sento un grigio di tempesta
Negli occhi sommersi e spenti
Nel tuo distrarre la testa
Verso il paese senza luogo
E al punto che mai sarà
Quel punto uguale al suo contrario
Dove è stretta la verità
Eri in un chiuso vano e alto
Avevi un viso di dolore
Tu mi guardavi mi parlavi
Ma non udivo le parole
Benché volevo accarezzarti
Supplicarti - non far così
Mi fai piangere, assomigli
Senza il sorriso ad Arletty
Perdona la mia paura
Mio solo grande peccato -
Per quell'inezia che divide
Ciò che non è da ciò che è stato
Ma le mie mani erano aria
Non ti potevano tenere -
Del sogno restò soltanto
Un sale di lacrime vere
Con te nel chiuso vano e alto
Da me volata via -
Io nel mio letto steso e stanco
Fra l'enigma e la bugia
Via Stilicone è a Milano una
Fra le vie più tristi che io conosca -
Una fila di case e quasi niente
A confortarle dalla parte opposta
Dove vaneggiano alle notti
Di uno scalo e di un cimitero
Le luci delle sue finestre
Occhi di fatiscente impero
Come la fronte di chi stando
A un nudo tavolo altra fronte
Cerca a cui stringersi posarsi
Ma nessuna gli risponde
E giù si spiega e si abbatte
Si fa cuscino delle braccia
Vuole scappare da se stesso
Sparire alla propria faccia
Strada uguale a dove sbando
Più ogni giorno o amica mia
Al Senzafondo al nome Morte
Che ha per compagna Follìa
Via Stilicone è a Milano la via
più vulnerabile che io conosca -
Una fila di case con paura
Del buio dalla fronte opposta
Keep us quiet Our Something
Includi e proteggi - Nostro Qualcosa
Sii calmo in cambio non guasteremo
Questo buio bambagia dolore di lana
Tieni la nostra mente a freno
Non soffra spasmi il tuo seno
Portaci sacco infinito infinitesimi giona
Di cui tremano antenne onde vibri
Vanno spiriti e pregheremo -
Ich bin eine Besonderheit des Nichts
Mein Gott
Mein Tod
Minne Midons
E ogni altra cura lasciata
Esploro volumi
Alcuno che racconti:
È successo anche a me -
Dove la mente prigioniera stagni
Vostra o di chi non so
O che voi non sapete
Verso quali pensieri a quali mète
Mai mi svagassi anch'io
Su quella ferma strada
Dove c'incontra (narrano) lo sguardo
Che tutto e insieme vede
Chiamato Dio
E schiùditi - guscio di seta
Trapassate la pietra
Parole trapassate -
Muto di voi nel luogo di paura
E in orfane contrade
Accarezzavo la cara figura
Mia quasi vergine madre -
Vi assaporai confitto nelle ossa
Delle mie mani in croce
Vaghe lacrime e voce -
Da allora ch'ebbi in sorte e sempre poi
Gialla e nera di righe
Cavalcare alla morte
La tigre - che siete voi
Di me quando sparita ancora udrete
Come di sopraggiunto
Messaggio che viaggiava opposte mète
Fra due dei quali ognuno era defunto
Di mattinieri pianti
Lacrime a me spargete
Nella fonda miniera o bei diamanti -
Dove più non sarò mi scoprirete:
Virtù d'insania quale a noi domanda
Nell'impervia contrada
Traviata luna e luce più che blanda
Il niente più, mai più della mia strada -
Stolida sorda pietra
Che pur movendo arretra
E certe notti un pensiero:
Non sanno non sanno che tu
Resisti infinito infinita
Pazienza del cuor-di-gesù:
Mio tra crescermi e dormienza
Pulviscolo d'onnipresenza -
Non nato imprendibile spacco
Tra esserci ancora e mai più:
Di crinale in crinale
Estranei regni a un minimo volare
Bruciare alla speranza
Breve lume, nuda stanza
5-13 ottobre 1988
Dissi chi ero e vi prego prendetemi
Benché riluttassero quelli
Al mio affranto decoro
E io non risultando nella lista -
Fu il capo a venirmi incontro
Ochèi se è lei che lo vuole
Ai suoi ordinando accendiamo
La pratica:
Dal mio triste nascondermi al nascosto non potevo
Andare oltre o tornare indietro -
Volevo un luogo dove svelarmi
Con voce calma rielencare i miei frantumi
20-24 dicembre 1988
E lui di essa sia primo architetto -
Prigione non nel senso stretto
La sua più che del corpo
Dell'intelletto:
Sbarre serrature bastano
A farle via un po' di plastico
Pazienza di lima piedi di porco -
Ma chi è carceriere di se stesso
Ha un bel prendersi su capello per capello
A tirarsene fuori:
Cafarnao d'un cervello
Non c'è grazia se non muori
14-15 gennaio 1989
Stanotte visione dei gatti -
Ero io per primo a vezzeggiarli:
Qua bei micini - e intanto
Buffamente librati alla mia altezza
Non loro a me bensì io a loro mi appressavo:
Seguite poi le mani alle parole
Come si fa per scambiare carezze
Subito ecco alle mie dita conficcarsi
Maligne unghiette erpici di zampe
Perciò guaìvo: aiutami!
A una chiusa madre senza nome
a Emilio Giudici
Mettere su una casa
Alla sua età - quanto spera di campare Giovanni
Ti sei domandato:
E io che non ho osato
Replicare alcunché
Nemmeno tra me e me - sui due piedi
Per quanto approssimato tentando un calcolo
Ma una di queste notti uno di quei momenti
A mezza via dal sonno che il pensiero
Pavida navicella osa sfidare
L'ignoto del suo mare
Mentre con unghie e denti
Si aggrappa per sparire
Il corpo in un effimero altrimenti
Una di queste notti quasi un nulla
Mi è giunto tardiva risposta:
Sunamita fanciulla sgusciata da sotto il guanciale
A scaldarmi ben che non sono
Quel re della Bibbia io
Re di nessun reame sussurrando
Che incominciare è il nostro unico modo di esserci
E dunque ho amato l'inizio
La voglia di essere accolto
Nei bei luoghi diversi invidïati
Nell'aldiquà del gelido cristallo quotidiano
La balbettata lingua silenziosa
Plaghe remote le mie mani brancolando
Oggetti fuor della vista
A ogni scoperta tu sai
Ride e fa festa l'infante rassicurato
Passo a passo movendo al suo adempiersi -
Si distrugge così nel costruire
L'animale adulto
Che mai più ricomincia:
Io invento questo inizio al mio finire.
I sogni e i versi, detài da altre
Più sui che i altri - vol deventar.
Giacomo Noventa
Ci abituiamo presto ai nuovi muri
Ognuna dalla sua tana pensile
Scendono alle mani le cose vengono a noi
Io stesso gli occhi semichiusi al mattino
Da lunga insonnia solerte agli atti del rito
Moka al fornello metto a frutto l'intervallo
Teso all'imminente gorgogliare
Un uomo vecchio non è che una misera cosa
Albero spoglio del suo vanto - uscire
Al quotidiano ufficio rincasare
Reduce di pensosi negozi:
Dunque non troppe domande povero caro
Lasciatelo cogitare - lui solo
Sa ciò che è giusto
Remoto ieri, però eccomi oggi
Yesman completo - «sì, subito!» come una serva
Negli anni Trenta in casa di minimi impiegati
Povera più di tutti
I poveri innocua bestiola - macché poeta e poeta!
Risciacquo i piatti, ti aiuto a piegare un lenzuolo
La colpa è mia se non combacia agli orli
Avessi la sapienza
Non dico di Salomone ma almeno
Direi la calma perizia
Dei due che Sotto il Vòlto
Angelo per la paga, Lorenzo per passione
Apprestano un portone
Per questo ingresso vano al buio e al nulla
Murando uno lo stipite fissando i cardini e l'altro
Chiodando una lamiera al frusto legno
Riesumato da una sua campagna
Entrambi con fierezza dell'opera
Mossi da vivi gesti assunti in loro
Dal profondo di secoli vivranno
Per nuove mani d'opere venture
Misero è l'uomo che ha bisogno di soccorso
Misero chi si accorge
Quanto non vale ricchezza
Di immagini maestà di pensieri
Versata in libri di storia:
Avessi io gli atti infiniti
Del tuo lavoro a castigare la mia boria
«Io non sto bene ancora, non starò
Mai più bene» - è tardi per entrare
Dentro ogni gesto tuo di quarant'anni
Dove fu amore vero il trafficare
Ad accudirmi a farmi cena e pranzo
Tenuti a bada i figli per lasciarmi recitare
A me stesso una vita di romanzo
Io che pietà e conforto
Invoco adesso - io
Trascorso accanto a te come da morto
Vecchia moglie spremuta
Che interrogavi la tua angoscia muta:
Perché fossero mie
Tutte le tue poesie
La Serra, 3-7 settembre 1992
Provare a domandargli: scusi Lei
Fu mai in collegio a Parma
Risponderebbe crudamente no
Colei che apparve tuo benigno karma
O altra cosa indiana dove esista
La speranza lontana
Che nei cieli del tempo una carezza
Erra con ansia del volto che l'ama
Tu minuscola viva ghirlandetta
Fra defunte scolare
In gruppo nella foto con un nastro
Sopra il grembiule a mo' di scapolare
Non questa che vestita alla moderna
I suoi neri capelli
Con scaltra noncuranza ora ravvia
Ma tuoi scattando gli occhi alteri e belli
Tuo quello sguardo di cui parve mia
La serietà graziosa
Fisso sotto quel vetro da quel giorno
Che fissò un lampo altra festiva posa
E tuo il non esatto profilo e forse
La figura benché
Calcolando l'età che tu sparisti
Dimostra tre o più estati più di te
Guardavo e mi celavo alla sua vista
Tremando al desiderio
Che mi riconoscesse avendo dentro
In me come una spina d'adulterio
Da lei sventatamente già commesso
Per quella bambinetta
Che guastava l'incanto ed un marito
Che di mettersi a pranzo aveva fretta
Io che ero lì sul punto di fermarti:
Cosa fai dove vai
Tu che hai più di cent'anni e qui tuo figlio
Quasi settanta e perso nel suo mai
Ognuno quasi ognuno egli diceva
Cresce in sé una laura una mandetta
Della mente imperfetta
Speranza inassuvita
E non sfiorata piuma ombra ghermita
Inafferrata stella di raggiro
Mai chiusa in un sospiro
Mai vocata in un nome
Spiraglio di prigione
Donde più scappi e sempre più rimani
Domani del domani
Vuoto che in vuoto cade:
Così chi fruga Dio fruga una madre
Nella fossa in cenere perduta
La vana vita arcigna
La matrigna incompiuta
Ahi pievi romaniche
Primavera romanza - friulane
Icòne - e pio memento
Ahi Angelus ahi rena di canali
Da l'una e l'altra chiesa
Sospinto a un cieco limo di marrane
Strano e straniero ospite
Più che in te nel castigo fu l'offesa
E nel perverso teatro al quale ti addussero
Ebbrezza di applausi e seguaci
La tua passione - amore e disamore
Popolo di se stesso traditore:
Io qui rauca memoria del nodo
Che per noi liberava la tua voce
Con vecchie dita uno storto chiodo
Svelgo dalla tua croce
Per insonnie nel tempo che si compie
Di vita eterna il tuo settantesimo anno
E non da mio volere che forse tu lo decidi
Dal tuo mai più riemersa quando in me
Trabocchi notturne lacrime:
Tu mia spenta lucerna e vaghezza di cenere
Però non dimenticartene - portami
Dalla scuola il gessetto col quale navi e navi
Disegnavamo alla piccola lavagna più i nostri
Cancellabili nomi - non lasciarmi
Qui adesso senza un dove onde impetrare asilo:
Ahi novembrina ahi rovo di tenerezza
8 novembre 1927
8 novembre 1997
Da vecchio zoppicava come Ignazio
Ma senza gloria di una sua Pamplona
Peregrinante per amaro dazio
Sulla diversa via presa per buona
Salvate le nostre anime:
Indi e quindi il segnale
Passando senza nessuna
In lingua viva risposta -
Chioccolìo del morto auricolare
Ai bordi del disastro
Durando a quelle il nerissimo
Lontanarsi come nei mari della Luna
23-24 ottobre 1998
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