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I banchieri non rispondono a nessuno. Azionisti compresi

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I banchieri non rispondono a nessuno. Azionisti compresi

di Alberto Mingardi



Premettiamo che non capiamo nulla di banche, non conosciamo i numeri e se li conoscessimo non li sapremmo leggere, ma siamo convinti che nella ventilata fusione fra Capitalia e UniCredit devono esserci sicuramente solide ragioni economiche. Sarebbe una bancona con sportelli spalmati ben bene per tutta la penisola, il primo istituto di credito formato stivale. Evviva.


Però qualcosa non torna e un poco spaventa, nel modo in cui questa operazione ieri è stata salutata dai giornali. Le parole non sono del tutto inutili. Il m 232p1518c odo in cui una vicenda viene ricostruita, i dettagli che si danno e non si danno, l'attribuzione di paternità e benedizioni politiche dice comunque un pezzo di verità. E il pezzo di verità che i giornali ci hanno buttato ieri è che queste nozze, si facciano o no, sono un arrocco, rispondono ad una necessità di equilibrio, non sembrano favorire l'interesse immediato degli azionisti ma piuttosto l'istinto di sopravvivenza di alcuni dirigenti.
In tutto il mondo, il capitalismo moderno esige una classe manageriale forte e protagonista. Le imprese altro non sono che gli uomini che le animano, ma non c'è identificazione automatica né assoluta fra chi un'azienda la gestisce, e l'impresa stessa. La quale non ha "interessi", necessità, bisogni suoi propri: ma solo quelli delle persone che ci lavorano o ci investono.


Per i suoi impiegati, quale che sia il pianerottolo della gerarchia su cui stanno accampati, le imprese sono soprattutto produttrici di reddito. Un manager non si confronta con una catena di incentivi poi tanto diversa da quella di qualsiasi altro lavoratore. Vuole percepire uno stipendio, il più alto possibile. Essere più libero che può nelle sue decisioni, evitando per quanto gli è permesso di pagarne il prezzo. Restare al suo posto, finché non ne trova uno migliore.


Insomma: i manager sono degli stronzi, un po' come tutti, e un po' come tutti noialtri stronzi si fanno i cavoli loro. La libertà del manager è però vincolata, frenata, compressa dalla simmetrica libertà dell'azionista di dargli un calcione. In particolare, quanto più sono frizzanti e reattivi i mercati di capitale, tanto più per perpetuare se stesso il management è tenuto ad aprire cantieri che piacciano agli investitori. Il miracolo del mercato è proprio questo: è l'armonizzazione degli egoismi, per cui io che voglio mungere la vacca, perché tu mi lasci fare, devo essere il primo ad accertarmi che dia latte. L'azionista vuole garanzie ed esige creazione di valore. In cambio, è disposto ad assecondare l'istinto di sopravvivenza dei gestori cui deve il ritorno dei suoi investimenti, e a retribuirli quanto è opportuno (talvolta, tantissimo) proprio in questo quadro. Nessuno è virtuoso: al contrario, dallo scontro di due grettezze, dal vile senso del quattrino, s'ingenera un meccanismo di controllo per cui nessuna della due dramatis personae, l'investitore e il manager, travalica i confini che assicurano soddisfazione anche all'altra. Quando gli equilibri si rompono, non è solo il padrone-azionista che può liquidare il suo uomo di fatica. Ma un manager avveduto e scaltro sa via via trovarsi padroni allineati rispetto agli obiettivi che si propone. Ci si sceglie a vicenda.


Ecco, per ora su Capitalia/Unicredit s'è sentita la voce di tutti, tranne che degli azionisti. E' un matrimonio che s'ha da fare, si dice, perché incastrerebbe perfettamente tutti i pezzi del puzzle, per garantire ad uno dei principali banchieri italiani l'atterraggio ideale dopo una carriera ad alta quota. S'è molto criticato, mesi fa, il merger fra San Paolo ed Intesa, causa vistosa benezione del presidente del consiglio, ma per quanto tanto o poco contasse lì la politica, dal punto di vista dei "padroni" era abbastanza chiaro il progetto di costruire un istituto con un peso preponderante delle fondazioni, le quali unendosi si sono mutuamente rafforzate. Con tutti i problemi che hanno, stante la loro natura per definizione anfibia, le fondazioni restano però forse la cosa che in Italia assomiglia di più ai grandi investitori istituzionali altrimenti a noi sconosciuti, e se hanno un legame di ferro con la politica, è perlomeno un legame che passa per il territorio e la sua valorizzazione. Leggendo le ultime puntate di quel noioso De bello gallico della finanza relazionale che è il risiko bancario, dove si contano le armate più che le azioni, sembra che neanche stavolta manchi una politica aspersione d'incenso, ma che dalla possibile aggregazione debbano guadagnarci più che altro poche individualità, a cominciare da Cesare Geronzi. Per giunta in una fase nella quale, come ha notato proprio Alessandro Profumo, non è detto la marcia verso le grandi concentrazioni sia destinata a continuare, ed anzi non debba avviarsi un movimento contrario, verso una segmentazione in cui diventi importante quel che si fa meglio, e non fare tutto.


Insinuazioni e scenari valgono quel che valgono, ma è già il sospetto che è grave. In un Paese in cui i diritti di proprietà sono congelati e la vivacità dei mercati è quella che è, le pagine dei giornali si colorano festosamente, immaginando una bizzarra "fusione ad personam". È che tutto questo ci sembri normale, il guaio.

Da Libero, 15 maggio 2007

Pubblicato il 15/05/2007


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