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IL GRANDE LIBRO DELLA FANTASCIENZA CLASSICA - Romanzi brevi degli anni '30

Italiana


IL GRANDE LIBRO

DELLA

FANTASCIENZA CLASSICA

Romanzi brevi degli anni '30

A cura di Isaac Asimov, Charles G. Waugh e Martin H. Greenberg

Prefazione di Piergiorgio Nicolazzini

(C) 1991 INTERNO GIALLO

de Camp-Copyright 1939 by Street & Smith Publications, Inc.; Copyright re-



newed ~'1966 by L. Sprague de Camp. Reprinted by permission of the au-

thor.

Gold-Copyright 1938 by Street & Smith Publications, Inc.; renewed ~1966

by permission of Forrest J Ackerman, for Mrs. H.L. Gold.

Weinbaum-Copyright 1939 by Better Publications, Inc.; renewed ~1967, by

permission of Forrest J Ackerman.

Bates-Copyright 1935 by Street & Smith Publications, Inc.; renewed ~'1963,

by permission of Forrest J Ackerman.

Williamson-Copyright 1932, renewed 01960 by Jack Williamson. Reprinted

by permission of the Spectrum Literary Agency, Inc.

Campbell-Copyright 1938 by Street & Smith Publications, Inc.; renewed

1966 John W. Campbell, Jr. Reprinted by permission of the agents for the

author's Estate, the Scott Meredith Literary Agency, Inc.

Russell-Copyright 1937 by Street & Smith Publications, Inc.; renewed ~'

1965. Reprinted by permission of the Scott Meredith Literary Agency, Inc.

Leinster-Copyright 1934 by Street & Smith Publications, Inc.; renewed 6

1962. Reprinted by permission of the agents for the author's Estate, the Scott

Meredith Literary Agency, Inc.

Lovecraft-Copyright 1936 by Street & Smith Publications, Inc.; renewed ~

1964. Reprinted by permission of the agents for the author's Estate, the Scott

Meredith Literary Agency, Inc.

Voolrich-Copyright 1938; renewed ~1966 by Cornell Woolrich. Reprinted

by permission of the agents for the author's Estate, the Scott Meredith Litera-

ry Agency, Inc.

Titolo dell'opera originale:

The Mammoth Book of Classic Science Fiction. Short novel of the 1930s

1989 by Robinson Publishing

~ 1991 Interno Giallo Editore s.r.l., Milano

I edizione Edgar giugno 1991

INDICE

Prefazione

7 Introduzione

12 L'ombra fuori del tempo

di H.P. Lovecraft

68 Questione di forma

di Horace L. Gold

124Il corpo di Jane Brown

di Cornell Woolrich

185 Chi va là?

di John W. Campbell Jr.

242 Bivi nel tempo

di Murray Leinster

296 Ahimè, tutto questo pensare

di Harry Bates

331 L'uomo in cerca del futuro

di Eric Frank Russell e Leslie T. Johnson

369 L'arrivo della fiamma

di Stanley G. Weinbaum

425 Dividi e domina

di L. Sprague de Camp

500 Lupi dalle tenebre

di Jack Williamson

«Quello che domani vi attende è un futuro sbalorditivo: i vostri figli, o

forse i vostri nipoti, potranno andare sulla Luna, potranno rendersi in-

visibili, riusciranno a smaterializzare il proprio corpo a New York e

materializzarlo in Cina... tutto in pochi secondi. Sbalorditivo, vero?~

Quale miglior sguardo verso il futuro, se non questo frammento

tratto dall'editoriale di Harry Bates, che non solo inaugura il primo

numero della rivista Astounding Stories, ma un intero decennio? Sin-

golare coincidenza, infatti, perché il primo fascicolo è datato gennaio

1930... ma non si tratta semplicemente di una nuova riYista di fanta-

scienza (anzi, di un nuovo pulp, come vengono definiti i periodici po-

polari dell'epoca per il particolare tipo di carta), ma una di quelle de-

stinate a esercitare l'influenza più duratura, non solo negli anni Tren-

ta ma anche nei decenni successivi.

D'altro canto, la fantascienza era nata ufficialmente solo pochi anni

prima, nel 1926, con la pubblicazione del primo numero di Amazing

Stories a opera del geniale e intraprendente inventore di origine lus-

semburghese Hugo Gernsback, e stava quindi muovendo i primi passi.

Del resto, lo stesso Gernsback aveva parlato della fantascienza (scien-

tiflction nell'originaria formulazione, successivamente modificata in

science flction nell'editoriale di Science Wonder Stories del giugno

1929) con una definizione che già anticipava il tono avveniristico-di-

vulgativo di Bates. Non a caso, i due aggettivi "amazing" (sorprenden-

te) e Nastounding" (sbalorditivo), andavano ad arricchire il già fiorente

campo semantico del "meraviglioso", al quale avevano contribuito al-

tre precedenti testate, meno specificamente indirizzate all'anticipa-

zione scientifica, tra cui Weird Tales e The Thrill Boolc.

La definizione di Gernsback parla apertamente di «un affascinante

romance inframmezzato da realtà scientifiche e visioni profetiche« e

questo rimarrà il segno distintivo della fantascienza nella sua incar-

nazione di genere apopolare", pubblicato cioè su riviste periodiche

esclusivamente dedicate a questo tipo di narrativa.

Già, ma che cos'era stata prima di allora la fantascienza?

Dobbiamo prestar fede alla prodigiosa struttura teorica elaborata

da Darko Suvin,l il quale, utilizzando concetti ripresi dal teatro brech-

tiano, dal formalismo russo e dalla filosofia di Emst Bloch, interpreta

la fantascienza in chiave socio-estetica come un mega-genere che at-

traversa l'intera storia letteraria, dal mito dell'isola altemativa fino al

recentissimo filone cyberpur~k, attraverso la metamorfosi dei generi

dell'utopia, del racconto filosofico, del romanzo gotico, fino all'avve-

nirismo ottocentesco e alla distopia, per convergere infine nell'opera

di Wells e poi nella grande fioritura commerciale di questo secolo?

Questa lettura ha però il difetto tutt'altro che trascurabile di non ren-

dere conto della molteplicità della produzione contemporanea, che

sembra costituire per Suvin, tranne poche eccezioni, motivo d'imba-

razzo più che di indagine sui testi. Oppure dobbiamo individuare pa-

dri fondatori più recenti e specifici, come il Frankenstein di Mary Shel-

ley, i racconti fantascientifici di Edgar Allan Poe, l'avvenirismo di Ju-

les Veme oppure lo scienlific romance di Wells?

Non è questa la sede per stabilirlo. Tuttavia mi pare che l'influenza

esercitata da quest'ultimo sia indiscutibile, perché a Wells non si può

negare il merito di aver codificato gran parte dei temi avventurosi e

speculativi all'interno della più autentica forma precorritrice della

fantascienza, ovvero il romance scientifico: dai viaggi nel tempo in La

m~cchina det tempo (The Time Machine -1895) alla manipolazione del

corpo in L'isola del dottor Moreau (Island of Dr. Moreau - 1896), dal su-

peromismo di L'uomo invisibile (Invisible Man - 1897) all'invasione

aliena di La guerra dei mondi (The War of the Worlds - 1898), dall'im-

maginazione distopica di Quando il donniente si sveglierà (When the

Sleeper Wakes - 1899) all'esplorazione planetaria di I primi uomini

sulla Luna (The First Men in the Moon - 1901).

Tuttavia, il romance scientifico non è solo wellsiano. Già, perché non

è immaginabile un salto così netto dall'opera dello scrittore inglese

alla nascita di Amazing, come forse non spiegano a sufficienza molte

storie della fantascienza. Vi è infatti una tradizione sommersa e mi-

sconosciuta che, a partire dal modello originario o, comunque, più

compiuto, si è espressa in una produzione narrativa forse meno consa-

pevole dal punto di vista speculativo ma tuttavia prodiga di risorse

immaginative, che ha proliferato con una straordinaria varietà di toni

e di accenti nel campo del meraviglioso, negli Stati Uniti come in In-

I Darko Suvin, Metamorphoses of Science Fiction: On the Poetics and History of

a Literary Genre, New Haven and London, Yale University Press, 1979; tr. it. Lia

Guerra, Le metamorfosi della fantascienza. Poetica e storia di un genere letterario,

Bologna, Il Mulino, 1985.

VIII

ghilterra. Del resto, questa fase di storia letteraria è stata approfondi-

ta soltanto di recente,' con una piena rivalutazione della sua estensio-

ne cronologica e della sua portata complessiva, colmando così il vuoto

fra una presunta tradizione "colta" e l'anima "popolare" della fanta-

scienza dei pulp; è un tragitto che parte dalle bizzarre fantasie mate-

matiche di Charles Howard Hinton (fra i primi a usare consapevol-

mente il termine di "scientific romance ) e passa attraverso George

Griffith, M. P. Shiel, Arthur Conan Doyle, William Hope Hodgson, J.

D. Beresford, S. Fowler Wright, John Taine, Olaf Stapledon, nelle ope-

re dei quali più che mai abbondano viaggi immaginari, romanzi a

sfondo utopico o evoluzionistico, guerre future, fantasie escatologiche

o metafisiche.

Inoltre, non si può dimenticare la natura fantastica e proto-fanta-

scientifica di gran parte della letteratura americana dell'Ottocento,

vero e proprio alaboratorio dei sogni", come recita il titolo di un recen-

te volume antologico curato da Carlo Pagetti,2 che si ritrova nelle ope-

re non solo di Irving, Hawthome, Poe, Melville, Bierce, Twain, Lon-

don, ma anche di altri autori meno noti come Fitz-James O'Brien,

Thomas Wentworth Higginson, Edward Everett Hale, Edward Bella-

my. Questa tradizione in parte andrà a saldarsi con il flusso ininter-

rotto di pubblicazioni avventurose tra la fine dell'Ottocento e l'inizio

di questo secolo: dai dime novets di Irwin Beadle alle riviste di S. S.

McClure e soprattutto di Frank Munsey (la prima e più celebre, The Ar-

gosy, venne fondata nel 1882, poi seguita da ~he Au-Story nel 1905, The

Scrap Book nel 1906 e The Cavalier nel 1908), mentre in Inghilterra

George Newnes fondava The Strand Magazine ( 1891 ), presto imitato da

altre celebri testate quali The Idter e Pearson's Magazine. Sulle riviste

di Munsey pubblicò Edgar Rice Burroughs, forse il più importante e

popolare autore di narrativa avventurosa to~t court oltre che specifi-

camente fantascientifica, ma insieme a lui apparvero anche Ray Cum-

mings, George Allan England, Ralph Milne Farley, Homer Eon Flint,

Austin Hall, Abraham Merritt, Otis Adalbert Kline.

Ma quali sono le caratteristiche di un genere consapevole dei forti

legami con i suoi precursori più o meno immediati che finalmente tro-

va una rivista su cui esprimersi? La definizione dello stesso Gemsback

' Cfr. Thomas Clareson, Science Fiction in America, 1870s-1930s: An Annotated

Bibliography of Primary Sources, Westport, CT, and London, Greenwood Press,

1984; e Brian Stableford, Scientific Romance in Bntain, 1890-1950, London,

Fourth Estate, 1985.

2 Carlo Pagetti, a cura di, ll laboratorio dei sogni: Fantascienza americana del-

I'Ottocento, Roma, Editori Riuniti, 1988. E d'obbligo citare al riguardo un'ope-

ra pionieristica, alla quale peraltro il volume di Pagetti s'ispira, ovvero l'anto-

logia critica di H. Bruce Franklin, Future Perfect: American Science Fiction of

the Nineteenth Century, London, Oxford University Press, 1968 (rev. ed. 1978).

mi sembra fondamentale, dal momento che parla esplicitamente di

romance, riconoscendo il debito verso la tradizione più recente e, in-

consapevolmente, al di là di essa, verso una forma narrativa con radici

più lontane; chiunque abbia familiarità con l'antitesi romance vs no-

vel, già teorizzata verso la fine del Settecento, ma oggi riconosciuta co-

me l'asse oppositivo fondamentale che ha strutturato la produzione

letteraria dall'antichità fino a oggi, sa che il romance è la favola eroica

che tratta di persone e di eventi immaginari, mentre il novel è una rap-

presentazione di vita e di costumi reali, ma soprattutto nella formula-

zione di Robert Scholes il romance è in pratica la corrente fantastica

della letteratura, che sceglie la flction avventurosa. Gernsback, che di

teoria letteraria è però digiuno, parla inoltre di "fattualità scientifica"

e "visione profeticaD, implicite anche nel sottotitolo della rivista, che

promette "extravagant fiction today... cold fact tomorrown (racconti

stravaganti oggi... freddi fatti domani), enunciando senza mezze misu-

re il tipo di fantascienza che vuole pubblicare. Infatti sceglie come

coordinate dello spazio narrativo testé individuato una specie di

triangolo di ferro i cui vertici sono costituiti da E. A. Poe con Lo strano

caso del signor Valdemar (The Facts in the Case of M. Valdemar -1845),

Jules Verne con Hector Servadac ( 1877) e H . G . Wells con 11 nuovo acce-

leratore (The New Accelerator -1901), senza dimenticare tuttavia l'ag-

gancio con le riviste che proliferano nei generi popolari d'intratteni-

mento e che propongono varianti del meraviglioso, sia esso "inquie-

tanten, "misterioson, navventuroso", "esotico" o "sentimentalen. In so-

stanza, Gernsback stabilisce l'identità e delimita il territorio di un di-

verso tipo di "meraviglioson, quello scientifico.

I ripetuti richiami alla fattualità e all'anticipazione sembrano sug-

gerire per il testo fantascientifico il ricorso inevitabile a meccanismi

di plausibilità e di verosimiglianza, ma in realtà sono una sorta di

schermo difensivo ~simile a quelli attivati dalle poderose e invincibili

astronavi nei racconti di space opera dell'epoca), dietro il quale si cela

una problematica esigenza di rispettabilità; infatti, si tratta molto più

spesso di principi enunciati piuttosto che dimostrati o verificati, per-

ché l'elemento avveniristico e profetico è certamente in primo piano,

ma solo come ingenuo pretesto per sviluppare il vero nucleo della nar-

razione: I'appropriazione di uno sconfinato territorio fantastico di av-

ventura.

Come si è visto, la prospettiva indicata da Gernsback si amplia al-

l'inizio degli anni Trenta con la nascita dell'altra grande rivista,

Astounding. Dopo alcuni anni di apprendistato, dove prevale la pub-

blicazione di autori presi a prestito da un passato illustre o dalle rivi-

ste puip dei generi contigui, ricchi di figure intercambiabili che obbe-

discono ai medesimi meccanismi, comincia a delinearsi unà precisa

identità della narrativa fantascientifica su rivista. Non a caso, Astoun-

ding entra in campo operando una vera e propria rivoluzione, la cui

portata potrà oggi far sorridere ma che all'epoca si rivelò decisiva, pa-

gando cioè i racconti due cents a parola all'accettazione, contraria-

mente ad Amazing e ad altre riviste dell'èra gernsbackiana, che paga-

vano invece 1/2 cent a parola alla pubblicazione, ma soprattutto offren-

do un certo spazio a firme nuove o comunque dall'inclinazione pretta-

mente fantascientifica. Astounding annoverò dapprima nella sua scu-

deria autori come Ray Cummings, Miles J. Breuer, Paul Ernst, Francis

Flagg, Sterner St. Paul Meek e Victor Rousseau, oltre ad Anthony Gil-

more, pseudonimo comune di Harry Bates e Desmond W. Hall (rispet-

tivamente direttore e assistente della medesima rivista) usato per fir-

mare le celebri avventure di Falco Carse (Hawk Carse); ma la sterzata

definitiva coincise con la nomina nel 1933 di un nuovo direttore, F. Or-

lin Tremaine, che attirò nell'orbita della rivista autori come Nat

Schachner, Stanton A. Coblentz, Raymond Z. Gallun, E. E. "Docn

Smith, Stanley G. Weinbaum, Eric Frank Russell, Horace L. Gold, Do-

nald Wandrei, lo stesso John W. Campbell Jr. (che pubblicò prevalen-

temente sotto lo pseudonimo di Don A. Stuart, ma che soprattutto sa-

rebbe diventato il leggendario direttore della rivista verso la fine del

decennio, inaugurando la Golden Age), ma anche di veri e propri gi-

ganti come Murray Leinster, Edmond Hamilton, entrambi già molto

attivi su altre testate, e infine il giovane Jack Williamson.

Per inquadrare il decennio 1930-1940 non c'è metafora più azzecca-

ta di quella usata da James Gunn: un autentico Uuniverso in espansio-

nen, dove vengono colmati in ondate successive tutti gli spazi di esplo-

razione, come già in un certo senso era accaduto con i voyages extraor-

dinaires di Verne che avevano letteralmente saturato la geografia del

globo, compresi i cieli e, seppur timidamente, persino il nostro satelli-

te. ln questa frenesia espansionistica, la fantascienza continua di fatto

a invocare la plausibilità scientifica e la visione profetica, ma non esi-

ta a metterle in subordine o a liquidarle senza mezzi termini di fronte

alle distese sconfinate dell'universo, piene di misteri, mondi e razze

sconosciute, che quando non si rivelano facilmente addomesticabili,

diventano fatalmente lo spunto per titaniche battaglie e conflitti ga-

lattici dove l'obiettivo è la conquista, la supremazia o la semplice so-

pravvivenza.

Insomma, è l'avventura a regnare incontrastata, come del resto ha

suggerito lo stesso Isaac Asimov, curatore di questo volume (nonché di

un'altra celebre antologia dedicata allo stesso periodo, L'alba del do-

mani); I'intuizione del nbuon dottoren è chiara: nella prima fase (1926-

1938), la fantascienza è a "dominante avventurosan. Si riafferma, in-

somma, il principio secondo cui la scienza e la tecnologia vengono ce-

lebrate come una sorta di ideale collettivo più che effettivamente prati-

cate come strumenti di indagine speculativa; si respira uno sfrenato

x I XI

ottimismo che nasce da un entusiasmo epidermico più che da una ri-

flessione sul ruolo del progresso scientifico, anzi dove quest'ultimo, in

una sorta di impulso vitalistico e sfrenato, pare soltanto un veicolo per

raggiungere uno spazio oggettivo di conquista e di conoscenza illimi-

tata, come se inoltre l'atto di avventurarsi in quegli sconfinati territo-

ri Eantastici fosse una reazione al profondo incubo della Depressione

in cui gli Stati Uniti precipitano all'inizio del decennio, nonché al-

I'incombente minaccia hitleriana sull'Europa.

Nelle opere di questo periodo l'elemento scientifico-tecnologico vie-

ne esibito in maniera magniloquente, come iperbole di se stesso (non è

mai scienza, ma nsuperscienza"), come una sorta di inesauribile spet-

tacolo pirotecnico che però, a un'indagine più attenta, diventa un velo

opaco e impenetrabile; quando invece non subisce questo destino, vie-

ne ridotto alla sua natura puramente didascalica con indigesti brani

esplicativi o interminabili dissertazioni pseudo-realistiche. La scienza

è quindi spesso ridotta a una funzione puramente "verbalen, perché

molti degli autori del periodo sono nulla più che semplici lettori di ri-

viste di divulgazione, e solitamente le loro cognizioni non vanno al di

là del supplemento domenicale di un comune quotidiano; assai rara-

mente fra essi vi sono veri scienziati, nonostante qualcuno esibisca in-

genue credenziali, come per esempio Edward Elmer Smith, indiscus-

so principe della space opera degli anni Trenta, diventato famoso per

l'appellativo "Docn, anche se in realtà era soltanto un rispettabile chi-

mico, esperto semmai in azzeccate formule per l'impasto delle ciam-

belle .

Solo più tardi, verso la fine del decennio, si svilupperà un atteggia-

mento meno acritico, che guiderà la fantascienza a quella che è stata

definita una sorta di npluralità teorica", per cui vengono sistematica-

mente sfidate le impossibilità postulate dalle varie discipline scientifi-

che. La magia è impossibile? Be', ecco un testo narrativo che esplora

un mondo dove la magia funziona sul serio. La teoria della relatività

sostiene che la velocità della luce è un limite invalicabile? Ebbene, ec-

co un altro racconto che sfida questo principio. Ma questa esplorazio-

ne dei limiti teorici contraddistingue una fase successiva, innescata

dalla fantascienza di Astounding e in senso lato dell'Età d'Oro di

Campbell, quindi dovrà essere inquadrata nel decennio successivo,

nonché considerata come il primo passo verso una lenta ma graduale

riappropriazione del bagaglio speculativo e letterario della fanta-

scienza di Wells.

Dunque, I'incarnazione "popolaren della fantascienza rappresenta

per alcuni aspetti un impoverimento rispetto ai vertici raggiunti dagli

scientific romances wellsiani. Lo scrittore inglese aveva sfruttato tutte

le risorse di quella forma narrativa, trasformandola in uno strumento

sofisticato non solo per l'indagine speculativa, ma scoprendo àttraver-

so di esso la vocazione più autentica della fantascienza: quella di farsi

carico del rapporto ambiguo di un'epoca con il progresso e con la sua

mitologia, non solo nell'ambito scientifico-tecnologico, ma nella di-

mensione antropologica e sociale. Questa ambiguità veniva esplorata

in una modalità narrativa in cui rifluivano elementi apertamente di-

dascalici, ma soprattutto satirici, realistici e fantastici, dove la favola

si piegava alle esigenze dell'estrapolazione e dell'analogia.

Ma se la fantascienza delle riviste aveva preso da Wells solo il lato

più epidermico, rinunciando a ogni ambivalenza e preferendo attinge-

re a Burroughs e al ricco patrimonio di narrativa avventurosa ed es-

senzialmente formulaica dei pulp, tuttavia nel ribollente e disordinato

crogiolo degli anni Trenta - una sorta di universo all'indomani del big

bang - vi sono schegge che mostrano una diversa consapevolezza e

mantengono viva per esempio la tradizione utopico-distopica, che

riaffiorerà più consapevolmente non solo nel decennio successivo, ma

soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta.

Se questi sono gli anni in cui vengono pubblicati classici come I soli

che si scontrano (Crashing Suns) di Edmond Hamilton e Quando i

mondi si scontrano (When Worlds Collide) di Philip Wylie e Edwin

Balmer oppure i grandiosi cicli di "Skylark" e dei "Lensmen" di E. E.

UDoc" Smith, o della "Legione dello Spazio" di Williamson, sono an-

che gli stessi che salutano l'uscita di 11 mondo nuovo (Brave New

World - 1932) di Aldous Huxley, cardine della letteratura distopica e

legittimo successore della tradizione ottocentesca di Twain, London e

Wells, che non solo si proietta verso l'Orwell di 1984 e di La fattoria de-

gli animali (Animal Farm), ma estende la sua influenza fino a Vonne-

gut, Bradbury e la "social science fictionn degli anni Cinquanta. Inol-

tre sono gli anni dell'assai meno noto Swastika Night (1937) di Katha-

rine Burdekin, sorprendente escursione sul tema della cosiddetta "sto-

ria alternativan che narra di un'Europa futura dominata dai nazisti,

oppure di Le montagne della follia (At the Mountains of Madness -1936)

di H. P. Lovecraft, maestro del soprannaturale e grande visionario del-

la letteratura americana (apparso appunto su Astounding, tra l'altro,

proprio come L'ombra fuori del tempo, The Shadow Out of Time, com-

preso in questa antologia) o, ancora, il primo dei romances interplane-

tari di Clive Staples Lewis, Lontano dal pianeta silenzioso (Out of the

Silent Planet - 1938), ispirato alla mitologia medievale e di chiaro sa-

pore allegorico, e infine dell'immaginazione cosmica di un altro espo-

nente di spicco del romance scientifico, Olaf Stapledon, con Last and

First Men (1930), Q.l. 10.000 (Odd John - 1935) e 11 costruttore di stelle

(Star Maker - 1937).

E qui il cerchio si chiude, perché la narrativa cosmica, rarefatta e fi-

losofeggiante di Stapledon riflette l'immagine rovesciata della space

opera di E. E. Smith e dei suoi epigoni: gli scenari sono gli stessi, il re-

XII XIII

spiro è sempre quello delle smisurate vastità del cosmo, superuomini

e superciviltà comprese, ma mentre in Smith lo scenario galattico è

una gigantesca arena per scorribande avventurose condotte al ritmo

di un western o di un romanzo di guerra, in Stapledon è il luogo di

un'inedita speculazione intellettuale sul destino e sul ruolo dell'uma-

nità.

E in questo decennio, insomma, che la fantascienza istituisce il

grande laboratorio dove sviluppa un repertorio figurale e un intreccio

di situazioni che preparano, attraverso un'irrimediabile espansione

quantitativa e seriale, I'avvento del genere letterario che oggi cono-

sciamo. E fra il pubblico di lettori che si va formando grazie alla proli-

ferazione di riviste, facilmente sedotto dal ritmo crescente di mirabo-

lanti invenzioni, vi è già chi pochi anni dopo esordirà su quelle stesse

pagine: la prima generazione di lettori di fantascienza che diventeran-

no a loro volta autori e che, con nuovi punti di riferimento e una matu-

rata consapevolezza, saranno pronti ad ampliarne i confini.

Il viaggio continua...

Piergiorgio l~licolazzini

XIV

yl

Isaac Asimov

INTRODUZIONE

La fantascienza trova la propria voce

Non c'è accordo su dove collocare l'inizio della fantascienza. Non

mancano anime tanto ambiziose da avanzare pretese sul mito platoni-

co di Atlantide (350 a.C. circa), né anime tanto liberali da essere pronte

a includere in questo genere letterario il ciclo epico di Gilgamesh (2400

a.C. circa).

A mio parere idee simili sono prive di fondamento. La fantascienza

deve chiamare in causa nozioni scientifiche e tecnologiche, sia pure in

modo indiretto. Deve inoltre occuparsi di una società sensibilmente

diversa dalla società reale del suo tempo, e tale diversità deve dipende-

re da una differenza di livello scientifico e tecnologico. Se tutto ciò è

vero, la fantascienza non può precedere la diffusa consapevolezza del

rapporto tra scienza e tecnica da un lato, e trasformazione sociale dal-

I'altro, cioè non può precedere la rivoluzione industriale. Racconti più

antichi vanno fatti rientrare nel genere della narrativa fantastica, ben-

ché vi si possa fare menzione di viaggi sulla Luna, come nella Storia ve-

ra di Luciano di Samosata (150 d.C. circa).

Vi sono, naturalmente, anche coloro che condividono questo punto

di vista, e quindi ritengono che la fantascienza risalga ai primi decenni

del diciannovesimo secolo. In questo caso il Frankenstein di Mary Shel-

ley, scritto nel 1818, è spesso considerato il primo esempio di questo ti-

po di narrativa. Altri ritengono più giusto includere Frankenstein nella

narrativa gotica, ossia nel filone inaugurato da Horace Walpole nel

1765 con 11 castello di Otranto. Anche opere successive spesso conside-

rate tra le prime del genere fantascientifico- in particolare i racconti

di Poe e quelli di Hawthorne - potrebbero più fondatamente essere as-

segnate al genere gotico.

Una possibilità sarebbe allora quella di fare coincidere la nascita

della vera fantascienza con la pubblicazione nel 1863 di Cinque setti-

mane in pallone di Jules Verne.

Verne scrisse fantascienza senza cedere agli allettamenti del gotico;

fu inoltre il primo a scrivere quasi esclusivamente fantascienza, e a

conquistare in tal modo fama e ricchezza. 111863 appare quindi con-

vincente, come data di nascita del genere

Tuttavia anche a questa proposta può essere mossa un'obiezione. La

fantascienza, la si faccia cominciare nel 2400 a.C., nel 150 d.C., nel

1818 o nel 1863, ha sempre costituito un genere quantitativamente

minoritario nell'ambito della letteratura in generale. Ben pochi autori

hanno provato la loro mano in qualcosa che sia lecito definire "fanta-

scienza", sia pure in base al più elastico dei criteri, e ancora meno nu-

merosi sono gli autori che in tal modo hanno acquisito una certa noto-

rietà - Jules Verne e H.G. Wells essendo i primi che mi vengono in

mente, per il periodo precedente gli anni Venti.

Perché allora non porsi il problema dell'inizio della fantascienza co-

me fenomeno di massa? Quando accadde che gli autori di fantascienza

non fossero più poche unità, ma diverse decine, e poi diverse centi-

naia? Cosa ha aperto alla fantascienza la strada lungo la quale proce-

de ancora oggi, quella di un fenomeno letterario straordinariamente

popolare con molte decine di numi tutelari - basti citare Robert Hein-

lein, Arthur C. Clarke, Anne McCaffrey, Frank Herbert, Ray Bradbury,

Ursula K. Le Guin... e la modestia mi vieta di continuare?

A mio avviso la risposta alle anzidette domande sta nella nascita del

periodico di fantascienza (Magazine Science Fiction), che si può fare

coincidere col primo numero di Amazing Stories pubblicato da Hugo

Gernsback nell'aprile 1926.

Ma vi è chi si oppone strenuamente a questa tesi. Scrittori e critici

che invocano per la fantascienza una piena rispettabilità letteraria

considerano i periodici di fantascienza un "ghetto", che ha ridotto la

fantascienza e una branca della narrativa pulp (quella pubblicata per

lettori di modestissima cultura su riviste di carta scadente detta putp-

wood paper), e dissuaso gli autori "seri" dal cimentarsi in tale genere.

Vi è in questa obiezione un fondo di verità. Il novanta per cento del-

la fantascienza dei periodici consisteva in effetti in puerilità adole-

scenziali (non dimentichiamoci, però, della legge di Sturgeon: il no-

vanta per cento di qualunque cosa è spazzatura). Ciò nonostante i pe-

riodici di fantascienza sono stati un terreno fertile, in cui hanno potu-

to irrobustire le loro capacità giovani autori di talento; giovani autori

che forse, in mancanza di quei periodici, non avrebbero mai potuto in-

traprendere la carriera letteraria, o I'avrebbero intrapresa scrivendo

tutt'altro. La fantascienza "letteraria" non avrebbe mai reso popolare

il genere, anche se rese popolare alcuni grandi scrittori. Furono i pe-

riodici di fantascienza a produrre questo effetto, anche se la fanta-

scienza come genere dovette procedere carponi prima di camminare,

e camminare Drima di correre.

E quindi ingeneroso arricciare il naso davanti al periodico di fanta-

scienZa, e chi lo fa rivela un atteggiamento altezzoso e pedante. (Alcu-

ni pedanti in questione si sono fatti un nome scrivendo su periodici di

fantascienza. Così comportandosi essi corrono quindi anche il rischio

di farsi cogliere in flagrante, nello sgradevole atteggiamento di chi

morde la mano che l'ha nutrito.)

Torniamo quindi alla fantascienza apparsa su periodici. All'inizio,

neanche questo tipo di fantascienza ha avuto una vita facile. Dal mo-

mento che il genere era ancora poco popolare, e pochi scrittori vi si ci-

mentavano, non c erano abbastanza autori per mettere insieme una

rivista mensile. Nei primi numeri Gernsback dovette ripubblicare

opere di H.G. Wells e di Jules Verne, e solo poco per volta nuovi scrit-

tori furono attratti dal nascente genere letterario.

Questi nuovi scrittori erano spesso alle prime armi, quindi dotati di

risorse espressive ancora rudimentali; oppure erano collaboratori di

riviste pulp, che abbandonavano momentaneamente le loro banali sto-

rie d'avventura (o di qualsivoglia altro tipo) per tentare il nuovo filone

di narrativa popolare, avendo però nozioni scarse o inesistenti di cosa

realmente fosse la fantascienza. Di conseguenza le riviste degli anni

Venti non hanno molto da offrire sul piano della qualità.

In quel periodo, come nei periodi precedenti e seguenti, si può dire

che valesse il principio: quanto più lunga la storia, tanto migliore la

qualità. Questo, ovviamente, solo a grandi linee; le eccezioni sono nu-

merose e significative. Quindi non stupisce che uno dei migliori esem-

pi di fantascienza degli anni Venti sia The Skylark of Space, un raccon-

to apparso a puntate su Amazing Stories nel 1928.

Sfortunatamente non possiamo includere romanzi in questo elenco,

dovendo accontentarci di "romanzi brevin - ossia di racconti più lun-

ghi del normale, ma non tanto da non poter essere pubblicati su un

singolo numero di rivista. Dal momento che banali considerazioni di

spazio rendevano più facile pubblicare brevi che veri romanzi, alcuni

dei migliori autori di fantascienza di quel periodo scrissero appunto

romanzi brevi, come constateranno i lettori di questa antologia.

Fu negli anni Trenta che la fantascienza pubblicata dai periodici co-

minciò a trovare la propria voce. Anche quegli autori che mantennero

un taglio pulp - vale a dire prolisso e per certi versi grossolano - si fe-

cero più smaliziati, e pretesero dai lettori un certo impegno intellet-

tuale.

Negli anni Trenta Astounding Stories divenne rapidamente la più

importante rivista di fantascienza. Il primo numero uscì nel gennaio

del 1930, e in breve tempo la diffusione della nuova pubblicazione su-

però quella di Amazing Stories, sia perché Astounding Stories offriva

una migliore remunerazione agli autori, sia perché il suo direttore,

Harry Bates, abbandonò lo stile didascalico e la preferenza per le si-

tuazioni di azione che caratterizzavano la rivista di Gernsback. Col

numero di marzo del 1933, tuttavia, in piena Grande Depressione,

William Clayton - l'editore - fallì. La testata fu acquistata dalla casa

editrice Street & Smith, e la pubblicazione riprese col numero di otto-

bre nel 1933, sotto la direzione di F. Orlin Tremaine.

Tremaine rimase al timone per quattro anni, e il suo principale con-

tributo fu l'idea delle storie "a variante concettuale" - vale a dire delle

storie costruite su qualche ipotesi nuova e interessante, o su qualche

nuova e interessante variante di una vecchia ipotesi. Tale impostazio-

ne piacque molto ai lettori, e la rivista non rischiò mai più il fallimen-

to.

Un ottimo esempio di storia "a variante concettuale" è Bivi net tem-

po di Murray Leinster (pseudonimo di William F. Jenkins), pubblicato

da Astounding Stories nel giugno 1934. Bivi nel tempo è il primo tenta-

tivo di sviluppare il tema degli itinerari temporali indipendenti, ossia

dell'esistenza di universi che in questa o quella situazione-chiave pos-

sono imboccare una strada oppure un'altra, ciascuna strada essendo

però dotata di una propria autonoma esistenza. (Quarant'anni più tar-

di, i fisici impegnati a valutare alcuni degli aspetti più esoterici della

meccanica quantistica dovettero fare i conti con questa nozione lein-

steriana).

Un altro interessante racconto dell'era Tremaine fu Ahimè, tutto

questo pensare! scritto dal precedente direttore della rivista, Harry Ba-

tes. Ahimè, tutto questo pensare! apparve nel numero del giugno 1935

di Astounding Stories. Bates non scriveva molto, ma quello che scrive-

va era di buona qualità. Ahimè, tutto ~uesto pensare! è la terrificante

storia di una generazione evolutiva.

L'autore più in vista dell'era Tremaine fu John W. Campbell Jr. Egli

iniziò la propria carriera come autore di storie di tipo Usuperscientifi-

co", sulla falsariga di E.E. Smith, e in questo campo fu secondo solo al-

lo stesso Smith. Ma in seguito, sotto lo pseudonimo di Don A. Stuart,

cominciò a scrivere storie molto più sottili, dal contenuto assai valido

sia sul piano letterario che su quello dell'impatto emotivo. La prima

storia di questo tipo fu Crepuscolo, pubblicato da Astounding Stories

nel novembre del 1934.

Il migliore, e il più lungo, dei racconti di Stuart fu però Chi va tà?

apparso in Astounding Stories nell'agosto 1938. Chi va la? è incluso in

questa antologia, e se non l'avete mai letto vi invidio, perché è senz'al-

tro una delle storie più intelligenti e insidiosamente spaventose che vi

possa capitare di leggere. Non vi dirò nulla della trama: è senz'altro

meglio che la scopriate da voi.

Nel frattempo, però, si era verificata un'altra piccola rivoluzione.

Nel dicembre 1937, Tremaine era stato promosso a un più alto incari-

co e lo stesso John W. Campbell era diventato direttore di Astounding

Stories. Campbell si amrettò a mutare il nome della rivista in Astoun-

ding Science Fiction; cominciò inoltre a cercare autori con più solide

capacità letterarie, e in grado di descrivere più fedelmente il mondo

della scienza e il modo di lavorare degli scienziati.

Nella maggior parte dei casi, però, egli dovette ricorrere agli autori

già disponibili, cercando di stimolarli e incoraggiarli. Horace Gold

aveva scritto alcuni buoni racconti per Tremaine sotto lo pseudonimo

di Clyde Crane Campbell. Ovviamente non poteva più servirsi di quel-

lo pseudonimo nella nuova situazione. Sul numero di Astounding

Science Fiction del dicembre 1938 Gold pubblicò quindi un racconto

firmato col suo vero nome. Il racconto era Questione di for~na, incluso

nella presente antologia. Si tratta di una descrizione, notevole per rea-

lismo ed efficacia, delle avventure e disavventure di un uomo reso in-

felice, come il titolo accenna, dalla propria forma.

Un altro autore di Tremaine destinato a conquistare fama e allori fu

L. Sprague de Camp. Il suo primo racconto apparve su Astounding Sto-

ries nel dicembre 1937; fu l'inizio di una lunga collaborazione. Spra-

gue de Camp possedeva una solida preparazione in campo storico e

scientifico. Era inoltre uno dei pochi autori di fantascienza molto do-

dati di senso dell'umorismo. Trovò una tribuna a lui particolarmente

adatta quando Campbell decise di fondare una nuova rivista, da af-

fiancare a Astounding Science Fiction. La nuova rivista si chiamò Unk-

nown, e il primo numero uscì nel marzo 1939. L'idea era quella di un

periodico di racconti di genere fantastico, ma non meno rigorosi sul

piano della logica e della coerenza narrativa di quelli pubblicati in

Astounding Science Fiction.

Sprague de Camp divenne rapidamente una colonna della ri~ista, e

il suo spiritosissimo Dividi e domina, con la sua originale, ma tutt'al-

tro che assurda mescolanza di cavalleria medievale e moderna tecno-

logia, apparve nel secondo numero, datato aprile 1939.

Do ora la parola a dieci dei migliori romanzi brevi degli anni Tren-

ta.

H.P. Lovecraft

L'OMBRA FUORI DEL TEMPO

Dopo ventidue anni di incubo e terrore, salvato soltanto dalla dispera- ~r

ta convinzione della fonte mitica di certe impressioni, sono contrario a

garantire la verità di ciò che scopersi in Australia occidentale durante

la notte fra il diciassette e il diciotto luglio del 1935. Vi è motivo di spe-

rare che la mia esperienza sia stata una allucinazione totale o parziale,

per la quale le cause certamente non mancavano. Eppure, il suo reali-

smo fu così terribile che a volte mi sembra impossibile sperare.

Se la cosa è accaduta davvero, allora l'uomo deve prepararsi ad ac-

cettare nozioni del cosmo, e del suo stesso posto nel ribollente vortice

del tempo, la cui mera nozione è paralizzante. Egli deve anche essere, --

messo in guardia contro uno specifico pericolo che è in agguato, e che

pur non potendo inghiottire l'intera razza, potrebbe comportare orrori

mostruosi e inimmaginabili per taluni suoi membri particolarmente

avventurosi.

Per quest'ultimo motivo io sollecito, con tutta la forza del mio essere

di abbandonare ogni tentativo di disseppellire quei frammenti di co-

struzioni sconosciute e primitive che la mia spedizione progettava di

studiare.

Ammesso che fossi sano di mente e ben desto, la mia esperienza di

quella notte non è mai capitata a nessuno. Fu, inoltre, una spaventosa

conferma di tutto ciò che mi ero sforzato di liquidare come mito e so-

gno. Per misericordia di Dio non esistono prove, perché nel mio terrore

perdetti il temibile oggetto che - se reale e portato alla luce da quell'a-

bisso malsano - avrebbe costituito una testimonianza irrefutabile.

Quando m'imbattei per caso nell'orrore ero solo, e fino a oggi non ne

ho fatto parola con nessuno. Non potevo fermare gli altri che scavava-

no nella mia stessa direzione, ma il caso e lo spostamento della sabbia

li hanno salvati finora dal trovarlo. A questo punto sento il dovere di

formulare una dichiarazione precisa, non solo per il mio equilibrio

mentale, ma per awisare coloro che vorranno prendermi sul serio.

Queste pagine - il cui contenuto, almeno all'inizio, risulterà familia-

re ai lettori più attenti dei periodici sia scientifici che d'informazione -

le sto scrivendo nella cabina della nave che mi riporta a casa. Le darò a

mio figlio, il professor Wingate Peaslee, della Miskatonic University,

I'unico membro della mia famiglia che mi sia stato vicino dopo la stra-

na amnesia di molto tempo fa, e l'uomo più informato sugli aspetti più

intimi del mio caso. Di tutte le persone che conosco egli è la meno pro-

pensa a ridicolizzare quanto narrerò di quella notte funesta.

Non l'ho informato verbalmente dei fatti prima di salpare, perché

penso che per lui sia meglio essere messo al corrente per iscritto. Una

comoda lettura e rilettura gli lascerà un quadro più convincente di

quanto potrebbe fare la mia parola confusionaria.

Di questo resoconto farà ciò che meglio crede; potrà rivelarlo, con un

commento idoneo, in qualsiasi campo possa fare del bene. Per amore di

quei lettori non al corrente delle fasi iniziali del mio caso, faccio prece-

dere la rivelazione da un ampio riassunto degli antefatti.

Mi chiamo Nathaniel Wingate Peaslee, e coloro che rammentano le

cronache apparse suoi giornali una generazione fa - o le lettere e gli ar-

ticoli in riviste di psicologia di sei o sette anni addietro- sapranno

qualcosa di me. La stampa fu piena dei particolari della mia misteriosa

amnesia fra il 1908 e il 1913, e si fece un gran parlare delle tradizioni di

orrore, follia, stregoneria che covavano dietro la facciata di normalità

della cittadina del Massachusetts in cui abitavo, e abito anche adesso.

Tengo a precisare che non v'è traccia di pazzia o di episodi inquietanti

nella mia parentela e vita giovanile. E un fatto importantissimo, in re-

lazione all'ombra che calò d'improvviso su di me per ragioni del tutto

esteme.

Può darsi che secoli di oscure leggende abbiano conferito ad Arkham,

città vecchissima e piena di superstiziose dicerie, una speciale vulnera-

bilità a tali ombre, benché anche questo appaia dubbio alla luce degli

altri casi che studiai in seguito. Ma il punto essenziale è che il mio cep-

po e il mio passato sono del tutto normali. Ciò che accadde viene da

qualche altra parte; da dove, ancor oggi esito a dichiararlo esplicita-

mente.

Sono il figlio di Jonathan e Hannah (Wingate) Peaslee, entrambi di

sana, vecchia stirpe di Haverhill. Io nacqui e crebbi a Haverhill nella

vecchia fattoria di Boardman Street presso Golden Hill, e non andai ad

Arkham fin quando non entrai alla Miskatonic University come lettore

di economia politica nel 1895.

Per altri tredici anni la mia vita scorse piana e felice. Sposai Alice

Keezar di Haverhill nel 1896, e i tre figli, Robert, Wingate e Hannah

nacquero rispettivamente nel 1898,1900 e 1903. Nel 1898 divenni pro-

fessore aggiunto e nel 1902 professore di ruolo. Mai provai il minimo

nteresse per l'occultismo o la psicopatologia.

Fu il giovedì quattordici maggio 1908 che ebbe inizio la strana amne-

sia. La cosa fu improvvisa, sebbene in seguito mi rendessi conto che

certe visioni brevi e luminose di parecchie ore prima - visioni caotiche

che mi agitarono moltissimo perché erano senza precedenti - ne dove-

vano avere costituito i sintomi premonitori. Mi doleva la testa e avevo

strane sensazioni - del tutto nuove per me - come se qualcun altro ten-

tasse di impossessarsi dei miei pensieri.

Il crollo avvenne verso le dieci e venti di mattina, mentre stavo te-

nendo una lezione del VI corso di Economia Politica- storia e attuali

tendenze della scienza economica - per gli studenti del primo anno e

qualcuno del secondo. Strane forme cominciarono a danzarmi davanti

agli occhi, e mi sembrò di essere in una stanza bizzarra, diversa dal-

l'aula in cui mi trovavo.

Pensieri e parole presero a divagare, e gli studenti si accorsero che

qualcosa di grave stava accadendo. Poi mi accasciai privo di sensi sulla

sedia, in uno stato di torpore dal quale nessuno fu capace di scuotermi.

Né le mie normali facoltà tornarono a vedere la luce del nostro mondo

per cinque anni quattro mesi e tredici giorni.

Naturalmenté fu da altri che appresi il seguito. Per sedici ore e mezzo

non diedi segni di riprendere conoscenza, benché mi avessero riportato

a casa in Crane Street ventisette e mi avessero prestato le migliori cure

mediche.

Alle tre del mattino del quindici maggio, riaprii gli occhi e cominciai

a parlare, ma ben presto il dottore e la famiglia si spaventarono a mor-

te per la mia espressione e il mio modo di esprimermi. Fu chiaro che

non ricordavo nulla della mia identità e del mio passato, sebbene per

qualche motivo sembrassi ansioso di nascondere questa circostanza.

Guardavo in modo strano le persone intorno a me, e i movimenti dei

miei muscoli facciali erano fuori dal normale.

Anche nel mio modo di comunicare c'era qualcosa che non andava.

Usavo gli organi vocali in modo sgraziato e incerto e la dizione aveva

caratteristiche ampollose, come se avessi appreso la lingua inglese dai

libri e con grande sforzo. La pronuncia era barbaramente estranea, e il

lessico era pieno di strani arcaismi ed espressioni pressoché incom-

prensibili.

Tra queste ultime, una in particolare fu ricordata - con precisione e

angoscia - dal più giovane dei medici per oltre vent'anni. Perché in

quel periodo tale frase cominciò a prendere piede - prima in Inghilter-

ra e poi negli Stati Uniti - e benché complessa e indiscutibilmente nuo-

va essa riproduceva in ogni minimo particolare le parole dello strano

paziente di Arkham, che avevano disorientato la gente nel 1908.

La forza fisica mi tornò subito, benché necessitassi di una notevole

quantità di rieducazione all'uso delle mani, delle gambe e del corpo in

generale. Per questo e per altre perduranti difficoltà connesse col vuoto

di memoria, fui tenuto per un certo tempo sotto strette cure mediche.

Quando mi avvidi che i tentativi di nascondere l'amnesia erano falli-

ti la confessai apertamente e così fui libero di attingere notizie di ogni

genere. Infatti, sernbrò ai medici che io avessi perduto interesse per la

mia vera personalità, non appena avevo scoperto che l'amnesia veniva

accettata come un fatto naturale.

Fu notato che i miei sforzi principali si indirizzavano verso l'appro-

fondimento di certi argomenti della storia, della scienza, dell'arte, del-

la lingua e del folklore alcuni terribilmente astrusi, altri di una sempli-

cità puerile; tuttavia quegli sforzi restarono al di fuori della mia co-

scienza, alrneno in molti casi.

Fu anche notato che possedevo una padronanza inspiegabile di mol-

te cognizioni quasi sconosciute, una padronanza che tendevo non a esi-

bire ma a nascondere. Solevo riferirmi, con noncurante sicurezza, ad

avvénimenti di epoche oscure, al di fuori del campo della storia cono-

sciuta, facendo poi passare questi riferimenti per uno scherzo quando

mi accorgevo della sorpresa che causavano. E quanto al futuro, ne par-

lavo in tal modo che due o tre volte fui causa di vero e proprio spavento.

Queste misteriose alterazioni della coscienza cessarono presto, an-

che se certi osservatori ne imputarono la scomparsa più a prudenza da

parte mia che ad autentica mancanza di congnizioni. Infatti, dimostra-

vo una insolita avidità nell'assorbire lingua, usanze e concezioni del-

I'epoca in cui mi trovavo, come se fossi stato uno studioso in viaggio,

proveniente da una lontana terra straniera.

Appena mi fu permesso, frequentai la biblioteca universitaria a tutte

le ore, e in breve cominciai a far progetti per gli strani viaggi e gli spe-

ciali corsi delle università americane ed europee che sollevarono tanti

commenti negli anni successivi.

Non soffrii mai per la mancanza di contatti eruditi, perché il mio ca-

so clinico mi era valso una certa celebrità fra gli psicologi dell'epoca.

Furono tenute varie conferenze su di me come caso tipico di sdoppia-

mento della personalità, anche se di tanto in tanto misi in imbarazzo i

conferenzieri con bizzarri sintomi o con ironiche allusioni, opportuna-

mente velate.

Di vera cordialità, però, ne incontrai poca. Qualcosa nel mio aspetto

e nel mio modo di parlare suscitava vaghi timori e avversioni in quelli

che incontravo, come se fossi stato enormemente lontano da tutto ciò

che sapeva di normalità e salute. L'idea di un orrore nascosto, collegato

con insondabili abissi, con una strana distanza, era singolarmente dif-

fusa e radicata.

La mia stessa famiglia non fece eccezione. Dal momento del mio ri-

sveglio~ mia moglie mi aveva considerato con estremo orrore e disgu-

sto, giurando che ero un illustre sconosciuto, e che usurpavo il corpo di

suo marito Nel 1910 ottenne il divorzio e non volle mai più vedermi,

ppUre dopo il mio ritorno alla normalità nel 1913. Tali sentimenti fu-

15

rono condivisi da mio figlio maggiore e dalla figlia minore, che da al-

lora non ho più veduti.

Solo il secondogenito, Wingate, fu in grado di vincere il terrore e la

repulsione che il mio cambiamento tendeva a suscitare. In effetti, mi

sentiva estraneo, ma pur avendo solo otto anni si aggrappò all'idea che

il mio io normale sarebbe tornato. E quando fui di nuovo me stesso, lui

mi cercò, e il tribunale mi affidò la custodia del ragazzo. Negli anni

successivi egli mi aiutò negli studi dai quali mi sentivo attratto e oggi,

a trentacinque anni, è professore di psicologia alla Miskatonic Univer-

sity.

Non mi meraviglio, però, della diffidenza che suscitai, perché certo

la mente, la voce, I'espressione della faccia dell'individuo che si svegliò

il quindici maggio 1908 non erano quelle di Nathaniel Wingate Pea-

slee.

Non tenterò di raccontare molto della mia vita tra il 1908 e il 1913,

perché i lettori possono raccogliere tutte le notizie essenziali alla luce

del sole - come dovetti fare io stesso abbondantemente - dagli archivi

dei giornali e dalle riviste scientifiche.

Mi fu consentito di disporre del mio denaro, e lo spesi con parsimo-

nia e nel complesso saggiamente, in viaggi e seminari presso vari centri

di cultura. Anche nei miei viaggi, comunque, le bizzarrie non mancaro-

no, e presero la forma di visite prolungate a luoghi remoti e desolati.

Nel 1909 passai un mese sull'Himalaya e nel 1911 destò molto inte-

resse una gita in cammello che feci negli sconosciuti deserti d'Arabia.

Che cosa mi accadde in quei viaggi non sono mai riuscito a saperlo.

Durante l'estate del 1912 noleggiai una nave e salpai verso l'Artico, a

nord di Spitzbergen, mostrando al ritomo segni di delusione.

Più avanti nello stesso anno trascorsi settimane solitarie addentran-

domi nei vasti sistemi di caverne calcaree della Virginia occidentale,

oscuri labirinti così complicati che non si osò neanche tentare di rico-

struire il cammino da me seguito.

La mia permanen~a presso varie università fu caratterizzata da una

assimilazione di rapidità anomala, come se la mia seconda personalità

possedesse una intelligenza di gran lunga superiore al normale. Ho

inoltre scoperto che il mio ritmo di letture e studi solitari fu fenomena-

le. Apprendevo ogni dettaglio di un libro con una semplice occhiata e

sfogliando velocemente le pagine, mentre la mia abilità nell'interpre-

tare figure complesse in un baleno faceva veramente paura.

A volte comparvero resoconti piuttosto sgradevoli sulla mia capacità

di influenzare i pensieri e le azioni altrui, per quanto avessi avuto l'ac-

cortezza di non fare mai sfoggio di tale facoltà.

Altri sgradevoli resoconti riguardarono la mia intimità con i capi di

certi gruppi di occultisti, e con studiosi sospettati di legami con bande

innominabili di odiosi ierofanti del Vecchio Mondo. Queste voci, ben-

ché mai confermate a quel tempo, furono senza dubbio corroborate dal

tenore di certe mie letture; infatti la consultazione di alcuni libri rari

nelle biblioteche non avvenne in segreto.

Esistono prove tangibili - sotto forma di note a margine - del fatto

che lessi attentamente libri come Cuttes des Goules del Conte di Erlette,

De Vermis Mysteriis di Ludwig Prinn, Unaussprechlichen Kulten di Von

Junzt, i frammenti dell'enigmatico Libro di Eibon e lo spaventoso Ne-

cronomicon dell'arabo pazzo Abdul Alhazred. Però è anche innegabile

che al tempo della mia strana trasformazione si assisté a una singolare

recrudescenza di culti macabri.

Nell'estate del 1913 cominciai a manifestare segni di noia e di calo di

interesSe, e accennai a vari conoscenti che presto bisognava attendersi

un imminente cambiamento in me. Parlai di episodi della mia vita pas-

sata che riemergeva dall'oblio anche se molti astanti mi giudicarono

insincero perché i ricordi che comunicai furono casuali, e tali che pote-

vano essere stati attinti da vecchie carte private.

Verso la metà di agosto tornai ad Arkham e riaprii la casa di Crane

Street, che era rimasta chiusa a lungo. Là installai un congegno di

aspetto assai strano le cui parti erano state costruite da diversi fabbri-

canti di apparecchi scientifici d'Europa e d'America che tenni accura-

tamente nascosto alla vista di chiunque avrebbe potuto comprenderne

il funzionamento. Coloro che effettivamente lo videro - un operaio, un

domestico e la nuova governante- dicono che fosse uno strano miscu-

glio di barre, ruote e specchi, alto non più di una sessantina di centime-

tri, largo trenta e profondo altrettanto. Lo specchio centrale era circo-

lare e convesso. Ciò fu confermato da quei fabbricanti che riuscii a rin-

tracciare.

La sera di venerdì ventisei settembre misi in libertà la governante e

la ca,meriera fino a mezzogiorno dell'indomani. Nella casa le luci resta-

rono accese fino a tarda ora, e arrivò in automobile un uomo magro,

bruno, dall'aspetto straniero.

Era l'una del mattino quando le luci accese furono viste per l'ultima

volta. Alle due e un quarto un poliziotto osservò la casa ormai buia, ma

l'auto dello sconosciuto era ancora lungo il bordo del marciapiede. Alle

quattrO l'auto non c'era più.

Alle sei una voce esitante dall'accento straniero chiese per telefono

che il dottor Wilson si recasse a casa mia, per risvegliarmi da uno stra-

no svenimento Quella chiamata -interurbana - fu poi rintracciata co-

me proveniente da una cabina pubblica della Stazione Nord di Boston,

ma lo straniero bruno non fu mai più visto.

L~ Quando il medico arrivò a casa mia mi trovò svenuto in soggiorno, in

una poltrona davanti alla quale era stato trascinato un tavolo. Sul pia-

i no levigato c'erano graffl, segno che vi era stato posato un oggetto pe-

sante. Lo strano congegno era sparito e non se ne seppe più nulla. In-

ubbiamente l'aveva portato via il bruno forestiero.

17

Nel caminetto della biblioteca vi erano abbondanti ceneri, evidente-

mente lasciate dalla combustione dei residui di fogli di appunti su cui

avevo scritto dall'inizio la storia dell'amnesia. Il dottor Wilson mi tro-

vò la respirazione molto alterata, ma dopo una iniezione ipodermica

essa divenne più regolare.

Alle undici e un quarto del ventisette settembre mi agitai energica-

mente e la mia faccia, fino a quel momento simile a una maschera, di-

ventò un po' più espressiva. Il dottor Wilson notò che l'espressione non

era quella della mia seconda personalità, ma rassomigliava molto al

mio aspetto precedente. Verso le undici e mezzo mormorai alcune stra-

nissime sillabe, che non sembravano appartenere a una qualsiasi lin-

gua umana. Diedi anche segni di stare lottando contro qualcosa. Poi,

appena passato mezzogiorno - frattanto erano rientrate governante e

cameriera - tornai a esprimermi in inglese.

«...tra i principali economisti di quel periodo Jevons incarna la cor-

rente più propensa al collegamento con le altre branche della scienza.

Il suo tentativo di correlare i cicli di prosperità e depressione del com-

mercio con i cicli fisici delle macchie solari rappresenta probabilmente

l'apice di...«

Nathaniel Wingate Peaslee era tornato, e il suo calendario interno

era fermo al giovedì mattina del 1908, con gli studenti del corso di eco-

nomia che fissavano attenti la logora cattedra sulla piattaforma.

L'adattamento alla vita normale fu per me un processo penoso e diffici-

le. L'oblio di oltre cinque anni della propria vita crea più complicazioni

di quanto si possa immaginare, e nel mio caso i guasti cui porre rime-

dio erano innumerevoli.

Ciò che udii a proposito del mio comportamento dal 1908 in poi mi

stupì e mi turbò, ma tentai di prendere la faccenda con la maggior filo-

sofia possibile. Infine, riottenuto l'affidamento del secondogenito Win-

gate, mi stabilii con lui nella casa di Crane Street e mi sforzai di ripren-

dere l'insegnamento. Mi fu infatti offerto di nuovo il posto di professore

universitario che già mi era appartenuto.

Cominciai a insegnare nel febbraio 1914 e tenni l'incarico per un an-

no. A quel punto mi accorsi di quanto mi avesse danneggiato l'espe-

rienza dell'amnesia. Benché perfettamente integro - almeno così spe-

ravo--e senza lacune nella mia personalità originaria, non avevo più

I'energia nervosa dei vecchi tempi. Sogni confusi e strane idee mi tor-

mentavano di continuo, e quando lo scoppio della guerra mondiale mi

fece rivolgere l'attenzione alla storia, mi ritrovai a pensare a periodi e

avvenimenti di natura stranissima.

La mia percezione del tempo - la capacità di distinguere tra succes-

sione e simultaneità - era alterata in modo indefinibile, sì che assurda-

mente mi pareva di vivere in un'unica epoca, e di poter spaziare con la

mente sull'eternità per conoscere le epoche passate e quelle future.

La guerra mi suscitò strane impressioni di ricordare certe remote

conseguenze future; come se sapessi lo svolgimento degli eventi e po-

tessi guardare indietro verso i loro esiti. Questi quasi-ricordi li seguivo

con gran dolore, e con la sensazione che esistesse una barriera artificia-

le, psicologica a dividerci.

Quando, con circospezione, parlai ad altri di queste mie impressioni

ne ricevetti risposte disparate. Alcune persone mi guardarono con disa-

gio, ma gli esperti di matematica parlarono di nuovi sviluppi della teo-

ria della relatività, teoria destinata in seguito a diventare così famosa.

Il dottor Albert Einstein, dissero, stava per ridurre il tempo a una mera

dimensione.

E Ma sogni e sensazioni inquietanti ebbero il sopravvento su di me, co-

sicché dovetti abbandonare il mio lavoro regolare nel 1915. Fui certo

che le impressioni stavano assumendo una forma insidiosa, dandomi

la continua idea che l'amnesia avesse comportato una qualche forma

sacrilega di scambio, che la seconda personalità fosse stata in realtà

una forza impostasi da regioni sconosciute, e che la mia vera personali-

tà avesse sofferto per la sostituzione.

Da ciò fui indotto a meditazioni confuse e spaventose, circa lo stato

del mio vero io durante gli anni in cui un altro aveva controllato il mio

corpo. Le misteriose cognizioni e la strana condotta dell'inquilino del

mio corpo mi preoccuparono ancora di più quando appresi ulteriori

particolari da persone, giornali e riviste.

Stranezze che avevano confuso i più parevano armonizzarsi terribil-

mente con certe oscure cognizioni che mi avvelenavano il subconscio

nel profondo. Presi a ricercare febbrilmente qualsiasi scampolo di noti-

zia che si riferisse a studi e viaggi dell'altro me stesso durante gli anni

bui.

Non tutti i miei guai furono altrettanto astratti. Vi furono i sogni che

crebbero in vivezza e concretezza. Sapendo come sarebbero stati giudi-

~, cati da molti, ne parlavo di rado con gli estranei, ma feci una eccezione

on mio figlio e con certi psicologi di fiducia. Alla fine, però, decisi di

~liziare uno studio sistematiCo di altri casi, per vedere se certe visioni

j~i~ssero tipiche o meno tra le vittime dell'amnesia.

~' Fui aiutatO da psicologi, storici, antropologi e psichiatri di grande

i~sperienza~ e da studi che comprendevano tutte le documentazioni di

~OppiamentO di personalità, dai tempi delle leggende su presunti casi

F possessione demoniaca fino al presente confortato da accertamenti

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medici; quanto ai risultati, però, questi mi preoccuparono più che con-

solarmi.

In breve appresi che i miei sogni quasi non trovavano riscontro nel

vasto repertorio dei casi di amnesia. Rimase, tuttavia, un'esigua mino-

ranza di casi che per anni mi angustiò e mi impressionò per le analogie

con la mia esperienza. Alcuni erano frammenti di antico folklore, altri

casi clinici negli annali della medicina; uno o due erano aneddoti ri-

portati quasi di sfuggita in opere di storia.

Scopersi così che, se la mia particolare affezione era prodigiosamen-

te rara, esempi di amnesia si erano registrati a lunghi intervalli fin dal-

l'inizio della storia umana. In certi secoli se ne contavano uno, due o tre

casi, in altri nessuno - o almeno nessuno di cui fosse rimasta traccia.

L'elemento essenziale era sempre lo stesso: una persona di normale

intelligenza veniva carpita da una seconda vita misteriosa e portata a

trascorrere una esistenza assolutamente estranea, per un periodo più o

meno lungo; una esistenza caratterizzata all'inizio da una goffaggine

dei movimenti e della parola, poi da una massiccia acquisizione di no-

zioni scientifiche, storiche, artistiche e antropologiche, acquisizione

portata avanti con zelo febbrile e con un potere ricettivo anormale. Se-

guiva un improvviso ritomo alla coscienza normale, tormentata in mo-

do intermittente da oscuri sogni non classificabili, che richiamavano

alla mente frammenti di ricordi confusi ma estremamente inquietanti.

E la stretta somiglianza di tali incubi con i miei - persino nei minimi

particolari - non mi lasciò dubbi sulla loro natura tipica. Uno o due ca-

si avevano un legame in più, di tenue, blasfema familiarità come se fos-

si già giunto a conoscerli attraverso vie cosmiche troppo strane e spa-

ventose da contemplare. In tre casi vi era un accenno specifico a una

macchina sconosciuta, apparentemente assai simile al congegno che

avevo in casa prima del secondo cambiamento.

Un'altra cosa che mi turbò durante le mie ricerche fu la maggior fre-

quenza di casi in cui una breve, fuggevole visione dei tipici incubi si

presentava a persone non colpite da una vera e propria amnesia.

Tali persone erano di intelligenza mediocre o al di sotto della media,

e a volte così rozze da non far pensare che potessero essere veicoli di

erudizione anormale e di acquisizioni mentali soprannaturali. Si ac-

cendevano per un attimo di energia estranea; poi una brusca ricaduta e

un vago ricordo di orrori disumani, presto svanito.

Vi furono almeno tre casi siffatti negli ultimi cinquant'anni, uno solo

quindici anni fa. Qualcosa aveva forse vagato alla cieca attraverso il

tempo venendo da qualche insospettato abisso cosmico? Quei casi era-

no forse esperimenti mostruosi e sinistri di una specie e di una paterni-

tà al di là di ogni sana immaginazione?

Erano quelle alcune delle confuse speculazioni che turbavano le mie

ore di riposo, fantasie favorite da miti scoperti durante i miei studi.

Non potevo infatti dubitare che certe leggende di immemore antichità,

evidentemente ignote a medici e pazienti e collegate ai recenti casi di

amnesia, costituissero una impressionante e temuta elaborazione di

vuoti di memoria come il mio.

Quanto alla natura dei sogni e delle impressioni che crescevano in

me così celermente, ancora ho quasi timore a parlarne. Avevano un sa-

pore di pazzia, e alle volte mi rassegnavo all'idea di stare uscendo di

senno. Vi era un genere speciale di allucinazione che affliggeva coloro

che erano stati colpiti da un vuoto di memoria? Si poteva ipotizzare

che gli sforzi del subconscio per riempire un vuoto angoscioso con

pseudo-ricordi avessero dato origine a misteriose divagazioni fantasti-

che?

In effetti proprio questa fu l'opinione di molti alienisti che mi aiuta-

rono nella ricerca di casi simili al mio, e che condivisero le mie perples-

sità di fronte alle rassomiglianze esatte che scoprii, anche se una spie-

gazione basata sul folklore mi apparve alla fine più plausibile.

Gli alienisti non definirono la mia condizione come pazzia pura e

semplice ma la classificarono piuttosto tra i disordini neuropatici. Il

mio impegno nel cercare di delinearla e analizzarla invece di tentare

invano di liberarmene o di dimenticarla, fu da essi caldamente inco-

raggiato, come un giusto indirizzo terapeutico comforme ai più recenti

indirizzi psicologici. Apprezzai in particolar modo il consiglio di quei

medici che mi avevano tenuto sotto controllo nel periodo in cui ero sta-

to posseduto dall'altra personalità.

I miei primi disordini mentali non furono visivi, ma riguardarono le

questioni più astratte che ho già menzionato. Vi fu anche un senso di

repulsione profonda e inspiegabile verso me stesso. Fui preso da uno

strano timore di guardare la mia figura, come se gli occhi vi scoprissero

qualcosa di completamente estraneo e orribile.

Quando poi mi specchiavo e vedevo le mie consuete sembianze ba-

nalmente vestite di grigio o di blu, provavo uno strano sollievo benché

per arrivarci dovessi vincere un disagio indescrivibile. Evitavo gli

specchi e mi facevo radere sempre dal barbiere.

Ci volle parecchio tempo perché collegassi queste sensazioni con le

fugaci impressioni visive che cominciarono a prodursi. La prima corre-

lazione ebbe a che fare con la misteriosa sensazione di um controllo

:I esternO e artificiale sulla mia memoria.

~ Ero certo che i frammenti di visioni che mi turbavano avessero un si-

|; ~nificato profondo e terribile e uno spaventoso rapporto con me stesso,

~ma che una influenza tenace mi trattenesse dall'afferrare quel signifi-

ato e quel rapporto. Poi sopravvenne la bizzarria dell'elemento tem-

_ o, e con essa i disperati sforzi per collocare le fugaci immagini di sogni

_ ammentari in uno schema cronologico e spaziale.

~Le immagini stesse furono dapprima più strane che orribili. Mi pare-

va di essere in una enorme stanza a volta i cui possenti costoloni in pie-

tra si perdevano quasi tra le ombre sovrastanti. In qualunque tempo o

luogo si svolgesse la scena, il principio dell'arco era tanto noto e tanto

usato quanto al tempo degli antichi Romani.

Vi erano colossali, alte finestre rotonde, porte ad arco e piedistalli e

tavole tanto alti quanto una stanza no}male. Grandi scaffali di legno

scuro tappezzavano le pareti, pieni di volumi di dimensioni mostruose,

con strani geroglifici sul dorso.

Le pareti libere contenevano strane incisioni, consistenti in disegni

curvilinei simili a grafici di funzioni matematiche e in iscrizioni cesel-

late costituite dai medesimi caratteri dei grossi libri. La costruzione in

granito scuro era di tipo megalitico, mostruosamente grande e con file

di blocchi convessi in alto che si adattavano perfettamente alle file con-

cave in basso che vi stavano sopra.

Non c'erano sedie, ma la superficie dei grandi piedistalli era ingom-

bra di libri, carte, materiale per scrivere, o che sembrava tale: recipien-

ti di metallo purpureo decorati da strane figure e bacchette dalle punte

colorate. Per quanto fossero alti, io riuscivo a vedere quei piedistalli co-

me se li sovrastassi. Su alcuni vi erano luminosi globi di cristallo che

servivano da lampade, e macchine incomprensibili formate da condot-

ti trasparenti e sbarre di metallo.

Le finestre erano munite di vetri e di solide sbarre. Benché non osas-

si avvicinarmi e guardare fuori, dá dove ero vidi cime ondeggianti di

vegetali simili a felci. Il pavimento era fatto di solide lastre di pietra ot-

tagonali, e non vidi né tappeti né quadri.

In seguito, ebbi visioni in cui volteggiavo per ciclopici corridoi di

pietra, e su e giù per piani inclinati giganteschi fatti dello stesso mate-

riale. Non esistevano scale, né passaggi più stretti di dieci metri. Certe

strutture per le quali fluttuai dovevano alzarsi verso il cielo per mi-

gliaia di metri.

Verso il basso vi erano molteplici piani di nere volte e botole sigillate

da strisce di metallo che sembravano non venire mai aperte, e che da-

vano una sensazione di particolare pericolosità.

Mi pareva di essere prigioniero, e l'orrore emanava da tutto quello

che vedevo. Intuivo che i geroglifici curvilinei sulle pareti mi avrebbe-

ro distrutto l'anima con il loro messaggio, se non mi fossi trincerato

dietro una misericordiosa ignoranza.

Più tardi i sogni mi portarono visioni, attraverso grandi finestre ro-

tonde e oltre immensi tetti piatti, di curiosi giardini, di ampie zone ari-

de e di parapetti di pietra alti e smerlati, ai quali conduceva il più ele-

vato dei piani inclinati.

Vi erano distese apparentemente infinite di edifici giganteschi, cia-

scuno col suo giardino, allineati lungo vie lastricate, larghe almeno ses-

santa metri. Gli edifici differivano molto l'uno dall'altro, ma pochi mi-

suravano meno di duecento metri di lato. Alcuni parevano così enormi

che dovevano avere una facciata di diverse centinaia di metri, mentre

altri svettavano ad altezze indicibili nel cielo grigio e caliginoso.

Parevano fatti principalmente di pietra o calcestruzzo, e la maggio-

ranza comprendeva lo strano tipo di costruzione curvilinea che avevo

notato nell'edificio in cui mi trovavo. I tetti erano piatti e coperti da

giardini, e avevano i soliti parapetti smerlati. Talvolta vi erano nume-

rose terrazze all'inizio e ampi spazi liberi fra i giardini. Nelle grandi

strade c'era poco movimento, ma nelle prime visioni non riuscii a di-

stinguere i dettagli.

In alcuni luoghi vidi enormi torri scure e cilindriche che si elevavano

ben oltre le altre costruzioni. Si rivelarono di una natura unica, e mo-

strarono segni di vetustà e rovina che avevano del prodigioso. Erano

costruite con uno strano genere di basalto tagliato in quadrati, e leg-

germente affusolate verso la cima arrotondata. In esse non vi erano

tracce di finestre o di altre aperture, eccezion fatta per certi enormi

portoni . Notai anche degli edifici più bassi - butterati da eoni di intem-

perie - che rassomigliavano a quelle torri scure e cilindriche nell'archi-

tettura di base. Attorno a tutte quelle costruzioni particolarmente vec-

chie e di forma cilindrica aleggiava una impalpabile atmosfera di mi-

naccia e di paura concentrata, simile a quella sospesa sopra le botole

ermetiche.

Gli onnipresenti giardini erano quasi terrificanti nella loro stranez-

za, con forme bizzarre e sconosciute di vegetazione che s'incurvavano

su larghi sentieri, affiancati da monoliti decorati da incomprensibili

bassorilievi. Cespugli simili a felci, di una grandezza abnorme, erano

predominanti - alcuni verdi, altri di un pallore diafano, spettrale.

Tra questi sorgevano grandi cose fantomatiche, simili a enormi equi-

seti i cui tronchi simili a bambù torreggiavano fino ad altezze vertigi-

nose. Vi erano poi forme fronzute che ricordavano favolose cicadee,

f, bizzarre macchie verde cupo e alberi simili a conifere.

I fiori erano piccoli, incolori, di specie mai viste, in aiuole geometri-

che e in genere in mezzo al verde.

In qualche terrazza e nei giardini pensili germogliavano fiori più

grandi e più vivaci, dai contorni quasi offensivi, sì da far pensare a una

Q~ltivazione artificiale. Funghi di dimensioni, contorni e colori inim-

' 3 ~aginabjlj punteggiavano lo scenario con esemplari che testimoniava-

una sconosciuta, venerabile tradizione di orticoltura. Nei giardini

~p grandi vi era stato un tentativo di imitare la capricciosità della na-

a, ma sui tetti era stata fatta una maggiore selezione e vi erano più

_ timonianze dell'impiego dell'arte della potatura.

~ cielo era quasi sempre nuvoloso e umido, e talvolta si verificarono

_ pe Piogge torrenziali. Ogni tanto, però, vi erano sprazzi di sole, un

~ che pareva enormemente grande. Qualche volta vidi anche la luna,

i cui mari avevano sfumature diverse dal normale, che non riuscii mai

a identificare precisamente. Quando - molto di rado - il cielo notturno

era sereno vedevo costellazioni quasi irriconoscibili. In alcuni casi ri-

scontrai una certa somiglianza, mai una vera identità. Dalla posizione

dei pochi gruppi che identificai, stimai di trovarmi nell'emisfero terre-

stre meridionale, presso il Tropico del Capricorno.

~1 lontano orizzonte era sempre pieno di vapori indistinti, ma vidi

estensioni, fuori dalla città, di grandi giungle di felci sconosciute, di le-

pidodendri e di sigillariacee, le cui fronde fantastiche ondeggiavano

maliziose nei vapori vaganti. Di tanto in tanto qualcosa sembrava

muoversi nel cielo, ma in quelle prime visioni non distinsi nulla di più

chiaro.

Verso l'autunno del 1914, cominciai ad avere rari sogni in cui fluttua-

vo sopra la città e le regioni circostanti. Vedevo strade interminabili in

mezzo a foreste di paurosa vegetazione con alberi dai tronchi chiazzati,

scanalati e rigati, e in lontananza altre città misteriose come quella che

insistentemente mi tormentava.

Vidi mostruose costruzioni di pietra nera o iridiscente in radure e

spiazzi dove regnava un'eterna penombra, e traversai lunghe strade

rialzate sopra acquitrini tanto scuri che non distinsi la loro umida, ri-

gogliosa vegetazione.

Una volta vidi una zona che si estendeva per innumerevoli chilome-

tri, cosparsa di rovine basaltiche corrose dal tempo, la cui architettura

ricordava le torri senza finestre e dalla sommità arrotondata della città

che mi tornava continuamente nelle visioni.

E una volta vidi il mare - una estensione senza limiti densa di vapo-

ri, al di là delle colossali banchine di pietra di una enórme città tutta

cupole e archi. Grandi, informi ombre si muovevano in alto, e qua e là

la superficie si agitava in modo strano.

Come ho detto, quelle visioni barbare non assunsero subito le loro ter-

ribili caratteristiche. Certamente molte persone hanno sognato cose

intrinsecamente più strane, cose composte da brandelli sconnessi di vi-

ta quotidiana, di immagini e di letture, riunite sotto forma di romanzo

fantastico dagli incontrollati capricci del sonno.

Per un certo tempo accettai quelle visioni come naturali, benché in

precedenza non fossi stato mai un sognatore stravagante. Molte ano-

malie oscure, mi persuasi, dovevano provenire da fonti banali, troppo

numerose per distinguerle; mentre altre parevano riflettere una comu-

ne nozione scolastica della flora e di altre condizioni esistenti nel no-

stro mondo circa centocinquanta milioni di anni fa - nei periodi noti

come Permiano e Triassico.

Nel corso di alcuni mesi, però, l'elemento terrificante comparve con

forza rinnovata. Fu quando i sogni assunsero un indubbio aspetto di ri-

cordi, e quando la mia mente cominciò a collegarli con le mie crescenti

inquietudini, con la sensazione di controllo mnemonico, con la strana

impressione sul tempo, col senso di disgusto provato durante lo scam-

bio con la mia seconda personalità del periodo 1908-1913, e molto più

tardi con l'inesplicabile disgusto per la mia stessa persona.

Quando certi precisi dettagli cominciarono a entrare nei sogni, il lo-

ro orrore crebbe mille volte, finché nell'ottobre 1915 sentii che dovevo

fare qualcosa. Fu allora che intrapresi uno studio tenace di altri casi di

amnesia e di visioni, pensando che così facendo avrei oggettivato i miei

disturbi e mi sarei liberato delle emozioni che mi dominavano.

Tuttavia, come accennato prima, il risultato fu all'inizio pressoché

opposto. Mi sconvolse scoprire che i miei sogni si erano verificati in al-

tri in modo affine, tanto più che certi soggetti erano troppo giovani per

pensare che avessero nozioni geologiche - e quindi un'idea di come si

presentassero i paesaggi preistorici.

E ciò che più conta, molti resoconti fornirono terribili particolari e

spiegazioni in rapporto con le visioni di grandi edifici e giardini simili

a giungle e altre cose. Erano già preoccupanti le visioni e le confuse im-

pressioni, ma quanto accennarono o asserirono alcuni dei sognatori sa-

peva di pazzia e di empietà. Peggio di tutto, la mia stessa pseudo-me-

moria fu sollecitata a concepire sogni ancor più sfrenati e allusioni a fu-

ture rivelazioni. Ciò nonostante la maggioranza dei medici giudicò la

mia iniziativa, nel complesso, opportuna.

Studiai sistematicamente la psicologia, e sotto l'influenza di questo

stimolo mio figlio Wingate fece lo stesso--i suoi studi lo portarono infi-

ne alla sua attuale cattedra di professore. Nel 1917 e 1918 seguii dei

corSi speciali alla Miskatonic University. Intanto la consultazione del-

la documentazione medica, storica e antropologica divenne infaticabi-

le, il che comportò anche viaggi fino a lontane biblioteche e infine la

lettura dei terribili libri di tradizioni proibite dei quali si era tanto in-

teressata la mia seconda personalità. Alcuni di questi erano le stesse

COpie che avevo consultato durante il periodo critico, e fui molto scosso

nel vedere certe annotazioni marginali e apparenti correzioni dell'orri-

~le testo in una scrittura e in un idioma dall'aria stranamente disuma-

Quelle annotazioni erano per lo più nelle rispettive lingue dei vari li-

p, e chi le aveva usate pareva conoscerle tutte con identica padronan-

~- Una nota, però, a margine degli Unaussprechlichen Kulten di von

~zt, differiva in maniera allarmante. Consisteva in geroglifici curvi-

1 25

linei tracciati con lo stesso inchiostro delle correzioni in tedesco, ma

diversi da tutti i geroglifici umani a noi noti. Quei segni erano invece si-

mili, senza tema di errore, ai caratteri che vedevo continuamente nei

miei sogni, caratteri il cui significato talvolta mi pareva di conoscere, o

di essere sul punto di ricordare.

A completare la mia totale confusione, molti bibliotecari mi garanti-

rono che, in base alle precedenti visite e ai cartellini di consultazioni

dei volumi in questione, tutte quelle postille dovevano essere state fat-

te da me durante il periodo della seconda personalità. E ciò malgrado il

fatto che non conoscevo, né conosco, tre delle lingue ivi utilizzate. Met-

tendo insieme le varie documentazioni, antiche e moderne, antropolo-

giche e mediche, giunsi alla conclusione di essere di fronte a una cospi-

cua mescolanza di mito e allucinazione, la cui ampiezza e assurdità mi

lasciarono letteralmente intontito. Solo una cosa mi consolò: il fatto

che i miti risalissero a un'epoca così remota. Quale scienza perduta

avesse suggerito immagini di paesaggi del paleozoico o mesozoico agli

inventori di quelle favole primitive non sapevo immaginarlo, ma le im-

magini erano là. Comunque, doveva pur esserci qualche spiegazione

per la formazione di um'allucinazione ricorrente.

I casi di amnesia fornirono, indubbiamente, il modello generale del

mito, ma in seguito la proliferazione di tradizioni fantasiose deve aver

influito sui sofferenti di amnesia e colorato le loro pseudo-memorie. Io

stesso avevo letto e ascoltato molte di quelle antiche saghe durante il

mio vuoto di memoria - la mia ricerca lo aveva ampiamente dimostra-

to. Non era dunque naturale che i sogni e le impressioni emotive suc-

cessive si colorassero e si modellassero in base a quanto la mia mente

aveva tratto in maniera indefinibile dalla seconda personalità?

Alcuni miti avevano importanti collegamenti con altre oscure leg-

gende del mondo pre-umano, specialmente con racconti indù che par-

lavano di sbalorditivi abissi di tempo, e formavano una parte delle tra-

dizioni dei moderni teosofisti.

Mito primitivo e allucinazione moderna concordavano sulla tesi che

la razza umana sia solo una - e forse la meno importante - delle razze

altamente evolute e dominanti nella lunga vita del nostro pianeta, a

noi ancora in gran parte sconosciuta. Cose di forma inconcepibile, insi-

nuavano, avevano innalzato torri fino al cielo e scavato nei segreti del-

la natura molto prima che lontanissimi progenitori anfibi dell'uomo

fossero usciti strisciando dal mare trecento milioni di anni fa.

Alcune erano calate dalle stelle, poche erano vecchie quanto il co-

smo; altre erano nate rapidamente da germi terrestri tanto prima dei

germi iniziali del nostro ciclo vitale, quanto quest'ultimo è remoto ri-

spetto a noi, di spazi di migliaia di milioni di anni, e di serie di altre ga-

lassie e universi, di questo si parlava. Infatti il tempo, nel senso accet-

tato dall'uomo, non ha in quest'ottica alcun valore.

Ma parecchi racconti e impressioni riguardavano una razza relativa-

mente recente, di forma strana e complicata, dissimile da qualsiasi for-

ma di vita nota alla scienza, che sarebbe vissuta fino a cinquanta milio-

ni di anni prima dell'avvento dell'uomo. Quella, si sosteneva, era stata

la razza più grande di tutte perché essa sola aveva conquistato il segre-

to del tempo.

Aveva appreso tutte le cose che mai si fossero conosciute o che mai si

sarebbero conosciute sulla Terra, mediante una forza mentale capace

di proiettarsi verso il passato e verso il futuro, anche attraverso abissi

di milioni di anni, e di studiare le tradizioni di ogni epoca. Dalle realiz-

zazioni di quella razza nacquero tutte le leggende di profeti, incluse

quelle della tradizione religiosa umana.

Nelle sue grandi biblioteche vi erano una quantità di testi e illustra-

zioni riguardanti tutte le epoche della Terra - storie e descrizioni di

ogni specie passata o futura, con una documentazione completa della

sua arte, delle sue gesta, delle sue lingue e della sua psicologia.

In possesso di una tale scienza che abbracciava tutta l'eternità, la

Grande Razza prelevò da ogni epoca e da ogni forma di vita le concezio-

ni e realizzazioni artistiche e tecniche che più si adattavano alla sua

natura e situazione. La conoscenza del passato, ottenuta mediante una

specie di proiezione mentale al di fuori dei sensi conosciuti, era più dif-

ficile da ottenere che non la previsione del futuro.

Nel secondo caso la direzione era più facile e concreta. Con idoneo

aiuto meccanico una mente poteva proiettarsi avanti nel tempo, se-

guendo l'oscura via extra-sensoriale fino ad avvicinarsi al periodo desi-

derato. Poi, dopo sondaggi preliminari, carpiva le cose migliori tra le

più eccelse forme di vita di quel periodo. Entrava nel cervello dell'or-

ganismo prescelto e là stabiliva le sue vibrazioni, mentre la mente so-

Stituita tornava faticosamente al periodo di quella che l'aveva soppian-

tata, rimanendo nel corpo di quest'ultima fin quando non si verificava

il processo inverso.

La mente proiettata nel corpo dell'organismo del futuro si atteggia-

L va allora come un membro della razza di cui usava la forma esteriore,

imparando il più rapidamente possibile tutto quanto vi era da appren-

dere dell'epoca prescelta e delle sue cognizioni scientifiche e tecniche.

~- ~ Intanto la mente spodestata, gettata indietro nell'epoca e nel corpo

,della usurpatrice, veniva sorvegliata attentamente. Le era impedito di

Fanneggiare il corpo che occupava e le veniva rubato tutto il sapere da

~bili inquisitori. Spesso la interrogavano nella sua lingua, quando ri-

erche precedenti nel futuro avevano fruttato cognizioni di tale lingua.

Se la mente proveniva da un corpo la cui lingua non poteva essere fi-

!a~nente riprodotta dalla Grande Razza, allora ci si serviva di mac-

~e ingegnose che emettevano le frasi nella lingua straniera, come

r strumento che emetteva brani di musica invece che singole note.

I membri della Grande Razza erano immensi coni rugosi, alti tre me-

tri e con la testa e gli altri organi di senso attaccati a membra estensibi-

li, spesse una trentina di centimetri, che partivano dal vertice. Essi

parlavano battendo o grattando enormi zampe o artigli attaccati in

fondo a due dei quattro arti, e camminavano mediante l'espansione e

la contrazione di uno strato viscoso attaccato all'ampia base di tre me-

tri.

Quando lo stupore e il risentimento della mente prigioniera erano

svaniti e quando - nel caso che provenisse da un corpo molto diverso da

quelli della Grande Razza - aveva perduto l'orrore per la sua forma

sconosciuta e temporanea, le veniva concesso di studiare il nuovo am-

biente, sperimentando avvenimenti prodigiosi e ampliando le proprie

conoscenze scientifiche con sensazioni pressoché simili a quelle della

mente usurpatrice.

Con adatte precauzioni, e in cambio di idonei servizi, le veniva per-

messo di vagare per il mondo abitabile in gigantesche astronavi o in

veicoli grandi come transatlantici, forniti di propulsione atomica, e di

far ricerche nelle biblioteche che contenevano gli annali del passato e

del futuro del pianeta.

Questo riconciliò molte menti prigioniere con il loro destino. Perché

tutte erano avide di sapere, e quindi la rivelazione dei nascosti misteri

della Terra- capitoli chiusi di passati straordinari e abissi vertiginosi

del tempo futuro, che comprendevano gli anni successivi alle loro epo-

che di origine - costituiva sempre, malgrado gli spaventosi orrori spes-

so svelati, la somma esperienza della loro vita.

Talvolta certe menti prigioniere avevano il permesso di incontrarsi

con altre menti prigioniere prese dal futuro, per scambiarsi pensieri

con la consapevolezza di vivere cento o mille o un milione di anni pri-

ma o dopo la loro epoca. E tutte erano sollecitate a scrivere abbondan-

temente nella loro lingua, su loro stessi e sulle rispettive epoche, poiché

quei documenti venivano conservati nei grandi archivi centrali.

Possiamo aggiungere che vi fu un tipo speciale di mente prigioniera i

cui privilegi furono assai maggiori di quelli accordati alle altre. Si trat-

tava di esiliate permanenli destinate a morire nel passato perché i loro

corpi del futuro erano stati catturati da membri della Grande Razza, i

quali dovendo affrontare la morte cercarono di sfuggire all'annienta-

mento della propria personalità.

Queste esiliate malinconiche non erano così comuni come si sarebbe

potuto immaginare, poiché la longevità della Grande Razza diminuiva

in essa l'amore della vita, specialmente tra le menti superiori, capaci di

proiettarsi. Da casi di proiezione permanente delle vecchie menti nac-

quero molti di quei cambiamenti durevoli di personalità notati nella

storia posteriore, compresa quella del genere umano.

Quanto ai casi normali di esplorazione, quando la mente usurpatrice

aVeva appreso ciò che voleva del futuro si costruiva una macchina co-

me quella che aveva permesso il primo trasferimento e effettuava a ri-

troso il processo di proiezione. Così essa rientrava nel suo corpo e nella

sua epoca, mentre la mente prigioniera tornava al corpo del futuro, cui

in reáltà apparteneva.

. Solo quando uno dei due corpi era morto durante lo scambio, questa

reintegraZione diveniva impossibile. In tali casi, naturalmente, la

mente esploratrice - a somiglianza di quelle che sfuggono alla morte -

doveva vivere fino alla fine della vita del corpo estraneo, oppure la

mente prigioniera - a somiglianza delle esiliate permanenti - doveva

finire i suoi giorni nel corpo e nella remota epoca della Grande Razza.

Questo destino era meno orribile quando la mente prigioniera ap-

parteneva alla Grande Razza, cosa possibile se si pensa che in tutte le

epoche quella razza si interessò intensamente della propria. Il numero

delle esiliate permanenti della Grande Razza nell'insieme fu scarso so-

prattutto per le gravi punizioni previste in caso di sostituzione delle fu-

ture menti della Grande Razza da parte di moribondi.

Mediante la proiezione, furono presi accordi per infliggere terribili

punizioni alle menti colpevoli nei loro nuovi corpi futuri, e talvolta fu-

rono effettuati nuovi scambi obbligati.

Casi complessi di sostituzione di menti esploranti o già prigioniere

da parte di menti in varie zone del passato furono scoperti e attenta-

mente controllati. In ogni era, a partire dalla scoperta della proiezione

mentale, una quota piccola ma non nulla della popolazione fu formata

da menti della Grande Razza appartenenti a età passate, che vi si trat-

tennero per periodi più o meno lunghi.

Quando una mente prigioniera di origine estranea veniva reintegra-

ta nel suo corpo del futuro, era purgata tramite una complessa ipnosi

meccanica di tutto quanto aveva appreso a proposito della Grande

Razza - Ciò per talune conseguenze preoccupanti connesse col trasferi-

mentO nel futuro di un vasto bagaglio di cognizioni.

I pochi esempi esistenti di palese trasmissione avevano causato, e

causerebbero anche in futuro, grandi disastri. Ed era stato soprattutto

in conseguenza di due casi del genere - stando agli antichi miti - che

l~umanità aveva imparato tutto ciò che sapeva della Grande Razza.

Di quanto è esistito fisicamente di quel mondo lontano eoni, restano

F~ ~Itanto certe enormi, pietrose rovine in luoghi lontani e sotto i mari, e

;~ acune parti dei terrificanti Manoscntti Pnakotici.

'~ Perciò la mente che faceva ritorno alla sua éra conservava immagini

~bolissime e frammentarie di quanto aveva subìto dal momento della

-~ttura. I ricordi da sradicare erano stati sradicati, e in moltissimi casi

llo un buio punteggiato di sogni si protendeva a ritroso, al tempo del

imo scambio. Certe menti ricordavano più di altre, e il casuale acco-

~mentO di ricordi aveva, qualche volta, portato tracce del passato

ibito nelle età future.

Probabilmente non vi fu mai epoca in cui gruppi o culti non conser-

vassero tracce del genere. Nel Necronomicon si accenna alla presenza

di un culto di quel genere fra gli esseri umani, un culto che talvolta for-

nì un aiuto alle menti affinché si librassero attraverso gli eoni partendo

dai giorni della Grande Razza.

Nel frattempo la Grande Razza divenne quasi onnisciente e si dedicò

al compito di organizzare scambi con le menti di altri pianeti - e talvol-

ta di esplorare il loro passato e il loro futuro. Cercò, parimenti, di son-

dare gli anni passati e l'origine di quella sfera nera e morta da eternità,

nel lontano spazio, donde era scaturito il suo patrimonio mentale-

perché la mente della Grande Razza era più antica della sua forma cor-

porea.

Gli esseri di un antichissimo mondo morente, edotti sui segreti ulti-

mi, aveYano guardato innanzi in cerca di un nuovo mondo e di una nuo-

va specie in cui vivere una lunga vita, e avevano mandato le loro menti

in massa nella futura razza più adatta ad accoglierle, cioè gli esseri a

forma di cono che popolarono la nostra terra un miliardo di anni fa.

Nacque così la Grande Razza, mentre la miriade di menti rimandate

indietro furono lasciate morire nell'orrore di stranissime forme. In se-

guito tale razza avrebbe affrontato di nuovo la morte riuscendo però a

salvarsi grazie alla migrazione delle proprie menti migliori nei corpi di

altri esseri con un periodo di sopravvivenza più lungo davanti a loro.

Fu quello lo sfondo delle leggende e delle allucinazioni intrecciate as-

sieme. Quando, attorno al 1920, le mie richerche assunsero una forma

coerente, avvertii un lieve alleggerimento della tensione che le fasi pre-

cedenti mi avevano causato. Dopotutto, e malgrado le fantasie solleci-

tate da cieche emozioni, molti dei miei fenomeni non avevano una spie-

gazione a portata di mano? Qualunque avvenimento fortuito avrebbe

potuto indirizzarmi la mente verso studi occultistici durante l'amne-

sia; e poi avevo letto le leggende proibite e conosciuto membri di culti

antichi e malfamati. Tutto ciò poteva bene avere fornito il materiale

per i sogni e le sensazioni disordinate che mi avevano assalito dopo il

ritorno della memoria.

Quanto alle note a margine scritte nei geroglifici del sogno in lingue

a me ignote, ma a me attribuite dai bibliotecari, forse avevo appreso

una infarinatura di quelle lingue durante la seconda vita, mentre i ge-

roglifici furono indubbiamente creati dalla mia fantasia in base a de-

scrizioni in vecchie leggende, poi riprese dai sogni. Tentai di verificare

certi punti per mezzo di conversazioni coi capi di celebri sette, ma non

arrivai mai a ricostruire i giusti rapporti.

A volte le analogie in casi appartenenti a epoche distanti continuaro-

no a perseguitarmi, come all'inizio, ma d'altra parte riflettei che il fol-

klore era stato più universale nel passato che nel presente.

Forse tutte le altre vittime i cui casi erano simili al mio vantavano

profonde cognizioni e familiarità con i racconti che io avevo scoperto

soltanto durante la mia seconda vita. Quando quelle vittime avevano

perduto la memoria, si erano immedesimate nelle creature dei familia-

ri uniti a loro - i favolosi invasori che si diceva sostituissero le menti

degli uomini - e avevano intrapreso ricerche che, secondo loro, li

avrebbero riportati indietro a un immaginario passato non umano.

Poi, quando riconquistarono la memoria, invertirono la direzione

dell associazione e si identificarono con le precedenti menti prigionie-

re, anziché con quelle usurpatrici. Da lì i sogni e gli pseudo-ricordi che

seguivanO gli schemi del mito convenzionale.

Nonostante l'evidente goffaggine di tali spiegazioni, queste finirono

per soppiantare tutte le altre nella mia mente, soprattutto per la poca

consistenza delle altre teorie. E un ragguardevole numero di eminenti

psicologi e antropologi a poco a poco giunse a condividere le mie idee.

Più riflettevo, più il mio ragionamento mi sembrava convincente; e

alla fine ebbi a disposizione un efficace baluardo contro le visioni e le

impressioni che ancora mi assalivano. Mettiamo che vedessi cose stra-

ne di notte. Ebbene, non erano che frutto di letture o di racconti orali.

Avevo strane repulsioni e visioni? Anche quelle erano solo echi di miti

assorbiti durante la seconda esistenza. Nulla di quanto sognavo, nulla

di quanto sentivo era veramente importante.

Confortato da tale filosofia, ebbi notevoli miglioramenti nell'equili-

brio nervoso, benché le visioni - più che le impressioni astratte - si fa-

cessero più frequenti e ricche di particolari sconvolgenti. Nel 1922 mi

senti in grado di riprendere il lavoro regolare, e sfruttai le nuove cono-

scenze in mio possesso accettando un posto di lettore di psicologia al-

l'università.

La cattedra di economia politica era stata ormai affidata ad altri,

senza contare che i metodi di insegnamento della scienza economica

erano sensibilmente cambiati dal tempo dei miei anni migliori. Mio fi-

glio a quell'epoca si accingeva a seguire gli studi di perfezionamento

per arrivare alla cattedra, e così lavorammo assieme per parecchio

temDo.

~nunque continuai a registrare con cura i sogni vivi, intensi e strava-

ti che mi affollavano la mente. Questi appunti, pensai, erano di au-

ntico valore come documento psicologico. Le fugaci visioni parevano

~ora ricordi, benché io combattessi quella impressione con una buo-

jdose di successo.

31

Scrivendo, trattai le visioni più fantasmagoriche come dati di fatto;

ma dentro di me continuai a considerarle ragnatele illusorie della not-

te. Non avevo mai fatto parola di questi problemi nelle normali conver-

sazioni, per quanto certi riferimenti, filtrati come succede in casi del

genere, avessero sollevato una quantità di voci disperate sulla mia sa-

lute mentale. E buffo constatare come tali voci si limitassero alla cer-

chia dei profani, senza contare un solo seguace tra medici e psicologi.

Delle mie visioni dopo il 1914 ne citerò qui solo poche, in quanto re-

soconti e rapporti più completi sono a disposizione di chi vuole studia-

re seriamente il caso. E evidente che con il tempo le strane inibizioni in

un certo senso svanirono, visto che crebbe moltissimo la portata delle

mie visioni. Comunque non sono mai state altro che frammenti disuni-

ti, apparentemente privi di spiegazione.

In sogno mi sembrava di acquistare una sempre maggiore libertà di

vagabondare. Fluttuavo per misteriosi edifici di pietra, passando dal-

I'uno all'altro per mezzo di enormi corridoi sotterranei, tali da formare

vere e proprie vie di transito. Talvolta negli strati inferiori m'imbatte-

vo in quelle gigantesche botole ermeticamente chiuse intorno alle qua-

li aleggiava un'atmosfera di paura e di cose proibite.

Vidi grandi piscine a mosaico, e stanze piene di strani e inspiegabili

utensili dalle mille fogge, e colossali caverne con macchine complicate,

le cui forme e i cui scopi mi erano sconosciuti e il cui rumore continuai

a udire per anni nei sogni. Vorrei qui far notare che vista e udito erano

gli unici sensi di cui disponessi nel mondo visionario.

Il vero orrore iniziò nel maggio del 1915, quando vidi per la prima

volta delle cose viventi. Questo accadde prima che gli studi mi avessero

insegnato cosa dovevo aspettarmi, tenuto conto dei miti e dei casi clini-

ci. Quando crollarono le barriere mentali, cominciai a intravedere

grandi masse di sottile vapore in varie parti dell'edificio e nelle strade

sottostanti.

Queste si fecero più solide e nette, e infine ne distinsi i contorni mo-

struosi con facilità conturbante. Mi apparvero enormi coni iridescenti

alti circa tre metri e larghi altrettanto alla base, fatti di materia rugo-

sa, squamosa e semi-elastica. Dalla sommità si proiettavano quattro

membra flessibili, cilindriche, ciascuna di trenta centimetri di diame-

tro, e rugose come i coni stessi.

Le membra talvolta si contraevano fino quasi a scomparire, oppure

si estendevano fino a circa tre metri. Due arti terminavano con enormi

artigli o chele, in fondo al terzo vi erano quattro appendici rosse, a for-

ma di tromba. Il quarto arto finiva con un globo irregolare, giallogno-

lo, di circa mezzo metro di diametro e con tre grandi occhi scuri siste-

mati lungo la circonferenza centrale.

Quella testa era sormontata da quattro peduncoli grigi e sottili dota-

ti di appendici a forma di fiore, mentre dal basso pendevano otto an-

tenne o tentacoli verdastri. La grande base del cono principale era li-

mitata da una frangia di sostanza gommosa grigia che muoveva tutta

I'entità mediante l'alternarsi di espansioni e contrazioni.

3 Il loro comportamento, benché innocuo, mi inorridì più del loro

aspett°, perché non è piacevole vedere oggetti mostruosi fare cose che

notoriamente fanno solo gli esseri umani. Quegli oggetti si muovevano

con intelligenza nelle grandi stanze, prendevano libri dagli scaffali, li

portavano sui tavoli o viceversa, e talvolta scrivevano diligentemente

con bacchette speciali sorrette dai tentacoli della testa verdastra. Le

chele enormi venivano usate per portare i libri e nella conversazione il

dialogo consisteva in una serie di schiocchi.

Le creature non indossavano vestiti ma portavano cartelle o zaini ap-

pesi alla sommità del tronco conico. Di solito tenevano la testa e il

membro che la sosteneva al livello del vertice del cono, ma spesso la

sollevavano o I'abbassavano.

Gli altri tre grandi arti pendevano spesso in posizione di riposo lungo

i fianchi del cono e si contraevano fino a un metro e mezzo quando non

servivano. A giudicare da come leggevano, scrivevano e azionavano le

macchine - quelli ai tavoli dovevano svolgere attività intellettuali--ne

conclusi che la loro intelligenza fosse molto maggiore di quella del-

I'uomo.

In seguito li vidi dappertutto; brulicavano per stanze e corridoi, sor-

vegliavano macchine mostruose in cripte a volta, e percorrevano le am-

pie strade su automobili gigantesche a forma di imbarcazione. Smisi di

aver paura di loro quando compresi che pur essendo fisicamente diver-

si costituivano una componente naturalissima del loro ambiente.

Mi si rivelarono differenze individuali fra loro, e alcuni parevano es-

sere sottoposti a qualche specie di controllo. Questi ultimi infatti, pur

non essendo fisicamente diversi, mostravano disomogeneità di gesti e

t abitudini che li distinguevano non solo dalla maggioranza, ma anche

tra di loro.

Scrivevano moltissimo in una gran varietà di caratteri, o almeno co-

sì mi parve nelle confuse visioni; mai nei tipici geroglifici curvilinei

che avevo imparato a conoscere. Pochi, immaginai, usavano il nostro

alfabeto corrente. Moltissimi lavoravano più lentamente della media

3/~- delle altre entità.

Per tutto il tempo dei sogni, la mia parte era quella di una coscienza

~; Corporea con una gamma di visioni maggiore del normale; fluttuavo,

~ppure ero costretto nei limiti delle strade normali e della velocità del

~affico. Fu solo nell'agosto 1915 che certi sospetti di esistenza corpo-

_ a preserO ad angosciarmi. Dico angosciarmi perché la prima fase fu

~a associazione mentale astratta, ma terrificante, della ripugnanza

~porea, già rilevata, con le scene delle visioni.

~er qualche tempo la preoccupazione principale durante i sogni fu

quella di evitare di guardarmi, e ricordo come fui grato per la mancan-

za totale di grandi specchi nelle misteriose stanze. Mi turbò molto il

fatto di vedere sempre le grandi tavole - la cui altezza non poteva esse-

re inferiore a tre metri- non dal basso ma dall'alto.

Poi la tentazione di guardarmi si fece sempre maggiore, finché una

notte non resistetti. Dapprima, abbassando lo sguardo, non vidi nulla.

Un attimo dopo mi accorsi che ciò era dovuto al fatto che la testa era in

cima a un collo flessibile di enorme lunghezza. Ritraendo il collo e ab-

bassando lo sguardo, vidi la massa rugosa, squamosa, iridescente di un

grande cono alto tre metri e largo altrettanto alla base. Fu allora che

svegliai mezza Arkham con le mie grida, quando riemersi come un paz-

zo dall'abisso del sonno.

Soltanto dopo settimane di odiosa ripetizione finii per riconciliarmi

in parte con quelle visioni di me stesso sotto mostruose sembianze. Nei

sogni, allora, mi muovevo con il corpo in mezzo alle altre entità scono-

sciute, leggevo libri terribili presi dagli infiniti scaffali e scrivevo per

ore alle grandi tavole con stili impugnati dai verdi tentacoli che mi

pendevano dalla testa.

Brani di quanto leggevo e scrivevo indugiavano nei miei ricordi. Vi

erano annali di altri mondi e altri universi, e tumulti di vita senza for-

ma al di fuori di tutti gli universi. Vi erano documenti su strani ordini

di esseri che avevano popolato il mcmdo in passati dimenticati, e terri-

ficanti cronache di intelligenze dai corpi grotteschi che lo avrebbero

popolato milioni di anni dopo la morte degli ultimi esseri umani.

rmparai capitoli di storia umana la cui esistenza nessuno studioso di

oggi ha mai sospettato. La maggioranza di tali scritti era nella lingua

dei geroglifici, che io studiai in modo bizzarro con l'aiuto di macchine

ronzanti, e che era evidentemente un idioma agglutinante con sistemi

di radici assolutamente dissimili da quelli esistenti nelle lingue uma-

ne.

Altri volumi erano in lingue sconosciute, che avevo appreso nella

stessa strana maniera. Pochissimi erano scritti in lingue a me note. Pit-

ture di pregevole fattura, sia inserite negli annali sia raccolte in colle-

zioni a parte, mi aiutarono immensamente. E per tutto il tempo mi

parve di scrivere la storia della mia epoca in inglese. Al risveglio, ricor-

davo solo minimi brandelli senza significato delle lingue di cui ero pa-

drone nel sogno, mentre conservavo il ricordo di intere frasi della mia

storia.

Ancor prima che avessi studiato i casi paralleli, o i vecchi miti da cui

indubbiamente erano scaturiti i sogni, io seppi che le entità che mi cir-

condavano erano della più grande razza del mondo, quella che aveva

conquistato il tempo e aveva inviato menti esplorative in ogni epoca.

Seppi anche che ero stato sradicato dalla mia epoca mentre un altro

usava il mio corpo in quell'epoca. Mi pareva di parlare, in una strana

lingua fatta di battiti di artigli, Corl intelletti provenienti da ogni ango-

lo del sistema solare.

Vi era una mente venuta dal pianeta che noi conosciamo come Vene-

re, che viveva in incalcolabili epoche a venire, e un'altra di una luna di

Giove che viveva sei milioni di anni nel passato. Di menti terrestri ce

n'eranO alcune appartenenti alla razza dell'Antartide del Paleogene,

con ali, testa fatta a stella e di natura semi-vegetale; una alla gente-

rettile della leggendaria Valusia; tre agli adoratori di Tsathoggua, iper-

borei pelosi, pre-umani; una agli abominevoli Tcho-Tcho; due agli

aracnidi dell'ultima era della Terra; cinque alla coraggiosa specie dei

coleotteri che verrà subito dopo il genere umano, e nella quale la Gran-

de Razza avrebbe un giorno trasferito in massa le sue menti più acute,

nella imminenza di un'orribile pericolo, e parecchie a diversi rami del-

I'umanità.

Parlai con la mente di Yiang-Li, un filosofo del crudele impero di

Tsan-Chan che verrà nel cinquemila; con quella di un generale del bru-

no popolo dalle grosse teste che governò in Sud Africa nel cinquanta-

mila a.C.; con quella di un monaco fiorentino del dodicesimo secolo, di

nome Bartolomeo Corsi; con quella di un re di Lomar che aveva domi-

nato su quella terribile terra polare centomila anni prima che i tarchia-

ti e gialli Inutos giungessero dall'ovest per annientarla.

Parlai con la mente di Nug-Soth, un mago dei bruni conquistatori

del sedicimila; con quella di un antico romano, Titus Sempronius Blae-

sus, che era stato questore ai tempi di Silla; con quella di Khephnes, un

egizio della quattordicesima dinastia, il quale mi narrò i terribili se-

greti di Nyarlathotep; con quella di un sacerdote del regno di mezzo ad

Atlantide; con quella di un gentiluomo del SuffoLI~ ai tempi di Crom-

well, James Woodville; con quella di un astronomo di corte del Perù

pre-Incas; con quella di un fisico australiano, Nevel Kingston-Brown,

che morirà nel duemilacinquecentodiciotto; con quella di Theodori-

des, un ufficiale greco-bactriano del duecento a.C.; con quella di un an-

ziano francese del tempo di Luigi XIII, Pierre-Louis Montagny; con

quella di Crom-Ya, un condottiero cimmerio del quindicimila a.C., e

oon tanti altri di cui il mio cervello non ha conservato gli impressio-

nanti segreti e i prodigi che mi rivelarono.

~ Ogni mattina mi destavo in fermento, certe volte con la voglia frene-

r~ tica di controllare la verità di informazioni che rientravano nell'ambi-

b delle moderne cognizioni umane. I fatti tradizionali assunsero

ISpetti nuovi e di difficile valutazione, e mi stupii della fantasia onirica

~pace di aggiungere simili appendici alla storia e alla scienza.

I~Rabbrividii per i misteri che il passato poteva celare, e tremai al pen-

~ero delle minacce che il futuro ci avrebbe riservato. Quanto veniva

ennato nei discorsi delle entità post-umane circa la sorte dell'uma-

mi fece un effetto che non so tradurre in parole.

Dopo l'uomo vi sarebbe stata la potente civiltà dei coleotteri, i cui

corpi sarebbero stati catturati dal meglio della Grande Razza quando

la mostruosa condanna fosse calata sul vecchio mondo. Più tardi, alla

chiusura del ciclo della Terra, le menti trasferite avrebbero di nuovo

migrato attraverso il tempo e lo spazio verso un altro luogo, per fer-

marsi nei corpi delle bulbose entità vegetali di Mercurio. Ma dopo di

loro sarebbero venute altre razze, pateticamente abbarbicate al freddo

pianeta e rintanate in profondità piene di orrore, prima della rovina fi-

nale.

Frattanto, nei miei sogni, io scrivevo indefessamente quella storia

della mia epoca che preparavo - in parte volontariamente e in parte

con la promessa di maggiori possibilità di consultazioni in biblioteca e

di viaggi - per gli archivi centrali della Grande Razza. Gli archivi era-

no in un colossale edificio sotterraneo vicino al centro della città, che

imparai a conoscere bene. Quella miniera di informazioni che, secondo

gli intendimenti, doveva durare quanto la razza e sopportare le più vio-

lente agitazioni terrestri, superava tutte le altre costruzioni quanto a

massiccia solidità.

Gli annali, scritti a mano o stampati su grandi pagine di una sostan-

za derivata dalla cellulosa e straordinariamente resistente, erano rac-

colti in volumi che si aprivano dall'alto ed erano conservati in cassette

di un metallo sconosciuto, leggero e inossidabile, di colore grigio, deco-

rate con disegni matematici e con il titolo nei geroglifici curvilinei del-

la Grande Razza.

Queste cassette erano sistemate in innumerevoli file di scaffali muni-

ti di sportelli chiusi a chiave, lavorati nello stesso metallo e chiusi da

manopole dall'intricato funzionamento. La mia storia fu assegnata a

un determinato posto nelle volte del piano più basso o dei vertebrati, la

sezione dedicata alle civiltà dell'uomo e delle razze pelose simili a ret-

tili che ne furono i predecessori immediati nel dominio della Terra.

Ma nessuno dei sogni mi fornì mai un quadro completo della vita quo-

tidiana. Erano tutti frammenti oscuri, sconnessi, e certamente non si

manifestarono nella giusta sequenza. A esempio, ho una idea molto im-

perfetta di come fosse organizzata la mia vita nel mondo onirico; però

mi sembra di aver posseduto una grande stanza di pietra, tutta per me.

Le mie limitazioni di prigioniero scomparvero a poco a poco, così alcu-

ne visioni inclusero vividi viaggi lungo le grandiose strade nella giun-

gla, soggiorni in città misteriose, esplorazioni di enormi rovine scure e

prive di finestre, dalle quali la Grande Razza si teneva lontana per uno

strano senso di paura. Vi furono anche lunghi viaggi per mare su naVi

ti ir.~'rf~lihilmPnte v:'l()ci e ~ite sonra terre selva~e

za, e in un lontano continente vidi i rozzi villaggi delle creature alate e

con il nero muso prominente che si sarebbero evolute come razza do-

minante una volta che la Grande Razza avesse mandato le sue menti

più eccelse nel futuro, per sfuggire a un orrore strisciante. Uniformità

ed esuberante vegetazione erano sempre le note fondamentali del pae-

saggio. Le colline erano basse e rare e di solito mostravano segni di atti-

vità vulcanica.

Sugli animali che vidi potrei scrivere interi volumi. Tutti erano sel-

vatici, perché la civiltà meccanizzata della Grande Razza aveva aboli-

to gli animali domestici, mentre il cibo era interamente vegetale o sin-

tetico. Goffi rettili di grande mole sguazzavano in fumose paludi, flut-

tuavano nell'aria pesante o si gettavano in mari e laghi; e tra quelli io

immaginai di riconoscere vagamente i prototipi più piccoli e meno

evoluti di molte specie - dinosauri, pterodattili, ittiosauri, labirinto-

donti plesiosauri, e simili - resi familiari dalla paleontologia. Uccelli o

mammiferi non ne scopersi.

Il terreno e gli acquitrini pullulavano di serpenti, lucertole, cocco-

drilli e insetti ronzavano di continuo tra la rigogliosa vegetazione. In

~L lontananza, sul mare, mostri sconosciuti nascosti sott'acqua zampilla-

vano altissime colonne di schiuma nel cielo saturo di vapori. Una volta

fui portato sotto l'oceano in un gigantesco sottomarino munito di ri-

flettori, e intravidi orrori viventi di grandezza paurosa. Vidi anche le

rovine di incredibili città sepolte e la profusione di vita crinoide, bra-

chiopode, corallina e ittica che abbondava dovunque.

Poche furono le informazioni che le mie visioni conservarono della fi-

siologia~ psicologia, tradizioni, storia particolareggiata della Grande

Razza, e molti dei punti sparsi che qui raccolgo furono spigolati dagli

studi delle vecchie leggende e da altri casi, più che dai miei sogni.

Col tempo, infatti, letture e ricerche si tennero al passo con i sogni, e

1 ~ in molte fasi le superarono, cosicché taluni frammenti onirici furono

egati in anticipo e costituirono verifiche di quanto avevo imparato.

j~Ciò rafforzO in me la convinzione consolante che simili letture e ricer-

~he, Compiute dalla mia seconda personalità, avessero costituito la

~nte di tutto il tessuto orribile delle pseudo-memorie.

~ L~antichità del periodo cui si riferivano i miei sogni, evidentemente,

_ ~ inferiore ai centocinquanta milioni di anni fa, quando il paleozoico

~ciò il posto al Mesozoico. I corpi occupati dalla Grande Razza non

_ presentarono nessuna linea evolutiva - almeno provata scientifica-

_ ~te- della fauna terrestre, ma possedevano una omogeneità parti-

_ re ed erano di tipo organico molto specializzato, collocabile a metà

_ da tra lo stato ve~etale e auello animale.

uno dei grandi arti flessibili era sempre semifluido, e sotto molti aspet-

ti totalmente diverso dal cibo degli animali colà presenti.

Gli esseri conici possedevano soltanto due dei sensi conosciuti--vista

e udito - quest'ultimo esercitato mediante le appendici a forrna di fiore

sui peduncoli grigi che stavano sopra la testa. Di altri sensi incompren-

sibili - e comunque non ben utilizzabili da menti estranee e prigioniere

racchiuse nei loro corpi - ne possedevano molti I loro tre occhi erano

sistemati in maniera da consentire loro un campo visivo più ampio del

normale. Il loro sangue era una specie di icóre verde scuro di forte den-

sità.

Non avevano sesso, ma si riproducevano per mezzo di semi o spore

che si raccoglievano sulla loro base e si sviluppavano soltanto sott'ac-

qua. Per la crescita dei figli usavano grandi vasche poco profonde - ma

i piccoli venivano allevati in numero modesto data la longevità dei

membri della loro specie - il normale periodo di vita andava infatti dai

quattro ai cinquemila anni.

Individui con evidenti difetti venivano eliminati appena si scopriva-

no tali difetti. Le malattie o I'avvicinarsi della morte, in mancanza del

senso del dolore fisico, venivano riconosciuti da sintomi puramente vi-

sivi.

I morti erano cremati con cerimonie solenni. Ogni tanto, come si è

detto, una mente acuta sfuggiva alla morte proiettandosi innanzi nel

tempo; ma non si trattava di casi numerosi. Quando se ne verificava

uno, la mente cacciata dal futuro veniva trattata con estrema gentilez-

za fino alla morte del suo involucro estraneo.

La Grande Razza formava un'unica nazione o lega la cui coesione era

assicurata da blande regole. Le maggiori istituzioni erano in comune,

ma esistevano quattro divisioni assai nette. Il sistema politico e econo-

mico di ogni unità era una specie di socialismo autoritario con le prin-

cipali risorse distribuite in modo razionale e il potere affldato a un ri-

stretto consiglio di governo eletto con i voti di tutti coloro che avevano

superato certe prove educative e psicologiche. L'organizzazione fami-

liare non era tenuta in gran conto benché si riconoscessero i legami tra

le persone di comune discendenza e i giovani fossero generalmente al-

levati dai genitori.

Rassomiglianze con atteggiamenti e istituzioni umane erano molto

spiccate, naturalmente, in quei campi che riguardavano certi principi

astratti, oppure registravano il predominio dei bisogni basilari e non

specifici comuni a tutta la vita organica. Talune altre somiglianze veni-

vano da una scelta cosciente perché la Grande Razza sondava il futuro

e copiava quanto le piaceva.

L'industria tecnicamente molto evoluta richiedeva pochissimo tem-

po a ogni cittadino; l'abbondante tempo libero veniva dedicato ad atti-

vità intellettuali ed estetiche di varia natura.

Le scienze erano a un incredibile grado di sviluppo e l'arte era un

'~ aspetto essenziale dell'esistenza, sebbene nel periodo dei miei sogni es-

sa fosse già in una fase di decadenza. La tecnologia era grandemente

stimolata dalla perenne lotta per sopravvivere e tenere in vita il tessuto

fisico delle immense città, imposto dai mostruosi sollevamenti geolo-

gici dei primordi.

I reati erano sorprendentemente rari e venivano trattati con un siste-

ma efficacissimo. Le punizioni andavano dalla privazione dei privilegi

e dalla carcerazione, alla morte o a forti torture emotive, e non erano

mai inflitte senza un attento esame dei moventi criminosi.

La guerra, per lo più civile negli ultimi millenni, ma talvolta mossa

contro i Vecchi Alati dalla testa stellata che popolavano l'Antartico, era

un avvenimento insolito, ma orribilmente devastante. Un esercito

enorme che faceva uso di armi simili ad apparecchi fotografici capaci

di prodúrre terribili effetti elettrici, veniva tenuto in efficienza per sco-

pi di cui poco si parlava, ma evidentemente collegati con il perenne ti-

more delle oscure, vecchie rovine senza finestre e delle grandi botole

ermetiche ai piani sotterranei più bassi.

La paura delle rovine e delle botole di basalto era soprattutto una

questione di idee non dette, o al massimo di mezzi sussurri furtivi.

Qualunque cosa essi racchiudessero, era assente dai libri che riempiva-

no i comuni scaffali. Era l'unico argomento considerato tabù dalla

Grande Razza, forse collegato sia con le orribili lotte passate, sia con il

futuro pericolo che avrebbe un giorno costretto la razza a trasferire nel

futuro le sue menti più fervide, in massa.

Le altre informazioni offerte da sogni e leggende erano imperfette e

frammentarie, ma quell'argomento era tenuto segreto in modo assai

sooncertante. I vaghi miti antichi evitavano di parlarne - o forse qual-

siasi allusione in proposito era stata tolta per qualche motivo. E nei so-

gni, miei e di altri, le tracce erano pochissime. I membri della Grande

Razza non si riferivano alla cosa intenzionalmente, e quanto se ne po-

teva sapere veniva soltanto da certe menti prigioniere particolarmente

acute e osservatrici.

Secondo quei ritagli di notizie, il fondamento della paura stava in un

a~ibile antichissima razza di entità estranee, mezze polipi, venuta at-

~averSo lo spazio da universi incommensurabilmente lontani che ave-

~dominato la terra e altri tre pianeti del sistema solare circa seicento

pioni di anni fa. I suoi membri erano solo parzialmente materiali -

pndo il nostro concetto di materia - e il loro genere di coscienza e di

~zzi di percezione differiva notevolmente da quello degli organismi

pstri. Per esempio, ai loro sensi mancava la vista; il loro mondo

~tale era costituito da impressioni misteriose, non visive.

~ano, tuttavia, abbastanza solidi per usare utensili di materia nor-

~, quandO erano in zone cosmiche in cui aveva senso servirsene, e

necessitavano di alloggi - quantunque di genere particolare. I loro sen-

si potevano attraversare tutte le barriere materiali, ma la loro sostanza

no; certe forme di energia elettrica potevano distruggerli totalmente

Erano capaci di moto aereo, malgrado la mancanza di ali o altri mezzi

visibili di sollevamento. Le loro menti erano di tale natura che la Gran-

de Razza non poteva fare scambi con loro.

Quando questi esseri vennero sulla Terra, costruirono grandiose cit-

tà di basalto con edifici senza finestre, altissimi, e distrussero orribil-

mente gli originari abitanti del pianeta. Quella era la situazione quan-

do le menti della Grande Razza saettarono nel vuoto da quel mondo te-

nebroso e trans-galattico noto col nome di Yith nei sinistri e discutibili

Frammenti di Eltdown.

I nuovi arrivati, con gli strumenti che idearono, sottomisero con faci-

lità le entità rapaci e le imprigionarono in quelle caverne della profon-

da terra che queste ultime avevano già collegato con le loro abitazioni

e dove già avevano cominciato ad abitare.

Ne avevano poi sigillate le entrate e li avevano abbandonati al loro

destino, dopo aver conquistato gran parte delle grandi città e rispar-

miato certi edifici importanti per motivi legati più alla superstizione

che a indifferenza, audacia, o zelo scientifico e storico.

Ma, col passare degli eoni vennero segni indistinti e funesti che le co-

se più anziane si erano fatte forti e numerose nel mondo sotterraneo. Vi

furono sporadiche irruzioni di tipo particolarmente detestabile in cer-

te città piccole e remote della Grande Razza, e in alcune vecchie città

abbandonate che la Grande Razza non aveva popolato- luoghi dove gli

accessi agli abissi sottostanti non erano stati opportunamente sigillati

o sorvegliati.

Dopo ciò furono prese maggiori precauzioni, e molti accessi furono

chiusi per sempre - alcuni però furono dotati di botole ermetiche per

uso strategico, in caso di lotta contro le entità più anziane, caso mai

avessero fatto irruzione in luoghi imprevisti.

Le irruzioni di quelle entità dovevano essere state impressionanti ol-

tre ogni descrizione, perché avevano lasciato un marchio permanente

nella psicologia della Grande Razza. Tale fu lo stato di angoscia perdu-

rante che non fu mai detto il vero aspetto fisico di quelle creature. Mai

riuscii a cogliere un chiaro accenno alle loro sembianze.

Vi furono velate allusioni a una plasticità mostruosa e a temporanei

intervalli di invisibilità, mentre altre voci frammentarie si riferivano

al controllo e all'uso militare dei grandi venti da essi operato. Strani

rumori fischianti e orme di piedi colossali con cinque impronte di dita

circolari venivano ugualmente associati a quelle cose.

Era chiaro che la futura catastrofe, così temuta dalla Grande Razza -

I'incombente distruzione che un giorno avrebbe costretto all'esilio mi-

lioni di fervide menti attraverso gli abissi del tempo verso strani corpi

in un futuro più sicuro - aveva a che fare con la generalizzata irruzione

degli esseri antichi, che avrebbero ottenuto la vittoria.

Le proiezioni mentali attraverso le ere avevano preannunziato un ta-

le orrore, e la Grande Razza aveva deciso che nessuno di quelli che po-

tevan° fuggire doveva affrontarlo. Infatti la scorreria avrebbe avuto il

sapore di una vendetta, più che di un tentativo di rioccupare il mondo

esternO, e questo lo sapevano dalla recente storia del pianeta, perché le

loro proiezioni rivelarono un andirivieni di razze successive non di-

sturbate dalle entità mostruose.

Forse quelle entità avevano finito per preferire gli abissi profondi

della Terra alla inquieta superficie devastata dalle tempeste, poiché

per loro la luce non aveva la minima importanza. Forse si erano anche

indeboliti attraverso gli eoni. In realtà si sapeva che sarebbero stati

estinti al tempo della razza post-umana dei coleotteri, nella quale si sa-

rebbero insediate le menti degli esuli.

~el frattempo la Grande Razza continuò la prudente sorveglianza

con potenti armi sempre pronte, nonostante l'argomento fosse bandito

dalla conversazione di ogni giorno e dalla documentazione visibile. E

sempre l'ombra della paura senza nome aleggiava attorno alle botole

sigillate e alle torri oscure e senza finestre.

Ecco il mondo di cui ogni notte i sogni mi portavano echi indistinti e

sparsi. ~Ion spero di darvi una vera idea dell'orrore e dello spavento

contenuti in quegli echi, perché tali sensazioni dipesero essenzialmen-

te da caratteristiche inafferrabili - dalla differente sensibilità della

pseudo-memoria.

Come ho detto gli studi mi consentirono una graduale difesa contro

quei sentimenti sotto forma di spiegazioni razionali e psicologiche, e

tale influenza positiva fu accresciuta dal misterioso potere dell'abitu-

dine, che si dispiega col passare del tempo. Malgrado tutto, il vago ter-

j, IlOre serpeggiante tornava di tanto in tanto, momentaneamente. Ma

t non mi inghiottiva più come una volta, e dopo il 1922 io vissi una vita

rmale di lavoro e di svago.

~ ~E Nel corso degli anni cominciai a capire che la mia esperienza - insie-

v ~e con i casi analoghi e il relativo foL~lore - meritava di essere riassun-

e pubblicata a beneficio degli studiosi più seri . Perciò preparai una

_ ie di articoli che riassumevano tutta la storia, e li illustrai con schiz-

~approssimativi di forme, scene, motivi decorativi e geroglifici, così

_me li ricordavo dai so~ni.

Tali articoli apparvero a intervalli durante il 1928 e il 1929 nel Jour-

nal of the American Psychological Society, ma non suscitarono molto in-

teresse. Intanto io proseguii il diario dei miei sogni con cura minuzio-

sa.

Il I O giugno t 934 la Psychological Society mi spedì la lettera che aprì

la fase culminante e più orribile di quella folle esperienza. La lettera re-

cava il timbro postale di Pilbarra, in Australia Occidentale, e recava la

~irma di un uomo che scopersi essere un assai stimato tecnico minera-

rio. Erano accluse alcune bizzarre istantanee. Ne riproduco il testo in-

tegralmente, e i lettori comprenderanno senza dubbio quale e~fetto eb-

bero su di me la lettera e le fotografie.

Per un certo tempo rimasi inebetito e incredulo. Spesso avevo pensa-

to che un certo fondamento di realtà doveva esistere in alcune parti

delle leggende che avevano colorato i miei sogni, ciò nondimeno ero

impreparato alla tangibile sopravvivenza di un mondo perduto e re-

moto. Più terribili di tutto furono le fotografie, perché là, in un freddo

in~ontrovertibile realismo spiccavano su uno sfondo di sabbia certi

blocchi di pietra deteriorati dalle intemperie, che presentavano la

sommità convessa e la base concava in un modo per me assai eloquen-

te.

E quando esaminai le fotografie con una lente d'ingrandimento vidi

chiaramente su quelle super~ici rovinate e butterate, le tracce di quei

disegni curvilinei e di quei geroglifici la cui importanza era diventata

per me così enorme. Ma ecco la lettera cui credo ci sia poco da aggiun-

gere.

49, Dampier Street

Pilbarra, Australia Occidentale

18 maggio 1934

Professore N.W. Peaslee

presso American Psychological Society

30, Quarantunesima Strada Est

l~lew York City, U.S.A.

Egregio signore,

a seguito di una recente conversazione con il Dottor E.M. Boyle di

Perth, e di certi suoi articoli che il dottor Boyle mi ha appena inviato, ri-

tengo consigliabile parlarle di cose che ho visto nel Gran deserto sabbio-

so, a oriente del nostro terreno aurifero. In considerazione delle curiose

leggende su antiche città con enormi opere in pietra e misteriosi disegni

di geroglifici che lei descrive, sembrerebbe che mi sia capitato fra le ma-

ni qualcosa di veramente importante.

~li indigeni parlano da sempre di «grandi pietre con dei segni sopra«,

e pare che abbiano molta paura di tali oggetti. Le collegano in qualche

modo con le loro leggende su Buddai, il vecchio gigantesco che da secoli

giace addormentato sottoterra, con la testa sul braccio, e che un giorno si

sveglierà e mangerà il mondo.

Vi sono racconti antichissimi e ormai molto vaghi di enormi dimore

Sotterranee fatte di grosse pietre, dove i corridoi conducono sempre più

in profondità e dove sono accadute cose orribili. Gli indigeni sostengono

che una volta alcuni soldati in fuga dopo una battaglia penetrarono in

uno di questi passaggi e non tornarono più indietro, ma che dal luogo co-

minciarono a soffiare venti spaventosi dopo che costoro furono scesi. Tut-

tavia non c'è molto buon senso in ciò che raccontano gli indigeni.

Ma ho ben altro da dirle. Due anni fa, quando esploravo la regione in

cerca di giacimenti, a circa ottocento chilometri a est, nel deserto, mi im-

battei in una quantità di strani pezzi di pietra decorata, forse della misu-

ra di un metro per mezzo metro, e dello spessore di circa sessanta centi-

metri, logorati e butterati quant'altri mai.

Dapprima non rilevai i segni di cui parlavano gli indigeni, ma poi os-

servando meglio notai delle linee profondamente incise. Erano curve

particolari, proprio come avevano affermato i nativi. Ce ne dovevano es-

sere trenta o quaranta blocchi, alcuni quasi sepolti nella sabbia, e tutti in

[ un raggio di circa quattrocento metri.

Incuriosito, ne cercai altri e feci un attento calcolo del luogo con i miei

strumenti. Scattai anche delle foto di dieci o dodici tra i blocchi più tipi-

ci, le cui copie ho accluso alla presente lettera.

Passai informazioni e fotografie alle autorità governative di Perth, ma

3 non hanno assunto alcuna iniziativa in proposito.

Poi conobbi il dottor Boyle, che aveva letto i suoi articoli nel Journal of

theAmerican Psychological Sociely e dopo un poco, mi capitò di accenna-

re alle pietre. Egli si dimostrò interessatissimo e il suo entusiasmo rag-

giunse il colmo quando gli mostrai le istantanee. Disse che le pietre e i se-

gni assomigliavano incredibilmente alle costruzioni da lei sognate e de-

scritte nelle leggende.

Aveva intenzione di scriverle, ma è stato molto occupato. Intanto mi ha

mandato quasi tutte le riviste con i suoi articoli e io vidi subito, dai suoi

disegni e dalle descrizioni, che le mie pietre sono sicuramente dello stes-

so genere. Lo rileverà dalle fotografie. In seguito riceverà notizie dal dot-

tor Boyle.

Ora comprendo quanto sia per lei importante tutto questo. Senza dub-

bio lei si trova di fronte ai resti di una civiltà sconosciuta, forse più antica

di qualunque altra, e tale da formare una base per le sue leggende.

Come tecnico minerario ho nozioni di geologia, e posso dirle che questi

blocchi sono tanto antichi da spaventarmi. Sono per lo più di arenaria e

granitO, benché uno almeno sia fatto di uno strano tipo di cemento o cal-

CestruzzO.

I - ~ Recano tracce evidenti dell'azione dell'acqua, come se questa parte del

3' ~Fndo fosse stata sommersa e poi fosse riemersa dopo lunghe ere - il tut-

~dopo che quei blocchi erano stati tagliati e utilizzati. Penso a centinaia

~migliaia di anni - o forse molti di più, Dio solo sa quanti.

isto il suo precedente, accurato lavoro nel rintracciare le leggende e

tto quanto ad esse si collega, non dubito che lei vorrà guidare una spe-

one nel deserto ed effettuare degli scavi. Il dottor Boyle ed io siamo

~posti a collaborare in tale lavoro se lei, o organizzazioni da lei contat-

,ie, finanzieranno l'operazione.

Io posso mettere assieme una dozzina di minatori per gli scavi pesanti

- gli indigeni non servirebbero a nulla, perché ho scoperto che hanno un

terrore invincibile del luogo. Boyle ed io non ne abbiamo parlato con al-

tri, perché ovviamente spetta a lei avere la precedenza nelle scoperte e

nel mento.

Il luogo è raggiungibile da Pilbarra in circa quattro giorni con un vei-

colo fuoristrada - di cui avremo bisogno per il nostro macchinario. E più

o meno a sud-ovest della pista di Warburton, del 1873, e a centosessanta

chilometri a sud~st di Joanna SpUng. Potremmo abbreviare risalendo il

fiume De Grey invece di partire da Pilbarra - ma tutto questo sarà meglio

discuterlo al momento opportuno.

Approssimativamente le pietre si trovano in un punto a circa 20°3'14"

di latitudine sud, 125~0'39" di longitudine est. Il clim~ è tollido e le con-

dizioni climatiche del deserto sono proibitive.

Attendo con piacere sue notizie sull'argomento e sono veramente im-

paziente di assisterla in qualsiasi progetto lei concepisca. Dopo aver esa-

minato i suoi articoli, sono rimasto molto colpito dal profondo significa-

to dei temi da lei toccati.

Il dottor Boyle le scriverà in seguito. Se necessita di un mezzo di comu-

nicazione urgente, può mandare un cablogramma a Perth e mi sarà tra-

smesso via radio.

Con viva speranza di una sollecita risposta, la prego accettare i sensi

della mia stima.

ROBERT B.F. MACKENZIE

Sulle immediate conseguenze della lettera si può apprendere molto

dai giornali. La mia grande fortuna di ottenere l'appoggio della Mis-

katonic University, e tanto il signor Mackenzie quanto il dottor Boyle si

dimostrarono preziosi nell'organizzare la spedizione in Australia. Non

fummo troppo loquaci circa i nostri obiettivi, perché l'intera faccenda

poteva prestarsi in modo sgradevole ad essere trattata dai giornali po-

polari come fatto sensazionale o faceto. Di conseguenza, i resoconti

stampati furono pochi ma sufficienti a rivelare che si trattava di ricer-

che di rovine australiane con particolari sulle fasi preparatorie.

Il professor William Dyer del corso di geologia - capo della spedizio-

ne antartica della Miskatonic University, nel 1930-31 -, Ferdinand C.

Ashleyn, docente di storia antica, e Tyler M. Freeborn, docente di antro-

pologia, insieme a mio figlio Wingate, furono le persone che decisero di

accompagnarmi.

Il mio corrispondente Mackenzie venne ad Arkham ai primi del 1935

e ci diede una mano nei preparativi finali. Si dimostrò un uomo affabi-

le e di estrema competenza, sui cinquant'anni, di grande erudizione e

con una profonda conoscenza di tutte le condizioni di viaggio in Au-

stralia.

Egli aveva veicoli fuoristrada pronti a Pilbarra, e noi noleggiamm°

un battello abbastanza piccolo da risalire il fiume fino a quel punto. Ci

disponemmo a scavare in maniera accuratissima e razionale setaC-

ciando ogni particella di sabbia ma senza danneggiare niente che po-

tesse apparire in stato naturale o quasi.

Salpammo da Boston a bordo dell'ansimante Lexington il ventotto

marz° 1935 e facemmo una comoda traversata dell'Atlantico e del Me-

diterraneo, poi attraversammo il Canale di Suez e il Mar Rosso percor-

rendo poi l'Oceano Indiano fino alla meta. Non sto a dirvi quanto mi

depresse la vista della piatta costa sabbiosa dell'Australia occidentale

e quanto odiai la rozza città mineraria e i tetri campi auriferi dove i

trattori caricarono il resto dell'equipaggiamento.

Il dottor Boyle, che venne a riceverci, ci apparve anziano, piacevole e

intelligente, e le sue cognizioni di psicologia gli permisero di ingaggia-

re lunghe discussioni con mio figlio e con me.

Disagio e attesa si mescolavano dentro di noi mentre il nostro grup-

po di diciotto persone avanzava sulle aride estensioni di sabbia e roc-

cia. Il venerdì trentuno maggio, guadammo un ramo del fiume De Grey

ed entrammo nel regno della totale desolazione. Mi crebbe dentro un

comprensibile terrore a mano a mano che avanzavamo verso il luogo

dell'antico mondo delle leggende - un terrore, naturalmente, favorito

dal fatto che i miei sogni disturbanti e le pseudo-memorie continuava-

t no ad assalirmi con immutata intensità.

Fu il lunedì, tre giugno, che vedemmo il primo dei massi semisepolti.

Non so descrivere l'emozione con cui toccai veramente - nella realtà

della veglia - un frammento di costruzione ciclopica in tutto e per tutto

simile ai blocchi dei muri degli edifici tanto spesso sognati. Vi era una

inconfondibile traccia di incisioni, e le mani mi tremarono quando ri-

1, conobbi parte di uno schema curvilineo e decorativo, reso familiare da

anni di tormentoso incubo e sconcertanti ricerche.

Un mese di scavi portò alla luce un totale di circa milleduecentocin-

t quanta blocchi in varie fasi di corrosione e frammentazione. Per lo più

erano megaliti con estremità superiori e inferiori ricurve. Una mino-

ranza consisteva in blocchi, più piccoli, piatti, con superfici lisce, a ta-

glio squadrato o ottagonale- come quelli dei pavimenti e dei selciati

del sogno- mentre alcuni erano singolarmente massicci e ricurvi o in-

dinati in maniera da far pensare che fossero stati usati per volte o co-

stoloni~ o parti di archi, o contorni di finestre rotonde.

.Più sCavammo in profondità - e lontano verso nord-est- più trovam-

~o altri massi, anche se non riscontrammo tracce di una disposizione

pinata dei singoli elementi . Il professore Dyer fu atterrito dalla incre-

~ile vetustà dei frammenti, e Freeborn trovò tracce di simboli ricor-

~ti in certe leggende antichissime e oscure della Papuasia e della Po-

_ esia. Lo stato e la dispersione dei blocchi erano una muta attestazio-

_ li Vertiginosi Cicli di tempo e di sollevamenti geologici di brutalità

_ nica.

nevamo anche di un aeroplano e mio figlio Wingate andava

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spesso a diverse altitudini per scrutare il deserto di sabbia e roccia alla

ricerca di segni di contorni indistinti e di grandi dimensioni, di diversi-

tà di livello del suolo o tracce di massi sparsi. I risultati furono negati-

vi; ogni qualvolta pensava di aver visto un segno significativo, la volta

dopo l'impressione era sostituita da un'altra di natura contraria a cau-

sa della sabbia che si spostava col vento.

Tuttavia una o due di quelle impressioni effimere mi colpì in modo

strano e sgradevole. Sembravano collegarsi in un certo modo con qual-

cosa che avevo sognato a letto, ma che non rammentavo più. Avevano

qualcosa di orribilmente familiare, il che mi fece considerare lo sterile

suolo con timore e apprensione anche maggiori.

Durante la prima settimaiia di luglio, crebbe in me una inesauribile

serie di impressioni confuse a proposito di quella zona a nord-est. Era

orrore ed era curiosità, ma in più vi era una costante e sconcertante

sensazione di déjà-vu.

Tentai ogni genere di espedienti psicologici per togliermi quelle idee

dalla testa, ma senza successo. Divenni vittima dell'insonnia, ma ne fui

quasi contento perché abbreviava i periodi onirici. Così presi l'abitudi-

ne di fare lunghe passeggiate solitarie nel deserto, a notte fonda, di soli-

to verso nord-est, laddove mi spingeva misteriosamente l'insieme dei

nuovi impulsi.

Talvolta, durante quelle passeggiate, inciampavo contro frammenti

semi-sepolti. Benché là vi fossero meno blocchi visibili rispetto al pun-

to da dove avevamo iniziato le ricerche, io ero sicuro che sotto terra essi

fossero molto abbondanti. Il terreno era meno piatto che intorno al no-

stro accampamento, e i venti prevalenti ammucchiavano la sabbia qua

e là in fantastiche collinette, mettendo in luce alcune tracce di antiche

pietre ma probabilmente nascondendone molte altre.

Io ero stranamente impaziente che gli scavi fossero estesi a quel ter-

ritorio, eppure nel medesimo tempo inorridivo al pensiero delle even-,

tuali scoperte. Era evidente che stavo scivolando in cattive condizioni !

di salute - e, quel ch'era peggio, senza rendermene conto.

Un indice dei miei nervi malandati si può ricavare dalla reazione a j

una strana scoperta che feci durante un vagabondaggio notturno. Fu la

sera dell'undici luglio, quando la luna inondava le misteriose collinette

di uno strano lucore.

Girovagando un po' oltre i confini abituali, rinvenni per caso una

grande pietra che pareva molto diversa da quelle finora scoperte. ~ra

quasi del tutto nascosta ma io mi curvai e, tolta la sabbia con le mani,

esaminai attentamente l'oggetto, facendo uso della mia torcia elettri-

ca.

Dissimile dalle altre, questa era perfettamente quadrata, senza su-

perfici convesse o concave. Pareva, inoltre, di materia scura, basaltica,

diversa dal granito o dall'arenaria o dal materiale simile al ceme~

dei frammenti ben noti.

D'un tratto mi sollevai e corsi a tutta velocità in direzione dell'ac-

Campamento Fu una fuga inconscia e irrazionale, e solo quando fui nei

pressi della mia tenda mi resi conto veramente del perché avevo corso.

E mi sovvenne un ricordo. La strana foresta scura era qualcosa che ave-

vo sognato e di cui avevo letto, ed era collegata con i peggiori orrori del-

le leggende antiche quanto l'eternità.

Era uno dei blocchi dell'antica costruzione basaltica di cui la mitica

Grande Razza aveva paura--le alte rovine, senza finestre, lasciate dalle

cose terribili, parzialmente immateriali ed estranee, che infestavano

gli abissi profondi della terra e contro le cui forze, invisibili come il

vento, erano state sbarrate le botole e appostate vigili sentinelle.

Restai sveglio tutta la notte ma all'alba mi dissi che ero stato uno

sciocco a lasciarmi sconvolgere dall'ombra di un mito. Invece di spa-

ventarmi, avrei dowto avere l'entusiasmo dell'esploratore.

Il mattino seguente misi gli altri al corrente della scoperta e insieme

a Dyer, Freeborn, Boyle e mio figlio, mi incamminai per esaminare il

blocco anomalo. Ma ci aspettava una delusione. Non mi ero fatto una

idea precisa della posizione della pietra e il vento della notte aveva

completamente mutato la disposizione delle collinette di sabbia.

A questo punto affronto la parte cruciale e più difficile del mio raccon-

to, tanto più difficile perché non sono ben sicuro della sua realtà. A vol-

te ho la spiacevole sensazione che non sognai né fui indotto in errore, ed

~ questa sensazione di sicurezza--in vista delle prodigiose implicazioni

che possono scaturire dalla verità obiettiva della mia esperienza - che

mi obbliga a fare il resoconto.

Mio figlio - psicologo esperto, con una conoscenza completa del mio

caso che giudicava con comprensione - sarà il primo giudice di quanto

~; sto per narrare.

- = In primo luogo descriverò l'apparenza esteriore dell'episodio così co-

~e lo conoSCono quelli dell'accampamento. La notte tra il diciassette e

diciotto luglio, dopo una giornata ventosa, mi coricai presto ma non

scii a dormire. Alzatomi verso le undici e tormentato come al solito

~quella strana sensazione sul terreno di nord-est iniziai una delle mie

lsseggiate notturne, dopo aver visto e salutato una sola persona - un

Fnatore australiano di nome Tupper- al momento di lasciare la no-

zona.

a luna, appena in fase decrescente, brillava nel cielo sereno e ba-

va le antiche sabbie di una radiosità bianca, malata, che mi sembrò

infinitamente malefica. Non c'era vento, né ve ne sarebbe stato per cin-

que ore almeno, come attestato da Tupper e da altri che mi videro

scomparire tra le pallide collinette in direzione nord-est.

Verso le tre e mezzo del mattino si levò un vento violento che svegliò

tutti al campo e fece cadere tre tende. Il cielo era senza nuvole e il de-

serto splendeva ancora sotto il chiarore lunare. Quando il gruppo si

diede a rialzare le tende, si accorse della mia assenza, ma tenuto conto

dei precedenti la circostanza non creò allarme. Tuttavia, almeno tre

uomini - tutti australiani - avvertirono qualcosa di inquieto nell'aria.

Mackenzie spiegò al professor Freeborn che quella era una paura

mutuata dal folkore indigeno - i nativi avevano intessuto una strana

trama di sinistre dicerie sui forti venti che a lunghi intervalli investono

le sabbie quando il cielo è sereno. Tali venti, si mormora, scaturiscono

da strane dimore sotterranee dove sono avvenute cose terribili, e non si

registrano mai se non vicino a luoghi dove sono disseminate le grosse

pietre decorate. ~erso le quattro la tempesta di vento si calmò, di colpo

come era iniziata, lasciando i cumuli di sabbia disposti secondo forme

nuove e ignote.

Erano appena passate le cinque quando arrivai barcollando all'ac-

campamento e una luna gonfia e fungoide calava a occidente. Ero sen-

za cappello, gli abiti stracciati, la faccia graffiata e insanguinata e sen-

za torcia elettrica. Quasi tutti gli uomini erano tornati a letto, ma il

professor Dyer fumava la pipa davanti alla sua tenda. Visto il mio stato

chiamò il dottor Boyle, e tutti e due mi portarono sulla branda e mi fe-

cero sdraiare. Mio figlio, svegliatosi per il trambusto, li raggiunse e tut-

ti cercarono di farmi stare tranquillo per vedere se mi addormentavo.

Ma io non avevo sonno. Il mio stato psicologico era assai strano, di-

verso dalle sofferenze passate. Dopo un poco, insistetti per parlare,

spiegai le mie condizioni in modo sovreccitato e confuso.

Dissi che mi ero stancato troppo e che mi ero disteso sulla sabbia per

un sonnellino. Là avevo avuto dei sogni ancor più terribili del solito e

quando ero stato svegliato dal vento improvviso i miei nervi logori era-

no saltati. Ero fuggito in preda al panico, cadendo spesso sulle pietre

semi-nascoste, e così mi ero stracciato gli abiti e avevo preso quell'a-

spetto malconcio. Dovevo aver dormito a lungo, ecco il perché di tante

ore di assenza.

Nulla assolutamente accennai di cose strane viste o provate - eserCi-

tai il massimo autocontrollo a tale riguardo. Dissi però di aver mutato

opinione a proposito del lavoro della spedizione e sollecitai che si fer-

massero gli scavi in direzione di nord-est.

Il mio ragionamento fu manifestamente lacunoso--accennai infatti

al desiderio di non offendere i minatori superstiziosi, alla possibile in-

sufficienza dei fondi stanziati dall'Università, e ad altre cose non vere o

irrilevanti. Naturalmente nessuno fece caso al mio nuovo parere, nep-

pure mio figlio che si preoccupò evidentemente della mia salute.

J L'indomani mi alzai e girai per il campo, ma non presi parte agli sca-

vi. Decisi di rientrare a casa il più presto possibile a causa dei nervi, e

mio figlio mi promise di accompagnarmi in aereo fino a Perth - mille-

seicento chilometri a sud-ovest - non appena avesse ispezionato la re-

gione che io desideravo abbandonare.

Se, riflettei, la cosa che avevo visto era ancora visibile, avrei potuto

tentare di essere più preciso anche a costo di sembrare ridicolo. Era

prevedibile che i minatori a conoscenza del folklore locale mi avrebbe-

ro appoggiato. Per compiacermi, mio figlio effettuò la ricognizione lo

stesso pomeriggio, volando su tutta la zona che avevo probabilmente

percorso a piedi. Tuttavia, nulla di quanto avevo scoperto era rimasto

visibile.

Si trattava ancora del blocco anomalo di basalto - i movimenti della

sabbia ne avevano spazzate le tracce. Per un attimo rimpiansi di aver

perduto l'oggetto temuto con la mia folle corsa, ma adesso so che la

L perdita fu un atto di misericordia. Preferisco credere che tutta la mia

J esperienza sia stata una illusione, specialmente se, come spero di cuo-

re, quell'abisso infernale non sarà mai trovato.

Wingate mi condusse a Perth il venti luglio, anche se lui si rifiutb di

abbandonare la spedizione e di far ritorno in patria. Mi tenne compa-

gnia fino al venticinque, quando salpò il vapore per Liverpool. Ora nel-

t la cabina dell'Empress, dopo aver meditato lungamente sull'accaduto

ho concluso che almeno mio figlio deve sapere. Starà a lui decidere se

t render nota la cosa o meno.

Per far fronte a qualsiasi eventualità ho preparato un riassunto degli

avvenimenti che fanno da premessa - già noti ad altri in modo sconnes-

so- ed ora narrerò con la massima brevità quanto mi parve che acca-

desse nel periodo in cui fui assente dal campo, quella notte terribile.

Con i nervi a fior di pelle e sospinto verso il terreno di nord-est da

quell'inspiegabile bisogno di ricordare misto a spavento simile a una

brama perversa, camminai con passo deciso sotto la malefica, fulgida

luna Qua e là vidi, mezzo nascosti dalla sabbia, blocchi primitivi e ci-

clopici, abbandonati da immemori eoni.

La vetustà incalcolabile e l'orrore latente di quel mostruoso deserto

Cominciò a opprimermi più del solito, e non potei fare a meno di pensa-

e ai sogni alienanti, alle spaventose leggende che li avevano alimenta-

tij agli attuali timori dei nativi e dei minatori sul deserto e le sue pietre

scolpite.

munque~ continuai il cammino come se fossi diretto a un conve-

~o soprannaturale~ sempre più in preda a sconcertanti fantasie, com-

i~lsionj e pseudo-ricordi. Pensai a certi probabili contorni delle linee

klcune pietre viste da mio figlio con l'aereo, e mi chiesi perché mi

Fsero sembrate subito così minacciose e familiari. Qualcosa tentava

~prirmj lo sportello dei ricordi, mentre un'altra forza ignota si ado-

~;ava per tenerlo chiuso.

La notte era senza vento e la pallida sabbia si presentava con rilievi e

avvallamenti simili a onde marine pietrificate. Non avevo una meta,

ma mi spingevo avanti con una sicurezza dettata dal fato. I sogni si me-

scolavano al mondo circostante ed ogni megalito sotterrato nella sab-

bia sembrava far parte di stanze e corridoi infiniti di costruzioni pre-

umane, scolpito e ornato di geroglifici i cui simboli ben conoscevo in

seguito agli anni trascorsi come mente prigioniera della Grande Razza.

A tratti immaginavo di vedere quegli orrori conici, onniscienti, che si

aggiravano impegnati nei loro consueti lavori e temevo di guardare il

mio corpo per tema di scoprirmi del loro stesso aspetto. Eppure per

tutto il tempo io vidi i blocchi coperti di sabbia e stanze e corridoi; la

luna che brillava maligna e le lampade di cristallo luminoso; il deserto

infinito e le.felci ondeggianti al di là delle finestre. Ero desto e sognavo

nel medesimo tempo.

Non sapevo fin dove mi stessi spingendo né per quanto tempo avessi

camminato - e neppure sapevo in quale direzione -, quando mi accorsi

del cumulo di massi messi a nudo dal vento. Era il gruppo più cospicuo

che avessi visto finora in un unico luogo, e mi colpì così profondamente

che le visioni di mitici eoni passati svanirono di colpo.

Vi fu di nuovo il deserto e la malvagia luna e i frammenti di un passa-

to inimmaginabile. Mi avvicinai, mi fermai e gettai la luce della torcia

su quella pila di rovine. Una collinetta era stata spazzata via dal vento

ed era rimasta una massa irregolarmente rotonda di megaliti e di

frammenti minori di circa dodici metri di diametro, alti da mezzo me-

tro a due metri e mezzo.

Fin dall'esordio, mi ero reso conto che in quelle pietre vi era qualcosa

assolutamente senza precedenti. Non solo la quantità non aveva l'e-

guale, ma qualcosa nelle tracce del disegno, logorate dalla sabbia, mi

colpì mentre le scrutavo sotto i raggi della luna e della torcia.

Non che ve ne fossero di essenzialmente diverse dai reperti rinvenuti

prima. Vi era qualcosa di più sfuggente. L'impressione scaturiva non

quando guardavo le tracce una alla volta, ma quando l'occhio le coglie-

va tutte insieme.

Poi, alla fine, la verità si fece strada dentro di me. La forma curvili-

nea di molti blocchi era pressoché identica - erano pezzi di una vasta

struttura decorativa. Per la prima volta in quel deserto che aveva subi-

to il logorio di-eoni, mi ero imbattuto nelle rovine di una costruzione

nella sua antica posizione, rovinata e frammentaria, è vero, ma ciò no-

nostante reale in senso ben definito.

Issatomi su un ripiano basso, mi arrampicai faticosamente sul cu-

mulo, togliendo qua e là la sabbia con le dita, e sforzandomi continua-

mente di interpretare le variazioni di misura, forma stile, e rapporti di

disegno. Dopo un poco mi ero fatto una vaga idea deila natura della co-

struzione, e dei disegni che un tempo si estendevano lungo le enormi

superfici La perfetta identità dell insieme con certe mie visioni oniri-

che mi spaventò e mi snervò.

Quello era stato un corridoio ciclopico, largo nove metri e alto altret-

tant°, lastricato con blocchi ottagonali e coperto con solido soffitto a

volta. Dovevano esserci stanze che si aprivano sulla destra, e alla estre-

mità doveva esistere uno di quegli strani piani inclinati che scendeva-

no a maggiore profondità.

Sussultai con forza quando mi vennero certe idee, perché esse dice-

vano molto di più dei blocchi in sé. Come sapevo che il livello doveva

essere stato molto sotto terra? Come sapevo che il piano che portava in

alto stava alle mie spalle? Come sapevo che il lungo passaggio sotterra-

neo verso la Piazza dei Pilastri doveva trovarsi a sinistra, un piano so-

pra di me?

Come sapevo che la stanza delle macchine e la galleria che portava a

destra verso gli archivi centrali doveva trovarsi due piani più in basso?

Come sapevo che doveva esserci una di quelle orribili botole sigillate

con il metallo nella parte più bassa, quattro piani sotto? Sconcertato

da questa intrusione del mondo onirico, mi trovai tremante e bagnato

da un sudore freddo.

Poi, alla fine, con un contatto intollerabile, avvertii la corrente di

aria fredda, debole e insidiosa, che sgorgava da un avvallamento situa-

to circa al centro dell'enorme cumulo. In un baleno, come prima, le vi-

sioni svanirono e vidi solo la malefica luna, il deserto sinistro, e il vasto

cumulo della costruzione del Paleogene. Allora dovetti affrontare qual-

cosa di reale e tangibile, eppure carico di infiniti richiami di cupo mi-

stero. Quella corrente di aria non poteva infatti significare che una sola

cosa, un nascosto abisso di grandiose proporzioni, sotto i disordinati

blocchi in superficie.

Il primo pensiero corse alle macabre leggende degli indigeni, a pro-

posito di enormi dimore sotterranee tra i megaliti, dove avvengono co-

se orribili e nascono i forti venti. Poi mi riaffiorarono i ricordi dei sogni

e sentii confusi pseudo-ricordi tormentarmi la mente. Quale genere di

Luogo stava sotto di me? Quale fonte primitiva e inconcepibile di cicli

di miti antichissimi e tormentosi incubi ero sul punto di scoprire?

L~incertezza non durò che un attimo, perché curiosità e zelo scientifi-

co mi tr:lc~in:~r~nr~ ~,V~rt; ~ r.~pr~ rP~

~MI pareva di muovermi automaticamente, come preso nella morsa

un destino ineluttabile. Misi la torcia in tasca e, lottando con una for-

che non credevo di possedere, spostai di lato prima un frammento

~lossale, poi un altro, finché scaturì una forte corrente ricca di umidi-

I~:he ContrastaVa stranamente con l'aria asciutta del deserto. Comin-

a delinearsi una fessura nera, e infine - dopo aver rimosso ogni

Pllmento abbastanza piccolo per le mie forze - un malsano chiarore

~are iuuminò una apertura di grande dimensione, nella quale potevo

Fodurrni.

Estrassi la torcia e mandai il cono di luce nell apertura. All interno vi

era un caos di rovine, che declinavano verso nord con un angolo di circa

quarantacinque gradi, palesemente causate da qualche sprofonda

mento antichissimo del terreno.

Fra il fondo di quel mondo sotterraneo e il livello del terreno vi era

un vuoto di oscurità impenetrabile al cui limite superiore vi erano trac-

ce di volte gigantesche. A quel punto, era chiaro, le sabbie del deserto

stavano direttamente sopra um piano di strutture titar.iche che risali-

vano ai primordi della terra, e non seppi immaginare, né lo so adesso

come si siano conservate attraverso eoni di sconvolgimenti geologici.

Col senno di poi la semplice idea di una discesa solitaria in quell'a-

bisso misterioso - e in un momento in cui nessuno sapeva dove mi tro-

vassi - appare come l'apice estremo della follia. Forse lo fu, eppure

quella notte mi accinsi alla discesa senza esitazione.

Era ancora evidente che il destino continuava a guidare i miei passi.

Usando la torcia a intervalli per risparmiare la pila, intrapresi una fol-

le avanzata giù per la china sinistra e ciclopica che partiva dall'apertu-

ra, talvolta carponi se trovavo un buon appiglio per mani e piedi, e al-

tre volte mi voltavo a guardare l'ammasso di megaliti, quando i movi-

menti erano più precari e procedevo a tastoni.

Ai lati si intravedevano in lontananza pareti in muratura, scolpite e

diroccate, come mi apparivano sotto i raggi diretti della torcia. Di fron-

te, però, avevo le tenebre.

Non tenni conto del tempo durante la scivolata verso il basso. Tanto

era in fermento la mia mente per le tracce e le immagini sconcertanti,

che tutte le questioni obiettive erano da me lontanissime. La sensibili-

tà fisica era morta, e anche la paura era rimasta come un doccione grot-

tesco e innocuo.

Infine raggiunsi un pavimento piano cosparso di blocchi caduti,

frammenti di pietra, sabbia e detriti di ogni genere. Dall'altra parte-

forse a circa dieci metri - si ergevano mura massicce che culminavano

in enormi costoloni. Potevo a malapena intuire che erano scolpiti, ma

non ne distinguevo i particolari.

Ciò che mi colpì di più fu il soffitto a volta. La luce della torcia non ar-

rivava al tetto, ma erano ben visibili le parti inferiori degli archi mo-

struosi. E la loro identità con i miei numerosi sogni era così perfetta

che fui colto da un forte tremito.

Alle spalle e molto in alto una macchia luminosa ma fioca, mi ricor-

dò il lontano chiarore lunare del mondo esterno. I]n vago residuo di

prudenza mi avvertì di non perderlo di vista, altrimenti avrei potut°

non avere una guida per il ritorno.

Avanzai verso il muro di sinistra, dove erano più evidenti le tracce di

incisioni. Il pavimento pieno di disordine era difficile da attraversare

come l'ammasso di pietre più sopra, ma riuscii a trovare la via, se pure

con difficoltà.

In un punto spostai di peso alcuni blocchi e spazzai con il piede i de-

Uiti per vedere come era fatto il pavimento, e rabbrividii per la com-

pleta e lugubre familiarità delle grandi pietre ottagonali la cui superfi-

cie butterata era ancora abbastanza uniforme.

Raggiunta una opportuna distanza dal muro diressi la luce lenta-

mente e minuziosamente sui resti consumati delle incisioni. Sulla su-

perficie di arenaria avevano influito antiche erosioni dovute all'acqua

e si notavano strane incrostazioni che non seppi spiegare.

1- A tratti il muro era sconnesso e deformato, e mi chiesi per quanti al-

tri eoni quell'edificio primitivo e nascosto avrebbe conservato presso-

ché intatta la propria struttura in mezzo agli sconvolgimenti terrestri.

Ma furono soprattutto le incisioni a eccitarmi di più. Malgrado si

stessero sbriciolando si potevano identificare facilmente a breve di-

stanza e la completa e intima familiarità di ogni particolare mi sbalor-

dì. Quánto ai principali attributi di quella antichissima costruzione, il

fatto che mi fossero familiari non era poi così incredibile.

Certi miti, che i creatori avevano fissato con vivezza impressionante,

si erano incorporati in un patrimonio di misteriose tradizioni che, in

qualche modo, erano giunte a mia conoscenza durante il periodo della

amnesia, evocando nitide immagini nella mente subconscia.

Ma come spiegare il modo esatto e 757m1216h minuzioso con cui ogni linea e spi-

rale di quei misteriosi disegni combaciava con quanto avevo sognato

per più di venti anni? Quale oscura e dimenticata iconografia poteva

riprodurre ogni sottile gradazione e sfumatura che, notte dopo notte,

~` aveva assalito la mia visione onirica in maniera tanto costante, precisa

e invariabile?

Perché quello non era un caso o una remota rassomiglianza. Il corri-

doio antico di millenni e rimasto sepolto per eoni, nel quale mi trovavo,

~ra in modo certo e assoluto l'originale di qualcosa che io conoscevo nel

|Sonno così intimamente come la mia casa di Crane Street a Arkham. E

ZVero che i miei sogni mostravano il luogo in condizioni perfette, ma l'i-

ltlentità era comunque innegabile. Ero in grado di orientarmi perfetta-

p~te.

~ La Struttura particolare in cui mi trovavo mi era nota. E noto mi era

p luogo nella terribi le antica città del sogno . Ebbi la paurosa e istintiva

~ezza di poter visitare, senza perdermi, qualsiasi punto di quell'edi-

p o di quella città, che era scampato ai mutamenti e alle devastazio-

i:ere incalcolabili. In nome del Cielo, che cosa significava tutto que-

Come ero arrivato a conoscere quelle cose? E quale muta realtà si

~a dietro agli antichi racconti degli esseri che avevano abitato in

~abirinto di pietra primordiale?

parole non possono che richiamare in modo parziale il tumulto di

into e stordimento che attentava al mio spirito. Il posto lo cono-

~ SapevO ciò che stava sotto di me e ciò che era esistito sopra, pri-

ma che la miriade di piani altissimi fosse precipatata, ridotta in polve-

re e detriti, formando un deserto. Non avevo più bisogno, pensai con un

brivido, di tenere d'occhio la confusa macchia del chiarore lunare.

Ero combattuto tra il desiderio di fuggire, e un febbrile miscugli.o di

bruciante curiosità e strano fatalismo. Che cosa era accaduto a quella

mostruosa megalopoli dell'antichità nei milioni di anni successivi al-

l'epoca del mio sogno? Dei dedali sotterranei che si trovavano sotto la

città e collegavano tutte le torri titaniche, che cosa era rimasto utiliz-

zabile attraverso i sussulti della crosta terrestre?

Ero capitato in un mondo completamente sepolto, di sacrilega anti-

chità? Avrei trovato ancora la casa dell'insegnante di calligrafia e la

torre dove S'gg'ha, la mente prigioniera venuta dai vegetali carnivori

dalla testa stellata dell'Antartide, aveva cesellato certe immagini sugli

spazi vuoti delle pareti?

Il passaggio al secondo piano in basso, che accedeva alla sala delle

menti straniere, sarebbe stato ancora sgombro e accessibile? ln quella

sala la mente prigioniera di una incredibile entità, un abitante semi-

sintetico della vuota cavità interna di un pianeta al di là di Plutone a

diciottomila anni nel futuro aveva conservato una certa cosa che aveva

modellato con la creta.

Chiusi gli occhi e mi passai la mano sulla testa nel vano sforzo di to-

gliermi dalla coscienza quei pazzi frammenti di sogno. Poi, per la pri-

ma volta, sentii nettamente il fresco umido dell'aria circostante che si

muoveva. Rabbrividendo, mi resi conto che una vasta serie di neri

abissi, morti da eoni, dovevano spalancarsi da qualche parte davanti e

sotto di me.

Pensai alle stanze e corridoi spaventosi, e ai piani inclinati come li ri-

cordavo dai sogni. Sarebbe stata ancora aperta la via verso gli archivi

centrali ? L'ineluttabile fatalità mi tormentò insistentemente il cervello

quando rammentai gli imponenti annali che stavano ben ordinati sugli

scaffali nelle cassette rettangolari di metallo inossidabile.

Là, dicevano i sogni e le leggende, si trovava tutta la storia, passata e

futura, del continuum spazio-temporale scritta da menti prigioniere

provenienti da ogni globo e da ogni era del sistema solare. Follia, certo,

ma non ero capitato in un mondo tenebroso, pazzo come me?

Pensai alle cassette di metallo chiuse ermeticamente e ai curiosi mo-

vimenti delle manopole necessari per aprirli. La mia combinazione l'a-

vevo stampata nella coscienza. Quante volte avevo eseguito quell'intri-

cata routine di giri e pressioni diversi, nella sezione vertebrata terrestre

del piano più basso! Tutti i particolari mi erano familiari e vivi.

Se esisteva una cassetta come quella sognata, l'avrei aperta in un at-

timo. E fu allora che la pazzia si impossessò di me. Un istante dopo già

saltellavo e inciampavo tra i detriti pietrosi verso lo scivolo che porta-

va a maggiori profondità.

Da quel punto in avanti le mie impressioni non sono molto attendibili,

in effetti nutro la disperata speranza che tutto faccia parte di un sogno

demoniaco o di una allucinazione scaturita dal delirio. Il mio cervello

fu sconvolto dalla febbre e tutto fu percepito come attraverso una con-

fusione mentale, certe volte solo intermittente.

I raggi della torcia forarono debolmente l'oscurità profonda, portan-

domi fugaci visioni fantasmagoriche di mura e incisioni terribilmente

familiari, rovinate da un'incuria plurimillenaria. In un punto una mas-

sa enorme di materiale era caduta, cosicché dovetti issarmi lungo un

cumulo massiccio di pietre, alto quasi fino al soffitto da cui pendevano

grottesche stalattiti.

Era l'estremo apice dell'incubo, peggiorato dal tormento blasfemo

degli pseudo-ricordi. Una sola cosa mi era ignota, cioè la mia dimensio-

ne rispetto alle mostruose costruzioni. Mi sentivo oppresso da un senso

di insolita esiguità, come se la vista di quelle mura torreggianti per un

povero corpo umano fosse cosa assurda e insopportabile. Non facevo

che guardare il mio corpo vagamente inquieto per la forma umana che

possedevo.

E intanto saltavo, correvo, incespicavo nella mia avanzata nelle te-

nebre dell'abisso, spesso cadevo causandomi lividi ed escoriazioni e

una volta corsi il rischio di rompere la torcia. Ogni pietra, ogni angolo

di quella profondità demoniaca mi era noto e in molti tratti mi fermai e

passai il raggio di luce sulle familiari volte in rovina.

Delle stanze erano crollate del tutto, altre erano spoglie o piene di de-

triti . In alcune vidi cumuli di metallo - parte intatti o quasi, parte rotti,

frantumati o logori - in cui riconobbi i colossali pedistalli e le tavole

dei miei sogni. Che cosa fossero state in realtà, non osai immaginare.

Trovai lo scivolo verso il basso e cominciai a scendere, sebbene dopo

P~ poco fossi arrestato da una voragine che si apriva come una bocca fra-

stagliata, il cui punto più stretto non poteva misurare meno di un me-

tro e mezzo di diametro. Là era precipitata l'opera in muratura, rive-

lando incalcolabili, nere profondità al di sotto.

Sapevo che vi erano altri due piani sotterranei in quell'edificio tita-

nico, e tremai di rinnovato panico ricordandomi della botola in quello

più basso. Non dovevano esserci sentinelle ormai, perché ciò che si era

nascosto laggiù aveva terminato da tempo la sua odiosa opera e si era

tissolto dopo una lunga consumazione. Per l'epoca post-umana, quan-

~;do fosse venuta la razza dei coleotteri, ciò che stava laggiù sarebbe sta-

~to completamente morto. Eppure tremai ancora, ripensando alle leg-

~ende degli indigeni.

Mi ci volle uno sforzo disumano per saltare quel baratro spalancato,

perché il pavimento cosparso di detriti mi impedì di prendere lo slan-

cio, ma la pazzia mi portò avanti. Scelsi un punto vicino al muro di si-

nistra dove la fenditura era meno larga e il punto di approdo abbastan-

za sgombro di pericolosi detriti, e dopo un terribile istante toccai l'al-

tra sponda sano e salvo.

Alla fine, raggiunto il piano inferiore, superai l'archivolto della stan-

za delle macchine, nella quale erano fantastiche rovine di metallo,

mezzo sepolte sotto le volte cadute. Tutto era esattamente come mi

aspettavo e mi arrampicai fiducioso sopra i cumuli che sbarravano

l'entrata di un grande corridoio trasversale. Quello, lo sapevo, mi

avrebbe condotto sotto la città verso gli archivi centrali.

Ere infinite si dipanavano mentre io inciampavo, saltavo, strisciavo

lungo il corridoio pieno di rovine. Qua e là notavo incisioni sui ,muri

macchiati dal tempo - alcune note, altre forse aggiunte in periodi suc-

cessivi ai sogni. Poiché quella era una grossa arteria sotterranea di col-

legamento fra le abitazioni non vi erano archivolti, eccetto nel caso in

cui la strada passava sotto gli strati inferiori dei vari edifici.

A certi incroci mi spostavo di lato per guardare in basso dove si tro-

vavano le stanze che ben ricordavo. Due volte soltanto scopersi cam-

biamenti radicali rispetto ai sogni e in un caso tracciai i contorni del-

I'archivolto che era stato coperto.

Fremetti violentemente e provai una strana debolezza a effetto ritar-

dato mentre dirigevo i miei passi amrettati e riluttanti lungo la cripta

di una di quelle torri grandiose, rovinate, senza finestre, la cui muratu-

ra in basalto parlava di una origine terribile e mitica.

Quella volta primitiva era rotonda e del diametro di almeno sessanta

metri, senza nessuna incisione sulla scura pietra. Il pavimento là era li-

bero da detriti; vi si notavano solo polvere e sabbia, e vidi le aperture

che portavano sia in alto che in basso. Non c'erano né scale né piani in-

clinati - veramente i sogni mi avevano rivelato quelle antiche torri co-

me inviolate dalla favolosa Grande Razza. Coloro che le avevano co-

struite, non avevano avuto bisogno né di scale né di scivoli.

Nei sogni, l'apertura in basso era chiusa e sorvegliata. Adesso era

aperta, nera e spalancata, ed emetteva una corrente di aria fredda e

umida. Non volli pensare a quali illimitate caverne di notte eterna si

celassero nel fondo.

Dopo aver superato una sezione del corridoio piena di detriti dove

dovetti procedere faticosamente aggrappandomi con le mani, raggiun-

si un punto ove il soffitto era completamente sprofondato. I detriti for-

mavano una montagna e io mi ci arrampicai sopra, passando poi per

uno spazio vuoto, senza muri né volte. Quella, riflettei, doveva essere la

cantina della casa del fornitore di metallo, che dava sulla terza piazza,

non lontana dagli archivi. Che cosa ne fosse stato, non potei immagi-

narlo.

Ritrovai il corridoio dopo la montagna di detriti e pietre, ma dopo

averne percorso un tratto mi imbattei in un posto completamente

ostruito dove la volta caduta toccava quasi il soffitto che mostrava pe-

ricolosi cedimenti. Non so come feci a spostare e gettare da parte tanti

blocchi da aprirmi un varco, né come osai sconvolgere gli ammucchiati

frammenti quando il minimo spostamento di equilibrio avrebbe potu-

to far crollare le tonnellate di muratura sovrastante, riducendomi in

poltiglia.

Fu la pazzia pura a spingermi e guidarmi, se pure non fu pazzia tutta

la mia avventura sotterranea - come spero--,una illusione infernale o

un lungo sogno. Però mi aprii un passaggio -o sognai di averlo aperto -

nel quale potei infilarmi a fatica. Mentre procedevo come un serpente

sopra al cumulo di rovine - la torcia, sempre accesa, la reggevo con la

bocca - mi sentii lacerare dalle fantastiche stalattiti che pendevano so-

pra di me.

Mi stavo avvicinando al grande edificio sotterraneo degli archivi che

pareva costituire il mio obiettivo. Scivolando e scendendo lungo il lato

estremo della barriera, e ripresa la via per il rimanente tratto del corri-

doio - ora tenevo la torcia in mano e l'accendevo a intervalli - giunsi

infine a una cripta bassa, circolare, fatta ad archi, ancora in stupendo

stato di conservazione con aperture lungo ogni lato.

Le pareti, almeno quanto di esse vedevo nel raggio della torcia, erano

E piene di geroglifici e cesellate con tipici simboli curvilinei, alcuni suc-

cessivi al periodo del sogno.

Quello, compresi, era il luogo predestinato, e imboccai subito un ar-

chivolto familiare che, stranamente avevo pochi dubbi in proposito,

| ~ conduceva a tutti i livelli sottostanti ancora esistenti. Quella vasta co-

struzione protetta dalla terra, che custodiva gli annali del sistema sola-

" re, era stata costruita con abilità e potenza divine per durare quanto il

sistema stesso.

~L'5 Blocchi di dimensioni straordinarie, posti con genio matematico e

fissati con cemento di incredibile durezza, avevano formato una massa

solida quanto il centro roccioso del pianeta. Lì, dopo epoche più strane

di quanto la mente sana possa concepire, la sua massa sepolta era in-

tatta in tutte le linee essenziali; i grandi pavimenti erano coperti di pol-

vere ma avevano scarse tracce di detriti, altrove così imponenti.

La relativa facilità del cammino da quel punto in poi mi diede stra-

namente alla testa. La terribile impazieza fino allora contrastata dagli

stacolj si trasformò in una specie di frenesia febbrile, e corsi a perdi-

fiato lungo i corridoi dal basso soffitto, al di là dell'archivolto, che ri-

'~ cordavo con orribile precisione.

~; ~ Fui più che sbalordito dalla familiarità di ciò che vidi . Da ogni parte i

battenti degli scaffali di metallo, ornati di grandi geroglifici, avevano

p~n aspetto terrificante; alcuni in ordine, altri aperti, altri deformati da

forze geologiche, non abbastanza violente da aver ragione di quelle ti-

taniche costruzioni.

Qua e là dei cumuli impolverati sotto scaffali aperti e vuoti indicaYa-

no che le librerie erano state scosse dalle vibrazioni terrestri. Certe co-

lonne recavano grandi simboli e lettere che designavano classi e sotto-

classi di volumi.

Una volta mi fermai davanti a una porta aperta, dove vidi le note cas-

sette di metallo ancora a posto in mezzo alla eterna polvere sabbiosa.

Allungando la mano, tolsi uno degli esemplari più piccoli, con una cer-

ta difficoltà, e lo posai in terra per consultarlo. Il titolo era in geroglifi-

ci, però qualcosa nella disposizione dei caratteri mi parve insolito.

Il curioso meccanismo della chiusura mi era perfettamente noto, feci

scattare il coperchio ancora funzionante e non arrugginito ed estrassi il

libro che vi era contenuto. Questo, come mi aspettavo, misurava cin-

quanta centimetri per trentotto, ed era alto cinque centimetri. La sotti-

le copertina di metallo si apriva dall'alto.

Le robuste pagine di cellulosa non avevano subito l'usura della mi-

riade di cicli di tempo, ed io esaminai le strane lettere del testo, colora-

te e segnate a pennello, simboli dissimili dai consueti geroglifici curvi o

da ogni altro alfabeto noto agli uomini eruditi, con un tormentoso e va-

go risveglio della memoria.

Mi venne in mente che quella era la lingua usata da una mente pri-

gioniera che avevo conosciuta di sfuggita nei sogni, una mente origina-

ria di un grande asteroide su cui era sopravvissuta una gran parte della

vita e della tradizione arcaica del primitivo pianeta di cui formava un

frammento. Contemporaneamente rammentai che quel piano degli ar-

chivi era dedicato ai volumi che trattavano dei mondi extra-terrestri.

Quando smisi di esaminare quel documento incredibile notai che la

luce della torcia si stava affievolendo, e mi affrettai a inserirvi un'altra

pila che avevo con me. Poi, munito di una luce più forte, ripresi la corsa

febbrile negli infiniti meandri di corridoi e passaggi, riconoscendo qua

e là scaffali noti, e vagamente turbato dagli echi che producevo cammi-

nando che sembravano fuori posto in quelle catacombe.

Le stesse impronte delle scarpe sulla polvere vecchia di millenni mi

fecero rabbrividire. Mai prima, se i folli sogni racchiudevano qualcosa

di vero, piede umano si era posato su quei pavimenti.

La mia mente cosciente non ha conservato nulla circa le ragioni di

quell'insana corsa. Vi era, tuttavia, una forza di potenza malefica che

influiva sulla mia volontà intontita e sui ricordi semisepolti sì che

oscuramente sentivo di non correre a casaccio.

Raggiunsi un piano inclinato che scendeva e lo seguii verso maggiori

profondità. La torcia saettava su tratti dei pavimenti, mentre correvo

all'impazzata, ma non mi fermai per esaminarli. Il cervello in tumulto

aveva cominciato a battere un determinato ritmo che mi faceva con-

trarre all'unisono la mano destra. Volevo aprire una certa serratura, e

conoscevo tutti i giri e le pressioni da farsi. Sarebbe stato come aprire

una cassaforte moderna con la chiusura a combinazione.

Sogno o no, lo sapevo e lo avevo sempre saputo. Non tentai neppure

di spiegarmi come avesse fatto un sogno - o un brano di leggenda in-

consciamente assimilata--a insegnarmi un particolare così preciso,

complicato e astruso. Non era, infatti, quella esperienza, I'impressio-

nante familiarità con una serie di rovine sconosciute, e le identità di

tutto quanto con ciò che solo i sogni e i frammenti di mito avrebbero

potuto evocare, un orrore che superava ogni spiegazione?

Forse allora ebbi la convinzione - come l'ho adesso nei momenti di

maggiore lucidità mentale - di non essere perfettamente sveglio, e che

tutta la città sepolta non fosse altro che un frammento di una febbrile

allucinazione.

Alla fine, raggiunto il piano più basso, passai in fretta a destra dello

scivolo. Per oscuri motivi, cercai di attutire il rumore dei passi, anche

se così facendo rallentai la velocità. Vi fu uno spazio che io ebbi paura

ad attraversare in quell'ultimo tratto di pavimento profondamente se-

polto.

Appena mi avvicinai, ricordai che cosa io temessi in quel punto. Si

trattava di una delle botole sigillate e sorvegliate. Ormai di guardiani

non ce n'erano, ma proprio per questo tremai e camminai in punta di

piedi, come avevo fatto sotto la nera volta di basalto dove era spalanca-

ta un'altra botola.

Sentii una corrente di aria fredda e umida e desiderai che il mio per-

corso fosse in un altra direzione. Perché seguissi quella via, non avrei

saputo dirlo

~ ~ Quando giunsi sul luogo, vidi che la botola era aperta. Al di là rico-

t minciavano gli scaffali, ed io vidi in terra, davanti ad uno di essi, un

~_ mucchietto pieno di polvere, laddove era caduta di recente una quanti-

tà di cassette. Contemporaneamente fui afferrato da una nuova ondata

di panico, anche se per un poco non ne seppi il motivo.

E I mucchi di cassette cadute non erano inconsueti, perché attraverso

gli eoni quel labirinto senza luce era stato devastato dai sollevamenti

della terra e aveva echeggiato a intervalli per l'assordante clamore di

oggetti che cadevano. Fu solo quando avevo quasi superato quel punto

che mi resi conto del perché tremavo così forte.

lon il cumulo, mi turbava, ma qualcosa che riguardava la polvere

del pavimentO livellato. Alla luce della torcia, mi parve che quella pol-

vere non fosse uniforme come avrebbe dovuto essere, in certi punti ap-

pariva più sottile, in altri era stata smossa da pochi mesi. Non ne ero si-

curo, perché anche dove appariva più sottile lo strato di polvere era

~,Sempre notevole, eppure il sospetto di una regolarità nella supposta di-

guaglianza era una cosa inquietante.

Quando portai la luce vicino a uno dei punti sospetti, non mi piacque

affatto ciò che vidi, perché l'illusione della regolarità divenne grandis-

sima. Era come se vi fossero linee regolari di orme composite, orme che

andavano di tre in tre, ciascuna di circa trenta centimetri quadrati e

con cinque impronte circolari di otto centimetri, una più avanti delle

altre quattro.

Quelle probabili impronte sembravano condurre in due direzioni,

come se qualcosa fosse andata da qualche parte e poi tomata. Erano

molto leggere e potevano essere ingannevoli o casuali, ma vi era un ele-

mento oscuramente terrificante nel modo in cui mi sembravano dispo-

ste. Perché da un lato finivano davanti al cumulo di cassette che dove-

vano essere precipitate non molto tempo fa, e dall'altro vi era la sini-

stra botola, con il freddo vento umido, che si spalancava incustodita su

abissi che oltrepassavano l'immaginazione.

L'aver vinto la paura dimostra quanto fosse forte e prepotente lo strano

senso di costrizione. Nessun motivo razionale avrebbe potuto trasci-

narmi avanti dopo il terribile sospetto delle impronte e i ricordi dei so-

grli che esse suscitarono in me. Eppure la mano destra, anche se tre-

mante dalla paura, si contraeva ritmicamente nell'ansia di girare la

serratura che sperava di trovare. Senza saperlo mi ritrovai oltre il

mucchio delle cassette cadute e correvo in punta di piedi per corridoi

di polvere intatta verso un punto che mi sembrava di conoscere fin

troppo bene.

La mente si poneva domande la cui origine e attinenza cominciavo

appena a intuire. Lo scaffale era raggiungibile dal corpo umano? La

mano umana avrebbe saputo controllare tutti i movimenti della serra-

tura, secondo il ricordo di eoni ? E la chiusura sarebbe stata intatta e in

grado di funzionare? E che cosa avrei fatto, che cosa avrei osato fare,

che cosa speravo e temevo di scoprire? Sarebbe stata la prova di una te-

muta verità, tale da sconvolgere la mente di qualcosa al di là della nor-

male concezione del passato, o mi avrebbe dimostrato che stavo solo

sognando?

Per quello che ricordo, avevo cessato di correre in punta di piedi e

stavo fermo a guardare fisso una fila di scaffali con geroglifici assurda-

mente familiari. Erano in stato di conservazione quasi perfetto, e solo

tre sportelli lì vicino si erano spalancati.

Non so descrivere le sensazioni provate davanti a quegli scaffali, tan-

to completo e insistente era il pensiero di conoscerli da lunga data.

Guardai in alto, verso una fila vicina alla sommità e oltre la portata del

braccio e mi chiesi come fare ad arrampicarmi nel modo migliore. Uno

sportello aperto a quattro file dalla base mi poteva servire, e le chiusu-

re degli sportelli sigillati formavano dei possibili sostegni per mani e

piedi. Potevo stringere la torcia tra i denti, come avevo fatto altrove,

quando mi occorrevano le mani. Soprattutto non dovevo far rumore.

Tirare giù ciò che desideravo prelevare sarebbe stato difficile ma

probabilmente potevo agganciare la chiusura mobile al colletto della

giacca e portarlo come uno zaino. Mi chiesi ancora se la serratura sa-

rebbe stata intatta. Quanto ai giri da fare, non avevo dubbi. Ma sperai

che il movimento non provocasse cigolii o sfregamenti, e che la mano

` funzionasse a dovere.

Mentre rimuginavo questi pensieri, avevo messo la torcia in bocca e

cominciato a salire. Le serrature sporgenti erano appigli modesti ma

come prevedevo lo sportello aperto mi servi parecchio. Usai il battente

e il bordo dell'apertura per issarmi e riuscii ad evitare cigolii troppo

forti.

In equilibrio sul bordo superiore dello sportello e incurvandomi ver-

so destra, raggiunsi la serratura che cercavo. Le dita, in parte intorpi-

dite dall'essermi arrampicato, furono dapprima impacciate, ma in

breve si adeguarono automaticamente al lavoro richiesto. E i movi-

menti erano impressi nella mia memoria.

Giunti da sconosciuti abissi di tempo, i segreti di quel congegno mi

erano arrivati, chissà come, nel cervello, corretti, in ogni dettaglio, e

dopo meno di cinque minuti avvertii uno scatto la cui familiarità mi fe-

, ce sobbalzare perché non mi ero preparato coscientemente. Un attimo

~; dopo lo sportello di metallo si apriva con un lievissimo cigolio.

,~-; Inebetito, guardai la fila di grigie cassette esposte e avvertii un tre-

mendo rigurgito di inspiegabile emozione. A portata della mano destra

vi era una cassetta i Cui geroglifici mi diedero un fremito doloroso più

complesso del semplice spavento. Tutto tremante, riuscii a togliere la

. cassetta fra una pioggia di detriti e a trarla verso di me senza fare mol-

to rumore.

Come la cassetta che avevo precedentemente maneggiato, anche

questa era delle medesime dimensioni, con disegni matematici ricurvi

|~ in bassorilievo. Il suo spessore era di quasi dieci centimetri.

| Incastrandola fra me e la superficie su cui salivo, armeggiai con la

1~ chiusura e alla fine liberai il gancio. Sollevato il coperchio, spostai il

~- pesante oggetto sulle spalle e lo agganciai al colletto. Con le mani libe-

re discesi fino al suolo polveroso e mi disposi a ispezionare il mio botti-

~no.

~ Inginocchiato nella polvere, tolsi la cassetta dalle spalle e la posai a

terra davanti a me. Mi tremavano le mani e l'idea di estrarre il libro mi

~)rizzava e al tempo stesso mi attirava, o mi costringeva a farlo.

Pian piano mi fu chiaro quello che dovevo scoprire, e quella constata-

zione mi paralizzò quasi le facoltà mentali.

Se la cosa era là - e se io non sognavo - le implicazioni sarebbero sta-

te insopportabili per lo spirito umano. Ciò che più mi tormentava era

la momentanea incapacità di sentire che si trattava soltanto di un so-

gno. Il senso di realtà era tremendo - e ancora lo è se ripenso alla scena.

Infine, tremando, tirai fuori il libro dalla cassetta e fissai affascinato

i ben noti geroglifici della copertina. Era in ottime condizioni e le lette-

re curvilinee del titolo mi tennero in stato quasi ipnotico, come se aves-

si potuto leggerle. In verità, non potrei giurare di non averle lette aiuta-

to da qualche barlume di ricordo transitorio e terribile.

Non so quanto tempo passò prima che osassi sollevare il coperchio di

sottile metallo. Temporeggiai e trovai delle scuse con me stesso. Mi tol-

si la torcia di bocca e la spensi per risparmiare la pila. Poi, nel buio, mi

feci coraggio, infine sollevai il coperchio senza accendere la luce. Da ul-

timo, feci scattare la luce sulla pagina aperta - irrigidendomi in antici-

po per prevenire qualsiasi suono, qualunque cosa avessi scoperto.

Guardai un attimo poi crollai. Stringendo i denti, evitai di gridare. Mi

accasciai al suolo e mi portai una mano alla fronte nel buio che mi in-

ghiottiva. Ciò che temevo e prevedevo stava là. O io sognavo, oppure ,

tempo e spazio erano diventati una burla. ,

Probabilmente sognavo, ma vorrei dimostrare l'orrore riportando

quella cosa alla Icue per mostrarla a mio figlio, qualora si trattasse di

realtà. La testa mi girava in modo pauroso, sebbene nella totale oscuri-

tà non potessero esserci oggetti visibili a vorticare davanti ai miei oc-

chi. Idee e immagini del più puro orrore - eccitate dalle visioni che la

fugace occhiata mi aveva spalancato - cominciarono a riversarmisi

nella mente e a offuscarmi i sensi.

Pensai a quelle probabili orme nella polvere e tremai al rumore del

mio stesso respiro. Riaccesi la torcia e guardai di nuovo la pagina come

la vittima di un serpente guarda gli occhi e i denti del suo distruttore.

Poi, con dita incerte nel buio, richiusi il libro, lo rimisi nella cassetta,

ne feci scattare il coperchio e la chiusura a gancio. Era quello che dove-

vo riportare nel mondo esteriore, se veramente esisteva - se tutto l'a-

bisso esisteva davvero - se io, e il mondo stesso, esistevamo dawero.

Non so per certo quando mi rimisi in piedi traballando, né quando ri-

presi la via del ritorno. Mi rendo ora conto - come misura del mio senso

di separazione dal mondo normale - che neppure una volta guardai l'o-

rologio durante quelle terrificanti ore sottoterra.

Torcia alla mano e con l'infausta cassetta sotto il braccio, mi trovai a

procedere in punta di piedi in una specie di panico silenzioso, oltre l'a-

bisso che emanava il vento e al di là delle tracce simili a orme. Ridussi

le precauzioni quando risalii i piani inclinati, ma non potei scacciare

un'angoscia che non avevo sentito nel viaggio di andata.

Ero terrorizzato all'idea di dover ripercorrere la nera cripta di basal-

to più antica della città, dove fredde correnti scaturivano dalle profon-

dità incustodite. Pensai a ciò che aveva temuto la Grande Razza, a ciò

che avrebbe potuto essere ancora in agguato anche se indebolito e mo-

rente. Pensai a quelle orme a cinque cerchi e a quanto di esse mi aveva-

no rivelato i sogni, e agli strani venti e ai rumori sibilanti ad essi colle-

gati. Pensai ai racconti degli indigeni di oggi, pieni di orrore per i gran-

di venti e per le rovine senza nome.

t Dal simbolo scolpito su un muro sapevo qual era il pavimento giusto

da imboccare e infine giunsi - dopo aver superato l'altro libro che ave-

vo consultato - al grande spazio circolare da cui gli archivolti si dira-

mavano. Alla mia destra, ben riconoscibile, stava l'arco dal quale ero

entrato. Lo varcai, conscio che il resto del cammino sarebbe stato più

difficile a causa delle macerie cadute al di fuori dell'edificio dell'archi-

t vio. Il nuovo fardello della cassetta mi pesava e quando inciampavo sui

detriti e i frammenti, perdevo facilmente il sangue freddo.

Poi arrivai al cumulo di rovine alte fino al soffitto in cui mi ero aperto

un angusto passaggio. Il mio terrore a passare di nuovo da quella stret-

toia fu infinito, perché la prima volta avevo fatto un po' di rumore e ora

- dopo aver visto quelle orme - temevo il rumore più di ogni altra cosa.

La cassetta, inoltre, raddoppiava il problema di attraversare la stretta

fessura.

Ma superai la barriera come potei e spinsi la cassetta attraverso l'a-

pertura davanti a me. Poi, con la torcia in bocca, strisciai anch'io - la

schiena graffiata dalle stalattiti - come poco prima.

Quando tentai di riafferrare la cassetta, questa cadde in avanti lungo

l~ il pendio dei detriti, facendo un baccano terribile e ridestando echi che

E mi fecero venire i sudori freddi. Feci un rapido movimento avanti e la

F ricuperai senza altro rumore, ma un attimo dopo lo slittamento di un

blocco sotto i miei piedi sollevò un fracasso improvviso e senza prece-

~ denti. Quel fracasso fu la mia rovina. Perché, vero o falso, credetti di

', udire una risposta in modo terribile dagli spazi lontani alle mie spalle.

Udii uno strillo, un suono sibilante che non somigliava a niente di ciò

che si ode sulla Terra, e al di là di qualunque adeguata descrizione ver-

bale. Se fu vero, ciò che seguì fu una crudele ironia; se non fosse per il

panico di quella cosa, la seconda cosa non sarebbe mai successa.

Comunque sia il mio smarrimento era assoluto e privo di conforto.

Presa la torcia in mano e afferrata malamente la cassetta, saltai e cara-

collai all'impazzata in avanti con il cervello vuoto, incapace di pensare

ad altro fuorché a uscire precipitosamente da quelle rovine da incubo,

verSo il deserto e la luna che lo contemplava dall'alto.

·~ ~* Me ne accorsi appena quando raggiunsi la montagna di detriti che

rreggiavano nell'oscurità oltre il tetto sprofondato, mi ammaccai, mi

~erii più volte per arrampicarmi sull'erto pendio di blocchi dentellati e

i frammenti.

Poi successe il disastro. Mentre superavo la sommità, impreparato

all'improvvisa pendenza, i piedi mi scivolarono e mi ritrovai in mezzo

a una valanga di rovine il cui fragore, forte come un colpo di cannone,

lacerò la buia aria della caverna con una serie di riverberazioni sonore

da far scuotere la terra.

Non ricordo come emersi da quel caos, ma un fugace frammento di

conoscenza mi dice che mi lanciai, saltellai, mi inerpicai per il corri-

doio fra il frastuono - cassetta e torcia ancora in mio possesso.

Poi, nell'awicinarmi alla primitiva cripta di basalto che tanto teme-

vo, fui colto da totale pazzia. Perché come morirono gli echi della va-

langa, emerse udibile la ripetizione di quel fischio spaventoso e scono-

sciuto, che mi era parso di aver udito prima.

Questa ~rolta lo riconobbi subito, e il peggio era che proveniva da un

punto non dietro, ma davanti a me.

Forse in quel momento gridai forte. Conservo di me l'immagine di un

uomo in fuga attraverso la volta di basalto delle entità più antiche e il

suono dannato che scaturiva dalla botola aperta, oscura, infinitaménte

profonda. Vi era anche il vento, non una semplice corrente fredda e

umida, ma una raffica violenta che eruttava selvaggia e gelida da quel-

I'abisso abominevole da dove proveniva il fischio.

Mi affiorano ricordi di aver saltato e superato guardingo ostacoli di

ogni genere, con quella raffica di vento e il suono acuto che aumentava

di minuto in minuto, e che sembravano awolgermi e avvilupparmi di

proposito.

Quel vento, sebbene l'avessi alle spalle, pareva mi ostacolasse l'avan-

zata, anziché favorirla, come se mi tenesse con un laccio al collo. Incu-

rante del rumore che facevo, superai una grande barriera di blocchi

con notevole fracasso e fui di nuovo nella zona che portava in superfi-

cie.

Ricordo di aver guardato di sfuggita la stanza delle macchine e di

aver quasi gridato quando vidi il piano inclinato che portava verso una

di quelle botole, due piani più in basso, probabilmente spalancata. Ma

invece di gridare, non feci che ripetermi che era tutto un sogno dal qua-

le dovevo svegliarmi. Forse ero nell'accampamento, forse ero a casa, ad

Arkham. E quella speranza protesse la mia integrità mentale mentre

risalivo il pendio verso il piano superiore.

Sapevo, naturalmente, di dover attraversare la spaccatura di un me-

tro e mezzo, ma ero troppo sconvolto da altre paure per rendermi conto

fino in fondo dell'orrore fin quando non vi fui a ridosso. In discesa, il

salto era stato facile, ma potevo scavalcare il vuoto così facilmente in

salita e per di più impedito dalla paura, dalla spossatezza, dal peso del-

la cassetta di metallo e dall'anomalo tormento di quel vento demonia-

co? All~ultimo momento pensai a quelle cose e pensai anche alle entità

innominabili che forse stavano in agguato nei neri abissi sotto di me.

La torcia ondeggiante faceva una fioca luce, ma da certi ocuri ricordi

seppi quando ero vicino alla spaccatura. Le raffiche di vento gelido e le

grida sibilanti e disgustose alle mie spalle agirono per un istante come

un benefico oppiaceo, intontendo l'immaginazione di fronte all'orrore

di quel baratro spalancato. Poi mi accorsi di altre correnti d'aria e di

altri sibili davanti a me, maree di abominio che eruttavano dalla spac-

catura salendo da profondità inimmaginabili,

A quel punto fui dawero sopraffatto dall'incubo. L'equilibrio menta-

le se ne andò e ignorando tutto, all'infuori dell'impulso animale della

|` fuga, mi dibattei e mi tuffai in avanti oltre i cumuli di rovine come se

non vi fosse stato nessun baratro. Poi vidi il bordo dell'abisso, saltai co-

me un pazzo raccogliendo fino all'ultimo grammo di energia e fui im-

mediatamente inghiottito in un vortice di totale e profonda oscurità,

quasi materialmente tangibile.

E qui finisce la mia esperienza, per quanto ne ricordo. Ogni altra im-

pressione appartiene al dominio del delirio fantasmagorico. Sogno,

pazzia, ricordi si mescolarono inestricabilmente insieme in una serie

di allucinazioni fantastiche e frammentarie che nulla hanno in comune

con cose reali.

Una caduta terribile attraverso leghe incalcolabili di tenebre viscose

e sensibili, una babele di rumori del tutto estranei a quanto noi cono-

sciamo della Terra e della sua vita organica. I sensi assopiti ripresero

vitalità in me e captarono voragini e cavità popolate da orrori fluttuan-

ti, che portavano verso rupi, oceani e città brulicanti con torri di basal-

to senza finestre, da cui non brillava mai la luce.

I segreti del primitivo pianeta e dei suoi eoni incalcolabili mi balena-

rono nel cervello senza l'aiuto di vista o udito, e seppi cose che neppure

i sogni più pazzi avevano mai suggerito. Frattanto dita fredde di umido

L vapore mi afferravano e mi abbrancavano, e quel fischiare dannato, so-

prannaturale sovrastava acuto e diabolico tutte le gradazioni di fra-

"b Stuono e silenzio nei gorghi della circostante oscurità.

In seguito vi furono visioni della città ciclopica dei miei sogni, non in

rovina~ ma come l'avevo sognata. Io ero nuovamente nel corpo conico

~ non umano, mescolato con folle della Grande Razza e con le menti pri-

E~ gioniere che trasportavano libri su e giù per gli enormi corridoi e gli

ampi piani inclinati.

Poi, sovrapposte a quelle immagini, vi furono spaventose, fugaci vi-

Sioni di coscienza non visiva: lotte disperate, contorcimenti per libe-

rarmi da tentacoli rapaci di vento sibilante, una fuga insana, come un

. ~ volo di pipistrello, per l'aria semi-solida, un febbrile scavare nelle tene-

'b :,~ bre flagellate da un ciclone, e un pazzesco incespicare e arrancare sugli

ammaSSi di rovine.

Una volta vi fu uno strano lampo invadente e semi-luminoso, un bar-

me debole, diffuso, di uno splendore bluastro in alto, molto lontano.

64 65

Poi mi parve di sognare che scalavo e strisciavo, inseguito dal vento e

mi dibattevo nel bagliore di una luna sardonica in mezzo a una giungla

di detriti che scivolavano e ruzzolavano alle mie spalle in un fragoroso

uragano. Fu l'insistenza maligna e monotona di quel chiarore lunare a

dirmi alla fine che ero riemerso là dove sapevo essere il mondo dei vivi.

Ero bocconi e mi agguantavo alla sabbia del deserto australiano, e

tutto intorno sibilava una bufera di vento, come mai ne avevo cono-

sciute sulla superficie del pianeta. Avevo gli abiti a brandelli e tutto il

corpo era coperto di lividi e di graffiature.

Con molta lentezza mi tornò la coscienza, e non saprei dire a che pun-

to svanì il sogno delirante e dove tornarono i ricordi normali. Pareva ci

fosse stato un rnucchio di blocchi titanici, un abisso sottostante, una

mostruosa rivelazione del passato, e un incubo orrendo alla fine - ma

quanto di tutto questo era reale?

La pila era sparita, e così pure la cassetta di metallo che forse avevo

scoperto. Era mai esistita una cassetta del genere, o l'abisso, o il muc-

chietto di rovine? Sollevai il capo, mi guardai alle spalle, e vidi soltan-

to le sabbie sterili, ondulate del deserto.

Ll vento demoniaco era cessato e la luna gonfia e irreale tramontava

rossastra a occidente. Mi rimisi faticosamente in piedi e cominciai a

muovermi barcollando in direzione sud-ovest, verso l'accampamento.

Che cosa mi era accaduto veramente? Ero solo caduto nel deserto e ave-

vo trascinato un corpo martoriato da un accesso di follia per chilometri

di sabbia e blocchi sepolti? In caso contrario, come riuscire a sopporta-

re la vita?

Con questo nuovo dubbio, tutta la fede nella irrealtà delle mie visioni

generate dai miti, si dissolse ancora una volta nei sospetti infernali di

prima. Se quell'abisso era vero, allora la Grande Razza era reale - e co-

sì i suoi blasfemi poteri e le sue scorribande nel cosmo-, gli enormi

vortici del tempo non erano miti o incubi, ma una reallà terribile, da

distruggere l'anima.

Ero stato, veramente, trasportato in un mondo pre-umano di cento-

cinquanta milioni di anni fa in quei giorni bui e sconvolgenti della am-

nesia? Il mio corpo attuale era stato il veicolo di una spaventosa co-

scienza estranea venuta dagli abissi paleogenici del tempo?

E come le menti prigioniere di quegli orrori a forma di cono avevo

realmente conosciuto la maledetta città di pietra nel suo splendóre pri-

mordiale, e mi ero introdotto in quei corridoi familiari nella disgustosa

forma del mio catturatore? I tormentosi sogni di oltre un ventennio

erano il frutto di ricordi mostruosi ma veritieri?

Avevo veramente parlato un tempo con menti provenienti da irrag-

giungibili angoli di tempo e spazio, imparato i segreti dell'universo,

passato e avvenire, e scritto gli annali del mio mondo per le cassette

metalliche di quegli archivi colossali ? E gli altri - quelle impressionan-

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ti cose più antiche che emanavano pazzi venti e sibili demoniaci - era-

no davvero una incombente minaccia in agguato, nascosta nei neri

abissi dove lentamente si indebolivano, mentre mutevoli forme di vita

trascinavano avanti i loro corsi multi-millenari sulla superficie del pia-

neta, devastata dal tempo?

A queste domande non so rispondere. Se quell'abisso e quanto rac-

chiudeva erano reali, non esiste speranza. Allora, sul serio, incombe su

questo mondo dell'uomo una beffarda e incredibile ombra fuori del

tempo. Ma, fortunatamente, non esiste prova che tali cose non siano al-

tro che nuove fasi dei miei sogni nati dal mito. Non ho portato alla luce

la cassetta che avrebbe costituito la prova, e finora quei corridoi sotter-

ranei non sono stati trovati.

Se le leggi dell'universo sono benevole essi non saranno mai scoperti.

Tuttavia devo dire a mio figlio ciò che vidi o credetti di vedere, e lascio

a lui di giudicare come psicologo la portata della realtà della mia espe-

rienza e di comunicare agli altri questo resoconto.

Ho detto che la spaventosa verità che sta dietro ai miei anni tormen-

tati di sogni ruota assolutamente sui fatti reali di ciò che ritenni di aver

visto in quelle ciclopiche rovine sepolte. E stato per me arduo, letteral-

mente, stendere per scritto la rivelazione cruciale, benché i lettori la

avranno immaginata. Naturalmente, sta nel libro della cassetta - la

cassetta che estrassi dal suo posto segreto fra la polvere di un milione

di secoli.

Nessun occhio aveva mai visto, nessuna mano toccato quel resoconto

dell'avvento dell'uomo sul pianeta. Eppure, quando io accesi la torcia

sul volume, in quell'abisso terrificante, vidi che le lettere stranamente

colorate sulle pagine di cellulosa, scurite dal tempo e friabili, non era-

no sconosciuti geroglifici dei primordi della terra. Erano, invece, le let-

tere del nostro alfabeto comune; e le parole erano vergate in lingua in-

glese, con la mia calligrafia.

itolo originale The Shadow out of Time

ne di Alda Carrer, su licenza di SugarCo Edizioni

67

Horace L. Gold

QUESTIONE DI FORMA

Il telefono irruppe stridulo nel sonno di Gilroy. Con gli occhi risoluta-

mente serrati, il reporter si rovesciò sul fianco, affondò l'orecchio nel

cuscino e tirò la coperta fin sopra la testa. Ma lo squillo imperversava.

Quando aprì le palpebre ammiccando e vide la pioggia che rigava le

finestre, strinse i denti a quello strepito insistente e alzò la cornetta,

lanciando una maledizione nel microfono - non una trita imprecazio-

ne, ma una fantasiosa opinione sulla sorta d'uomo che svegliava croni-

sti stanchi alle quattro del mattino.

--Non prendertela con me--rispose il suo direttore dopo un irrita-

to silenzio.--E stata tua, l'idea. Tu hai voluto occuparti del caso.

Hanno trovato un altro come-si-chiama.

Gilroy si sveglib all'istante.--Un altro catatonico!

--In York Avenue, vicino alla Novantunesima Strada, circa un'ora

fa. E nel reparto osservazione del Memorial Hospital.--La voce a un

tratto si abbassò in un tono confidenziale.--Vuoi sapere che cosa ne

penso, Gilroy?

--Che cosa?--chiese Gilroy in un bisbiglio fiducioso.

--Credo che tu sia suonato. (~uesti catatonici sono solo dei vaga-

bondi. Probabilmente si sono ubriacati fino a ridursi a quella cosa lì,

la catatonia. Via, sii ragionevole, Gilroy, non si meritano più di una

notiziola di quattro righe.

Gilroy, sceso dal letto, si stava vestendo con una sola mano.

--Non questa volta, capo--rispose convinto.--Certo, sono solo

dei vagabondi, ma questo fa parte della storia. Senta... ehi! Lei avreb-

be dovuto staccare un paio d'ore fa. Che cosa ci fa in ufficio?

Il direttore pareva infelice:--Il vecchio Talbot. Domani compie ses-

santasei anni. Ho dovuto confezionare un pistolotto sulla sua vita.

--Che cosa? Perde il suo tempo a rifare una verginità a quell'assas-

sino, a quel bandito...

--Prenditela calma, Gilroy--I'avvertì il direttore.--Ha metà del

capitale del nostro giornale, e non è che ci dia spesso fastidio.

--Okay. Ma lui da solo tiene in piedi la criminalità cittadina. Be',

non ci metterà molto a tirare le cuoia. Può raggiungermi al Memorial,

appena smonta?

--Con questo tempo?--Il direttore rifletté.--Non so. Tu hai un

istinto di prima classe per le notizie, e se pensi che sia una storia coi

fiocchi... oh, all'inferno, va bene!

Il sorriso trionfante di Gilroy s'incrinò, quando il suo piede stracciò

una calza. Appeso il ricevitore, il cronista si diede a esplorare cassetti

spopolati, alla ricerca di un altro paio.

La strada era gelida e desolatamente deserta. La neve annerita si

stava sciogliendo in un deprimente pantano. Gilroy si rannicchiò nel

suo cappotto e avanzò sguazzando nella fanghiglia verso Greenwich

Avenue. Alto e magro com era, con la testa china contro la pioggia bat-

tente, il soprabito svolazzante intorno agli stinchi ossuti, le mani af-

-| fondate nelle tasche e i gomiti appuntiti che sporgevano a filo del cor-

° dinoccolato, assomigliava a un'infelice cicogna che si guardasse in-

torno alla ricerca di un pesce.

il Ma era tutt'altro che infelice. Anzi, era felice, come solo può esserlo

un uomo con una sua teoria prediletta, quando i fatti cominciano a

~| schierarsi dalla sua parte.

Mentre pesticciava nel fango, rabbrividì al pensiero del catatonico

~| che doveva esservi rimasto disteso per ore, incapace di alzarsi, fino a

~jl che l'avevano trovato e trasportato all'ospedale. Povero diavolo! Il pri-

jl mo della serie era stato scambiato per un ubriaco, ma poi il poliziotto

aveva visto il cerotto sul collo.

"Paziente fuggito dopo operazione al cervello", aveva riportato l'o-

spedale. Sembrava ragionevole, salvo che i catatonici non cammina-

no, né strisciano, né si nutrono da soli - anzi, non compiono nessun

movimento muscolare volontario. Gilroy, quindi, non era rimasto

molto sorpreso quando nessun ospedale o chirurgo privato aveva re-

clamato il presunto fuggiasco.

Un autista di taxi avvistò colmo di speranza quella figura agitata

nella pioggia. Gilroy represse l'impulso di abbracciarlo, per averlo

salvato dal vento tagliente, e si cacciò dentro.

--La notte giusta per un omicidio--osservò l'autista in tono ozio-

so.

--Vuole farmi capire che gli affari vanno male?

--Voglio dire che è un tempo schifoso.

. --Accidenti se lo è--esclamò sarcastico Gilroy.--Non si lasci im-

k pressionare~ però. Ho fretta. Memorial Hospital, di volata!

L~autista~ con aria partecipe, virò verso il centro della strada e schiz-

~zo oltre un semaforo battendolo sul tempo.

Tre catatonici in un mese! Gilroy scosse la testa. Era un vero enig-

ma. Non potevano essere scappati. Perché, in primo luogo, qualcuno li

avrebbe reclamati e, in secondo luogo, era fisicamente impossibile. E

come si procuravano quelle nitide incisioni chirurgiche un po' sotto la

nuca suturate con due punti da una mano professionale e protette da

un professionale cerotto? Tagli recenti, per giunta!

A suo giudizio, aveva grande importanza che fossero poveramente

vestiti e in stato di lieve denutrizione. Ma che voleva dire? Scrollò le

spalle. Il suo era come un sesto senso, ecco.

Quando il taxi accostò bruscamente al marciapiede con uno stridore

di freni, Gilroy passò una banconota attraverso il finestrino e scese. La

notte esplose all'improvviso, mentre la pioggia gli si avventava addos-

so con un'ondata ruggente. Lottando col vento, il giornalista si lanciò

verso la porta dell'ospedale.

Fradicio e senza fiato, quasi si pentì della sua alzata d'ingegno: dare

tanto peso a tre catatonici ridotti in miseria! Con cautela, infilò la ma-

no nel cappotto viscido e tirò fuori una tessera completamente inzup-

pata.

La ragazza al banco dell'accettazione vi diede uno sguardo.

--Oh, un giornalista! E successo qualcosa d'importante, stanotte?

--Niente di speciale--rispose lui con noncuranza.--Un povero

vagabondo trovato fra York Avenue e la Novantumesima. E nel reparto

svitati?

La ragazza scorse il registro e annuì--E un suo amico?

--Il mio nipotino.--Mentre si allontanava, Gilroy e la ragazza tra-

salirono al fruscio dell'acqua che sciabordava nelle sue scarpe a ogni

passo.--Devo essere finito in una pozzanghera.

Quando svoltò verso l'ascensore, la ragazza scuoteva la testa, le lab-

bra increspate in una smorfia di matema sollecitudine. Poi, il pianter-

reno scomparve.

Percorse il corridoio imbiancato senza esitare, prestando orecchio

con distacco accademico ai sommessi, orribili gemiti che giungevano

dalla corsia principale. Vicino all'ambulatorio, lo fermò il rumore del-

I'ascensore. Gilroy si voltò a guardare.

Comparve il direttore - un ometto intirizzito, bagnato fino alle ossa

e disgustato. Il giornalista gli si fece incontro e, dopo averlo preso per

il braccio, lo condusse in silenzio all'intemo dell'ambulatorio. Il diret-

tore sospirò rassegnato.

Il medico intemo dell'ospedale alzò appena lo sguardo quando i due

presero posto discretamente fra i praticanti che facevano corona al

letto. Senza sforzo, Gilroy sbirciò sopra le teste davanti, studiando il

soggetto catatonico con occhio clinico.

Il paziente era stato spogliato degli abiti bagnati, asciugato e frizio-

nato con alcool. Totalmente passivo, i muscoli rilassati, gli occhi soc-

chiusi, la bocca spalancata in un'ebete inerzia. Sul collo, la traccia

scura lasciata dal cerotto. Gilroy si storse da un lato. Sotto i capelli ta-

gliati, vide parte della sutura.

--Catatonico, dottore?--chiese con tranquillità.

--Chi è lei?--sbottò il medico.

--Gilroy... Morning Post.

Il dottore tomò a guardare il paziente sul lettino.

_ Catatonia, certo. Nessuna traccia di alcool o di droghe inibitorie.

Lieve denutrizione.

Gilroy si fece largo educatamente nella cerchia degli studenti.

--Lo choc da insulina non funziona, eh? Non c'è motivo per cui

debba funzionare.

--Perché no?--chiese il medico con un sussulto.--Funziona sem-

pre in questi casi... Almeno, temporaneamente.

--Ma non ha funzionato in questo, vero?--insisté brusco il gioma-

lista.

Il dottore chinò il capo sconfitto.--No.

--Cos'è tutta questa storia? E cos'è la catatonia, comunque? Parali-

si o che?--chiese irritato il direttore del giornale.

--E l'ultimo stadio della schizofrenia, o demen~iaprecox, come la si

chiamava una volta--rispose il dottore.--La mente si ribella alle re-

sponsabilità e cerca un periodo dell'esistenza in cui fosse libera dal-

I'angoscia. Regredisce all'infanzia e scopre che esistono le preoccupa-

zioni infantili; si spinge oltre, e si ribella anche a quelle, fino a giunge-

re a uno stato prenatale.

--Ma è una degenerazione per gradi--asserì Gilroy.--Molto pri-

ma del completo crollo psichico, lo schizofrenico viene individuato e

ricoverato in un manicomio. E lì passa attraverso gli stadi dell'imbe-

cillità e dell'idiozia. Solo dopo molti anni di decadimento mentale si

chiude a riccio rifiutandosi di usare i muscoli o il cervello.

Il direttore sembrava perplesso.--E perché lo choc da insulina do-

vrebbe tirarlo fuori da quello stato?

--Non che non dovrebbe!--scattò Gilroy.

--E invece sì--ribatté il medico irritato.--La catatonia è una ri-

bellione negativa. L'insulina riduce io zucchero nel sangue fino a pro-

e curare uno choc, e la fame improwisa scuote il catatonico dalla sua

passività.

--E vero--replicò Gilroy battagliero--ma questo non è un caso

di catatonia! E incredibilmente simile, ma non si è mai sentito di un

't~ catatonico che non si rifiuti di compiere un movimento muscolare vo-

lontario. Non c'è ritenzione salivare! Secondo me, si tratta di paralisi.

--Provocata da che?--lo rimbeccò il dottore.

--Questo spetta a lei stabilirlo. Non sono un medico. Cosa ne dice

di quella ferita alla base del cranio?

yl

--Stupidaggini! Non arriva a mezzo centimetro dal nervo motore.

Si tratta di cerea fle~cibilitas... flessibilità cerea.--Il medico alzò il

braccio del paziente e lo lasciò andare. Il braccio ricadde lentamente.

--Se ci fosse una paralisi generale, anche il cervello sarebbe stato col-

pito. Sarebbe morto, a quest'ora.

Gilroy alzò le spalle ossute e le rilasciò.--E sulla pista sbagliata,

dottore--disse senza scomporsi.--La ferita c'entra di sicuro e la ca-

tatonia non può essere indotta chirurgicamente. Può essere provocata

da una lesione, ma la degenerazione sarebbe graduale. E i catatonici

non camminano, né strisciano. E stato deliberatamente abbandonato,

come gli altri.

--Si direbbe che tu abbia ragione, Gilroy--concesse il direttore.

--C'è qualcosa che non quadra, qui. Avevano tutti e tre le stesse feri-

te?

--Esattamente nello stesso punto, alla base del cranio e a sinistra

della spina dorsale Ha mai visto una creatura così inerme? Provi a

immaginarla mentre scappa da un ospedale, o anche da un chirurgo

privato!

Il medico congedò gli interni e riunì in fretta gli strumenti per una

rapida fuga.--Non ne vedo motivo. Tutti e tre erano poveramente ve-

stiti e denutriti; dovevano vivere in condizioni al di sotto del livello di

sussistenza. Chi poteva volere fargli del male?

Gilroy balzò davanti al medico, sbarrandogli il passo.--Ma non de-

ve essere per forza una vendetta! Poteva trattarsi di un esperimento!

--Per dimostrare che?

Gilroy lo guardò con aria interrogativa.--Non lo sa?

--E come potrei?

Il giornalista si cacciò indietro sulla testa il cappello intriso di piog-

gia e si precipitò verso la porta.--Andiamo, capo. Chiederemo a Moss

d'illuminarci.

--Non troverete qui il dottor Moss--disse il medico.--Non è di

turno stanotte e credo che domani lasci l'ospedale.

Gilroy si fermò di botto.--Moss... lascia l'ospedale!--ripeté sba-

lordito.--Ha sentito, capo? Quello è un dittatore, uno schiavista e un

verme. Ma probabilmente è il primo chirurgo d'America. Ma guardi.

Notizie sensazionali che spuntano da tutte le parti, e lei se ne sta lì a

tirare a lucido la biografia sanguinaria del vecchio Talbot!--Il suo

cappotto si gonfiò nell'onda del rapido passo disarticolato.--Tre ca-

tatonici trovati distesi per strada in un mese. Mai successo prima. Non

possono camminare, né strisciare, e hanno misteriose ferite alla base

del cranio. Ora il più grande chirurgo del Paese viene buttato fuori a

calci dall'ospedale che lui ha portato al primo posto in America. E lei

cosa fa? Se ne sta seduto in ufficio a sciorinare storie su che tipo ga-

gliardo sia Talbot sotto la sua apparenza viscida!

Il medico udì con sollievo scivolare per il corridoio l'ultima eco di

quella voce implacabile, incisiva, sorretta dalla logica. Ma prima di

lasciare la stanza, guardò il paziente.

Era meno sicuro che si trattasse di catatonia. Si sorprese a ripetere

l'osservazione del direttore del giornale: dawero, c'era qualcosa che

non quadrava.

Ma che ragione poteva esserci, di operare tre derelitti e abbandonar-

li a loro stessi? E come poteva 1 operazione avere provocato la catato-

nia?

In un certo senso, gli dispiaceva che il dottor Moss venisse licenzia-

to. Il freddo dittatore schiavista avrebbe potuto fornire una buona teo-

ria. Quella era la coscienza del medico, che parlava. Ma dentro di sé il

dottore sentiva che avrebbe dato qualunque cosa, pur di stare lontano

da quella morbida voce canzonatoria e da quella smorfietta irridente.

All'altezza della Cinquantunesima Strada, Wood giunse all'ultimo uf-

ficio di collocamento della Sesta Avenue. Con ben poche speranze, les-

se le rozze iscrizioni in gesso. Era un'agenzia di collocamento per la-

voratori dell'industria. Wood non era mai stato in fabbrica. Il solo im-

piego che avrebbe potuto ricoprire, era di apprendista tappezziere a

dieci dollari la settimana; ma aveva trentadue anni e l'agenzia avreb-

be chiesto un pagamento immediato di cinque dollari.

Se ne andò depresso, giocherellando con i tre decini in tasca. Tre de-

cini, le monete più piccole e insignificanti d'America...

--Trovato niente, amico?

--Non per me--rispose Wood stancamente, senza quasi degnare

di un'occhiata il suo interlocutore.

Lanciò un ultimo sguardo al giornale prima di lasciarlo cadere sul

marciapiede. Era l'ultimo che avrebbe comprato, decise; con il suo

aspetto miserabile, non poteva rispondere alle inserzioni. Ma la sua

mente si avvinghiava ostinata all'articolo dove Gilroy descriveva gli

orrori della catatonia. Uno stato che, per un capriccio nato dalla fru-

strazione, Wood trovava adesso dotato di una bizzarra attrattiva. Al-

meno, i catatonici avevano un tetto e di che mangiare. Chissà che non

fosse possibile simulare quella malattia...

L'altro aveva continuato a studiarlo. --Laureato, eh?--chiese

mentre Wood si allontanava.

Wood si fermò e si passò una mano sulla faccia irsuta. Luridi polsini

uscirono dalle maniche sfrangiate. I capelli troppo lunghi, lo sapeva

bene, gli si arricciavano dietro le orecchie.--Si vede ancora?--chie-

-Se con voce amara.

--Ci puoi scommettere. Uno che viene dall'università si riconosce

iontano un miglio.

Wood storse la bocca.--Felice di sentirlo. Dev'essere una luce inte-

riore che brilla fra gli stracci.

--Sei un idiota, a venire qua con la tua istruzione. Qui vogliono so-

lo dei disgraziati che non sanno dove sbattere la testa... Tipi come me,

con tanti muscoli e niente cervello.

Wood lo studiò. Era troppo ben vestito e troppo sveglio per aver va-

gato fra le agenzie anche solo da poco tempo. Doveva avere appena

perso il posto, forse cercava compagnia. Ma ne aveva già incontrati

prima, di tipi come quello, con lo sguardo insensibile di un lupo che

scelga le sue prede fra i disoccupati.

--Senti--gli disse Wood--io non ho niente di quello che tu vorre-

sti. Sono ridotto con trenta centesimi. Scusami, se me la batto dalla

mia stanza con i libri e lo spazzolino da denti prima che li agguanti il

custode.

L'altro non si ritrasse, né si lasciò andare a virtuose proteste.--Non

sono cieco--rispose quieto.--Lo vedo bene che sei ridotto male.

--Allora cosa cerchi?--scattò Wood.--Non dirmi che cerchi com-

pagnia da un tipo lercio, ma con la patente di ex-universitario...

Il suo bistrattato amico ebbe un gesto di fastidio.--Risparmia la

scena del cane rabbioso. Mi hanno appena scartato per un lavoro, per-

ché non ho fatto l'università. Settantacinque al mese, alloggio e vitto

assicurato, come assistente del dottore. Ma mi hanno cacciato perché

non ho la laurea.

--Hai tutta la mia comprensione--disse Wood, e si voltò.

L'altro l'afferrò.--Tu sei laureato. Vuoi il lavoro? Ti costerà la paga

della prima settimana... La mia percentuale, capisci?

--Io non ne so niente di medicina. Ero un esperto di codici in un uf-

ficio di cambio, prima che la gente rimanesse a corto di soldi per gli

investimenti. Vuoi che decifri qualche codice? Quello è il meglio che

posso fare.

Wood si stizzì quando lo sconosciuto gli si affiancò, tenendo il suo

passo stracco.

--Non c'è bisogno che ne sappia qualcosa di medicina. Basta che tu

abbia la laurea, un po' di muscoli e di cervello, ecco tutto quello che

vuole il dottore.

Wood si fermò, voltandosi di botto.

--Non mi prendi in giro?

--Ti dico di no. Ma non voglio portare là un testone e farmi sbattere

fuori di nuovo. Devo farti le domande che hanno fatto a me.

Davanti alla prospettiva di un lavoro, la diffidenza di Wood si dis-

solse. Sentiva al tatto i tre decini in tasca - decisamente esigui, e poco

rassicuranti. Significavano due hamburger e due tazze di caffé, o un

letto in qualche lurido dormitorio. Due magri pasti e la notte nell'umi-

da aria di marzo; o un letto e niente cibo.

--Spara--disse risoluto.

--Qualche parente?

--Dei cugini di quinto grado nel Maine.

--Amici?

--Nessuno che mi riconoscerebbe, ormai.--Wood scrutò la faccia

dell'altro.--Che cos'è questa storia? Che c'entrano i miei amici, o pa-

renti...

_ Niente--si amrettò a rispondere lo sconosciuto.--Solo che devi

|- viaggiare un po'. Il dottore non vuole che ti trascini dietro una moglie,

o che devi interrompere il lavoro per scrivere delle lettere, capisci?

Wood non capiva. Era una spiegazione singolarmente zoppicante,

ma ormai era concentrato sui 75 dollari al mese, sulla stanza e il vit-

to... Cibo!

--Chi è il dottore?--chiese.

--Non sono scemo.--L'altro sorrise a muso duro.--Tu ci verrai

con me e mi farai anticipare da lui la mia percentuale.

Wood si avviò insieme al suo compagno verso l'Ottava Avenue. Se-

duto nella metropolitana, evitò d'incontrare sguardi pur casuali e di-

stratti. Teneva i piedi fuori del corridoio, contro la base del sedile, così

da nascondere la suola schiodata e sventagliante della scarpa destra.

Aveva le mani ruvide e screpolate, tenacemente incrostate di sporco.

Risentito, sconfitto, con l'aria di un maturo cane randagio. Che possi-

bilità aveva di essere assunto? Ma perlomeno lo sconosciuto aveva ri-

schiato un nichelino per il suo biglietto.

L Wood lo seguì fuori della stazione della Centotreesima Strada e del-

la Central Park West; insieme salirono sulla collina verso Manhattan

Avenue e proseguirono lungo diversi isolati per il centro. Poi la sua

guida corse lesta su per la scaletta di una vecchia casa. Wood, che ar-

rancava più lento, represse l'impulso di scappare, ma già assaporava

la deprimente sensazione di chi si vede rifiutare un lavoro. Se solo

avesse potuto tagliarsi i capelli, far stirare il vestito e aggiustare le

scarpe! Ma a che serviva pensarci? Gli sarebbe costato un paio di dol-

~- lari. E poi, non c'era niente da fare per quegli orli sfrangiati.

--Vieni!--lo chiamò il suo nuovo amico.

Wood raddrizzò la schiena e rimase a guardare la casa, mentre l'al-

tro suonava deciso il campanello. Era un edificio di tre piani, nessuna

dicitura sopra il campanello, nessuna insegna di un qualunque studio

medico sulle finestre dai pesanti tendaggi. Dall'esterno, poteva sem-

brare una pensione mal tenuta.

La porta si aprì. Un uomo della sua età, di media corporatura, ma

notevolmente sovrappeso, bloccò l'ingresso. Portava un camice bianco

da laboratorio~ Gli occhi mobili e arcigni parevano incongrui nel pal-

~lore della faccia morbida.

--Ancora qui?--chiese impaziente.

--Non è per me, questa volta--rispose il testardo amico di Wood.

--Ho portato un laureato.

Wood si ritrasse umiliato, quando lo sguardo acuto del grassone

percorse il suo abito gualcito e consunto e si fermò con disgusto sui

lunghi capelli che si gonfiavano scomposti intorno alla faccia famelica

e mal rasata. Ecco, già se lo sentiva: "Non fa al caso nostro".

Ma il grassone spinse da parte con la gamba un bel collie e aprì del

tutto la porta. Stranito, Wood seguì il suo accompagnatore nell'angu-

sto corridoio e, per dare un'impressione amichevole, si chinò ad acca-

rezzare le orecchie del cane. Il grassone li condusse in una stanza nu~ia

sul fronte.

--Come si chiama?--chiese con indifferenza.

Wood sentì la risposta bloccarglisi in gola. Dovette tossire.

--Wood--disse.

--Qualche parente?

Wood scosse la testa.

--Amici?

--Non più.

--Che laurea?

--Scienze, Columbia, 1925.

L'espressione del tipo corpulento non cambiò. Infilò la mano nella

tasca sinistra e ne prese un portafoglio.--Che accordo ha con que-

st'uomo?

--Deve avere il mio salario della prima settimana.--In silenzio,

con uno sguardo vorace e patetico, Wood osservb svariate banconote

verdi mutare di mano.--Posso lavarmi e sbarbarmi, dottore?--chie-

se.

--Non sono io il dottore--replicò il tipo florido.--lo mi chiamo

Clarence, senza titoli davanti.--Si voltò rapido verso il troppo curio-

so sconosciuto.--Che cosa stai a fare qui?

L'amico di Wood arretrò verso la porta.--Be', tanti saluti--disse.

--Un bel colpo per tutti e due, eh, Wood?

11 laureato annuì e sorrise felice. Gli era del tutto sfuggita la traccia

d'ironia in quella voce dura.

--L'accompagno di sopra, nella sua stanza--disse Clarence, non

appena il socio in affari del nuovo assunto se ne fu andato.--Credo

che ci sia un rasoio.

Uscirono nello scuro corridoio, tallonati dal collie. Una lampada

scoperta pendeva da un unico filo sopra un tavolo pieghevole. Sul mu-

ro, uno specchio ovale in una cornice dorata rimandava l'immagine di

Wood, sciatta e disordinata, sopra il logoro tappeto steso sul pavimen-

to fino a una porta che dava sul retro della casa. Con un'erta spirale,

una stretta scala si arrampicava verso il primo piano. Era una casa

triste e trascurata, ma l'idea del lusso di Wood si era fatta meno esi-

~ente.

--Aspetti qui, devo fare una telefonata--disse Clarence, e chiuse

alle sue spalle la porta di una stanza di fronte alle scale. Mentre vez-

zeggiava il collie, più che disposto a fare amicizia, Wood sentì Claren-

ce parlare con voce forte e naturale al di là del pannello.

--...Pinero ha riportato un uomo. Tutte le risposte perfette... Co-

lumbia, 1925... Non un centesimo, a giudicare dall'aspetto... Chiamo

Talbot? Per quando?... Okay... Tornerà appena avrà finito con il consi-

glio di amministrazione?... Va bene... Be', che differenza fa? In ogni ca-

so, da loro ha avuto tutto quello che voleva.

Wood sentì lo scatto del ricevitore che veniva posato sulla forcella e

poi rialzato. Moss? Quello era il direttore del Memorial Hospital, il

grande chirurgo. Ma l'articolo sui catatonici accennava qualcosa circa

il suo allontanamento dalla clinica.

--Pronto, Talbot?--diceva intanto Clarence.--Venga domani a

mezzogiorno. Moss dice che sarà tutto pronto per allora... Okay, non si

agiti. Questa è veramente l'ultima volta!... Non si preoccupi. Andrà

tutto bene.

Anche il nome di Talbot suonava familiare a Wood. Poteva essere

quello di cui aveva parlato il Morning Post, il filantropo di sessantasei

anni. Probabilmente voleva essere operato da Moss. Be', non era affar

suo.

Quando Clarence tornò nel corridoio in penombra, Wood pensò solo

ai suoi 75 dollari al mese, con vitto e alloggio; ma, soprattutto, aveva

un lavoro! Poche settimane di cibo decente e la possibilità di comprar-

si qualche vestito nuovo, e in men che non si dica si sarebbe liberato

del suo disfattismo.

Dimenticò perfino la sua meraviglia per l'assenza di una targa pro-

fessionale e di quelle targhette con l'indicazione della sala d'aspetto,

quali s'incontrano di solito nello studio di un medico. Riusciva a pen-

sare solo alla sua stanza pulita al terzo piano, affacciata, chissà, su un

cortile luminoso. E a una rasatura...

Il dottor Moss abbassò la cornetta con movimenti studiati. Quando

percorse a grandi passi il corridoio bianco dell'ospedale verso l'ascen-

Sore, avvertì più di uno sguardo curioso, ma la sua faccia rosea, accu-

ratamente sbarbata, non concedeva risposta a quegli occhi interroga-

tivi. Nell'ascensore, se ne rimase con le mani cacciate con noncuranza

nelle tasche. Il lift non osò guardarlo, né rivolgergli la parola.

Presi cappotto e cappello - lo spazio intorno al banco dell'accetta-

Zione sembrava più affollato del solito, popolato com'era di uomini

~ con lo sguardo penetrante del reporter - il medico proseguì con passo

e~ sostenuto.

Un tipo alto, sorprendentemente magro, che continuava a fissarlo

come un uccello da preda, prese la testa dei cronisti che sciamavano

alle sue calcagna

--Non può andarsene senza una dichiarazione alla stampa, dotto-

re--disse il tipo allampanato.

--Non mi riesce affatto difficile--ribatté lui senza fermarsi.

Si arrestò sul marciapiede, con la schiena freddamente rivolta ai

giornalisti e, senza fretta, chiamò un taxi con un cenno.

--Be', almeno può dirci se è ancora direttore dell'ospedale--insi-

sté lo spilungone.

--Chiedetelo al consiglio degli amministratori fiduciari.

--Un'ipotesi sui catatonici, allora?

--Chiedetela ai catatonici.--Il taxi gli si fermò davanti. Aprì riso-

lutamente la portiera e prese posto. Mentre si allontanava, sentì il suo

persecutore esclamare:--Che freddo rettile schifoso!

Non si voltò indietro a godere della loro sconfitta. Malgrado la cal-

ma esteriore, neppure lui si sentiva molto tranquillo. Quel tipo del

Morning Post, Gilroy, o come si chiamava, aveva scritto un articolo

sensazionale sui catatonici abbandonati ed era giunto ad affermare

che non erano affatto quello che si pensava. Lui aveva cercato in ogni

modo di tenersi fuori dalla furiosa disputa fra le contrastanti supposi-

zioni. Talbot possedeva una quota consistente del giornale. Bisognava

dirgli di mettere fine a quegli articoli, anche se ormai tutta la stampa

stava andando a rimorchio.

Era stata un'intuizione brillante, capire che i pazienti non erano as-

solutamente affetti da catatonia. Ma il reporter del Morning Post si era

assunto un compito formidabile, se voleva scoprire come tre uomini

colpiti da una paralisi generale fossero stati abbandonati senza la più

piccola traccia della loro provenienza, e che relazione esistesse tra le

incisioni e il loro stato. Lui stesso aveva risolto il problema solo da po-

co.

Il taxi tagliò verso la Settima Avenue e proseguì verso la periferia.

Il canzonatorio sorriso di congedo del dottore si dissolse. La mobile

bocca sbiancò, le labbra si tesero in un'espressione tetra. Dove avreb-

be trovato i soldi, adesso? Aveva attinto ai fondi dell'ospedale fino a

lasciare un buco vertiginoso, e non era bastato. Simili a una voragine

senza fine, le sue ricerche potevano prosciugare una dozzina di fondi.

Se avesse potuto convincere Talbot, dimostrargli che i suoi falli-

menti non erano stati altrettanti scacchi, che questa volta non avreb-

be fatto fiasco...

Ma Talbot era un tipo duro da fiaccare. Non un centesimo sarebbe

uscito dalla sua borsa tirata, fino a che non l'avesse completamente

persuaso di aver superato la fase sperimentale. Questa volta non

avrebbe fallito!

Giunto nella strada del dottore, il taxi si fermò. Moss scese agilmen-

te e salì gli scalini di fronte fiducioso, senza guardare né a destra né a

sinistra, benché fosse una bella giornata con un caldo sole dorato é, tra

le due file di vecchie case, si distinguesse Central Park verdeggiante di

germogli.

Aprì la porta ed entrò quasi con impazienza nello stretto corridoio

scuro, ignorando il collie festante che saltava per salutarlo.

--Clarence!--chiamò.--Porta giù il tuo nuovo assistente. Non vo-

glio neanche mangiare.--Si tolse il cappello, il cappotto e la giacca e

li appese distrattamente a un gancio vicino allo specchio.

--Ehi, Wood!--gridò Clarence su per le scale.--Sei pronto?

Sentirono un passo rapido e leggero dal terzo piano.

--Clarence, ragazzo mio--disse Moss con voce bassa e incalzante

--ho capito qual era il problema. Non abbiamo fallito, in realtà. E te

lo dimostrerò... Seguiremo esattamente la stessa tecnica!

--Allora perché sembrava che non funzionasse, prima?

I piedi di Wood apparvero tra le ringhiere al secondo piano.--Capi-

rai appena sarà finito--bisbigliò Moss in fretta. Wood si unì a loro.

Quel pur breve periodo trascorso dopo l'assunzione, era bastato a

trasformarlo. Aveva perso la sensazione demoralizzante di essere un

inutile relitto umano. E se ora si presentava ben rasato e pulito, non

per questo i suoi occhi brillavano di gioia.

--Wood... il dottor Moss--disse Clarence in tono sbrigativo.

Wood farfugliò un discorsetto incoerente, inteso a informarli che era

felice, anche se non ne sapeva nulla di medicina.

--Non è necessario--rispose suadente il dottore.--Le insegnere-

mo di più noi, in materia, di quanto potrebbe spiegarle la maggior

parte dei chirurghi in una vita.

Poteva significare tutto e niente. Wood non cercò di capire il senso

di quelle parole. Era stata la punta di trattenuta ferocia nella voce

sommessa, a turbarlo. Sembrava un ben strano modo di rivolgersi a

un uomo assunto per spostare gli apparecchi e svolgere le mansioni

più ordinarie.

Li seguì in silenzio in una sala operatoria rilucente, rivestita di pia-

strelle. Si sentiva meno a suo agio che nella sua stanza, ma quando al-

lontanò dalla mente l'intonazione di Moss come un accento natural-

mente sarcastico, che lasciava capire più di quanto intendesse vera-

mente, cedette ancora al suo entusiasmo. Si guardb intorno, mentre il

medicO si lavava le mani e le braccia in un profondo lavandino.

~el centro della sala, si trovava un tavolo operatorio, rivestito da un

lindo lenzuolo senza neppure una grinza. Sopra il piano, si divaricava-

no i cinque globi di una lampada scialitica. Era una stanza ben orga-

ata~ Perfino lui poteva vedere come tutto fosse a portata di mano

del dottore: i vassoi con i tamponi, le garze e le pinze, e un dispositivo

per la sterilizzazione che emetteva nuvolette di vapore.

--Noi conduciamo molti esperimenti chirurgici--spiegò il dottor

Moss.--Lei, più che altro, dovrà occuparsi degli anestetici. Mostragli

come si fa, Clarence.

Wood osservò con attenzione. Pareva semplice: aprire e chiudere le

bombole del ciclopropano, dell'elio e dell'ossigeno, tener d'occhio i

quadranti per evitare che si formassero miscele troppo ricche, badare

ai mantici e al filtro dell'acqua....

Già sapeva che gli anestesisti ben addestrati controllano la miscela

aspirandola appena dal naso. Su suggerimento di Clarence, inspirò

leggermente dal cono bisbigliante. Ma non sapeva del ciclopropano,

così rapido, che a volte anche gli anestesisti più esperti ne rimangono

tramortiti...

Giaceva sul pavimento con le braccia e le gambe puntate verso l'alto.

Quando cercò di distenderle, rotolò su un fianco. Gli arti si protende-

vano ancora rigidi. Era intontito dall'anestetico. Qualcosa che somi-

gliava a un cerotto chirurgico gli tirava la pelle in una zona sensibile

del collo.

La sala era buia, dietro le persiane verdi abbassate a schermare la

luce di fuori. Da qualche parte sopra di sé, in fondo al locale, sentì un

respiro affannoso e, prima che potesse drizzarsi per indagare, udì mol-

teplici passi che salivano verso la porta. Si ritrasse sulla difensiva.

La porta si spalancò. La luce brillò nella stanza. Wood balzò in pie-

di... e scoprì che non poteva stare eretto. Ricadde in una posizione ac-

cucciata, di fronte a quegli uomini che l'osservavano con freddo inte-

resse.

--Ha cercato di alzarsi--asserì uno.

--Che altro si aspettava?--sbottò Wood. Ma dalla bocca gli uscì

un ringhio confuso e feroce, inarticolato. Sconvolto e furioso, alzò lo

sguardo verso gli osservatori.

--Tienilo d'occhio, Clarence--disse Moss.--Io mi occuperò del-

l'altro.

Wood volse la testa dalla minacciosa canna della pistola puntata su

di lui e vide il dottore sollevare l'uomo sul lettino. Clarence indietreg-

giò verso la finestra e alzò la tapparella. Un vivido chiarore lunare ri-

scosse il paziente che, mostrandosi a Wood di profilo, fissò gli occhi

vacui sulla rosea faccia levigata di Moss, senza più lasciarla. Dietro le

sue orecchie, si arricciavano lunghi capelli scomposti.

--Ecco qua, Talbot--disse Moss al vecchio.--Vivo e vegeto.

--Lo tiri giù dal letto, e vediamo se si comporta come diceva lei.--

Il vecchio si agitava nervoso poggiandosi al bastone.

Moss trasse le gambe del paziente sul bordo del letto e lo alzò fatico-

samente in piedi. Per un poco, quello rimase dritto senza bisogno di

aiuto, poi, d'un tratto, crollò sulle mani e sulle ginocchia. Allora guar-

dò Wood in faccia.

Solo dopo un minuto di sbigottimento, Wood riconobbe quel volto.

L'aveva visto ogni giorno della sua vita, ma mai con tanto distacco. Gli

occhi vacui, rotondi, i muscoli rilassati in un'espressione idiota.

Satvo che era ta sua faccia...

Fu un'esplosione di panico. Si guardò, per quanto poteva: due gam-

be pelose si dipartivano dalle sue spalle, per finire nelle due zampe an-

teriori di un cane, saldamente poggiate sul pavimento.

Avanzò incespicando verso Moss.--Che cosa mi avete fatto?--ur-

lò. Sortì un ululato ferino. Il dottore spinse gli altri verso la porta e ar-

retrò guardingo.

Wood sentì le labbra stirarsi sopra le zanne. Clarence e Talbot erano

nel corridoio. Moss, vigile sulla soglia, le dita sulla maniglia, lo guar-

dava intento, gli occhi glaciali e impassibili. Quando balzò, Wood si

abbatté con la spalla contro la porta, richiusa di scatto dal dottore.

--Sa cosa è successo--giunse la voce di Moss attraverso il pannel-

lo.

Non del tutto vero. Wood sapeva che era successo qualcosa, ma ri-

fiutava di credere che la faccia dell'uomo strisciante, che lo guardava

stupidamente, fosse la sua. Eppure, lo era. E lui stesso si trovava sulle

quattro zampe di un cane, con un cerotto chirurgico sopra una ferita

che gli bruciava sul dorso del collo.

Da stroncare e annichilire chiunque - troppo fantastico, per potervi

credere. Pensò disperatamente all'ipnosi. Ma gli bastava voltare la te-

sta, per vedere in pieno quello che era stato il suo corpo, poggiato sulle

mani e le ginocchia, come se non potesse stare in piedi.

Lui era fuori del suo corpo. Innegabile. In qualche modo, ne era sta-

to tirato fuori; con qualche droga, o I'ipnosi, Moss l'aveva ficcato nel

corpo di un cane. Doveva ritornare nelle sue membra originarie.

Ma come si fa a tornare nel proprio corpo?

L'intelletto di Wood si lanciò alla cieca in tutte le direzioni. A mala-

pena sentì i tre uomini allontanarsi dalla porta ed entrare nella stanza

attigua Ma, d'un tratto, la sua mente si gelò per il terrore. Il suo corpo

umano appariva completo e impenetrabile, ermeticamente chiuso al-

la sua identità, orrnai estranea.

I ~ Le sue lacrime animalesche, sgorgate in un gelido terrore, si accom-

pagnarOnO a uno scricchiolio di mobili: il bastone di Talbot si arrestò

i~ con un picchiettio inquieto, insistente.

--Questo dovrebbe aver convinto anche lei, no, Talbot?--Adesso

E era Moss, che parlava.--Le loro identità si sono scambiate, senza il

-~ minimo mutamento nella rispettiva conformazione mentale.

Wood trasalì. Voleva dire... no, assurdo! Ma tutto ciò spiegava come

~mai il suo corpo strisciasse sulle mani e le ginocchia, incapace di riz-

zarsi in piedi. Significava che l'identità del collie era dentro il suo cor-

po!

--D'accordo--giunse la risposta di Talbot.--Ma che mi dice del-

I'operazione? Non è doloroso, il trasferimento dei cervelli in due crani

diversi?

--Non è possibile trasferirli in crani diversi--lo contraddisse Moss

con una punta di fastidio.--Non collimano. E poi, non c'è bisogno di

scambiare tutta la materia grigia. Come spiega che certe persone ab-

biano conservato la loro identità, dopo l'asportazione di parte del cer-

vello?

Seguì una pausa.--Non so--ammise Talbot dubbioso.

--A volte le parti del cervello rimosse contenevano centri nervosi: è

subentrata la paralisi, ma l'identità era pur sempre presente. Allora,

in quale parte del cervello era contenuta?

Wood non fece caso al mormorio di risposta del vecchio, ma rimase

intento ad ascoltare Moss, tutte le sue paure soffocate dal tendersi del-

le orecchie, nell'ansia divorante di capire che cosa gli avesse fatto.

--Rifletta--disse il chirurgo.--L'identità doveva trovarsi in qual-

che parte del cervello che non era stata tolta, né poteva essere toccata

senza uccidere il paziente. Ecco dov'era. Esattamente alla base del-

I'organo, dove uno scalpello non poteva giungere senza passare attra-

verso il cranio e il tronco dell'encefalo, con tutti i centri vitali. Lì si

trova nascosto e al sicuro un piccolo corpo misterioso, con un diame-

tro di neanche un centimetro, detto ghiandola pineale. E questa che,

in qualche modo, controlla l'identità. Una volta era un terzo occhio.

--Un occhio, che ora controlla l'identità?--esclamò Talbot.

--Perché no? Le branchie dei pesci nostri progenitori sono diventa-

te la tromba di Eustachio che presiede al nostro equilibrio.

"Fino a che non ho sviluppato una nuova tecnica per rimuovere la

ghiandola, estraendola da sotto il cervello, anziché passare attraverso

il cranio, non si sapeva nulla al riguardo. In primo luogo, cercare di

raggiungerla nel secondo modo, avrebbe significato uccidere il pa-

ziente e, d'altro canto, le iniezioni endovenose o d'altro genere non

hanno alcun effetto. Ma quando ho scambiato le ghiandole pineali di

un coniglio e di un topo, il coniglio ha preso a comportarsi come un to-

po, e il topo come un coniglio; nei limiti del possibile, si capisce. Puro

empirismo: funziona, ma non so perché.

--Allora, perché i primi tre si comportavano come... qual è la paro-

la?

--Catatonici. Ecco, gli scambi in realtà erano stati portati a termi-

ne con successo, Talbot; ma ho ripetuto tre volte lo stesso errore, fino a

che non ho capito. A proposito, mettete a lavorare quel reporter su

qualcosa di meno scottante. Sta arrivando pericolosamente vicino al-

la verità. A parte la ritenzione salivare, le vittime si comportavano

quasi come i catatonici, e più o meno per lo stesso motivo. Io ho scam-

biato la ghiandola pineale dei topi con quella dei tre soggetti. Bene, lei

può immaginare come si comporterebbe un topo, dovendo controllare

il corpo relativamente esteso di un uomo. E al di là delle sue possibili-

tà. Ma la differenza tra il corpo di un cane e quello di un uomo non è

così grande. Il cane è disorientato ma, in ogni modo, tenta di control-

lare il suo nuovo apparato.

--E un'operazione dolorosa?--chiese ancora Talbot.

_ Assolutamente indolore. L incisione è molto ridotta e si cicatrizza

in breve tempo. Quanto alla ripresa, può osservare lei stesso quanto

sia rapida. Ho operato Wood e il cane ieri sera.

Il cervello canino di Wood si diede a una fuga precipitosa rifiutando

di funzionare in modo razionale. Se fosse stato ipnotizzato o drogato,

avrebbe avuto una possibilità di ritorno, prima o poi. Ma la sua identi-

tà era stata strappata con la violenza e in modo permanente dal suo

corpo e immessa a forza nel corpo di un cane. Era totalmente inerme:

dipendeva in tutto e per tutto da Moss, se voleva rientrare nelle sue

forme legittime.

--Quanto vuole?--chiese Talbot con tono furbesco.

t --Cinque milioni!

~- Il vecchio emise una risatina stridula.--Gliene darò 50.000 in con-

tanti.

--Per scambiare il suo corpo morente con uno giovane, forte e sa-

t no?--gli fece eco Moss calcando ogni aggettivo.--Il prezzo è di cin-

.~ que milioni.

--Le darò 75.000 dollari-- ribatté in tono definitivo Talbot.

--Raccogliere cinque milioni è fuori questione. Impossibile. Tutto il

mio denaro è bloccato nelle mie... ehm... finanziarie. Devo impiegare

L` la maggior parte del reddito per le merci, gli stipendi, le spese generali

e l'attrezzatura. Come pensa che possa raccogliere cinque milioni in

contanti?

i~ --Non lo penso--rispose Moss con una punta beffarda.

e Talbot perse le staffe.--Allora dove vuole arrivare~

--L'interesse su cinque milioni è pari esattamente aila metà del suo

reddito In breve, per usare il suo gergo finanziario, sto mettendo un

piede a forza nei suoi racket.

Wood sentì il singulto indignato del vecchio.--Non se ne parla nep-

l~ pure!--esclamò rauco Talbot.--Le darò 80.000 dollari. Sono tutti i

F Contanti che posso racimolare.

--Non sia sciocco, Talbot-- rispose Moss mortalmente calmo.

--Non voglio i soldi per arricchirmi. Ho bisogno di un reddito sicuro

F ~ e abbondante; quanto basti per proseguire nei miei esperimenti senza

dover dissanguare gli ospedali e trovarmi ancora a corto di liquido. Se

uestO esperimento non m'interessasse, non lo farei neppure per cin-

~que milioni, per quel che mi possono servire.

--80.000!--ripeté Talbot.

--Si attacchi ai suoi soldi fino al giorno che creperà! Vediamo, con

un'angina pectoris così avanzata, non dovebbe durare più di sei mesi a

partire da adesso no?

Wood sentì il bástone del vecchio vibrare tremulo sul pavimento.

--Ha vinto, ricattatore a sangue freddo--si arrese Talbot.

La risata di Moss, poi Wood udì scricchiolare i mobili, quando i due

si alzarono e andarono verso le scale.

--Vuole vedere ancora Wood e il cane, Talbot?

--No. Sono convinto.

--Liberati di loro, Clarence. Ma non abbandonarli più in strada

perché i reporter più furbi di Talbot ci possano ricamare sopra. Metti

un silenziatore alla pistola. Lo troverai a pianterreno. Dopo lasciali

nella vasca con l'acido.

Atterrito, Wood girò gli occhi qua e là per la stanza. Doveva scappa-

re con il suo corpo. Perché scappare da solo avrebbe significato non

tornare mai più nel suo corpo: mai, dopo la separazione, Moss avrebbe

potuto restituirlo alle antiche fattezze.

Ma si trovavano al secondo piano, sul retro della casa. Anche se ci

fosse stata una scala antincendio, non avrebbe potuto aprire la fine-

stra. La sola via di uscita era dalla porta.

In qualche modo doveva girare la maniglia, correre il rischio d'in-

contrare Clarence o Moss sulle scale o nell'angusto corridoio, e poi

aprire la pesante porta d'ingresso, guidando e proteggendo il suo cor-

po!

Il collie, esiliato in altre spoglie, uggiolava stupefatto. Wood ricac-

ciò l'istintiva paura che gli serrava il cervello animalesco. Doveva es-

sere freddo.

Dal pianterreno, sentì i passi pesanti di Clarence intento a cercare

qua e là nelle stanze il silenziatore.

Gilroy chiuse la porta della cabina telefonica e si frugò in tasca alla ri-

cerca di una moneta. Fra tutte le invenzioni della scienza umana, la

cabina telefonica è la dimostrazione lampante di come questo sia un

mondo per gente sotto i due metri di altezza. Quando infine tirò fuori

una monetina il giornalista urtò con il gomito contro la porta poi,

mentre compóneva il numero chinandosi verso il microfono, fu co-

stretto a piegarsi come un bastone da passeggio. Ma Gilroy aveva al-

lenato il suo corpo allampanato ad adattarsi agli oggetti concepiti se-

condo una scala inferiore alla sua. L'esiguità dello spazio non gli dava

noia.

Spinse tuttavia all'indietro il cappello sformato ed emise un debole

fischio di scoraggiamento.

84

--Fammi parlare con il capo--disse. Il ricevitore gracchiò contro

il suo orecchio, poi il direttore lo salutò distrattamente. Il cronista sa-

peva che era appena giunto e stava sparpagliando le carte sulla scriva-

nia, all'inseguimento dell'ultimo messaggio arrivato.--Capo, qui è

Gilroy--annunciò.

t --Che cos'hai scoperto sui catatonici?

11 volto ossuto del reporter si accigliò, grave e scorato.--Niente, ca-

po--rispose con voce atona.

--Dove sei stato?

--Al Memorial, tutto il giorno, a guardare i catatonici e aspettare

una illuminazione.

Il direttore prese un tono comprensivo.--Che cosa ne pensi?

--Non ne penso niente. Sono assolutamente idioti e immobili, e

nessuno qui intorno ha un'idea che valga la pena di ascoltare. Che co-

sa mi dice dei rapporti della polizia e degli ospedali?

_ Li stavo guardando proprio prima che mi chiamassi.--Seguì

una breve pausa. Gilroy sentì un fruscio di fogli spinti qua e là.--Ec-

coli qui. La sezione per le impronte digitali non ha nessun riscontro in

archivio. E nessun dipartimento di polizia di qualunque paese, città o

metropoli ha riconosciuto le fotografie.

_ E gli ospedali intorno a New ~ork?--domandò Gilroy con un

barlume di speranza.

--Nessun paziente scomparso.

E Il giornalista sospirò e scrollò le spalle con un gesto eloquente.

E~ --Bene, tutto quello che abbiamo sono dati in forma negativa. Devo-

'~ no averli scelti maledettamente con cura. Tutti i giornali del paese

hanno pubblicato le loro fotografie, ma a quanto pare, quelli non han-

no un amico, né un parente, né precedenti penali.

--Che ne dici di un bell'articolo strappalacrime?--I'incoraggiò il

direttore.--Come mangiano, come sono inermi nei loro vecchi abiti

strappati? Mettere giù una ricostruzione ipotetica delle loro vite, ba-

sandoti sui lineamenti e sulle mani. Che ne dici? Non male, eh?

--Oh, capo--gemette Gilroy.--Io do forfait. Quella roba non è il

mio genere. Non sono un piagnone. Non abbiamo un elemento su cui

lavorare. Questi vagabondi non hanno assolutamente nessun collega-

~; mentO con la vita. Non possiamo scoprire chi erano, da dove vengono,

o che cosa gli sia capitato.

La voce del direttore prese un tono tagliente e incisivo.--Ascolta-

mi, Gilroy!--proruppe.--Smetti di lamentarti, hai capito? Io dirigo

questO giornale, e finché non deciderai di lasciarlo, ti manderò a occu-

parti degli annunci delle nascite, se ne avrò voglia.

''Tu pensavi che questo fosse un buon servizio e mi hai convinto. Be-

~ne, lo penso ancora! Voglio che tu ricostruisca la storia di questi cata-

onici. Voglio che scopra tutto su di loro e come si sono ridotti pe~io

dei paralitici rimbecilliti. E così anche il pubblico. E non mi fermerò

fino a che non lo saprò. Hai capito?

"Mettiti al lavoro e non mollare. Non lasciarti buttare giù! E giusto

per farti capire come ti appoggio... ti do carta bianca per le spese, a

tua discrezione. Ora, in un modo o nell'altro, risali all'origine di questi

catatonici! n

Gilroy per un po' rimase senza parole.--Be', accidenti--balbettò

confuso--farò del mio meglio, capo, non sapevo che la pensasse così.

--Noi due porteremo in luce questa faccenda dall'a alla zeta, Gil-

roy. Ma vieni un'altra volta a lamentarti e a dire che dai forfait, e ti ri-

troverai a fare il fattorino per qualche altro giornale. Mi hai capito? E

dico sul serio!

Gilroy abbassò deciso il cappello.--Ho capito, capo--dichiarò con

tono virile.--Può contare su di me fino in fondo.

Sbatté il ricevitore sulla forcella, aprì la porta e uscì con una nuova

determinazione. Si sentiva investito di tutta la potenza della stampa

- e non era una sensazione ingiustificata: la forza e le risorse d'intelli-

genza di un vasto giornale metropolitano erano schierate compatte

dietro di lui. Ben pochi segreti potevano sfuggire al suo occhio indaga-

tore.

Aveva bisogno solo di pazienza e di un sottile spirito di osservazio-

ne. Trovare il primo indizio sarebbe stato il compito più difficile; do-

po, tutta la storia si sarebbe dipanata da sola. Marciò verso l'uscita

dell'ospedale.

Dietro di sé, sentì dei passi frettolosi, poi avvertì un lieve tocco sul

braccio. Si girò e abbassò lo sguardo sul medico interno dell'ospedale

che, vestito in borghese, rientrava per il suo tumo.

--Lei è Gilroy, vero?--chiese il dottore.--Bene, stavo pensando

alle incisioni sul collo dei catatonici...

--E cosa mi dice?--domandò il giornalista subito sul chi vive, ti-

rando fuori un taccuino.

--Vuoi di nuovo mollare?--domandò il direttore del giornale dieci

minuti dopo.

--Non io capo!--Gilroy poggiò il taccuino con gli appunti steno-

grafici sopra il telefono.--Sono sulla pista buona. Il medico intemo

qui al Memorial mi ha fornito un vero indizio. Lui ha dedotto che i ta-

gli sul collo dei catatonici sono stati aperti per toccare qualche parte

del cervello. Le incisioni penetrano lungo una tangente a mezzo centi-

metro dalle vertebre, quindi non hanno niente a che vedere con la spi-

na dorsale. Dice che da quell'angolatura è impossibile arrivare alla zo-

na posteriore del cervello e che, entrando da dietro, non si arriva a

nessuna parte importante del collo che non si raggiunga più facilmen-

te dalla gola o attraverso la bocca.

"Se con quell'incisione non tagli il midollo spinale, è impossibile

spiegare la paralisi generale, e il midollo decisamente non è stato toc-

cato.

NQuindi, lui pensa che le incisioni dovessero aprire la via verso qual-

che parte alla base del cervello che non si poteva raggiungere da so-

pra. Anche se non sa di quale parte si tratti, o come l'operazione abbia

indotto la paralisi generale.

NAfferrata l'idea? Bene, ecco qui il colpo finale: per arrivare a un

punto esatto del cervello, di solito si toglie un bel pezzo di cranio nei

dintorni. Ma queste incisioni sono state prestabilite fino all'ultimo

millimetro, anche se il dottore non sa a che scopo. Il chirurgo ha ope-

rato basandosi unicamente sulle misurazioni, come in un volo cieco.

Lui dice che solo tre o quattro persone in tutto il paese potrebbero

averlo fatto."

--E chi sono, intelligentone? Ti sei fatto dare i nomi?

Gilroy si offese.--Si capisce: Moss a New York, Faber a Chicago,

Crowninshield a Portland, e forse Johnson a Detroit.

--Bene, cosa stai aspettando?--urlò il direttore.--Vai da Moss!

--Non riesco a trovarlo. Si è trasferito dalla sua casa sul Riverside

Drive e non ha lasciato il nuovo indirizzo. Era piuttosto seccato. Il

consiglio dell'ospedale ha chiesto le sue dimissioni e lui se ne è andato

con una brutta fama di cattivo amministratore.

Il direttore passò all'azione.--Questo ci lascia con quattro uomini

da rintracciare. Trova Moss. Io chiamerò gli altri chirurghi che hai no-

minato. Sembra un buon inizio.

Gilroy riappese. Con una mezza dozzina di lunghi passi, coprì la di-

stanza dall'uscita dell'ospedale, con la sua sgraziata, ma rapida anda-

tura da animale da preda.

Wood era in balìa di un panico paralizzante. Sapeva bene di esserne

bloccato: impossibile in quello stato studiare un piano di evasione ep-

pure, era impotente a controllare la foga atterrita del suo cervelló ca-

nino.

Clarence avrebbe impiegato ben poco a trovare il silenziatore e sali-

re le scale per uccidere lui e il suo corpo. Prima di allora, doveva scap-

1~ pare insieme al suo precedente contenitore

Vacillando~ si rizzò goffamente su due zampe e prese la maniglia fra

~li arti anteriori, ma quelli si rifiutarono di stringere la presa. Sentì

arence fermarsi, poi un rumore, come di qualcuno che frugasse nei

cassetti.

Era terrorizzato. Morse furiosamente il pomolo ma la preda gli sci-

~olò fra i denti. Morse più a fondo. Una fitta di doíore gli attraversò le

~give delicate, ma l'ottone s'intaccò. Appeso alla maniglia, si abbas-

~`

sò a terra, piegando bruscamente il collo per ruotare il pomello. Lo

scrocco si liberò dal gancio. Wood si gettò da una parte, tirando indie-

tro la porta mentre cadeva. Come si aprì uno spiraglio, vi cacciò il mu-

so e l'allargò a forza.

Da sotto, ancora l'eco dei passi pesanti. Senza far rumore, entrò nel

corridoio e guardò per la tromba delle scale. Nessuna traccia di Cla-

rence.

Tutto a un tratto l'assistente uscì da una stanza e si avviò verso le

scale. Appena sentì lo scatto metallico, Wood si accucciò tremante: il

silenziatore era stato applicato alla pistola. Sbarrò la strada al suo

corpo, che si fermò senza protestare, la faccia idiota penzolante sopra

il gradino.

Clarence giunse alla base delle scale e salì tranquillo. Wood si tese,

aspettando che svoltasse la curva e apparisse in vista.

Come scorse i due fuggiaschi, I'assistente s'irrigidì di botto, spalan-

cando la bocca in una smorfia stupefatta. La pistola tremante e impo-

tente al suo fianco, li fissava, il grasso collo pallido ora esposto e invi--

tante. Poi, gli si gonfiò il torace e la laringe s'indurì per lanciare un

grido.

Ma Wood scoprì i lunghi denti? si lanciò in alto, dritto verso Claren-

ce e le zanne scattarono ancora a mezz'aria.

La morbida carne si lacerò fra le sue mascelle. Rovesciò Clarence a

terra, caddero per le scale e rotolarono verso il pianterreno. L'assisten-

te si dibatteva rantolando. Wood avvertì un improvviso fiotto di san-

gue che gli eccitò un appetito sconosciuto, poi si divincolò e atterrò

sulle zampe.

Il suo corpo arrancò dietro di lui, fermandosi ad annusare Clarence,

ma il legittimo proprietario lo trascinò via schizzando verso la porta

d'ingresso.

Dal retro della casa, giunse il passo in corsa di Moss che si precipita-

va a indagare. Wood morse selvaggiamente la maniglia, tirando indie-

tro a tutta forza, terrorizzato all'idea che il dottore arrivasse prima

che avesse aperto la porta.

La serratura scattò. Wood, con il corpo, spalancò l'uscio e il suo al-

ter ego lo seguì ciondoloni fino alla scaletta estema. Dopo averlo spin-

to fm sul marciapiede, Wood lo pilotò di furia verso il Central Park

West, fuori della portata di Moss.

Si guardò indietro e vide il dottore che li guardava dietro la tenda

sulla porta. Agghiacciato, trascinò l'uomo-cane in uno scomposto ga-

loppo fino all'angolo, dove sarebbe stato protetto dal traffico.

Aveva scampato la morte, lui e il suo corpo erano ancora insieme,

ma ìl suo panico ingigantiva. Come poteva nutrire il suo compagno,

dargli riparo e difenderlo da Moss e dai gangster di Talbot?

Ma prima di tutto, si rese conto, avrebbe dovuto proteggerlo dagli

sguardi dei curiosi. Perché il suo corpo affamato si aggirava in cerca di

preda sulle mani e sulle ginocchia, e la vista di un corpo umano che

strisciava annusando qua e là suscitava un disgustato interesse. Non

passò molto, che si trovarono circondati.

Wood aveva una paura d'inferno. Con i denti, si tirò dietro il suo in-

t volucro per la strada e ne guidò l'incerta marcia fino all'altro lato del-

la via, dove il Central Park poteva nasconderli con i suoi alberi e i suoi

cespugli.

Moss era stato più pronto. Un automobile nera sfrecciò oltre un se-

maforo rosso e piombò verso di loro. Dall'altro lato, una vettura della

polizia zigzagava fra il traffico, con la sirena spiegata, finché si fermò

di fianco alla coppia.

L'automobile nera rallentò di colpo.

Wood si accucciò a difendere il suo corpo, fissando torvo la coppia

di poliziotti che si precipitava verso di loro. Uno dei due lo cacciò via

con il piede, e l'altro sollevò il suo corpo per le ascelle, cercando di far-

lo stare in piedi.

_ E completamente suonato, pensa di essere un cane--disse l'a-

gente con tono pietoso.--Pronto per il reparto svitati, eh?

Il primo annuì. Wood perse la ragione. Attaccò, schioccando le ma-

scelle con ferocia. Il suo corpo si unì all'assalto, ringhiando orribil-

mente e mordendo a destra e a manca. Una mossa folle, senza speran-

za, ma non poteva comunicare. Doveva far qualcosa, per non lasciarsi

dividere dal suo compagno. Gli agenti lo respinsero a calci.

D'improvviso si rese conto che forse non l'avrebbero caricato con il

suo corpo, ma l'avrebbero ucciso. Si lanciò alla disperata nel traffico,

prima che facessero sedere il presunto umano nell'automobile.

--Vuoi scendere e piantargli una pallotola prima che morda qual-

cuno?--sentì dire.

--Quello svitato ti farà impazzire--rispose l'altro.--Daremo l'al-

larme dall'ospedale.

'é~j L'automobile partì verso il centro. Wood si lanciò all'inseguimento.

e Le sue zampe mulinavano furiose, ma la vettura lo lasciò indietro, al-

E tre se ne aggiunsero e, dopo pochi isolati, perse di vista i poliziotti.

E Scorse l'automobile nera svoltare incurante del traffico e puntare

rombando verso di lui, con troppa decisione. Non potevano essere al-

tri che i gangster di Talbot.

Gli occhi e i muscoli coordinati con animalesca precisione, si gettò

-~ nel veloce flusso del traffico, attento a non farsi investire e cercando,

~insieme~ un sentiero che portasse nel parco.

Quando ne trovò uno, balzò nella corsia opposta. Fra uno stridore di

~eni, accompagnatO da una sonora imprecazione, sgusciò davanti a

~ln cofano, raggiunse il marciapiede e schizzò lungo il sentiero in ce-

rnto fino a una minuscola foresta di cespugli.

Senza esitare, lasciò il sentiero e corse per i boschetti, attraverso

una macchia rada, ma sufficiente a nasconderlo, addentrandosi di vo-

lata nel cuore del parco.

Con gli occhi invasi dal terrore, osservò l'automobile che, carica di

banditi, perlustrava adesso i due lati alberati del sentiero. Appiattito a

terra, si ritirò piano piano. Gli inseguitori battevano i cespugli a una

distanza rassicurante.

Fin tanto che li aggirava, strisciando da un nascondiglio all'altro,

correva ben pochi rischi di essere scoperto. Ma era angosciato dalla

perdita del suo corpo. La sua vicinanza gli aveva dato una sorta di co-

raggio, anche se non sapeva come avrebbe costretto Moss a restituir-

glielo. Ora, oltre a imporsi al dottore perché l'operasse, doveva anche

ritrovare il suo involucro umano.

Ma il suo stomaco si torceva dalla fame. Prima di fare qualunque

piano, doveva mangiare.

Scivolb furtivo fuori dal suo riparo. I gangster erano lontani, fuori

vista. Con infinita pazienza, strisciò verso uno scoiattolo. L'attenta be-

stiola era vigile e desta. Wood impiegò un'infinità di tempo, prima di

coglierla di sorpresa e spezzarle la spina dorsale. Il pensiero di man-

giare un roditore crudo gli rivoltava le viscere.

Rinculò con la sua preda fra i cespugli. Quando tentò di escogitare

una linea d'azione, il suo cervello canino prese a recalcitrare, terrifica-

to e pazzo nella sua impotenza.

E aveva buone ragioni per aver paura: Moss aveva sguinzagliato i

gangster di Talbot alla sua caccia, e a quest'ora, probabilmente, la po-

lizia lo stava cercando come cane randagio da abbattere. ~.

Mai, in tutti i suoi incubi, aveva immaginato un simile orrore. Era l`

totalmente inerme. Le forze dell'ordine e della malavita erano unite

contro di lui, né aveva modo di svelare che non era affatto un cane, a

quanti potessero eventualmente aiutarlo, con quel suo linguaggio

inarticolato. E poi, chi poteva aiutarlo, salvo Moss? Anche se fosse riu-

scito a sfuggire alla polizia e ai gangster, e a sgusciare non visto oltre

gli accorti impiegati di una clinica, comunicando in qualche modo...

Anche in quel caso, solo Moss poteva portare a termine l'operazione!

Doveva scartare dottori e ospedali. Troppo sclerotizzati per avere

immaginazione. Ma, soprattutto, non potevano convincere Moss a

operare.

Si rizzò sulle zampe e trotterellò cauto fra i ciuffi dei cespugli verso

Columbus Circle. In primo luogo, doveva badare alla polizia e ai gang-

ster. E poi, trovare un modo per comunicare, ma con qualcuno che po-

tesse capirlo ed esercitare una formidabile pressione su Moss.

Gli odori della città solleticavano le sue narici sensibili. Come una

vasta coperta, che ovattava quasi tutti gli altri effluvi, predominava

un odore dolciastro che identificò per quello del vapore della benzina.

Al di sopra, aleggiava il profumo della vegetazione, caldo e umido- e

al di sotto, il sentore muschiato del genere umano.

Per la sua prospettiva canina, era un mondo diverso, con un ampio e

lontano orizzonte terrificante. Odori e rumori componevano scene

fantastiche nella sua mente animalesca. Eppure, era interessante. Il

battito soffocato delle sue zampe contro il morbido terreno trapunto

gli procurava un piacere istintivo, tutti gli abiti di cui aveva bisogno li

portava sopra di sé, e il cibo non era difficile da trovare.

Mentre si nascondeva dalla polizia e dai banditi di Talbot, godeva

perfino di una sorta di libertà, ma era una vile libertà indesiderata,

che non meritava quel prezzo. Come uomo, aveva sofferto la fame, il

freddo, l'indifferenza, senza un tetto né un briciolo di sicurezza. Eppu-

re, malgrado tutto, il suo corpo canino ospitava un'intelligenza uma-

na; lui apparteneva ai bipedi, alla stazione eretta, a una vita da uomo

buona o cattiva che fosse.

In qualche modo doveva tornare in quel mondo, fuori della solitaria

anarchia della sfera animale. E solo Moss poteva ricondurlo all'origi-

ne. Bisognava costringerlo, costringerlo a restituire il corpo che aveva

rubato!

Ma come comunicare, e chi l'avrebbe aiutato?

Verso il confine di Central Park si espose a un pericolo mortale.

Stava trotterellando su un sentiero che rasentava l'ampia strada.

Un'automobile nera in corsa accelerò con micidiale, rapace sveltezza

e gli si accostò. Sentì un plop soffocato. Un proiettile sibilò a due centi-

metri dalla sua testa.

Si accucciò e tornò in tutta fretta nei protettivi cespugli, poi strisciò

lesto da un albero all'altro avendo cura di tenere qualche ostacolo fra

sé e la linea di tiro.

I gangster erano scesi dall'automobile. Li sentì battere i cespugli al-

la sua ricerca. Avanzarono adagio, mentre le sue zampe agili volavano

mettendo fra loro una rassicurante distanza di trecento metri.

Uscì come una freccia dal parco lanciandosi per Columbus Circle

senza badare al traffico. A Broadway, stretto contro gli edifici, al ripa-

ro di ·ma fitta barriera di folla tra sé e la strada, si sentì più sicuro.

Quando fu certo di aver seminato i gangster, svoltò a ovest per certe

strade a senso unico, attento a qualunque segnale di pericolo.

Alle prese con il pericolo fisico, scoprì che la sua mente animale rea-

giva d'istinto e quasi sempre con maggiore astuzia di un cervello uma-

D~impulso~ quando il traffico si muoveva, si accucciava dietro le

scalette~ nei portoni, al riparo di qualunque schermo e, quando il flus-

so si bloccava davanti a un semaforo, correva come il lampo. Le auto-

plobili sbandavano di traverso, spesso lo mancavano di poco ma non

~er questo Wood rallentò il suo trotto se non dopo che aveva áttraver-

sato a zig-zag il centro, allontanandosi costantemente dal centro fino

a raggiungere West Street, lungo il North River.

Si sentì ragionevolmente al sicuro dai gangster di Talbot, ma un'au-

tomobile della polizia si awicinava lentamente sotto la superstrada.

Wood si rannicchiò dietro uno stracolmo bidone della spazzatura al-

l'esterno di un fetido ristorante. E, ancora molto dopo che l'automobi-

le se n'era andata, rimase acquattato al coperto.

Lo stridulo vento che soffiava sul fiume e sui moli coperti sollevò un

giomale dalla pila di rifiuti e lo appiattì contro la vetrina del ristoran-

te.

Nella sua mente animalesca, raggelata da una paura che l'intorpidi-

va, Wood ricordò il pomeriggio precedente, quando si trovava davanti

all'agenzia di collocamento, mentre parlava con uno dei banditi di

Talbot.

Allora, gli era balenato il pensiero che sarebbe stato piacevole essere

un catatonico anziché morire di fame. Ora era più saggio. Ma...

Si rizzò sulie zampe posteriori e rovesciò il bidone, che cadde con

fracasso, rotolando verso il rigagnolo e spargendo le immondizie su

tutto il marciapiede. Prima che dal ristorante uscisse qualche came-

riere in una ridda di improperi, Moss zampettò fra i rifiuti e afferrò

con la bocca un giomale accartocciato. Aveva un amaro sentore di ci-

bo in decomposizione, ma lo tenne stretto e corse via.

A diversi isolati di distanza, entrò in un ampio terreno desolato, fino

a nascondersi dietro un edificio cadente. Al riparo dal vento del fiume,

lisciò il giornale e scorse la prima pagina.

Era una copia, vecchia di un giorno, dello stesso quotidiano che ave-

va gettato davanti all'agenzia di collocamento. Nella colonna a sini-

stra trovò l'articolo sui catatonici, firmato Gilroy.

Prese quindi il foglio fra i denti e arretrò fino a che il giornale, rag-

grinzito, si aprì malamente alla pagina successiva. Era disgustato dal

lezzo di cibo in putrefazione che l'impregnava, ma represse la nausea

e continuò a voltare le grandi, indocili pagine con i suoi denti inetti.

Giunse alla facciata delle intestazioni editoriali e studiò con attenzio-

ne il riquadro del copyright.

Partì quindi di buon trotto, circospetto, sempre tenendosi vicino ai

muri degli edifici, attento alle automobili che potessero trasportare

gangster o poliziotti, rapido come una freccia ad attraversare le strade

fino al primo riparo, e poi via ancora di trotto...

L'aria si scuriva, l'autostrada gettava una lunga ombra. Prima del

calar del sole, coprì quasi cinque chilometri lungo West Street e si fer-

mò non lontano dalla Battery.

Alzò gli occhi sgranati verso il torreggiante palazzo del Morning

Post. Aveva un'aria imprendibile, con quelle porte massicce chiuse a

difesa dal vento.

Rimase davanti all'ingresso principale, in attesa che qualcuno te-

nesse la porta aperta abbastanza a lungo da permettergli d'intrufolar-

si. Con qualche speranza, puntò lo sguardo su un uomo anziano.

Quando aprì, gli fu alle calcagna, ma il vecchio lo ricacciò con gentile

ferrnezza.

Wood scoprì le zanne. Era la sua sola risposta, e lo sconosciuto chiu-

se la porta in tutta fretta.

Tentò un altro approccio, si attaccò a un alto uomo dinoccolato dal-

I'aria abbastanza gentile, a dispetto dell'espressione concentrata. Alzò

gli occhi e agitò la coda goffamente in un saluto amichevole. Lo spi-

lungone si abbassò a grattargli le orecchie, ma rifiutò di farlo entrare.

Poco prima che la porta si chiudesse, Wood gli si lanciò contro e quasi

lo gettò a terra.

Nell'atrio, saettò attraverso le gambe che lo circondavano. Il tipo al-

to gli stava dietro, con un ruggito rabbioso. Un impaurito tramestio di

scarpe dalle spesse suole minacciò di schiacciare l'intruso, che tutta-

via si destreggiò qua e là fra i piedi levati e raggiunse le scale.

Le salì di gran carriera. L'ingresso del secondo piano vantava porte

di cristallo, davanti agli uffici dei dirigenti.

Wood svoltò l'angolo e si arrampicò di volata. Le scale, illuminate

artificialmente, si restringevano. Il terzo e il quarto piano ospitavano

le officine poligrafiche; via ancora, oltre gli uffici dell'amministrazio-

ne, delle inserzioni pubblicitarie...

Arrivato alla sezione editoriale, ansimò davanti alla pesante porta

antincendio e aspettò di riprender fiato. Poi prese la maniglia fra i

denti e la girò. La porta si aprì verso l'interno.

IL Il denso fumo pungente gli serrò le narici sensitive, mentre le sue

orecchie si ritraevano a quel frastuono strepitante.

Avanzò pian piano tra file di scrivanie ingombre e si guardò intorno

in cerca di aiuto. Vide facce assorte, intente alle macchine per scrivere

che ticchettavano sfornando gli articoli; giovanotti che filavano intor-

no a raccogliere le vaschette con le carte; schiere di uomini e donne

che entravano e uscivano dagli ascensori. Facce dallo sguardo acuto,

intelligenti, pronte...

P~ Qualcuno si era voltato a guardarlo mentre passava, poi era tornato

~ al suo lavoro, quasi senza vederlo

jj~ Wood tremò di sollievo. Queste erano le persone che avevano il pote-

re d'influenzare Moss, persone abbastanza perspicaci da capirlo! Si

accucciò e mise una zampa sulla gamba di un cronista occupato a bat-

tere a macchina, alzando lo sguardo fiducioso. Il reporter spalancò gli

~cchi, li abbassò di soprassalto e lo cacciò via

Vattene, squagliati!--gridò rabbioso.--Vattene a casa!

~ Wood si ritrasse. Non si sentiva in pericolo. Era molto peggio: aveva

_ llito. La sua mente lavorò in fretta: se avesse attratto l'interesse, co-

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me avrebbe raccontato la sua storia in modo intelligibile? Come pote-

va spiegarsi con un equivalente delle parole?

L'idea esplose improvvisa. Lui era stato un decifratore di codici in

un ufficio di cambio...

Sedette sulle anche e abbaiò, con sonori versi intermittenti, ora lun-

ghi, ora brevi. Una ragazza urlò. I giornalisti balzarono in piedi al-

larmati e si strinsero in un cerchio via via più compatto. Wood trasmi-

se così il suo messaggio in Morse, un messaggio lento, doloroso, emes-

so a forza con una laringe che non gli apparteneva. Poi, pieno di

ottimismo, cercò intorno con lo sguardo qualcuno che avesse capito.

Ma incontrò occhi ostili, infastiditi, senza la più piccola ombra di

comprensione.

--Quello è il cane che mi ha attaccato!--disse l'uomo alto e ma-

gro.

--Non per fame, spero--ribatté un giornalista.

Wood non si diede del tutto per vinto. Ricominciò ad abbaiare il suo

messaggio, ma un uomo giunse di furia dall'ufficio a vetrate del diret-

tore.

--Che cos'è tutto questo chiasso?--domandò. Scorse Wood nella

cerchia dei cronisti che si ritraevano.--Portate fuori quel maledetto

cane!

--Avanti, portatelo fuori di qui!--gridò il tipo magro.

--E un cane gentile e amichevole. Guardalo con l'occhio ipnotico,

Gilroy.

Wood fissò Gilroy con aria implorante. Non era stato capito, ma

aveva trovato il giornalista che aveva scritto gli articoli sui catatonici!

Gilroy si avvicinò con cautela, ripetendo le frasi che si usano quando

si vuole calmare un cane ribelle.

Wood corse via tra le file di scrivanie. Era così vicino al successo...

doveva solo trovare un modo di comunicare prima che lo prendessero

e lo buttassero ruori!

Balzò sul piano di un tavolo e mandò una boccetta d'inchiostro a

frantumarsi sul pavimento, dove dilagò una macchia scura. Con trepi-

do affanno, afferrò un foglio di carta bianco, intinse la zampa nella

pozza e fece un estemporaneo tentativo di scrivere.

Il fiotto di speranza svanì in fretta. Il suo garretto non era l'articola-

zione universale di un essere umano! Quando lo poggiò sul foglio, il

suo arto si appiattì, totalmente inutile, mentre le sue unghie si muove-

vano all'unisono. Incapace di ritrame tre per scrivere con la quarta,

Wood tracciò solo un'impronta sbavata.

Scoraggiato, anziché opporsi a Gilroy, si lasciò trascinare in un

ascensore. Agitò malamente la coda. Era una ben difficile impresa,

usare quei muscoli estranei di cui si serviva con una deliberazione pu-

ramente intellettuale. Sedette e aprì la bocca in quello che, su un volto

umano. sarebbe stato un sorriso amichevole: bastò comunque a rassi-

curare il giornalista, che gli diede un buffetto sulla testa, ma lo mise

ugualmente alla porta senza remissione.

Eppure, Wood aveva motivo di sentirsi incoraggiato. Era riuscito a

entrare nel palazzo e ad attrarre l'attenzione. Sapeva che un giornale

era il solo centro di potere capace d'imporsi su Moss, ma rimaneva co-

munque il problema della comunicazione. Come risolverlo? La sua

zampa era inutile per scrivere, con quell'unica articolazione, e nessu-

no nell'ufficio capiva i segnali Morse.

Si accovacciò contro il muro di cemento, la mente angosciata che si

dibatteva per trovare una soluzione. Senza una voce articolata, senza

dita prensili, il suo solo metodo per comunicare, a quanto pareva, era

abbaiare in codice. In tutta quella folla, era sicuro che ci fosse qualcu-

no in grado di decifrare i suoi segnali.

In effetti, gli sguardi si voltarono verso di lui. Perlomeno, non ebbe

difficoltà a richiamare l'attenzione. Ma erano sguardi che non capiva-

no.

Per qualche momento, fu come impazzito. Corse dentro e fuori dalla

massa di gente frettolosa, abbaiando con furia il suo messaggio, sal-

tando verso quelli che gli parevano più intelligenti e seguendoli per un

breve tratto, fino a che non appariva fin troppo chiaro che non l'affer-

ravano; allora, si volgeva ad altri, con uno strepito assordante.

Non incontrò che una timida carezza o un intimidatorio rabbuffo.

Infine, cessò quei suoi versi laceranti e si accucciò contro il muro,

sconfitto. Nessuno tenterebbe mai d'interpretare l'abbaiare di un cane

secondo un codice. Quando era un uomo, lui stesso probabilmente

avrebbe reagito allo stesso modo. L'unica nozione che poteva sperare

di trasmettere a quel modo era semplicemente il suo desiderio di atti-

rare l'attenzione. Ma nessuno vi avrebbe cercato un significato più

profondo.

Entrò nel flusso di gente che si affrettava verso la metropolitana,

trottando lungo il marciapiede, attento alle automobili che rallenta-

vano, ma ancora più attento ai rifiuti galleggianti nel canale di scolo.

Provava un'invidia assassina dei piedi umani intorno a lui, in rapido

moto fiducioso verso una destinazione ben nota; egoistici piedi rispet-

tabili, che si rifiutavano di deviare dalla strada verso casa per aiutar-

lo. Appendici di individui che potevano trasmettere le più sottili sfu-

mature e variazioni dei sentimenti, o il pensiero astratto, con le paro-

Ie, la penna, la stampa, attraverso il telefono, la radio, i libri, i

giornali...

Mentre la sua voce era solo uno stridulo verso impotente che faceva

nfuriare gli esseri umani, le sue zampe non servivano ad altro che a

~orrere e sul suo muso a punta non traspariva alcuna emozione.

Proseguì lungo il marciapiede per tre isolati nel quartiere degli affa-

ri, prima di trovare il mozzicone di una matita. Lo prese tra i denti e

corse verso i moli in West Street, anche se aveva solo una vaga idea

per un ultimo esperimento nel campo della comunicazione.

Numerosi fogli di carta, alcuni ancora bianchi, svolazzavano qua e

là nel vento che soffiava dal fiume. Agli stivatori in attesa della paga

sul molo, quello parve solo un cane che ruzzava. Qualcuno gli lanciò

un fischio. In realtà, Wood rincorreva i fogli aerei con mortale serietà.

Quando ne catturò uno, lo tenne saldamente tra le zampe, la matita

stretta nello spazio piatto che separava le sue zanne.

Spostò con la bocca il mozzicone sopra il foglio. Una scrittura goffa

e incerta, che tuttavia infine partorì lunghe lettere tremolanti in stam-

patello. Io SONO UN ~IOMO, scrisse. Il breve messaggio copriva tutto il

pezzo di carta, senza altro spazio per ulteriori informazioni.

Wood lasciò cadere la matita, afferrò il foglio tra i denti e tornò di

corsa verso il palazzo del giornale. Per la prima volta da quando era

sfuggito a Moss, si sentiva tranquillo. Il suo tentativo letterario era

rozzo e informe, ma il messaggio era inequivocabile.

Si unì a uno stanco gruppo di giovani galoppini che rientravano dai

loro incarichi, restò in passiva attesa fino a che la porta si aprì, quindi

balzò sicuro attraverso la piccola processione di novizi. I giovanotti si

scansarono preoccupati, lasciandolo entrare agevolmente.

Ancora si lanciò su per le scale fino alla sezione editoriale, posò il fo-

glio a terra e afferrò la maniglia tra i denti robusti.

Esitò solo un istante, quanto bastava per individuare il cadaverico

reporter. Seduto a una scrivania, Gilroy batteva a macchina il suo ar-

ticolo. Wood andò dritto verso di lui, portando il suo messaggio, quin-

di posò la zampa sul ginocchio appuntito del cronista.

--Che diavolo!--sbottò Gilroy e, ritratta di scatto la gamba, re-

spinse il cane.

Ma Wood tornò indietro ostinato, tendendo per quanto poteva il fo-

glio verso di lui, con un tremito pervaso di aspettativa, fino a che l'u-

mano gli strappò il messaggio di bocca. Poi, con i muscoli rattrappiti,

guardò ansioso quella faccia angolosa, dove cercava di scoprire i segni

di una progressiva illuminazione.

Gilroy tenne gli occhi sulle lettere scarabocchiate, quindi si oscurò

in viso.

--Chi fa lo spiritoso, qui dentro?--gridò d'improvviso. La maggior

parte dei colleghi l'ignorò.--Chi ha lasciato entrare questo botolo e

gli ha dato un biglietto scemo da portarmi? Avanti, chi è il genio?

Wood gli saltò intorno, abbaiando isterico, nel tentativo di spiegar-

si.

--Oh, piantala!--scattò il giornalista.--Ehi, fattorino! Porta giù

questo cane e vedi che non rientri piùl Non ti morderà.

Ancora una volta, Wood aveva fallito. Ma non si sentiva battuto

Quando la folle paura dettata dalla frustrazione si dissolse, lasciando-

gli la mente lucida e sgombra, si rese conto che l'insuccesso era solo

parziale. In realtà, aveva comunicato, ma la mancanza di spazio gli

aveva impedito di essere più chiaro ed esauriente. Il metodo era cor-

retto. Doveva solo migliorarlo.

Prima che il fattorino lo mettesse con le spalle al muro, rubò al volo

una matita da una scrivania deserta.

--Devo lasciargli la matita, signor Gilroy?--chiese il ragazzo.

--Ti presterò la mia, a meno che tu voglia farti staccare un brac-

cio--sbuffò il giornalista, voltandosi verso la macchina per scrivere.

Wood si accucciò di fianco al fattorino, in attesa che arrivasse l'a-

scensore, sempre stringendo gelosamente la matita fra i denti. Non ve-

deva l'ora di uscire dal palazzo e tornare nel terreno abbandonato di

West Street a studiare il modo di scrivere un messaggio più esplicito.

Le sue lettere in stampatello risultavano impossibilmente grandi e

tremolanti, ma con lo stesso distacco razionale che gli era solito quan-

do decifrava i codici, affrontò il problema senza timore.

Sapeva che non poteva servirsi della scrittura manuale o a stampa.

Avrebbe dovuto trovare un altro sistema, adatto ai suoi denti malde-

stri - un sistema che non richiedesse troppo spazio.

Stizzito con quel collie che si ostinava a tornare, Gilroy appallottolò

l'enigmatico e incomprensibile biglietto e lo gettò nel cestino, senza

più farvi caso, salvo considerarlo un semplice scherzo.

Le sue lunghe dita dalle nocche larghe batterono rapidamente l'ulti-

ma pagina dell'articolo. Aggiunse in fondo una breve fila di zeri e di

trattini e, con un fascio di fogli in mano, andò dal direttore.

Il capo studiò il primo paragrafo con attenzione, poi scorse rapida-

mente il resto dell'articolo. Pareva a disagio.

--Non male, eh?--esultò Gilroy.

--Eh, che cosa?--11 direttore rialzò la testa senza capire.--Oh,

certo, molto buono. Molto buono, davvero.

--Devo riconoscerlo--continuò Gilroy in tono ammirato.--Io mi

sarei arreso. Capisce, niente su cui lavorare, solo un mucchio di dati

fantastici senza capo né coda. Ora, all'improvviso, i piedipiatti raccol-

gono un pazzo che si comporta come un cane e ha un'incisione come i

~- Catatonici~ Forse non è affatto più chiaro, ma almeno si comincia a ve-

dere succedere qualcosa. Non so, ho molta fiducia. Arriveremo fino in

fondo...

Il direttore ascoltò distratto, sempre più sulle spine di frase in frase.

~ Hai visto l'ultima vittima?--I'interruppe.

· 3~ Sicuro. Sono in buoni rapporti con il medico interno. Se non

~essi seguito tutta la storia fin dal principio, avrei detto che il tipo

raccattato era davvero senza rotelle. Se ne va in giro saltellando sul

pavimento, annusa qua e là e fa un patetico tentativo di abbaiare. Ma

ha un'incisione alla base del collo. Proprio come gli altri: si vedono

due punti cuciti da una mano esperta, esattamente alla stessa distan-

za dalla spina dorsale. E un catatonico, o comunque dobbiamo chia-

marlo adesso...

--Bene, la storia si sta delineando più rapidamente di quanto pen-

sassi--disse il direttore, lisciando i bordi delle pagine di Gilroy con

una cura solenne.--Ma--e qui la sua voce si abbassò rauca--be',

non so come dirtelo, Gilroy.

Il reporter aggrottò le sopracciglia e lo guardò in tralice.--Qual è il

rospo, questa volta?--domandò disorientato.

--Oh, la solita cosa, lo sai. Devo toglierti questa storia di mano. E

un vero peccato, perché cominciava appena a girare per il verso giu-

sto. Odio dirtelo, Gilroy, ma dopo tutto, accidenti, fa parte del gioco.

--Davvero?--Gilroy posò di piatto le mani sulla scrivania e vi si

appoggiò risentito.--A chi abbiamo pestato i piedi, questa volta? A

nessuno. L'ospedale non ha motivo di lagnarsi. Non ho potuto fare no-

mi perché non ne avevo nessuno. Be', allora, da dove arriva?

Il direttore scrollò le spalle.--Non posso discutere. E un ordine dal-

l'alto. Ma ho una buona dritta da darti, per domani...

Furioso, Gilroy andò alla finestra a guardare nella strada che si scu-

riva. Dietro quell'ordine, non poteva esserci l'amministrazione, ragio-

nò incollerito: non ricevevano inserzioni dall'ospedale. E quanto al

gran capo, Talbot non interferiva mai con la politica del giornale, sal-

vo quando doveva mettere a tacere qualche articolo compromettente

su fatti criminosi. Ma eliminati i direttori, che davano un dito all'opi-

nione pubblica quando quella voleva tutto il braccio, eliminata l'am-

ministrazione, che scendeva in campo solo quando erano in gioco le

inserzioni, non poteva incolpare altri che Talbot.

Tamburellò impaziente con le nocche contro il telaio della finestra.

A che cosa mirava l'ordine del boss? Forse aveva un nuovo modo di pa-

gare i traditori. Il reporter scartò subito l'idea: sapeva che Talbot non

avrebbe scelto un metodo così dispendioso, a rischio che trapelasse

qualcosa, quando il vecchio sistema di sigillare un cadavere in un

blocco di cemento e buttarlo nel fiume era ancora una soluzione effi-

cace ed economica.

--Ci rinuncio--disse senza voltarsi.--Non riesco a capire che in-

teresse ha Talbot.

--Neanch'io--ammise il direttore.

A quella confessione, Gilroy si girò.--Allora sa che è Talbot!

--Certo. Chi altri potrebbe essere? Ma non prendertela, ragazzO

mio.--Si guardò intomo con cautela mentre parlava.--Lasciamo ri-

Dosare questa traccia dei catatonici. Domani potresti scoprire che co-

sa sta dietro al bollettino che Johnson ha trasmesso per telefono dalla

City Hall.

Gilroy scorse le parole scribacchiate sul biglietto. La sua smorfia

prese una sfumatura perplessa.

--Che diavolo è? Tutto quello che ci capisco, è che la A.S.P.C.A. e i

cinofili stanno protestando con il sindaco contro lo sterminio organiz-

zato dei collie bianchi e marroni.

--Appunto.

--E lei pensa che, naturalmente, dietro ci sia la banda di Talbot?--

Quando il direttore annuì, Gilroy alzò le mani in segno di disperazio-

ne.--Questa faccenda di gangster supera la mia intelligenza, capo. Di

solito, riuscivo a capire dove mirassero. Sapevo perché un killer veni-

va fatto fuori, o perché aveva compiuto un delitto; ma non mi vergo-

gno a dirle che mi sfugge perché un capobanda voglia mettere a tacere

una storia sui catatonici, o mandi i suoi tirapiedi a sistemare dei collie

innocenti. Me ne vado a casa... a ubriacarmi...

E uscì infuriato dall'ufficio. Ma prima che il direttore potesse solo

scrollare le spalle, ritornò con un lampo negli occhi infossati.

--Che razza di idioti siamo, capo!--gridò.--Ricorda quel collie,

quello che è venuto con un pezzo di carta in bocca? E che noi abbiamo

buttato fuori, si ricorda? Bene, quello è il cane che la banda di Talbot

vuole fare secco. Sta cercando di portarci dei messaggi!

--Ehi, hai ragione!--Il direttore si alzò dalla sedia e si drizzò con

aria incerta.--Dov'é?

Gilroy agitò le lunghe braccia in un gesto significativo.

t --Allora, forza! Al diavolo cappotti e cappelli!

si precipitarono nella sala dei redattori. I giornalisti del tumo di

notte, ridotto all'osso, bighellonavano qua e là leggendo le carte prima

di uscire per trascinarsi dietro qualche traccia inesplorata.

--Mettete giù quelle carte!--strillò il direttore.--Venite con me,

tutti quanti.

E li sospinse in branco, sconcertati e stizziti, fin dentro l'ascensore.

All'ingresso dell'edificio, scrutò in su e in giù la strada.

t~ --Non è qui in giro, Gilroy. Bene, voi, specie di vagabondi, dividete-

vi e battete le strade intomo, continuando a fischiare. Quando vedete

un collie bianco e marrone, fategli un fischio. Verrà lui da voi. Ora

F~ muovetevi e fate come vi ho detto.

si allontanarono di malavoglia.--Dobbiamo proprio fischiare?--

I~- fece eco un cronista preoccupato.

1~ --Sì, fischiate--ingiunse Gilroy.--Dimenticate la vostra dignità.

r9 ~ischiate!

Si sparpagliarono emettendo quegli acuti segnali che dovrebbero ri-

hiamare i cani. I radi passanti nel quartiere degli affari a quell'ora

rda erano profondamente interessati e incuriositi, ma Gilroy, incu-

rante, lasciò il direttore intento a fischiare presso il palazzo del gior-

nale e andò a zufolare verso West Street. Lasciò alle spalle gli striduli

richiami che giungevano in un soffio dal fiume e frugò le tenebre che si

addensavano lungo l'ampia superstrada.

Per un'ora indagò gli scuri anfratti tra i moli, battendo con cura la

sua zona. Non trovò nulla- solo qualche portuale che scaricava i ca-

mion e il traffico ridotto dei quartieri periferici: cani randagi che fru-

gavano qua e là e qualche disgraziato ridotto alla fame. Nessuna trac-

cia del collie bianco e marrone.

Rinunciò quando cominciò ad avere fame. Ritornò quindi al palazzo,

sperando che gli altri avessero avuto miglior fortuna, irritato con se

stesso per non aver seguito il cane quando ne aveva avuto la possibilità.

Il direttore era ancora là che fischiava a tutta forza, in un capannel-

lo di curiosi in fiduciosa attesa che capitasse qualcosa. Anche gli altri

giornalisti stavano tornando.

--Trovato niente?--chiese il direttore, interrompendo per un atti-

mo i suoi sforzi.

--Niente. Non si è visto qui?

--Non ancora. Oh, tornerà di sicuro, su questo non ho dubbi.--E si

mise di nuovo a fischiare vigorosamente, ignorando gli sguardi e le of-

fensive osservazioni degli astanti, ma rivolgendo un ringhio agli scon-

fitti reporter quando lo superarono lentamente rientrando nel palazzo.

Nella relativa quiete della città, sopra gli acuti del suo direttore,

Gilroy udì un rapido tambureggiare di passi. Guardò sopra le teste

dell'accolta di bighelloni.

Apparve un cronista che correva a tutta velocità, facendo del suo

meglio per lusingare, con le labbra ormai secche, un cane che si av-

vicinava come un fulmine.

--Eccolo che arriva--gridò Gilroy. Si fece strada tra la calca e con

le lunghe gambe coprì in un lampo la distanza che lo separava dal col-

lie. Nella sua eccitazione, emetteva a caso soffi sfiatati tra i denti, ma

I'animale puntò ugualmente dritto su di lui. Dalla bocca, Gilroy gli

strappò uno sporco pezzo di carta. E subito il cane sparì, in direzione

dei moli, mentre una nera automobile di malaugurio scendeva lungo

la strada.

Gilroy si diede all'inseguimento poco convinto, poi si fermò e guar-

dò il foglio che aveva in mano. Per un attimo, maledisse la scarsa luce,

ma quando il direttore gli venne a fianco imprecando perché si era la-

sciato sfuggire il cane, il giornalista gli porse il fantastico messaggio.

--Quel cane sa badare a se stesso--disse.--Legga questo.

Il direttore, accigliato, diede un'occhiata al foglio:

--Be', che mi venga un accidente, è una barzelletta?

--Una barzelletta un corno!

--Be', io non ci capisco niente.

Gilroy si guardò in giro come cercando qualcuno che li aiutasse.

_ Non deve capirlo. E un messaggio in codice.--Ruotò su se stesso,

t puntando un enorme dito nocchiuto sul suo direttore.--Conosce

qualcuno capace di decifrare i codici, i crittogrammi?

--Uhm, vediamo, la polizia, o i G-men...

Gilroy sbuffò.--Darlo ai piedipiatti prima di sapere cosa dice!--

Con cura infilò il foglio con i rudimentali segni a matita nel taschino

interno della giacca e abbottonò il cappotto.--Lei stia qui fuori, ca-

po. Io tornerò con la traduzione. E tenga gli occhi aperti per il nostro

amico.

Prima che il direttore potesse aprir bocca, Gilroy partì a grandi fal-

cate.

Nella sala degli schedari della biblioteca della Quarantaduesima

Strada, Gilroy si stipò nella cabina del telefono e compose un numero.

Aveva gli occhi indolenziti e un mal di testa che lo stordiva. I ragiona-

menti serrati gli spremevano sempre il cervello. Aveva una mente in-

tuitiva, non ponderosamente analitica.

_ Ufficio direttivo, per favore--disse al centralinista notturno.

_ Dev'esserci qualcuno. Non m'importa se è il direttore amministra-

tivo in persona, voglio parlare con qualcuno in quell'ufficio. Aspetterò

in linea.--Ripiegato in una forma conveniente, si lasciò andare con-

tro la parete.--Pronto, chi parla?... Oh, bene. Senti, Rothbart, sono

Gilroy. Fammi un favore, eh? Tu sei il più vicino alla porta d'ingresso.

Troverai il capo lì fuori. Mandalo al telefono e prendi il suo posto fino

a che non ha finito di parlare con me. Mentre sei là fuori, sta attento,

se arriva un collie bianco e marrone. Prendilo, se si fa vedere, e portalo

dentro... D'accordo?... Grazie.

Gilroy tenne il ricevitore contro l'orecchio, divertendosi stancamen-

te a individuare i rumori che gli giungevano attraverso il filo. Non

aveva più fretta, né badò al secondo nichelino infilato prima che il di-

rettore venisse finalmente all'apparecchio.

--Che c'è, Gilroy?

--Niente, capo. Per questo ho chiamato. Ho consultato un libro sui

codici militari, qualche libercolo per bambini e una storia della critto-

grafia nel tempo. Ho trovato alcuni buoni codici, ma nessuno sembra

aVer pensato a un sistema basato sulla punteggiatura. Mai visto il co-

-~dice cifrato dei Confederati? Accidenti, un vero capolavoro... non ne

I ~Sono venuti a capo fin dopo la Guerra Civile! Gli antichi Greci arroto-

I .lavano strisce di carta intorno a dei bastoncini identici. Quando le

~Strisce venivano srotolate, i messaggi non avevano nessun senso, e in-

rCe, intorno ai bastoncini, le parole andavano tutte al loro posto.

--Fa~la finita--inveì il direttore.--Hai scoperto qualcosa di uti-

le?

--Certo. Tutti dicono che il grande segreto è la tavola della frequen-

za: le lettere che vengono usate più spesso delle altre. Ma, d'altra par-

te, dicono che nei messaggi brevi come il nostro, gli indizi importanti,

come le parole brevi sul genere di "e" e "a", i digrammi come "io", Uil",

e perfino trigrammi come "dal" o "sul" spesso vengono omessi per in-

tero.

--Bene, molto interessante. Cosa intendi fare adesso?

--Non so. Forse rivolgersi alla polizia, dopo tutto.

--Niente da fare--rispose con fermezza il direttore.--Chiedi a un

bibliotecario di aiutarti.

Gilroy afferrò al volo l'ispirazione. Sbatté giù la cornetta e si avviò a

grandi passi verso il banco per la consultazione.

--Dove posso trovare qualcuno che s'intende di crittogrammi?--

chiese stridulo.

L'impiegato consultò educatamente i colleghi.--Il custode della sa-

la dei manoscritti è molto bravo--rispose quando tornò.--In fondo

all'atrio...

Gilroy gli gridò un ringraziamento e si lanciò in una corsa scompo-

sta, senza più badare all'impiegato che gli ingiungeva di camminare.

Giunto alla sala dei manoscritti, tempestò al cancello finché il custode

lo fece entrare.

--Dia un'occhiata a questo--gli ordinò il giomalista, gettando il

biglietto su un tavolo.

11 custode lo guardò incuriosito.--Oh, un crittogramma, eh?

--Già. Riesce a capirci qualcosa?

--Be' sembra molto ben fatto--rispose il custode con prudenza

--ma sóno vent'anni che decifro questo genere di cose.--Sedettero al

tavolo nella sala deserta. Per un po', il custode tenne gli occhi inchio-

dati sul foglio scarabocchiato. --Cinque simboli-- disse infine.

--Punto e virgola, punto, virgola, due punti, virgolette. Tredici singo-

le parole, ciascuna con un numero pari di simboli. Devono averli usati

in combinazioni di due.

--Questo l'avevo già capito--gli assicurò Gilroy.--Ma che cosa

dice?

Il guardiano rialzò la testa con aria offesa.--Mi dia una possibilità.

Il codice di Bacone non è stato risolto per tre secoli.

Gilroy emise un grugnito. Non aveva tanto tempo a disposizione.

--Ci sono solo tredici singole parole--proseguì il custode, intrepi-

do a dispetto del precedente baconiano.--Impossibile usare i criteri

di frequenza, i digrammi o i trigrammi.

--Anche questo lo sapevo già--rispose rauco Gilroy.

--Allora perché è venuto da me, se sa già tutto?

Il giornalista scostò di scatto la sedia.--Okay, non le darò più fasti-

dio.

--Cinque simboli per rappresentare 26 lettere. Impossibile. Deve

essere simile al codice dei nichilisti russi. Loro potevano rappresen-

tarne solo 25- La lettera mancante è la uqn O la "jn, con molta probabi-

lità, perché tutt'e due si usano di rado. Bene, le dirò cosa ne penso.

--Che cosa?--domandò Gilroy tutt'orecchi.

--Bisognerà ragionare a pnon, o come si dice.

--Come vuole--sospirò il giornalista.--Basta che lo decifri.

--La radice quadrata di 25 è 5. Chiunque abbia scritto questo bi-

glietto, deve avere composto un quadrato di lettere, di cinque lettere

per lato. Mi sembra ragionevole.--Il custode annuì e sorrise ilare.

--Le combinazioni possibili in un quadrato di 25 sono... dunque...

625. I doppi simboli devono indicare le linee orizzontali e verticali.

Combinazioni possibili, 25. Totale delle combinazioni...uhmm...

15.625. Non molto promettente. Se c'è una parola chiave, dovremo

cercarla sul dizionario, finché non la troviamo. Combinazioni possibi-

li, 15.625, moltiplicate per i vocaboli inglesi...sempre che la parola

chiave sia inglese.

Gilroy si alzò.--Non lo sopporto--gemette.--Tornerò fra un'ora.

--No, non se ne vada--gli disse il guardiano.--Lei mi è di grande

aiuto. Non credo che dovremo esaminare più di 625 combinazioni al

massimo. Faremo in un attimo.

Parlava, ovviamente, in senso relativo. Codice di Bacone: tre secoli-

codice confederato: 15 anni; codice russo di guerra: mai violato. I crit-

tografi devono guardare all'eternità.

Gilroy sedette, mentre il custode disegnava un quadrato:

abcde;

f g h i j "

klmno,

p r s t u .

vwxyz:

La prima combinazione di due simboli, due punti e virgola, corri-

r, spondeva a una "aN, leggendo la prima colonna dall'alto, a partire dal

~- punto e virgola in cima, e per traverso, dal punto e virgola a destra. La

--~ seconda combinazione, un punto e virgola e una virgola, corrisponde-

É ~ra a una "k". Il custode proseguì a quel modo fino a che storse la faccia

e Spinse verso il giornalista la traduzione incompleta:

akddd fz kyoiztd r eztzkprepr

1 --Ha qualche senso per lei?--chiese ansioso.

= Gilroy contrasse la gola, incapace di parlare.

1i~ 103

F

--Potrebbe essere polacco--dichiarò il crittografo--o giappone-

se.

L'angosciato reporter scappò via.

Quando tomò un'ora più tardi, dopo aver mangiato e vagato per la

città, masticando nervosamente qualche sigaretta, trovò il custode

trincerato dietro una barriera di fogli ammonticchiati.

--Va un po' meglio?--gli chiese.

L'altro era troppo assorto per alzare lo sguardo o rispondere. Spian-

do sopra la sua spalla, il reporter vide che aveva predisposto un altro

quadrato. I fogli sul tavolo erano coperti dalle chiavi via via scartate;

a un calcolo approssimativo, doveva aveme tentate un centinaio.

Alla figura su cui stava lavorando era giunto per sistematica elimi-

nazione: aveva tenuto il quadrato originario, cambiando tuttavia la

posizione dei segni d'interpunzione. Scartata quella sistemazione,

aveva mutato il reticolo alfabetico e, dopo averlo messo alla prova,

aveva rimescolato ancora una volta i simboli. Paziente e cocciuto, il

custode infine aveva formato questo sistema:

zuo je,

ytnid .

x s m h c;

wrlgb"

vpkfa:

Senza fretta, contò a partire dal punto e virgola in alto e dal punto e

virgola sulla destra, fermandosi alla "mn. Gilroy, che lo seguiva, annuì

a quel risultato. Fu più veloce del vecchio guardiano nell'interpretare

il punto e virogla e la virgola, una "o". Il punto e il punto e virgola, ri-

petuti due volte, corrispondevano a una doppia "Sn. Prima parola.

moss

Il giomalista si raddrizzò e respirò a fondo. Poi si ripiegò e contò in-

sieme al custode, in verticale e in orizzontale, componendo l'intero

messaggio che il vecchio aveva sbarrato ogni due simboli. Il biglietto

recitava.

I; /:J ;t ;"/~ J n/::l I ;l " /

moss ha operato

I.J;J;.I J:;l J ....I::I;J.J ; 1;,1

catatonici talbot lo

;J / ~ J ~ nl / J J;;

finanzia proteggetemi

J ~ ;J n~;J

da loro

4

_ Mmh--mormorò il guardiano--questo avrebbe senso, se sapes-

si che cosa significa.

Ma Gilroy gli aveva strappato il foglio di mano. Il cancello sbatté al-

le sue spalle.

Mentre tornava all'ufficio in taxi, il giomalista non era troppo gon-

golante. Bussò al divisorio in vetro.--Si sbrighi. Ho già fatto il giro

turistico della città.

Se il cane era stato eliminato, pensava, addio alla storia sui catato-

nici! Il cane era il suo solo anello con I autore dello scritto in codice.

Wood scivolò lungo le buie stradine dietro i mercati di frutta all'in-

'~ grosso in West Street. Bidoni malconci e casse di merce andata a male

offrivano provvidenziali ostacoli e ripari, nel caso i gangster di Talbot

lo seguissero.

Sapeva che doveva allontanarsi dalla zona del fiume. I banditi dove-

vano averlo individuato, ora avrebbero chiamato il quartier generale

di Talbot per chiedere rinforzi. Con le loro veloci automobili, potevano

pattugliare i confini del quartiere in cui lui si aggirava e serrare le file

fino a intrappolarlo. Ma più importante era che i reporter fossero stati

mandati ruori a cercarlo.

Che avessero o meno decifrato il suo semplice codice, non contava

granché; Gilroy infine sapeva che lui cercava di comunicare, e questo

era il punto principale.

J L'animalesco e infallibile senso di orientamento lo guidò nel labirin-

l to di cupe viuzze fino alla zona più vicina al giornale. Guardò oltre

L l'angolo e studiò la strada da una parte e dall'altra: I'automobile nera

della banda non si vedeva. Doveva però correre allo scoperto per un

r centinaio di metri illuminati in pieno dai lampioni, prima di arrivare

all'ingresso del palazzo.

,~ Chiamò a raccolta i potenti muscoli delle zampe, quindi si lanciò sul

marciapiede di cemento. L'ingresso si avvicinava. Le sue zampe si al-

zavano e abbassavano come stantuffi, abbreviando il tratto critico più

rapidamente di quanto fosse concesso a un essere umano e di questo,

Wood era grato.

Avvistò un uomo che si teneva impaziente presso la porta. All'ulti-

mo momentO, rallentò la corsa balzando verso la spessa lastra di cri-

stallo.

Eccoti!--gridò il direttore del giomale.--Dentro, presto!

. E spalancò la porta. S'infilarono all'intemo poi, requisito un ascen-

ore, corsero attraverso la redazione fino all'ufficio in fondo.

Ragazzo, spero che non ti abbiano visto! Sarebbe la fine per tutti

~direttore si torceva adesso dietro la scrivania e di tanto in tanto

~`

~ 105

dava una malevola occhiata all'orologio, imprecando per la lunga as-

senza di Gilroy. Wood si stese ansimando sul freddo pavimento. Si

aspettava che ormai il suo messaggio fosse stato decifrato e aveva per-

fino nutrito la speranza di essere riconosciuto per un essere umano in

un corpo canino; ma ora si rese conto che Gilroy doveva ancora essere

impegnato nell'opera di decodificazione.

In ogni modo, per un poco era al sicuro. Fra non molto, il reporter

sarebbe tornato e allora avrebbero capito cosa gli era successo. Fino a

quel momento, sarebbe stato paziente.

D'un tratto, alzò la testa in ascolto. Aveva riconosciuto il caratteri-

stico passo del giornalista, quasi un metro a ogni falcata. Poi la porta

sbatté e si chiuse alle spalle di Gilroy.

--Il cane è qui, vero? Dia un'occhiata a quello che le ho portato!

E gettò un quadrato di carta sul tavolo. Mentre il direttore leggeva

avidamente, Wood scrutava la sua faccia, ignorando l'abbondante

hamburger scartato da Gilroy. Era stranito dall'interesse più che nor-

male mostrato dal reporter nei suoi confronti; ma, forse, il direttore

avrebbe compreso.

--E così di questo si tratta! Moss e Talbot, eh? Ora è molto più chia-

ro.

--Adesso vedo l'interesse di Moss--osservò Gilroy.--Lui è il solo

da queste parti che potrebbe fare un'operazione del genere. Ma Tal-

bot... non riesco a capire il suo gioco. E chi ha mandato il biglietto?

Come ha avuto la notizia... e dove si nasconde?

Wood quasi impazzì per la rabbia. Lui poteva spiegare: sapeva tutto

quello che c'era da sapere sull'interesse di Talbot per gli esperimenti

di Moss. Il problema della comunicazione era stato risolto, Moss e Tal-

bot erano stati denunciati, eppure lui era egualmente lontano dal ria-

vere il suo corpo originario.

Doveva scrivere un altro messaggio cifrato, più lungo, questa volta,

e più esplicito, rispondendo alle domande poste da Gilroy. Rabbrividì.

Per farlo, sarebbe dovuto andare incontro alla banda di Talbot, e il suo

quadrato era nell'angolo di quel terreno abbandonato: sarebbe stato

troppo buio...

--Dobbiamo farci guidare da lui fino all'autore del messaggio~

disse Gilroy risoluto.--E il solo modo in cui possiamo incastrare

Moss e Talbot. Così, tutto quello che abbiamo è un'accusa senza nessu-

na prova legale.

--Dev'essere da qualche parte nei dintorni.

Gilroy fissò Wood.--E quello che penso anch'io. Il cane è venut°

qui e ha abbaiato per convincerci a seguirlo. Quando gli abbiamo dato

la caccia, è tornato con un biglietto scarabocchiato mezz'ora dopo. pOI

ha portato il messaggio in codice entro un'ora. L'autore deve essere

molto vicino. DODO che il cane avrà mangiato, potremo...--Deglutì

sonoramente e levò lo sguardo stralunato verso il direttore poi, sceso

dal bordo della scrivania, frugò nel lungo pelo sul collo di Wood.

_ Guardi qui, capo, un pezzo di cerotto chirurgico. Quando il cane ha

chinato la testa per mangiare, è rimasto scoperto.

_ E tu pensi che sia un catatonico.--Il direttore scosse la testa con

un sorriso di commiserazione.--Sei matto, Gilroy.

_ Forse lo sono. Ma mi piacerebbe dare un'occhiata sotto il cerotto.

Il cuore di Wood martellò furioso. Sapeva che la sua incisione era

identica a quelle dei catatonici e, se avesse potuto vederla, Gilroy

avrebbe subito capito. Quando il giornalista cominciò a tirare il cerot-

to, cercò di sopportare il dolore tormentoso, ma dovette ritrarsi con

uno scarto.

La ferita era recente, ancora scoperta, e i peli abbarbicati erano fer-

mamente incollati al cerotto. Lasciò comunque che Gilroy riprovasse,

ma era una sofferenza troppo intensa, e poi aveva paura che l'incisio-

ne si squarciasse.

--Smettila--disse il direttore impressionato.--Ti morderà

Gilroy si raddrizzò.--Potrei toglierlo con un po' di etere.

--Non penserai davvero che sia stato operato? Moss non opera i ca-

ni. Probabilmente si è cacciato in una zuffa, o uno dei pistoleri di Tal-

bot l'ha preso di striscio con un proiettile.

Il telefono squillò insistente.--Vorrei ugualmente vedere cosa c'è

sotto--disse il reporter mentre il direttore staccava la cornetta. Di

fronte al crollo repentino delle sue speranze, Wood s'incolpò per aver

resistito a Gilroy.

·~ --Che c'è, Blaine?--chiese il direttore, e rimase in ascolto, scuren-

dosi in viso.--Okay. Stai lontano, se non vuoi correre rischi. Chiama

la redazione e detta il pezzo.--Abbassò la cornetta e disse a Gilroy:

--Guai, un sacco di guai. Le automobili della banda di Talbot incro-

ciano nel quartiere. Blaine aveva paura d'incontrarle. Non so come

potrai far passare il cane.

Wood era allarmato. Lasciò a mezzo il suo pasto e prese ad agitarsi

in direzione della porta, con un uggiolio involontario

Gilroy lo guardò incuriosito.--Giurerei che ha capito quello che lei

ha detto. Ha visto com' è cambiato?

--E il loro modo di reagire alle voci--rispose il direttore.

--Bene, dobbiamo farlo arrivare dal suo padrone--rifletté Gilroy,

mordendosi la guancia.--Io posso riuscirci, se lei mi aiuta

~_ . Certo che ti aiuterò. Ma come?

p -~--Venga --Wood e il direttore attraversarono la redazione attac-

I ~ti alle rapide calcagna del fantasmatico reporter. In silenzio, aspet-

i l~ono tutti quanti l'ascensore, quindi scesero nell'atrio.--Restate

!~U ViCino alla porta--disse Gilroy.--Quando darò il segnale, uscite

corsa.

--Quale segnale?--gridò il direttore, ma il reporter era già in stra-

da fuorivista.

I due aspettarono emozionati. Entro pochi minuti, un taxi si fermò

presso il marciapiede e Gilroy aprì la porta, seduto all'interno, ma sul

chi vive. Guardò l'angolo alle sue spalle: per un po', tutto rimase quie-

to, poi una nera automobile banditesca scivolò lenta e inquisitiva ol-

tre il taxi. La canna di un mitra balenò nella luce gialla. Il giornalista

aspettò fino a che, dopo poco, la vettura svoltò in West Street. Allora

agitò frenetico le braccia.

--Salite!--ordinò seccamente.--In West Street!

Il direttore prese Wood tra le braccia, spalancò la porta e schizzò a

bordo.

Il taxi partì d'improvviso. Wood si accucciò sul pavimento, treman-

do disperato. Aveva dato fondo alle sue risorse ed era lontano come

non mai dal riavere il suo corpo. Si aspettavano che li conducesse dal

suo padrone: acora non avevano capito che lui aveva scritto il bigliet-

to. Dove doveva portarli, come convincerli che era l'artefice del mes-

saggio?

--Credo che qui sia abbastanza lontano--disse Gilroy rompendo il

silenzio. Picchiettò sul vetro divisorio. L'autista si fermò. Giornalista e

direttore scesero, seguiti con qualche incertezza dal cane. Gilroy pagò

l'autista e gli fece cenno di andarsene. Nel quieto isolamento della

grande arteria commerciale, si chinò per tutta la sua statura fino al li-

vello di Wood.--Avanti, ragazzo! A casa!

Wood era in preda al panico. Riusciva a pensare a un solo posto do-

ve condurli. Partì al piccolo trotto, in modo da non affaticarli. Tenen-

dosi accosto ai muri, attraversando di volata le strade, puntò cauto

verso la parte bassa della città.

I due uomini lo seguirono dietro i mercati fronteggianti la super-

strada, verso un terreno più intemo. Il cane girò intorno alle profonde

e malsicure fondamenta di un edificio demolito, scavalcando mucchi

di spazzatura, fino a uno spazio sgombro, protetto dall'ombra, in fon-

do allo slargo. Qui si fermò in attesa.

Gilroy e il direttore si guardarono intorno nelle tenebre.--Venga

fuori!--gridò rauco il giornalista.--Siamo amici. Vogliamo aiutar-

Quando non giunse risposta, i due esplorarono il terreno abbando-

nato, accendendo diversi fiammiferi per illuminare gli angoli scuri

delle fondamenta_ Wood li osservava in preda ad emozioni confuse.

Frugando tra le pile di rifiuti e i muri crollanti della costruzione, per-

devano solo tempo.

Per quanto gli permetteva il buio, individuò il luogo dove aveva di-

segnato il quadrato per la codificazione. Rimase lì fermo ed abbaiò a

più non posso. I due umani si affrettarono a lasciare la loro inutile ri-

cerca.

--Deve aver visto qualcosa--bisbigliò il direttore.

Gilroy protesse un fiammifero nelle mani a coppa e spostò la luce

avanti e indietro nello spicchio triangolare dello spazio libero, quindi

scrollò le spalle.

_ Non è qui--disse il direttore.--Sta indicando il terreno.

Gilroy abbassò il fiammifero. Prima che la fiamma toccasse terra, lo

lasciò cadere con un grido, agitando le dita bruciacchiate nell'aria fre-

sca. Con un mormorio comprensivo, il direttore ne accese un altro.

_ E questo che stai cercando, un gruppo di lettere in un quadrato?

Wood e Gilroy si avvicinarono all unisono. Il reporter accese a sua

volta una fiammella e, alla sua luce, ispezionò con cura il rozzo retico-

lo.

_ Torno fra un secondo--disse. Era troppo scuro per vederlo in

faccia, ma Wood sentì la sua voce, secca e vibrante.--Prendo una tor-

cia elettrica.

_ Che cosa faccio, se il tipo viene fuori?--domandò subito il diret-

tore.

--Niente. Non verrà. Non cammini sopra il quadrato.

Gilroy svanì nella notte. Il direttore accese un altro fiammifero e

studiò il terreno con la cura di un cacciatore di cervi.

_ Che cosa diavolo avrà visto?--si chiese.--Quel ragazzo...--

Scosse la testa scorato e lasciò cadere il fiammifero.

Mai in vita sua Wood aveva conosciuto una simile eccitazione. Che

cosa aveva scoperto Gilroy? Si trattava solo di un altro elemento col-

laterale, come quando aveva capito che i gangster di Talbot gli davano

l~ la caccia, o aveva cominciato a sospettare la sua vera identità? Aveva

risposto che l'autore del biglietto non sarebbe comparso, ma quelle

parole potevano significare tutto e niente. Con tutte le forze, Wood

cercò un sistema per dimostrare in modo inequivocabile chi realmen-

te era. Ma trovò solo un piano puramente negativo: avrebbe seguito il

ggerimento di Gilroy.

A ogni minuto che passava, il direttore sentiva crescere la sua colle-

ra: cambiava posizione contro il muro di mattoni, o passeggiava intor-

no, fino a che, quando il giornalista tornò preceduto da un vivido cono

E di luce, scoppiò:--Falla finita, Gilroy. Non posso sprecare tutta la

~otte. Anche se scopriamo cosa è successo, non potremo stamparlo...

Il giornalista l'ignorò e squadernò il raggio scintillante della sua

,~ torcia elettrica a cinque pile sopra il quadrato magico.

E `~ Ora, guardi bene--disse. Osservò intento Wood, che obbedì

ualmente al suo ordine e si accostò al ginocchio del direttore, scru-

~ndo il terreno.--Il tizio che ha fatto questo quadrato è stato molto

CautO ha rivolto la schiena verso il muro, tenendo sott'occhio il terre-

~P di fronte, in modo da non farsi prendere di sorpresa. Il quadrato è

eSciato rispetto a noi. No, aspetti!--esclamò, come il direttore si

spostò per osservare il quadrato dalla sua base.--Non voglio che vi

lasci le sue impronte. Guardi lì in fondo, dove doveva trovarsi quello

che l'ha tracciato.

Il direttore guardò.--Che cosa vedi?--domandò disorientato.

--Be', il terreno è umido e piuttosto morbido. Dovrebbero esserci

delle orme. E ci sono. Solo che non sono umane!

Il direttore si schiarì la gola.--Stai scherzando!

--Gestatt--recitò Gilroy quasi a se stesso--I'intero è più grande

della somma delle sue singole parti. Noi abbiamo un insieme di fatti

sconnessi, senza nessun legame apparente fra loro. Poi, salta fuori un

elemento, che non pare più importante degli altri, ma d'improvviso va

al suo posto, e noi abbiamo il quadro completo.

--Che cosa stai farneticando?--bisbigliò allarmato il direttore.

Gilroy si abbassò per tutta la sua estensione e raccolse un mozzico-

ne di matita giallo, che rigirò in mano, prima di passarlo al direttore.

--Questa è la matita che il cane ha rubato prima che lo buttassimo

fuori. Può vedere i segni dei suoi denti sui lati, dove la stringeva. Ma ci

sono dei segni anche intorno alla punta. Può darsi che io sia pazzo...--

Prese dalla tasca lo sporco messaggio in codice e lo lisciò.--Ho visto

queste macchie nel momento stesso in cui ho guardato il biglietto, ma

allora non significavano niente per me. Che cosa ne dice?

Il direttore esaminò docile il foglio alla luce della torcia elettrica.

--Potrebbero essere le impronte dei palmi...

--Sì, di un bambino--lo gelò Gilroy.--Solo che non lo sono. Tutti

e due sappiamo che sono le impronte di un paio di zampe, le stesse che

si trovano in fondo al quadrato. Lei sa a che cosa sto pensando. Guardi

come ci ascolta, il cane.

Senza alzare la voce, Gilroy voltò la testa e disse come di passata:

--Ecco che arriva quello che ha scritto il biglietto, proprio dietro il

cane.

Involontariamente, Wood si girò verso il terreno nel buio, ma nep-

pure i suoi acuti occhi poterono distinguere una qualunque persona

nella penombra. Quando li levò verso il giornalista, fissò in pieno due

grigi occhi spaventati.

--Eccola sistemato--disse Gilroy con un tono di voce spaventoso.

--Così quello è il loro modo di reagire alle voci, eh? Niente da fare, ca-

po. Abbiamo un licantropo fra noi, grazie a Moss e Talbot.

Wood abbaiò e saltellò felice intorno alle chilometriche gambe di

Gilroy. Aveva capito!

Ma il direttore rise, una risata perfettamente normale, divertita, e

tuttavia poco convinta.--Tu perdi tempo a scrivere per i giornali,

Gilroy...

--Okay, signor intelligentone--rispose infuriato il giornalista-

--La pianti di ridacchiare e mi dia la risposta a questo che ora le dico

I 10

Il cane viene nella redazione e comincia ad abbaiare. Io pensavo che

stesse solo cercando di indurci a seguirlo, salvo che non ho mai sentito

un cane abbaiare con versi lunghi e brevi prima d'ora. Lui è corso su

per le scale, superando tutti gli altri piani - I'ufficio amministrativo,

gli uffici per la pubblicità e così via - fino alla redazione, perché lì vo-

leva arrivare. Noi lo cacciamo fuori. E lui torna con un biglietto scrit-

to alla meglio, dove dice: «Io sono un uomo«. Quelle quattro parole oc-

cupavano tutta la pagina- Perfino un bambino che impari a scrivere

non ha bisogno di tanto spazio. Ma se lei tenesse una matita fra i denti

e cercasse di unire le barre delle lettere, scriverebbe con dei caratteri

più o meno simili a quelli sul foglio.

"Il cane aveva bisogno di un sistema alfabetico più ridotto, così ha

escogitato un codice elementare. Ma aveva perso la sua matita. Allora,

ne ha rubata una delle nostre. Poi è tornato indietro, stando bene at-

tento alle automobili di Talbot.

"Non ci sono impronte di piedi in fondo a questo quadrato, solo le

orme di un cane. E ci sono due impronte sul messaggio, dove ha pog-

giato le zampe sul foglio mentre scriveva. E per tutto il tempo ha con-

tinuato ad ascoltare ogni parola che dicevamo. Quando ho detto in to-

no distratto che l'autore del biglietto era dietro le sue spalle, lui si è

voltato di scatto. Ebbene?"

Il direttore era tutt'altro che convinto.--Un ottimo addestramen-

to...

--Per essere una persona che rispettavo, ha decisamente il cervello

di una gallina. Qui... non so come si chiami--disse a Wood.--Che co-

sa farebbe se Moss fosse qui?

Wood ringhiò.

--Lei ci dirà dove trovarlo. Non so come, ma è stato abbastanza in-

telligente da pensare a un codice, quindi può anche trovare un altro

modo per comunicare. Allora ci dirà che cosa è successo.

Per Wood, fu il momento del trionfo supremo. E vero, non aveva an-

cora il suo corpo, ma ormai era solo questione di tempo. La sua gioia

alle parole del giornalista fu abbastanza violenta da scuotere la pro-

saica mente poco immaginosa del direttore.

--Ancora non ci crede--I'accusò Gilroy.

--E come potrei?--si lamentò il direttore.--Non so neppure per-

ché ti parlo come se fosse possibile.

(~ilroy frugò in un cumulo d'immondizia, da dove recuperò un pez-

zetto di legno. Rapidamente, scrisse in piccolo le lettere dell'alfabeto

iP una singola riga. Poi, gettato il bastone, si trasse da parte e puntò la

prcia elettrica.--Ora sillabi quello che è successo.

Wood balzò avanti e indietro davanti all'alfabeto, fermandosi via

a davanti alla lettera del caso, che indicava con il muso rivolto verso

~rra.

1~1

--t-a-l-b-o-t v-o-l-e-v-a u-n c-o-r-p-o g-i-o-v-a-n-e m-o-s-s h-a

d-e-t-t-o c-h-e p-o-t-e-v-a p-r-o-c-u-r-a-r-g ~ e-l-o.

--Be', che io sia dannato!--esplose il direttore.

Dopo quell'esclamazione, scese il silenzio. Si sentiva solo il battito

delle zampe sul terreno morbido, un ansito d'eccitazione e il rauco re-

spiro degli uomini.

Wood aveva vinto!

Gilroy sedeva alla macchina per scrivere nel suo appartamento. Wood

stava di fianco alla sedia e osservava i tasti che scattavano veloci. Ma

il direttore misurava nervosamente avanti e indietro il pavimento.

--Ho sprecato metà della serata--si lamentava--e se stamperò

questa storia verrò buttato fuori. Be', accidenti, Gilroy, come pensi

che la prenderà il pubblico, se non riesco a crederci neanch'io?

--Mmh--spiegò il giornalista.

--Ti stai giocando il posto. Lo sai questo, vero?

--Non mi importa granché--rispose Gilroy senza alzare lo sguar-

do.--Wood deve tornare nel suo corpo. E non potrà farlo, a meno che

l'aiutiamo.

--Ma non ti suona ridicolo? "Deve tornare nel suo corpo." Immagi-

na cosa diranno gli altri giomali di questa frase!

Gilroy si agitò impaziente --Non la vedranno--affermb deciso.

--Allora perché diavolo stai scrivendo l'articolo?--domandò il di-

rettore allibito.--E perché non vuoi che torni in ufficio?

--Calma! Fra un minuto avrò finito.--Inserì un altro foglio, che le

sue dita volanti coprirono rapidamente di nere parole accusatorie.

Wood dischiuse la bocca in un sorriso canino in risposta al sorriso del

giornalista, quando abbassò lo sguardo verso di lui, assentendo fidu-

cioso.--Praticamente stai già camminando sui tuoi piedi, amico. An-

diamo.

Allorché Gilroy s'infilò il cappotto svolazzante e si ficcò un cappello

malconcio sulla testa spigolosa, Wood si preparò a schizzare fuori, ma

il direttore indugiava:--Dove state andando?--chiese diffidente.

--Da Moss, naturalmente, a meno che lei abbia in mente un posto

migliore--rispose il reporter.

Wood non tollerava il pensiero di tardare oltre e cominciò a tirare

I'altro per i pantaloni.

--Puoi scommetterci che conosco un posto migliore. Ehi, piantala

Wood... vengo, vengo. Ma accidenti, Gilroy! Sono le dieci passate, e

ancora non ho fatto niente. Abbi cuore e vedi di farla finita in fretta

Strattonato per il braccio dal giornalista e tirato per la gamba da

Wood, il direttore accompagnò i due, pur senza cessare le sue proteste

1 12

Alla porta, comunque, nascose il cane mentre il giornalista chiamava

un taxi. Quando Gilroy fece segno che la strada era sgombra, attraver-

sò di corsa il marciapiede con il collie in braccio.

t Gilroy diede l'indirizzo all'autista. Come lo sentì Wood aprì la boc-

ca in un ringhio silenzioso. Era solo a breve distanzá da Moss, con due

eloquenti portavoce in grado di articolare le sue richieste e, se neces-

sario, mobilitare l'opinione pubblica in suo favore! Che cosa poteva fa-

re Moss contro una simile forza?

Risalirono per la Settima Avenue e lungo il Central Park West. Solo

il direttore aveva l'impressione che andassero a tutta velocità; Gilroy

e Wood si agitavano irritati a ogni semaforo rosso.

Nella strada di Moss, Gilroy avvertì l'autista di rallentare. La casa

del chirurgo era sorvegliata da due pigre automobili nere.

--Scendiamo all'angolo--disse Gilroy.

Si rifugiarono nell'androne di un palazzo di camere ammobiliate.

--E adesso?--domandò il direttore.--Non possiamo farci strada

a forza.

Wood scosse la testa. Nessun ingresso dal retro.

--La sola via è attraverso i tetti--stabilì Gilroy. Sporse la testa e

studiò gli edifici tra loro e la casa di Moss.--Questo è alto sei piani,

quello dopo, cinque, quello a destra della casa di Moss, sei, e la casa di

Moss, tre. Dovremo salire e scendere per le scale antincendio ed entra-

re dal tetto. Pronti?

--Suppongo di sì--rispose il direttore con tono fatalista.

Gilroy saggiò la porta. Era chiusa. Scelse quindi un campanello a

caso e suonò vigorosamente. Seguì un breve silenzio, poi la serratura

scattò. Il giornalista spalancò la porta e corse su per i gradini, facen-

E~ doli a quattro per volta.

--Chi è?--gridò una donna giù per la tromba delle scale.

La superarono di galoppo.--Ci scusi, signora--le gridò Gilroy.

--Abbiamo suonato il suo campanello per sbaglio.

~ La donna parve contrariata e impaurita, ma il giornalista la preven-

LL ne con un sorriso e un gaio gesto della mano mentre filava via.

La porta del tetto era chiusa con un robusto gancio dall'occhiello ar-

rugginito. Gilroy l'aprì a forza con il palmo, e si ritrovarono su un tet-

E to incatramato, gelido e nero sotto il cielo coperto della notte minac-

CiOsa,

Scoperta insieme a Wood la scala antincendio che portava al tetto

essivo~ Gilroy si cacciò l'amico sotto il braccio sinistro e si lanciò

-~ sopra i gradini infissi nel muro.

Questa è follia!--esclamò il direttore.--Non ho mai fatto una

>sa così assurda nella mia vita. Perché non siamo un po' più furbi e

d~iamiamO i piedipiatti?

--Siì?--lo rintuzzò Gilroy senza fermarsi.--E quale sarebbe la

~a accusa?

I 13

--Contro Moss? Be'...

--Ci pensi mentre cammina.

Gilroy e Wood erano già sul tetto vicino e aspettavano sulle spine

che il direttore scendesse. Il direttore scese, ma i suoi pensieri vagava-

no altrove.

--Puoi accusarlo di quello che ha fatto. Ha trasformato un uomo in

un cane.

--Farebbe una grande impressione in un atto di accusa. Se lo scor-

di. Guardi solo di camminare in punta di piedi. Questo maledetto tet-

to scricchiola e rimbomba come un tamburo.

Avanzarono sulle lamine di metallo incatramato. Sotto, potevano

sentire risuonare i loro passi più pesanti nelle camere vuote. Le zampe

del collie ticchettavano in un balletto ritmato. Quando proseguirono a

cavalcioni di un basso muro tra i due edifici, Wood annusò l'aria, in

cerca dei nemici che si annidavano dietro i comignoli, le feritoie e le

porte. Di tanto in tanto, spinto da un fuggevole sospetto, Gilroy dirige-

va il raggio della torcia elettrica avanti a sé. Infine, salirono per una

scala di acciaio verso il palazzo a sei piani vicino alla casa del chirur-

go.

--E accusarlo di rapimento?--domandò il direttore mentre guar-

davano oltre il muro verso il tetto di Moss. ~-

--La prego, non stia a seccarmi. Il corpo di Wood è nel reparto os-

servazione dell'ospedale. Come proverà che Moss l'ha rapito?

Il direttore annuì nel buio e pensò a un altro capo di accusa. Gilroy

puntò la torcia elettrica in pieno sul tetto vicino che apparve comple-

tamente sguarnito.

--Vieni, Wood--disse infilando la torcia elettrica nella cintura.

Prese il cane sotto il braccio sinistro ma, per servirsi della mano de-

stra nell'ascesa, dovette stringere in una morsa il corpo dell'amico.

Wood era grato solo di non poter guardare il tetto tre piani più sotto,

stretto com'era nella presa. Respirava con un rantolo sibilante. Quan-

do il giornalista si tagliò la mano su una squama aguzza di verniCe

rinsecchita, sentì un nodo in gola.

--Va tutto bene--lo rassicurò Gilroy in un bisbiglio.--Ci siamo

quasi.

Sopra di loro, Wood scorgeva il direttore scendere pesantemente

per l'insicura scala imbullonata che, tra le piastre di ancoraggio, on-

deggiava lamentosa staccandosi dallo sporco muro di mattoni. Un

piolo dopo l'altro, scesero adagio, Gilroy afferrandosi a ogni appiglio,

Wood sospeso a mezz'aria e impotente, entrambi con il cuore in gola

quando la scaletta scricchiolava sotto il loro peso.

Infine, quando abbassò il piede e, di sotto, trovò il solido tetto, Gil-

roy sorrise trionfante nel buio. Wood sgusciò dalla sua morsa. Poi il di-

rettore, imprecando, li raggiunse e li seguì fino alla scaletta sul retr°,

.~ ma, questa volta, si offrì di portare lui il cane. Mentre si calavano in-

certi lungo il muro, Wood ne sentiva tremare i muscoli. Lui stesso non

aveVa nulla da perdere, se non una miserabile vita animalesca, eppure

non era del tutto immune dalla paura, di fronte ai pericoli nascosti

che affrontavano- Si sentiva comprensivo verso quel direttore di gior-

nale che, invece, aveva tutto da perdere, e neppure credeva per intero

alla sua vera identità: doveva essergli riuscito ben duro accettare la

scoperta di un uomo in un collie apparentemente normale!

Wood fu depositato sulle sbarre di ferro, poi il giornalista si unì a lo-

ro in gran fretta e diede uno strattone al lucernario. La finestra era

chiusa.

_ Ho bisogno di un piede di porco per aprire--mormorò Gilroy

mentre additava i bordi del telaio.--Non ha un coltello con sé?

Il direttore si frugò distrattamente le tasche e ne trasse un mazzo di

chiavi, oltre a svariati mozziconi di matite, pezzetti di carta, fiammi-

feri e, in ultimo, una limetta per le unghie di poco prezzo nella sua fo-

derina. Gilroy ne usò la punta per sgrommare la vecchia intelaiatura,

scheggiando agevolmente lo stucco, fino a liberare il bordo superiore e

i lati.

I --Ora--disse in un sussurro--scostatevi un poco e state pronti a

prenderlo.

rnserì la limetta contro il bordo superiore e sollevò il vetro dal te-

laio. La lastra rimase sospesa, poggiandosi sugli altri tre lati: il gior-

~: nalista la prese per i bordi e la tolse di mezzo senza rumore.

--Andiamo.--Gilroy si calò a ritroso entro il telaio vuoto.--Mi

passi Wood.

Quando si drizzarono nella stanza buia, sotto lo stesso tetto di Moss

Wood avvertì con un senso di euforia la vicinanza del solo uomo che

odiava, colui che poteva restituirgli il suo corpo.--Ci siamo!--pen-

sava.--Ci siamo!

- --Gilroy--incalzò il direttore--potremmo accusare Moss di vivi-

sezione.

E vero--bisbigliò il reporter. Gli altri due sentirono la maniglia

tremare nella sua mano e si voltarono timorosi.

--Ora dove andiamo?--proruppe il direttore in preda al panico.

,~ --Siamo qui--rispose freddo Gilroy.--Tanto vale che andiamo fi-

p- no in fondo.

La porta si aprì, una pallida luce fioca entrò timidamente. Guarda-

ono il lungo, stretto e squallido corridoio che si stendeva verso le sca-

nel centro della casa. In fondo a quei gradini, avrebbero trovato

~oss.

~ LaCutO olfatto di Wood avvertì subito l'odore del nemico. Il chirur-

E era stato in quella stanza non molto tempo prima.

tScivolò accucciato intorno al pianerottolo in cima alle scale e scese

115

gradino per gradino. Gilroy e il direttore si tenevano alla ringhiera e al

muro, poggiando gran parte del peso sulle mani. Scesero per la stretta

spirale su cui Clarence aveva incontrato le acuminate zanne fatali, giù

fino al corridoio a pianterreno, dove il suo corpo grasso era stramazza-

to in mezzo al sangue.

Wood sentì a distanza il breve e nervoso picchiettio di un bastone,

presto zittito da un collerico sibilo imperioso, quasi impercettibile

perfino per le sue orecchie. Guardò esultante Gilroy con una scintilla

negli occhi cupi e un sogghigno selvaggio della bocca che scoprì la ros-

sa lingua penzolante nella bianca trappola mortale dei denti. Aveva

individuato i rumori e il luogo da cui provenivano. Moss e Talbot era-

no in una stanza sul retro della casa.

Incu}~rò le spalle robuste e avanzò adagio, le zampe rigide, I'aria si-

nistra di tutti i cacciatori di carne quando calano in un'imboscata sul-

la loro preda. All'esterno della porta chiusa, si accucciò, i muscoli rac-

colti per il balzo, le orecchie prudentemente appiattite contro la testa

slanciata. Ma quelle orecchie sentivano le voci soffocate che sfuggiva-

no ai torpidi sensi dei due uomini.

--Si sieda, dottore--diceva Talbot.--Il camion sarà qui tra poco.

--Non mi preoccupa la mia salvezza personale--replicò secco

Moss.--E solo che odio l'inefficienza, specialmente quando lei affer-

ma...

--Be', non è colpa di Jake. Sta tornando da un lavoro.

Wood poteva vedere l'impercettibile sogghigno sulla rosea faccia le-

vigata del medico.--Lei può andarsene in qualunque momento, da

qui a sei mesi, ma la sua avidità non si acquieta, vero Talbot? Non ha

saputo resistere alla tentazione di un guadagno, e in un simile fran-

gente!

--Oh, non perda la testa. I cata-come-si-chiamano non possono par-

lare e il cane probabilmente sta rovistando fra i bidoni della spazzatu-

ra. Che cos'ha da ridire?

--Io sto cambiando residenza per motivi puramente precauzionali.

Lei sottovaluta l'intelligenza umana, per quanto limitata dalle preca-

rie capacità di espressione di un cane.

Wood guardò i suoi compagni con un sogghigno. Il direttore, con la

faccia bianca come un lenzuolo, era raggelato dall'ansia. Gilroy, con

una pistola nella mano destra, tese la sinistra verso la maniglia. Il di-

rettore, involontariamente, fece un movimento per fermarlo, ma la

porta, più rapida, si aprì di scatto verso l'intemo.

Wood e Gilroy si pararono sulla soglia, sinistri nel loro tetro silen-

zio. Talbot guardò appena l'arma. Aveva guardato troppe canne di pi-

stole, per esserne impressionato. Ma quando i sUoi occhi si posaronO

su Wood, lasciò ricadere la mascella in un tremito senile. I suoi polmo-

ni, costantemente in lotta, si contrassero. Lanciò un alto grido angO-

scioSo e si lacerò freneticamente la camicia, per liberare il torace dalla

pressione che lo schiacciava.

--Una lezione pratica per lei, Talbot--commentò Moss impassibi-

le.--Mai sottovalutare un nemico.

Gilroy perse il suo gelido distacco.--Non lo lasci soffocare. L'aiuti.

--Che posso fare?--Moss scrollò le spalle.--Angina pectoris. O si

tira fuori da solo dalle convulsioni, o non ce la fa. Io non posso aiutar-

lo. Ma cosa volete, voi?

Nessuno gli rispose. Inorriditi, osservavano Talbot imporporarsi

nella sua agonia, incapace ormai di urlare, mentre si strappava la ca-

micia sul petto. Gilroy abbandonò la mano con la pistola, ma il chirur-

go non tentò affatto di scappare. L'aria vibrò nel naso rapace del vec-

chio, che si abbatté in un mucchio contorto.

Wood si sentì male. Sapeva che i medici, per autoconservazione, do-

vevano indurirsi, ma solo un mostro di brutale insensibilità poteva

ignorare la spaventevole morte di Talbot come se neppure succedesse

sotto i suoi occhi.

--Oh, via, non è così brutta--commentò Moss con tono acido.

t Wood alzò stranito lo sguardo da quella sorta di bambolotto di pez-

za verso gli occhi duri e intrepidi del chirurgo, che non fece un gesto

per difendersi, o per chiedere aiuto alla squadra di gangster sul fronte

della casa. Con disumana condiscendenza, Moss fissava i tre intrusi.

--Manda all'aria i suoi piani--replicò tra i denti Gilroy.

Moss alzò le spalle, urbano, delicatamente sdegnoso.--Che diffe-

renza fa la sua morte per me? Non ci ho mai tenuto alla sua compa-

gnia.

--Forse no, ma i suoi soldi sembrava che le andassero a genio. Ora è

uscito di scena. Non può più impedirci di stampare tutta la storia.--

Gilroy prese dal taschino un dattiloscritto ripiegato e lo porse a Moss.

Il chirurgo lo lesse con interesse, appoggiato con indolenza contro il

E murO. Giunto alla fine del breve articolo, rilesse il primo paragrafo

quindi, educatamente, lo ridiede a Gilroy.

--E molto chiaro--disse.--Sono accusato di aver scambiato le

identità di un uomo e di un cane. Lei descrive perfino quella che sareb-

be la mia tecnica.

--"SarebbeD!--ruggì Gilroy selvaggiamente.--Intende negare?

E Naturale. Non è tutto troppo fantastico?--Moss sorrise.--Ma

non è questo il punto. Anche se ammettessi ciò di cui mi accusa, come

ensa che potrei essere condannato sulla base di simili prove? Il solo

S testimone~ a quanto pare, è il cane che lei chiama Wood. Sono ammes-

a testimoniare in tribunale, i cani? Non ricordo di preciso, ma ne

~ood era strabiliato. Non si aspettava che Moss rigettasse sfaccia-

pente le accuse. Un uomo comune sarebbe crollato, davanti all'evi-

~za.

117

Punto sul vivo, perfino il direttore, che si teneva in disparte, azzar-

dò:--Abbiamo le prove di una vivisezione illegale!

--Ma non le prove che sia stato io il chirurgo.

--Lei è il solo a New York che potesse compiere l'operazione.

--Veda un po' quanto la porterà lontano una simile prova.

Wood ascoltava con rabbia crescente. In qualche modo, avevano

permesso che Moss dominasse la situazione e si schermisse dalle loro

accuse con fredda, sarcastica dialettica. Nessuna meraviglia che non

avesse tentato la fuga! Si sentiva perfettamente al sicuro. Wood rin-

ghiò fissando con una smorfia di odio il medico, che lo guardò sprez-

zante dall'alto in basso.

--E va bene non possiamo tascinarla in tribunale--concluse Gil-

roy, mentre irr;gidiva il dito sul grilletto.--Non è questo che voglia-

mo, comunque. Quella sua deliziosa curiosità scientifica può indurla a

operare Wood e trasferire la sua identità nel suo corpo.

Il chirurgo non mutò l'espressione altera e, con sbalorditiva noncu-

ranza, osservò l'indice di Gilroy che si tendeva.

--Ebbene, parli--proruppe il giornalista, agitando minaccioso

l'arma.

--Non può costringermi a operare. Tutto quello che può fare, è uc-

cidermi, e io sono indifferente alla mia morte come a quella di Tal-

bot.--Il sorriso di Moss si allargò e si torse agli angoli, rivelando i

denti in un ringhio che era l'immagine speculare, civile e afflnata, di

quello di Wood.--Questa sua operazione comunque mi interessa. La-

vorerò per il mio solito compenso.

Il direttore spinse Gilroy verso l'interno e chiuse di fretta la porta.

--Stanno arrivando--annunciò in un fiato.--I gangster di Talbot.

In due passi, Gilroy mise il chirurgo fra sé e la porta, schiacciando

rudemente la pistola contro l'incrollabile schiena di Moss.--Mettete-

vi dall'altra parte, voi due, in modo da restar nascosti dalla porta

quando si apre--ordinò.

Come si ritrasse insieme al direttore, Wood sentì i passi lungo il cor-

ridoio, quindi un breve silenzio, poi un grido aspro:--Ehi, capo! Il ca-

mion è arrivato.

--Dica loro di andarsene--ordinò Gilroy con voce soffocata.

--Sono nella seconda stanza nel retro della casa--li avvertì Moss.

Gilroy gli piantò nella schiena la canna della pistola.--Se lo vuole

lei. Le ho detto di mandarli via!

--Non oserebbe uccidermi fino a che non avessi operato.

--Se non ha paura, perché vuol farli venire? Dov'è lo spasso?

La porta si spalancò. Un gangster fece per entrare, ma si arrestO,

mentre i suoi occhi, avvezzi alle battaglie, guizzavano dal corpo con-

torto di Talbot verso Moss e quindi verso Gilroy, che si levava incom-

bente dietro il medico. Con un rapido movimento circolare, una pisto-

la balzò dalla fondina sotto la sua ascella.

--Che è successo al capo?--domandò con voce rQca.

--Metti via la pistola, Pinero. Il capo è morto di un attacco di cuore.

La cosa non dovrebbe sorprenderti, se l'aspettava da un giorno al-

I'altro.

--Già, lo so. Ma com'è entrato quel tipo?

Moss si agitò impaziente.--E stato qui tutto il tempo. Rimanda in-

dietro il camion. Non trasloco più. Ci penso io, a Talbot.

Il gangster sembrò incerto ma, in mancanza di un altro comandan-

te, obbedì all'ordine di Moss.--D'accordo, se lo dice lei.--E chiuse la

porta.

Quando Pinero ebbe percorso tutto il corridoio, Moss si voltò di

fronte a Gilroy.

--Vedo che non ha paura... non poi tanta!--esclamò il reporter.

Il medico ignorò quell'uscita tagliente.--Dov'eravamo rimasti?

Ah, sì. Mentre lei se ne stava lì tremando, io ho avuto tempo di ripen-

sare alla mia offerta. Opererò gratis.

--Può scommetterci!--Gilroy fece ondeggiare la pistola.

Moss arricciò il naso.--Quella non ha nulla a che vedere con la mia

decisione. Non ho alcum timore della morte, e non ho paura delle vo-

stre prove. Se sceglierò di operare, sarà solo perché l'esperimento

- m'interessa.--Wood colse lo sguardo assorto di Moss, uno sguardo di

scherno che s'indurì con un riflesso poco promettente.--Ma natural-

mente--soggiunse il chirurgo mellifluo--io opererò di sicuro. Insi-

sto per farlo!

La minaccia nascosta non sfuggì a Wood. Appena si fosse trovato

sotto il bisturi di Moss, sarebbe stata la fine. Una deviazione fortuita

della lama, una minima, ben calcolata negligenza nella miscelatura

del gas anestetico, e il medico si sarebbe liberato dell'accusa sostenen-

do che non era in grado di portare a termine l'operazione: dunque,

non poteva essere lui il vivisezionista. Wood arretrò, scuotendo con

~- violenza la testa da una parte all'altra.

--Wood ha ragione--disse il direttore.--Lui la sa più lunga sul

F ~ Conto di Moss. Non uscirebbe vivo dall'operazione.

~ . Gilroy aggrottò la fronte sconcertato. La pistola nella sua mano era

F~ un inutile strumento di costrizione; perfino Moss sapeva che non l'a-

vrebbe usata... non poteva... per loro, era prezioso solo da vivo. Aveva

F voluto indurlo a operare. Ebbene, pensò, era riuscito nel suo scopo.

Moss si era offerto di effettuare l'intervento. Ma tutti e quattro sapeva-

' .~ no che, sotto il suo bisturi, Wood era condannato. Abilmente, il chirur-

go aveva trasformato la loro vittoria in una disfatta completa.

E allora che diavolo facciamo?--esclamò con foga il reporter.

--Che cosa ne dici, Wood? Vuoi correre il rischio, o tirare avanti den-

tro la pelle di un cane?

Wood si ritrasse con un ringhio.

--Almeno, è ancora vivo--osservò con tono fatalista il direttore.

Moss sorrise, con vellutata ironia protestò che avrebbe fatto del suo

meglio per restituire Wood alle sue norrnali sembianze.

--A parte gli eventuali incidenti--schiumò Gilroy.--La racconti

a un altro, Moss. Andrà avanti così com'è e lei avrà quello che le Spet-

ta.

Lanciò un cupo sguardo a Wood, con un cenno significativo della te-

sta verso il medico.

--Andiamo, capo--disse, conducendo il direttore oltre la porta

che subito richiuse alle loro spalle.--Questi due vecchi amici voglio-

no restare soli, hanno un sacco di cose di cui parlare...

Immediatamente, Wood balzò davanti all'uscio e lì si accucciò, ter-

ribile nella cieca espressione di odio dello sguardo maligno, puntato

sul chirurgo. Per la prima volta, l'atteggiamento di placida indifferen-

za di Moss s'incrinava. Guardingo, il medico strusciò a palmo a palmo

lungo il muro verso la porta. D'improvviso, si rendeva conto che quel-

lo era un animale...

Wood avanzò, tagliandogli la ritirata. Con il pelo ritto, la testa in-

cassata fra le spalle squadrate, le gengive lustre sopra le zanne ricur-

ve, il cane procedeva rigido, con un ritmo lento e inesorabile.

Moss lo guardava angosciato, e al contempo guardava la porta con _~

un penoso rimpianto. Ma ecco lì Wood, che via via riduceva lo spazio

per l'attacco. Il medico si portò le mani alla gola per ricacciare... I

I suoi nervi crollarono. Non poteva parlare con calma a due folli oc- ~ ì

chi animaleschi, allo stesso modo che con un uomo armato di una pi- ~ j

stola. Schizzò di lato e corse verso l'uscita.

Wood si lanciò verso le gambe turbinanti, che si abbatterono su di

lui, facendo precipitare Moss a capofitto sul pavimento. Il medico in-

crociò le braccia sotto la testa, per proteggere la gola, ma il cane calò

le zanne sull'orecchio e lo strappò in un rivolo tinto di rosso. Con un

grido, l'altro portò di scatto le mani alla faccia, cercando di alzarsi

senza abbassare la guardia, ma Wood gli azzannò le dita.

Le mani del chirurgo cedettero. Era in ginocchio, adesso, impotente

a respingere i rapidi assalti mirati, e quei denti come coltelli...

Wood esultava. Un minuto prima, quella rosea faccia liscia era alte-

ra e beffarda. Ora si alzava e si abbassava frenetica al livello dei suoi

occhi, contorta da una paura dilagante, mentre il sangue vivido scor-

reva dalle guance fino a poco prima scrupolosamente ripulite.

Per un istante, la pallida gola balenò scoperta, morbida e inerme.

Con un balzo, Wood la colse di sbieco e l'avvinghiò fra i denti. La car-

ne bianca si lacerò facilmente. Ma una struttura ossea schioccò fra le

sue mascelle mentre proseguiva sullo slancio.

Moss rimase là in ginocchio, dopo che Wood aveva colpito, con la

faccia contratta dal dolore e allibita, le mani flosce ai suoi fianchi. La

gola riversava un fiotto rosso. Poi il volto si prosciugò fino a scolorirsi

in un biancore spettrale, e Moss cadde a terra.

Aveva perso, ma aveva anche vinto. Wood era condannato a vivere

tutta la sua esistenza in un corpo di cane. E non poteva neppure spera-

re di campare per il tempo che gli sarebbe spettato. La vita media di

un cane è di quindici anni. Gliene restava una decina.

Nel suo corpo umano, Wood aveva avuto difficoltà a trovare un la-

voro. Era stato un esperto di codici, ma gli esperti di codici, i venditori

e gli apprendisti operai non hanno posto in un mondo dove i mercati si

contraggono. Le agenzie di collocamento sono saturate da un'offerta

esuberante di menti umane alloggiate in robusti corpi, volenterosi ed

esperti.

La stessa normale intelligenza umana nell'elegante corpo di un col-

lie aveva un assai più alto valore di mercato. Era una rarità, un feno-

meno da contemplare a bocca aperta dopo aver pagato un biglietto

per un simile pnvilegio.

--Gli uomini hanno sempre avuto una passione per i tipi bizzar-

ri--filosofeggiava Gilroy quella sera, mentre andava con Wood verso

il teatro, dove il cane sapiente era stato ingaggiato.--I tipi bizzarri,

che procurano un blando divertimento, vengono pagati per intrattene-

re il pubblico. Quelli veramente buffi hanno onori e potere. Pensaci,

Wood. Io non riesco a immaginarmelo. Quando ci libereremo del no-

~ stro amore per i tipi strambi e li restituiremo al posto che compete lo-

.F ro, avremo un gran bel mondo.

E Il taxi si fermò in una via laterale, all'ingresso del palcoscenico. Mi-

rabolanti cartelloni gialli e rossi, grandi come il murale di una catte-

drale, tappezzavano le pareti del teatro, dove faceva bella mostra

un'immagine ritoccata di Wood con un sorrisetto affettato.

--Perdinci!--esclamb senza fiato l'autista.--Aspettate che lo sap-

piano i miei marmocchi. Ho portato in macchina il Cane Parlante! Di-

co, non è un onore, eh?

Dá tutte le parti, i pedoni si fermavano strabiliati, i taxi si fermava-

no con un rispettoso stridio di freni, finché una torma di ammiratori

calò sul divo.

~, --Non è carino?--strillavano le donne.--E che aria intelligente!

'~ --Sicuro--Wood sentì ancora vantarsi il suo autista.--Io l'ho

portato qui. Com'è?--La voce del tassista si abbassò a un tono confi-

denziale. _ Be', il tipo con lui, il suo manager, credo, gli parlava nello

sso modo con cui io parlo con voi. Come se capisse ogni parola.

- Ma certo che capiva--asserì bellicoso un ascoltatore.

Ma va là--almanaccava un altro.--L'hanno addestrato, come

n-tin-tin~ solo un po' meglio. Ma di sicuro è furbo. Cosa non darei,

~er averlo

I ~n ~ 121

La squadra di polizia del quartiere del teatro irruppe attraverso il

groviglio del traffico e aprì un passaggio fino alla porta del palcosceni-

co.

--Dovreste vergognarvi--diceva un agente.--Tutto questo chias-

so per un botolo!

Wood scoprì le zanne minaccioso, e quello si ritrasse impaurito.

--Tipo intelligente, eh?--lo schernì la folla.--Credi che non capi-

sca?

Era un siparietto studiato da Wood e Gilroy. Riuscivano sempre a

trovare una spalla nelle vesti di un poliziotto zelante, né la folla man-

cava mai di rispondere.

Neppure all'interno del teatro quella celebrità era al sicuro dall'ec-

cesso di entusiasmo dei suoi ammiratori. I suoi colleghi nello spetta-

colo si ostinavano a grattargli la schiena, che pure non gli prudeva, tu-

bando e gorgogliando con straordinaria stolidità.

Le riprese del thriller a Hollywood erano terminate. Ora, mentre an-

davano in scena i numeri di apertura, Wood se ne stava insieme a Gil-

roy lontano dalle quinte, per quanto permetteva la costruzione del

teatro.

--7.000 testoni alla settimana, vecchio mio--rimuginava il mana-

ger.--E solo per fare qualcosa che qualunque babbeo del pubblico

potrebbe fare con la metà dello sforzo. Non è un bell'andare?

Nell'anno trascorso, né l'uno né l'altro erano riusciti ad abituarsi al

crescere delle cifre nei libretti bancari. Film, esibizioni, annunci pub-

blicitari, articoli romanzati nelle riviste... tutto per compensi astrono-

mici.

Ma Wood non avrebbe mai potuto guadagnare abbastanza da ri-

comprarsi il corpo umano in cui aveva fatto la fame.

--Okay, Wood--bisbigliò Gilroy--ci siamo.

Sul palcoscenico, furono accolti da applausi tambureggianti. Wood

fece il suo numero usuale di malavoglia, identificando gli oggetti che

venivano nominati dall'impresario, in un mucchio di oggetti messi in

pila.

Alcune maschere scesero lungo i corridoi fra i posti, raccogliendo le

domande che gli spettatori avevano scritto su pezzetti di carta, quindi

le passarono a Gilroy.

Afferrata una bacchetta con la bocca, il cane si mise di fronte a un

cartello ricoperto di grandi lettere poi, a fatica, indicò, carattere per

carattere, le risposte alle domande dei suoi fan. Il pubblico, per lo più,

gli chiedeva previsioni sul futuro, informazioni sull'andamento del

mercato o sulle corse. Solo pochi saggiavano seriamente la sua intelli-

genza.

Trafitto dalla bianca luce dei riflettori puntati, Wood compitò mec-

canicamente le banali risposte. Gran parte della sua amarezza si era

122

dissolta; in suo luogo, era subentrato un cupo senso di sconfitta, con

un~opaca accettazione della sua vita canina. Il suo conto in banca ave-

va sei cifre a sinistra del puntino dei decimali - più di quanto avesse

mai sognato perfino come a una possibilità fantasticamente lontana.

Ma nessun chirurgo poteva restituirgli il suo corpo, o aumentare la

sua aspettativa di vita, ridotta a meno di dieci anni.

D~improvviso~ la scena si cancellò davanti ai suoi occhi - Gilroy,

l~imponente cartellone con le lettere dell'alfabeto, la greve bacchetta

che reggeva in bocca, lo spazio nero punteggiato da pallide facce me-

ravigliate, perfino la luce bianca che lo fissava...

Giaceva in una branda in una lunga corsia. Né la sensazione delle li-

sce coperte sopra e sotto di lui, o il peso stesso delle coperte sul suo

corpo disteso aveva l'illusoria consistenza dei sogni.

E poi, totalmente snodato dalla mano, il suo indice si mosse secondo

la sua volontà. La sua unghia grattò il lenzuolo con un sonoro raspo

vittorioso.

Un interno, che camminava per la corsia, guardandosi intorno alla

ricerca della fonte di quel suono esultante, incontrò gli occhi di Wood,

illuminati dall'avida fiamma profonda dell'intelligenza. Poi, i due oc-

chi si abbassarono sul dito.

--Lei sta tornando in sé--disse infine il giovanotto.

--Sto tornando in me--rispose quieto Wood, prima che la nuova

scena svanisse e sentisse Gilroy ripetere la domanda che gli era sfuggi-

ta.

Sapeva, ora, che il corpo e la mente erano tutt'uno. Moss si era sba-

gliato; l'identità era qualcosa di più di una piccola ghiandola, qualco-

sa che andava al di là del corpo. La forzata divisione creata dal chirur-

go era innaturale; il tessuto trapiantato stava venendo assorbito e ri-

modellato. In qualche modo, Wood si rendeva conto che quei rinveni-

menti nella sua identità naturale sarebbero continuati, ancora e anco-

ra, fino a divenire uno stato permanente, fino a che fosse ridiventato

un essere llm:~n-~

j~o originale Matter of Form.

ione di Pietro Ferrari.

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Cornell Woolnch

IL CORPO DI JANE BROWN

Le tre del mattino. L'autostrada è vuota sotto una luna crudele. Mac-

chie d'olio fanno luccicare l'asfalto come un nastro di seta blu. La not-

te è totalmente silenziosa tranne per un ronzio che si sente salire da

dietro un'elevazione del terreno.

Due altre lune più luminose, poste una accanto all'altra, compaiono

di colpo sul rialzo, esplodono due ventagli d'argento accecante a gran-

de distanza davanti a loro. Fari. Il ronzio ora si è fatto un rombo. L'au-

tomobile corre a velocità tanto pazza da oscillare a destra e a sinistra.

La strada è diritta. La via è lunga. La notte è breve.

L'uomo ingobbito sul volante è teso; tiene gli occhi fissi, senza sbat-

tere le palpebre, sul bordo del tappeto nero che i fari gli srotolano da-

vanti. Ha occhi simili a due pezzetti di carbone, viso abbronzato, ca-

pelli bianchi. E magrissimo, ma vi è una forza straordinaria nelle dita

ossute che serrano il volante, nelle mascelle irrigidite, sbiancate dalla

tensione.

L'ago del tachimetro oscilla un po' al di sopra dei centoventi...

Il retrovisore rispecchia una donna giovane e stanchissima che dor-

me sul sedile di dietro. Ha le gambe raggomitolate sotto il corpo e si è

drappeggiata intorno una coperta dalla vita in giù. Una mano guanta-

ta di nero è tenuta per il polso dalla cinghia appesa alla fiancata del

veicolo e penzola completamente rilassata. La donna ondeggia nel

sonno con tanta mollezza, con una mancanza di riflessi così totale da

far quasi pensare a un'assenza di vita.

Porta un minuscolo cappellino dal quale parte una fine veletta. Il

vento gliela preme contro il viso. Il naso di lei vi forma sotto una picco-

la protuberanza. In quel punto la veletta dovrebbe gonfiarsi per il re-

spiro della donna, e invece s'incava come se lei lo stesse succhiando at-

traverso le labbra semiaperte. Nel sonno infatti tiene la bocca dischiu-

sa.

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La luna soltanto segue l'automobile nella sua corsa sfrenata, sogghi-

gnando la tiene d'occhio chilometro per chilometro, come dicesse:

"Non ti perdo di vista!"

Una manciata di puntini luminosi emerge dalla notte più avanti. Un

paese o un villaggio posto a cavallo dell'autostrada. L'ago del tachime-

tro comincia ad abbassarsi- L'uomo guarda la ragazza nello specchiet-

to, un po' preoccupato, come se la cittadina dinanzi a loro costituisse

un esame da superare.

Un segnale illuminato balza loro incontro.

ATTENZIONE!

INCROCIO PERICOLOSO--RALLENTARE

L'uomo annuisce torvo, come se trovasse giusto l'aggettivo; solo, non

nel senso in cui è inteso sulla segnalazione.

Le luci s'ingrandiscono, si rivelano lampioni che occhieggiano tra

gli alberi. Improvvisamente ai due lati della strada compaiono dei

~: marciapiedi. Vetrine buie li fiancheggiano.

Con un gesto istintivo l'uomo abbassa la luce dei suoi fari.

| -~ Un grosso autobus che va per la sua strada gli si para davanti. L'uo-

mo mette la freccia, si prepara a sorpassarlo. E allora si produce una

complicazione. Proprio dinanzi a loro la strada è tagliata da un pas-

saggio a livello. Forse nessun treno è passato per tutta la notte fino al

mattino. Cinque minuti prima, cinque minuti dopo e lui avrebbe evita-

,~ ~ to quel ritardo. Ma nell'esatto istante in cui l'automobile e l'autobus il-

luminato si avvicinano affiancati, un campanello si mette a suonare,

una barriera zebrata da cui pendono due lanterne rosse si abbassa e la

strada è bloccata. I due veicoli sono costretti a fermarsi l'uno accanto

all'altro mentre una lunga processione di carri merci passa loro da-

E vanti, interminabile. Quasi simultaneamente un grosso furgone di lat-

1~ taio è emerso dietro la macchina dell'uomo da una strada laterale, in-

|~ chiodandola dove si trova.

t Le luci dell'autobus illuminano l'automobile e cadono sulla donna

dormiente. L'unico passeggero che esso contiene è seduto accanto al fi-

nestrino proprio dalla loro parte. Gli occhi di lui cadono oziosamente

sulla macchina, vedono la donna e restano fissi su di lei, come farebbe-

ro gli occhi di qualsiasi uomo.

Ma il guidatore dell'automobile si impietrisce in una rigidità tre-

n~enda. Le nocche gli si sbiancano. Tiene gli occhi incollati al retrovi-

~le, fissi al passeggero che guarda la donna. Qualcosa di luccicante gli

Lscende dalla fronte, s'impiglia tra le rughe del viso: una goccia di sudo-

i~Poi una seconda, una terza. Il petto si alza e ricade pesantemente

~to la giaCca~ l'uomo respira come se stesse correndo.

asseggero non distoglie gli occhi dalla donna. Probabilmente il

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suo sguardo non ha alcun significato particolare. Lui non ha nient'al-

tro da guardare: perché non dovrebbe guardare una donna, anche se

lei dorme? Si capisce che dev'essere molto bella sotto quel velo? E poi

certi uomini ci nascono, con la mania di fissare le donne.

Ma mentre i carri merci continuano a sfilare e quello sguardo non si

stacca dal suo obiettivo, una delle mani dalle nocche sbiancate si stac-

ca dal volante, striscia sotto la giacca, vi s'insinua profondamente. E

quando ricompare stringe un'automatica.

Gli occhi dell'uomo non si sono mai staccati dal retrovisore, dall'im-

magine della faccia del passeggero sull'autobus. Pare che lui aspetti

che una certa espressione compaia su quella faccia, un'espressione che

tradisca un certo dubbio. E pare che sia pronto a far qualcosa con la pi-

stola se quell'espressione dovesse comparire.

Ma il lunghissimo treno merci finalmente è passato, il campanello

tace, la barriera si rialza. Il guidatore dell'autobus innesta la marcia,

la linea di finestrini illuminati scivola in avanti. La pistola svanisce, la

mano che l'aveva tenuta ritorna vuota sul volante. Un momento dopo

l'autobus svolta, portandosi via il passeggero. L'automobile riprende

la corsa.

L'uomo dalla faccia rugosa emette un lungo sospiro di sollievo, si

asciuga il sudore.

Corre, corre nella notte lungo la strada diritta, sotto la luna che lo

spia. La donna ondeggia e sogna, il velo incavato sulle labbra. I

Comincia una lunga salita e l'automobile non risponde bene quando

l'uomo preme l'acceleratore. Lui guarda l'indicatore della benzina: il

serbatoio è quasi vuoto. Per un momento l'abbronzatura si cancella

dalla sua faccia. Ma dopo tutto è su una strada principale, che gli im-

porta se la benzina finisce? Non deve fare altro che parcheggiare da

una parte e aspettare che qualcuno lo prenda a rimorchio. Perché quel-

I'ombra di panico sul suo viso?

Continua a guidare sfruttando le ultime gocce di carburante che gli

rimangono. Avanza a zigzag da un lato all'altro della strada per com-

battere l'inclinazione che potrebbe fermarlo. 11 motore sputacchia e si

riprende; ormai l'auto è prossima alla cima. Se solo ce la fa a raggiun-

gerla, può discendere dall'altra parte in folle.

L'auto si affaccia finalmente alla cresta. Davanti, la strada corre in

discesa per qualche chilometro e in distanza un grappolo di luci indica

un distributore. L'uomo sente la forza di gravità impadronirsi della

macchina e un momento dopo scende a tutta velocità a motore spento.

Il distributore è vicinissimo, le sue luci sfolgorarono come un'aurora

boreale sullo sfondo della campagna buia. Lui non osa evitarlo, ma la

tensione di nuovo lo afferra mentre si tuffa nella zona illuminata. Fissa

ansioso il retrovisore. Si chiede se deve abbassare le tendine, ma deci-

de di no. Non c'è nulla che stuzzichi la curiosità come delle tendine

suggestivamente abbassate.

t~ ~ Frena. Un inserviente arriva di corsa.

Cinque--dice l'uomo, e fissa immobile l'altro che attacca il tubo

al serbatoio. Lo fissa per tutto il tempo. La pistola è ricomparsa, nasco-

sta sotto un lembo della giacca.

L'inserviente gli si fa accanto.--Una pulita ai finestrini, capo?

L'uomo stira le labbra nel tentativo di un sorriso.--Li lasci stare.

L'inserviente sogghigna a sua volta e i suoi occhi passano dal guida-

tore alla ragazza nel retro dell'auto, indugiano su di lei per un istante.

~: --E stanca morta--dice l'uomo al volante.--Ecco, tenga il re-

E~ sto.--La macchina esce dalla luce rivelatrice, si addentra di nuovo

nell'ombra.

Lo sbigottito inserviente le grida dietro:--Ehi capo, ma questo è un

biglietto da venti dollari...

~! L'automobile ha ripreso la sua corsa folle. Il guidatore ha un sobbal-

~` zo. Che è quel suono scoppiettante alle sue spalle? Un piccolo faro ro-

~- tondo, unico, gli sta correndo dietro. Se l'uomo era stato spaventato

dall'autobus e dalla stazione di servizio, quale parola può descrivere la

sua faccia ora che vede nel retrovisore un poliziotto della strada che lo

segue? La pelle tesa in una maschera da teschio, le labbra contratte,

reprime a fatica l'impulso di accelerare, nel tentativo di distaccare il

poliziotto. Accosta a destra, frena, si ferma. Di nuovo estrae la pistola,

la nasconde sotto la coscia con l'impugnatura leggermente sporgente,

pronta, dal lato più lontano dal finestrino. Quindi resta immobile

stringendo i pugni.

~, La motocicletta lo sorpassa, fa un giro, torna indietro. Il poliziotto

scende, gli si avvicina, pianta un piede pesante sul predellino. Si china

a guardare l'uomo.

|~ --Che fretta ha signore? Stava facendo i centocinquanta.

, --Centosessanta--corregge l'uomo dalla faccia rugosa, con una

calma pericolosa che non è possibile scambiare per umiltà.

--Bene, qui il limite è cento. Mi faccia vedere la patente.

Il guidatore gliela porge con la sinistra; la destra è appoggiata alla

COScia, sfiora un pezzo di metallo nero.

r,~ Il poliziotto legge chinandosi ancora di più per utilizzare le luci del

Cmscotto. La sua arma d'ordinanza è dietro il fianco: se dovesse impu-

~- gnarla in fretta, la cornice del finestrino gli darebbe impaccio ai gomi-

~ ti.--Anton Denholt. Medico, eh? Mi meraviglio di lei, con la sua pro-

F, fessione dovrebbe avere più buon senso! Ed è dello stato confinante

:eh? Voi di lì date più fastidi degli altri . Bene, ora è nel mio stato; non ce

~I'ha fatta a oltrepassare il confine laggiù...

Denholt guarda avanti nella strada come se non avesse mai visto pri-

~ma il segnale del confine.--Non ci stavo provando--dice con la stes-

Fa~oce atona.

poliziottO annuisce.--Magari no--ammette.--Ma perché cor-

~te a centosessanta?

Forse Denholt non ce la fa più ad aspettare che l'altro scopra la ra-

gazza nel sedile dietro, forse i suoi nervi sono in un tale stato di tensio-

ne che preferisce attirare l'attenzione su di lei lui stesso e farla finita.

Fa un cenno con la testa.--A causa sua-- dice.--Il tempo stringe.

Il poliziotto sbircia la donna immobile.--E malata, dottore? --

chiede, con voce più gentile.

Denholt risponde:--E un caso di vita o di morte.--Sta dicendo la

verità, una verità più assoluta di quanto il poliziotto possa immagina-

re.

Prende un'aria di s~cusa .--Perché non I 'ha detto subito ? C'è un buon

ospedale a Rawling. Deve esserci passato circa un'ora fa. Come mai

non ce l'ha portata?

--Non ce n'è bisogno. Posso cavarmela dove la sto portando, se mi

lascia andare. Voglio che arrivi a casa prima che il bambino...

Il poliziotto emette un lungo fischio.--Non mi meraviglio che stava

bruciando le gomme!--Chiude il suo blocchetto, porge la patente a

Denholt.--Vuole una scorta? Farà prima. La mia ronda finisce al con-

fine, ma posso fare una chiamata...

--No, grazie--fa Denholt cortese.--Siamo vicini ormai.

L'automobile scivola via. Ora nell'atteggiamento di Denholt c'è una

sorta di fatalismo mentre accelera di nuovo. Che altro gli può succede-

re dopo quel che è già successo? Di che altra cosa può aver paura... or-

mai?

A sessanta chilometri dal confine lascia la statale e svolta per una

via secondaria. Dopo un poco comincia a salire, addentrandosi nei pri-

mi contrafforti di una catena di montagne. Il paesaggio cambia, diven-

ta solitario, selvaggio. Cominciano ad apparire dei boschi. Ora ogni co-

struzione fatta da mano umana è sparita, tranne la strada.

Denholt svolta di nuovo, per un sentiero di terra battuta, molto ripi-

do e in disuso. S'inerpica per una lunga salita. Le curve sono numerose

e pericolose, in alcuni punti i rami degli alberi graffiano il tetto i fian-

chi della macchina. Lui deve andare più lentamente, ma sembra che

conosca la strada.

Una cinta di filo spinato emerge di colpo dal nulla, comincia a sno-

darsi parallela al miserabile sentiero. Altissima, fitta, irta di spunzoni,

tale da impedire il passaggio a qualunque essere tranne che ai più pic-

coli animali. Strana una simile necessità di tener lontani gli estranei in

un posto così remoto dal mondo. Un cancello appare, chiuso dai robu-

sti chiavistelli. Un cartello nella parte superiore viene illuminato dai

fari: PROPRIETA PRIVATA. VIETATO L INGRESSO. Una scritta abbastanza co-

mune, ma strana su quella montagna sperduta. Magari un tantino si-

nistra.

L'uomo scende, apre il cancello. Subito un suono lacerante di sirena

esplode dagli alberi vicini. E un segnale d'allarme collegato al cancel-

lo. Urla paurosamente nell oscurità e nel silenzio. Anche quella pre-

cauzione è strana, anormale, sembra dettata dall'idea fissa di un fana-

tico.

La macchina passa, si ferma. Luomo richiude il cancello. La sirena

tace e il silenzio, per contrasto, pare assordante. L'automobile ripren-

de a salire finché i fari non illuminano una casa di tronchi, simile in

tutto e per tutto a un capanno da caccia. Ma non ha un aspetto acco-

gliente, anzi c'è in essa qualcosa di malaugurante, di spaventoso: tanto

appare cupa, dimenticata, segreta. Il tipo di casa che ha mascelle per

ingoiare... che non risputerà mai, lo si avverte, ogni essere vivente che

vi entrerà. Il tetto è una pustola purulenta sotto la luna lebbrosa. E le

luci dei fari contro il fianco della casa s'intersecano formando un ovale

che pare un teschio luminoso.

L'uomo scende di nuovo e va verso la tettoia che ripara la porta prin-

cipale. Si sente un rumore metallico e un'apertura nera sbadiglia sul-

I'oscurità. Lui vi si addentra, mentre la macchina col motore ancora

acceso e la signora dormiente lo attendono obbedienti.

Dentro si accende la luce giallo-verdastra di una lampada a petrolio,

deborda dalla porta rendendo anche più scuri i tronchi neri degli albe-

ri. La casa pare più spettrale che mai.

L'ombra dell'uomo lo precede verso l'automobile. Ora è pronto a ri-

cevere la paziente signora. Spegne il motore, apre lo sportello del retro

e tende le mani all'intero. Scioglie il polso penzolante dalla cinghia, to-

glie la coperta, attira il corpo di lei tra le braccia e lo porta dentro, sor-

reggendolo con la delicatezza di chi reca un fardello prezioso. Si sbatte

la porta alle spalle col calcagno e il mondo esterno viene inghiottito

dall'oscurità.

Attraverso la casa lui porta la donna a una dipendenza invisibile dal di

fuori e molto diversa dal resto della costruzione. Le pareti non sono di

tronchi ma di mattoni intonacati che devono essere stati trasportati

in quel ;uogo inaccessibile con gránde spesa e fatica. C'è anche la cor-

~te elettrica, fornita da un generatore. Dal soffitto grandi riflettori

ffondono un'abbagliante luce bianca. Lo stanzone ha banchi di ferro

mato carichi di fiale piccole e grandi, storte, bruciatori. C'è una ta-

~la operatoria di zinco, vetrine di strumenti. E un'intera parete è oc-

~pata da una doppia fila di gabbie, ciascuna contenente un coniglio.

uomO entra svelto col suo fardello, lo depone sulla tavola operato-

~- La donna non si muove. Lui va a chiudere la porta, tira i due chia-

vistelli in alto e in basso. Si toglie giacca e camicia, indossa un camice

bianco da chirurgo. Toglie da una vetrina una siringa ipodermica, la

lascia cadere in un contenitore pieno di soluzione antisettica, vi accen-

de sotto una fiamma. Poi torna alla tavola.

Il corpo della ragazza è rimasto nella posizione che ha tenuta per

tutto il lungo viaggio: girata di fianco, le gambe ripiegate sotto di sé,

un braccio proteso, la mano penzolante come quando era trattenuta

per il polso dalla cinghia. Denholt si acciglia appena. Cerca di raddriz-

zare le membra irrigidite che gli resistono, non riesce. Comincia allora

a fare ciò che deve con una fretta convulsa, come se ogni momento che

passa fosse insieme un ostacolo e una sfida...

E lo è. La rigidità cadaverica si è insediata. La ragazza dormiente è

morta da lunghe ore...

Denholt comincia a strapparle gli indumenti di dosso. Cappello e ve-

letta, abito nero, scarpe, biancheria volano sul pavimento.

La ragazza evidentemente è stata bellissima, e doveva essere molto

giovane. Il rossetto che si era messa da viva colorisce ancora le labbra

semiaperte. Il corpo è snello e perfetto e non presenta ferite. Questo è

importante. Denholt corre a prendere una bottiglia di alcool, ne inon-

da la carne candida.

Pesca l'ipodermica dal liquido bollente, la riempie da una fiala che

contiene un siero incolore, gira meglio che può la figura inerte a faccia

sotto, espone la nuca. La punta all'ago si posa alla base del collo. Den-

holt alza brevemente gli occhi al soffitto come in preghiera, infila l'a-

go, preme il pistone.

Indietreggia, lascia cadere a terra la siringa. Che si rompe, ma non

gliene importa. Se fallirà, non vorrà mai più usarne un'altra.

La minuscola puntura dell'ago si chiude come farebbe nella came

vivente: rimane visibile, un infinitesimo puntino nero. Lui vi preme un

tampone di ovatta, temendo che la sostanza che ha iniettata possa co-

lar via. Trema da capo a piedi. I secondi si allungano, diventano minu-

Fuori dev'essere ormai l'alba, ma il laboratorio non ha finestre. De-

v'essere l'alba, e il corpo sulla tavola ha esalato l'ultimo respiro... da

quando? La ragazza è dipartita da questo mondo, morta come se fosse

vissuta un milione di anni fa. Grandi cose ha fatto l'uomo nella sua sto-

ria; però mai quando il cuore di un suo simile ha cessato di battere,

mai quando la scintilla della vita si è estinta è stato capace di rianima-

re l'argilla mortale col più comune e più misterioso degli elementi: lo

spirito vitale. E quell'uomo crede di avere un simile potere... Iui solo al

mondo, lui solo~

Sono passati cinque minuti che sembrano un secolo. Nel corpo e nel

viso di lei nulla è cambiato. Lui solleva il tampone, perché le dita gli

dolgono a causa della pressione esercitata. E allora...

Il puntino nero è sparito. La pelle si è richiusa sulla puntura. Den-

holt cerca di dirsi che il fatto è dovuto all'umidità del siero, alla pres-

sione delle sue dita; ma sa bene che solo la vita può rendere di nuovo

elastica la pelle, null'altro. Però vuol proteggersi da una delusione, di-

ce a voce alta:--C'è ancora. Sono io che non lo vedo più, ho gli occhi

annebbiati.

Barcollando va a prendere uno specchietto, torna alla tavola. Gira

lievemente la testa di lei, accosta il vetro alle labbra irrigidite. Qualco-

sa offusca lo specchio, qualcosa di quasi impercettibile dapprima e poi

di più distinto.

--Il sudore della mia mano--sussurra lui. Ma sa che non è vero.

Lascia cadere lo specchio come la siringa, il cristallo si rompe in cento

pezzi. Ma ormai gli ha detto tutto ciò che poteva.

Rimane da sentire il cuore. Se è stato il respiro ad appannare lo

specchio, il cuore deve battere.

Lui la gira completamente, supina. La sua mano le discende lenta-

mente sul petto, si ritira come scottata. Ha sentito non solo le pulsazio-

t ni, ma il calore. Il calore che si sta diffondendo pian piano dalla regio-

ne del cuore, scacciando il gelo marmoreo che imprigiona le altre parti

del corpo. Il torace si alza e si abbassa. Il cuore è vivo, tornato alla vita

nel cadavere; e la vita si sta diffondendo!

Quasi tramortito dallo sbigottimento... anche se ha dato la vita per

quello, nella ferma fede di poterci arrivare, di vederlo accadere un gior-

no... Denholt cade in ginocchio, nasconde il viso tra le mani, singhioz-

za come se gli si spezzasse il cuore. La gioia eccessiva e il dolore estre-

mo sono spesso indistinguibili nelle loro manifestazioni. In quel mo-

mento Denholt è un uomo profondamente umile, del tutto terrificato,

rimpiange quasi ciò che ha fatto... ha infranto una legge divina e lo sa.

Orgoglio e trionfo e la glorificazione di sé che può giungere alla follia

3 verranno dopo.

Dopo un poco si rialza. Lei ha bisogno di aiuto, di cure, o può perder-

E la di nuovo. Con i conigli gli è capitato spesso, finché non ha imparato

quel che c'è da fare. Le calde onde irradianti partite dal cuore sono ar-

rivate in tutto il corpo di lei, ora, e lui sa che sono di un calore anorma-

le. Un colorito vermiglio, il cupo rossore della febbre ha sostituito la li-

vidità della morte, specialmente sul torace, sul collo, sul viso. Ci vuole

~` una temperatura da fornace come quella per costringere il sangue sta-

gnante a circolare di nuovo. Le mette un termometro. Quarantuno,

quarantadue~ una febbre che può tornare a ucciderla per la seconda

r volta. Ma la morte dev'essere cremata in quel rogo e nuova vita infusa

l calor bianco, perché quella non è una nascita biologica, ma un pro-

1" ~ esso chimico

|~ Deve lavorare in fretta.

Apre la porta in un frigorifero, ne toglie dei secchi di ghiaccio che ha

preparato. Avvolge il corpo di lei in un lenzuolo di gomma, le ammuc-

chia intorno il ghiaccio. Le prende la temperatura in continuazione.

Dopo dieci minuti è scesa di parecchio. Il ghiaccio si è andato fonden_

do come se fosse stato posto vicino a una stufa accesa. Ma il cuore e i

polmoni di lei funzionano ancora, il primo pericolo è superato, il pro-

cesso di rivivificazione di per sé non l'ha distrutta. Un lungo gemito le

sfugge dalle labbra, il primo suono della sua seconda vita; il primo mo-

vimento è un agitarsi febbrile. Lei è in delirio. Ma il delirio è l'antitesi

della morte; è la lotta dell'organismo per sopravvivere.

Il laboratorio ha fatto per lei quanto poteva; ora è di cure mediche

che lei ha bisogno, come in una comune malattia. Lui l'avvolge in una

coperta, apre la porta, la solleva dalla tavola operatoria e va a deporla

sul letto in una stanza della casa vera e propria.

Per tutte le lunghe ore di quel primo giorno le siede accanto, contan-

do ogni suo respiro, tastandole il polso, propinandole qualche goccia

di digitale per sostenere il cuore, facendole inghiottire qualche cuc-

chiaio di latte e brandy di tanto in tanto. Lei brucia di febbre. Lui

aspetta di vedere il secondo e più grande mistero rivelarsi a lui, più

grande di quello al quale ha già assistito. La ragione le tornerà in pie-

no, o il cervello resterà morto e inerte nell'organismo ormai tornato al-

la vita? La ragazza sarà un essere inarticolato, idiota, che sarebbe sta-

to meglio non far rivivere? O ricorderà chi era, ciò che le è accaduto

nella prima vita... sarà la prima al mondo a valicare il ponte della mor-

te, a rivelare ai vivi cosa li attende dall'altra parte del sipario d'om-

bra?

Per tutta la giornata la reazione febbrile indotta dal siero continua.

Lei non riacquista la conoscenza, ma vive. E innegabile che vive! Verso

la sera la febbre aumenta un poco, ma questo è normale, ogni dottore

lo sa. Alle dodici della seconda notte, più di ventiquattr'ore dopo la sua ,

morte, I'ansare di lei s'interrompe di colpo e, prima ancora che lui rie-

sca a rendersene conto, la ragazza ha spalancato gli «chi. Ha ripreso

conoscenza! Le palpebre si abbassano, si rialzano, lui vede per la pri-

ma volta il colore di quegli occhi. Sono azzurri. Ora gli occhi azzurri

che hanno visto la morte sono fissi nei suoi: calmi, sereni, per nulla

spauriti.

Le prende in fretta la temperatura. Normale. Il siero è stato accetta-

to dal suo organismo. Ora resta da sapere la risposta al secondo miste-

ro. In termini magici, lui le ha ridato l'anima insieme al corpo? In ter-

mini scientifici: le memorie della passata esistenza si sono trasferite

nella nuova o le cellule cerebrali sono danneggiate in modo irreparabi-

le? ,,

Gli occhi azzurri lo fissano, lo fissano. Lui dice piano, come avesse

paura del suono della sua stessa voce:--Buona sera.

Gli occhi azzurri continuano a fissarlo. Lui aspetta, tremando. Ripe- ',

te ancora:--Buona sera, bella signora.

Il viso di lei si contrae. I grandi occhi spalancati si riempiono di la-

crime che presto cominciano a sgorgarle sulle guance. Le labbra che

hanno conosciuto il rossetto, le sigarette e i baci degli uomini si spor-

gono in un broncio infantile. Ne sfugge un vagito lamentoso, il vagito

di un neonato. Il suono lamentoso e inarticolato che ogni balia cono-

sce.

Per lui il disappunto è terribile: la faccia magra si fa livida, le mani

si aggrappano ai braccioli della poltrona, il petto si gonfia in un lungo

sospiro. Ma dopo un poco si domina, tira fuori dal taschino l'orologio

d'oro, lo fa dondolare davanti a lei. La luce della lampada lo accende

di riverberi. Le lacrime cessano, il piagnucolio s'interrompe. Ora gli

occhi di lei s'illuminano d'interesse. Tende verso l'oggetto le mani dal-

le unghie laccate, sorride. Lo stringe, mormora--Da!--ed emette

gorgoglii di piacere. Il danno non è completo, la ragione le è rimasta,

almeno al suo stadio primario; perché se lei fosse una neonata la sua

reazione rivelerebbe una precocità straordinaria. Le facoltà di lei sono

intatte. E andata meglio di quanto lui credesse.

Dovrà insegnarle a parlare e a camminare di nuovo, come si fa coi

bambini, ecco tutto. L'intelligenza è sopravvissuta, la memoria no. La

memoria di lei è restata nella tomba. Lui mormora:--Il suo corpo ha

vent'anni, ma lei è nell'infanzia della sua nuova vita. La chiamerò No-

va.--Si stropiccia gli occhi con le mani.

Esausto dalla lunga veglia scivola in ginocchio accanto al letto, si ad-

dormenta col capo reclinato sul bordo. Su di lui la mano della risorta

si protende verso i folti capelli bianchi, le dita vi si afferrano mentre lei

gorgoglia beata...

L'aeroplano è un rottame, e mentre ne striscia fuori nella pioggia dirot-

ta, Penny O'Shaughnessy si chiede vagamente come fa a essere ancora

Vivo. Se lo chiede vagamente, ma brevemente, non è tipo da indulgere

in speculazioni. Un ennesimo colpo di fortuna, decide. Per tutta la sua

vita di adulto ha continuato ad averne uno dopo l'altro, ininterrotta-

mente. Anche il suo nomignolo deriva da ciò. Gliel'hanno dato dal

giorno che fu awistato arrivare in volo dai Caraibi dopo che un uraga-

no particolarmente demoniaco aveva portato lo sconquasso nelle Pic-

cole Antille.

--Mi ci sono arrampicato sopra e ho aspettato che si calmasse--

a~Veva Spiegato lui atterrando tra le rovine dell'aeroporto.

Un penny falso rispunta sempre fuori--aveva borbottato qual-

Fmo con voce incredula.

~. 133

Chi altri ha avuto l'aereo colpito dal fulmine come è successo a lui

poco fa, mentre volava alla cieca nella tempesta, così che ha perso

un'ala, eppure è riuscito ad atterrare vivo, anche se sul fianco di una

montagna tra i boschi, e a spegnere il motore al momento dell'impatto

in modo da non essere arrostito nel rogo dell'apparecchio, e a strisciar-

ne fuori con solo una spalla mezzo slogata e un sacco di lividi? Buttarsi

col paracadute non poteva perché stava volando troppo basso, nella

speranza di sbirciare tra le nubi qualche punto abbastaza piatto da

consentirgli l'atterraggio; e comunque non gli va di buttarsi col para-

cadute, odia sprecare un buon aeroplano.

Questo le cui parti sono sparpagliate sul fianco della montagna non

è più tanto buono però, deve ammetterlo. La prima cosa che fa è cer-

carsi in tasca, tirarne fuori una zampa di coniglio e stropicciarla due

volte. Poi si rizza, zoppica a qualche distanza dal rottame, si volge a

guardarlo. Quasi all'istante la folgore che già lo ha colpito una volta in

aria si abbatte su un albero vicino con un gran rimbombo e una piog-

gia di scintille. Il tronco si spezza, cade con rumoroso fruscio di foglia-

me e appiattisce completamente quanto è rimasto dell'aereo.

--Va bene, va bene, quel mio povero aggeggio non vi andava--

brontola O'Shaughnessy rivolgendosi agli elementi in generale.

--L'avevo già capito la prima volta!

Si allontana à testa bassa per proteggersi un poco dalla pioggia che

forma come una solida cortina tutt'intorno. Non ha la minima idea di

dove si trova, perché da buoni quaranta minuti prima del disastro sta-

va volando alla cieca. L'inclinazione del terreno gli dice che è su una

montagna. Si dirige quindi in discesa; uomini e case si trovano di soli-

to nelle valli.

Il suolo è un mare di fango; lui non tanto cammina quanto scivola

sui tacchi da un albero all'altro, aggrappandovisi perché altrimenti

cadrebbe a capofitto chissà quante volte. L'acqua gli penetra i vestiti,

risveglia i tagli e i lividi di cui è coperto; la spalla gli pulsa e in quella

tenebra fitta non si vede nulla.

--Questa sarebbe proprio la sera adatta per un bel pisolino a casa

propria!--borbotta.

I tronchi si confondono col buio che li circonda e si fa sempre più dif-

ficile distinguerli. Lui scivola alla cieca tendendo le braccia in avanti;

con la speranza d'incontrarne uno che lo fermi prima che lui si spiacci-

chi nel fango a faccia in avanti. Ne manca uno completamente... o forse

non c'era affatto... Io sdrucciolone nel fango accelera, lui agita folle-

mente le braccia per mantenere l'equilibrio e infine va a sbattere con-

tro qualcosa che taglia e punge. Una barriera di filo spinato.

Il colpo gli vuota i polmoni di tutta l'aria che contengono e una delle

perfide punte ha mancato di poco il suo occhio sinistro, lacerandogli

invece il sopracciglio. Ma peggio ancora, il suo scontro con quella dan-

nata cosa ha scatenato un segnale d'allarme tra gli alberi. L'urlo della

sirena annega il rumore della pioggia.

I suoi vestiti sono stati afferrati in uma dozzina di posti diversi, insie-

me a un bel po' della sua pelle. Imprecando riesce a liberarsi e come le

vibrazioni della recinzione si calmano, I'allarme cessa. Prende selvag-

giamente a calci il filo e questo trae qualche urletto addizionale dalla

sirena.

Per un minuto è troppo occupato a controllare i nuovi danni subiti

per procedere a investigare l'inospitale barriera. Ed ecco che una luce

fioca, dilavata dalla pioggia, avanza verso di lui dall'altro lato della re-

cinzione, zigzagando incerta come se il suo portatore non vedesse bene

dove va...

--Che diavolo...--qualcuno vive dunque in quel posto dimenticato

da Dio?

La luce gli si ferma proprio davanti dall'altro lato della barriera, e

dietro lui vi scorge una figura avvolta in un mantello, col cappuccio ca-

lato sugli occhi. O'Shaughnessy deve essere praticamente invisibile,

avviluppato com'è dalla pioggia e dal buio.

--Roba sua--ruggisce, agitando il pugno verso il filo.--Guardi

cosa mi ha fatto! Venga fuori e le

Una voce musicale gli risponde da sotto il cappuccio.--Chi è? Che

fa lì?

--Una ragazza!--balbetta O'Shaughnessy, e la collera svanisce

dalla sua voce.--Scusatemi, non potevo saperlo. Non è mia abitudine

dare in escandescenze in questo modo, ma sono stato infilzato in un

L sacco di parti.--Ora la vede, la fissa per un lungo attimo. Intorno alla

ventina e molto bella, è evidente. Lei si accosta alla barriera e i suoi oc-

chi azzurri lo guardano calmi.--Poco più sopra sono precipitato con

I'aeroplano; mi aveva colpito un fulmine

--Che cos'è un aeroplano?--Chiede lei stupita.

Lui resta a bocca aperta e le indirizza un'occhiata di rimprovero,

pensa che non è il momento di scherzare. Sta aspettando un invito a ri-

E pararsi; diamine, non si rifiuterebbe a un cane con quel tempo e in

E quel posto solitario. Ma non viene.

E --Non ha una casa?--chiede lui finalmente.

Lei annuisce e gocce di pioggia cadono dal bordo del cappuccio.

--Certo, è lassù.--Lui le ha rivolto una domanda e lei ha risposto, tut-

to qui.

Lui scatta con crescente impazienza:--Bene, non vuole lasciarmi

entrare un momento? Non la morderò!--Crede proprio che lei stia re-

citando~ che lo prenda in giro, perché la sua voce è quella di una ragaz-

za di città, non ha l'accento campagnolo.

Lei è sgomenta, non sa che fare.--Il cancello è chiuso e le chiavi le

".,ha lui. Nessuno è mai venuto qui, non so come regolarmi. Non posso

chiedere a lui perché è in laboratorio, e non è permesso disturbarlo

quando lavora.

--Bene, non ha almeno un telefono?

--Che cos'è un telefono?

Ouesta volta O'Shaughnessy esplode. Quello che è troppo è troppo.

--Ma chi diavolo si crede di essere? E va bene, si tenga la sua casa. Io

non sono un mendicante. Sarebbe troppo chiedere almeno da che par-

te sta la più vicina strada o fattoria, o non le va di dirmi nemmeno que-

sto?

--Non lo so--fa lei.--Non sono mai uscita fuori da questa....--in-

dica la recinzione.--Non sono mai stata neppure dove sta lei.

Lui sta cominciando a capire che lei non cerca di ridere alle sue spal-

le. C'è un mistero in lei e in quel posto, ma quale sia non riesce a imma-

ginare.--Chi vive qui con voi?--Chiede curioso.

--Papà--risponde la ragazza semplicemente.

La sua assenza è già stata notata, perché una voce allarmata grida.

--Nova! Nova! Dove sei?--Una seconda lanterna viene verso di loro,

zigzagando lesta nell'oscurità. Una figura indistinta emerge, si arresta

spaventata alla vista dell'uomo ritto oltre la barriera, la lantema qua-

si scivola da una mano tremante.--Che c'è? Chi è lei? Come è arrivato

qui?--C'è quasi panico in quelle domande.

nA papà non piace la compagnia" pensa O'Shaughnessy. NVorrei sa-

pere perché". Spiega la sua situazione in poche parole.

L'uomo si accosta, fa cenno alla ragazza di allontanarsi come se

O'Shaughnessy fosse qualche animale pericoloso nella gabbia di uno

zoo.--E solo?--Chiede guardando furtivamente attomo.

A O'Shaughnessy non è mai mancata la grinta trattando con altri

uomini, anzi.--Chi pensa che avessi con me, la Squadriglia Lafayet-

te?--sbotta seccato.--Perché tanti misteri, signore? Ha la coda di

paglia per qualche motivo? O ha impiantato quassù una distilleria

clandestina? Che ne direbbe di offrire riparo a uno straniero, o le pesa

troppo?--Si spazza via dal viso le gocce che ne grondano, con aria di-

sgustata.

La ragazza è rimasta lì fissandoli incerta. L'uomo con la lantema fa

una risatina forzata.--Non abbiamo niente da nascondere, non ab-

biamo paura di niente. Si sbaglia.--protesta. Ma il suo tono alle orec-

chie sperimentate del pilota è più falso di un nichelino di piombo.

--Per tutto l'oro del mondo non vorrei che lei se ne andasse di qui a di-

re in giro che c'è qualcosa di strano nella nostra proprietà. Si sa come

chiacchiera la gente, in un lampo si metterebbero a girare da queste

parti spiando...

"Ah, questo gli brucian pensa O'Shaughnessy.

L'uomo ha tirato fuori una chiave, sta togliendo in fretta i chiavistel-

li. Tanto in fretta che ora sembra quasi aver paura che il pilota se ne

vada prima che lui riesca a aprirgli il cancello.--Ehm... non mande-

ranno una squadra di soccorso a cercarvi quando non la vedranno arri-

vare all'aeroporto?

O'Shaughnessy scatta ancora:--Nessuno mi aspetta da nessuna

parte. Il mio era un volo privato, I'aereo apparteneva a me. Che crede,

che io sia il fattorino di qualcuno o uno di quei piloti da passeggeri?--

Sputa per mostrere il suo disprezzo, la sua indipendenza.

Negli occhietti neri che lo fissano passa un breve lampo, come se

l'uomo trovasse molto soddisfacente ciò che lui ha detto. Spalanca il

cancello.--Venga--invita con tardiva premura.--Venga, entri! No-

va, toma a casa, sarai fradicia; e ricordati di chiudere qu~lla porta! So-

no il dottor Denholt, signore, e per favore non creda che ci sia nulla di

strano in me e in mia figlia.

--In verità mi pareva--risponde il pilota con franchezza, e entra.

Scuote il capo al rinnovato frastuono della sirena.

Denholt svelto richiude il cancello, rimette i chiavistelli facendo così

tacere l'allamme.--Solo una comune precauzione, siamo così tagliati

fuori dal mondo qui--spiega.

O'Shaughnessy non fa altri commenti: ora è in casa di quell'uomo.

Ha una ferrea norma di condotta, come gli arabi: mai abusare del-

I'ospitalità. Dice il suo nome, si stringono brevemente la mano. Ouella

del dottore è snella e forte, una mano da chirurgo; ma anche morbida e

flessibile. C'è come un ammonimento di slealtà in quella pieghevolez-

za.

Conduce l'ospite inatteso nella casa illuminata, che sembra molto

·i accogliente al pilota, calda, asciutta e allegra nonostante la semplicità

del mobilio rustico. La ragazza si è tolta il mantello col cappuccio;

O'Shaughnessy la vede nel soggiomo che attizza il fuoco accoccolata

davanti al caminetto di mattoni, mentre Denholt lo guida nella pro-

pria camera da letto. Vede ora che ha lunghi capelli d'oro, piccoli piedi

~ ~ infilati in mocassini di pelle morbida, corpo snello e flessuoso in un

!. abitino di lana da poco prezzo.

E.~ All'estremità opposta della stanza c'è una porta chiusa e sprangata.

Gli occhi acuti del pilota notano subito due particolari. La porta è di

r~ metallO e non combacia proprio bene con gli stipiti. Un filo di luce la

~, incomicia~ troppo intensa per essere altro che luce elettrica. Strano:

elettricità da una parte, lampade a petrolio dall'altra.

Risente la ragazza: "Lui è in laboratorio e non è permesso distur-

-~ barlo quando lavoran.

~, Risente l'uomo: "Ricordati di chiudere quella porta".

Dice a se stesso. "Vorrei sapere cosa c'è làn.

2 Nella camera di Denholt si toglie gli indumenti fradici, rivelando un

po muscoloso, ma coperto di lividi, graffi e tagli. Il suo ospite fa una

orfia mentre lo esamina.--Si è conciato bene! Meglio disinfettare,

quel filo spinato può essere arrugginito. Aspetti un momento.--Porta

i vestiti bagnati alla ragazza.

O'Shaughnessy aggrotta le sopracciglia. Ancora un particolare so-

spetto. "Perché non mi cura in laboratorio, dove certo sono tutti i suoi

attrezzi e la luce è migliore? Bah, non ci pensiamo."

Denholt ritorna con acqua calda, cerotti, alcool. Il pilota sobbalza al

tocco bruciante del disinfettante, abbozza un ghignetto mortificato.

--Ne ho avute abbastanza per stanotte, credo. A Shanghai una volta

mi feci strappare un molare da un dentista del luogo: la sua idea di

anestetico era di farmi agitare un ventaglio davanti alla faccia da sua

figlia mentre lui si dava da fare con cric e tenaglie.

--Si è messo a gridare?

--No, mi vergognavo di fronte alla ragazza.

Si accorge che Denholt lo fissa da capo a piedi, sembra misurare il

suo corpo snello e forte, dalle spalle ampie, nudo.--E un ragazzo ro-

busto--commenta disinvolto. Ma un brivido gelido attraversa la

schiena del pilota nell'osservare lo sguardo che accompagna quelle pa-

role. O'Shaughnessy si chiede cosa mai significhi. O forse tutti i medici

vi guardano in quel modo, come soppesandovi, quasi voi foste proprio

ciò che hanno in mente come soggetto per qualche esperimento?

--Già--risponde, e c'è un briciolo di sfida nella sua voce.--Penso

d'essere in grado di difendermi discretamente, in caso di necessità.

Denholt continua a guardarlo con aria calcolatrice.

Quando siedono a cena al rozzo tavolo di pino nel calore del fuoco che

fiammeggia nel carninetto, lui rivestito di indumenti presi in prestito

da Denholt, gli è possibile studiare la ragazza da vicino. Non c'è niente

di strano in lei: tutta vibrante di animazione giovanile, il bel visetto

colorito dall'eccitazione di avere un ospite, gli siede davanti divoran-

dolo con gli occhi come se non avesse mai visto prima un estraneo. Ma

nel parlare e nel muoversi dimostra perfetta coordinazione, armonia,

ritmo, equilibrio, comunque si voglia chiamarlo. E una ragazza nor-

malissima, eccezionale solo nella bellezza.

Il vecchio invece ha negli occhi una luce strana, la sua conversazione

e i suoi gesti sono spasmodici e sconnessi. Forse gli anni di solitudine e

d'isolamento gli hanno fatto quell'effetto, lui pensa.

"E va bene, questi sono affari suoiU si dice O'Shaughnessy. "Ma per-

ché tiene una così bella bambina sequestrata quassù? Mai sentito no-

minare un aeroplano, un telefono... Che sta cercando di farle? E una

dannata vergogna!U

Denholt lo coglie a fissare la ragazza.--Mangi--invita premuroso.

--Mangi ragazzo. Ha bisogno di rimettersi in forza dopo quello che ha

passato.

Il pilota sorride e obbedisce. Eppure qualcosa nel tono in cui l'uomo

ha parlato, nel modo con cui lo squadra, lo fa sentire come un vitello

che debba venire ingrassato per il macello. Ma perché? Non capisce.

Il fulmine continua a fiammeggiare fuori delle finestre quasi ininter-

rottamente; su e giù per la montagna si ode un incessante rombo di

tuoni, così profondo che al pilota pare a volte di sentirselo risuonare

nella cassa toracica. Il rumore della pioggia sul tetto non si è calmato

un minuto.

Denholt ora fissa il suo piatto, immerso in chissà quali pensieri.

O'Shaughnessy si rivolge alla ragazza per interrompere il silenzio.

--E da molto che vive qui?

--Due anni.

Lui aggrotta la fronte. E allora come fa a non sapere cosa siano un

aeroplano, un telefono?--E prima dov'era?

--Sono nata qui--fa lei timidamente.

Lui pensa di non aver capito bene.--Mi sembra un bel po' più vec-

chia di due anni--ride.

Lei pare invece incerta, come se l'idea non le fosse mai passata per la

mente.--Non riesco a ricordare più in là di così--spiega lentamente.

_ La primavera scorsa, e un'altra primavera prima, quando stavo im-

parando a parlare e a camminare... sono due anni, no? Da quanto tem-

po ha imparato lei?

Lui non può rispondere; un boccone di coniglio gli è andato di tra-

verso e per poco non lo soffoca. Ma non è quell'incidente che gli fa riz-

zare i capelli alla base della nuca, che gli fa passare un brivido di paura

nel cuore.

--Basta, Nova--dice secco Denholt. Appare teso, nervoso, la for-

chetta gli cade nel piatto come se avesse avuto un sobbalzo.--Nel cas-

settone della mia camera troverai... ehm, delle sigarette per il nostro

ospite.--E appena lei è uscita, il dottore si china verso O'Shaugh-

nessy.--Meglio che le spieghi. Lei non è completamente... a posto.--

Si sfiora la fronte.--Ecco il perché della barriera e di tutto il resto. La

tengo segregata qui con me; è più umano. Non prenda troppo sul serio

ciò che lei le dirà.

Al pilota non va d'impegnarsi su questo punto, neppure con un mo-

nosillabo~ Rivolge solo un lungo sguardo al suo ospite senza dir niente.

La Spiegazione sembra ragionevole, non c'è dubbio, ma lui non riesce a

dimenticare i limpidi, sani occhi della ragazza. Se li paragona a quelli

di Denholt~ di una fissità indagatrice, morbosa, quasi famelica... Do-

Vesse decidere lui chi è il pazzo in quella casa, sa chi sceglierebbe. An-

ora una volta quel brivido gli corre su per la schiena, la carne gli si

aggriccia sotto gli abiti presi in prestito.

Dopo l'interludio hanno ben poco da dire l'uno all'altro, così siedono

davanti al caminetto fumando mentre la ragazza in cucina lava i piat-

ti. Le fiamme proiettano le ombre dei due uomini sulle pareti, lunghe e

oscillanti. Quella di Denholt pare quella di un mostro che emetta fumo

dalle narici. O'Shaughnessy sorride all'idea.

Butta via la sigaretta.--Bene--dice--pare che l'uragano voglia

andare avanti tutta la notte. Inutile aspettare che passi, mi conviene

andarmene.

Il dottore sussulta, poi sorride.--Non starà pensando di lasciarci

ora? Passerebbe il resto della notte a girare senza meta là fuori nel

buio! Aspetti fino a giorno, magari per allora il tempo si sarà calmato e

almeno avrà luce. Abbiamo una stanza in più, non darà fastidio.

Dalla soglia la ragazza implora, quasi spaurita:--Oh, per favore

non se ne vada, signor O'Shaughnessy! E così bello averla qui.

E aspetta la sua risposta.

Il pilota guarda lei, poi il vecchio. Quindi incrocia le lunghe gambe.

--Allora rimango--dice calmo.

Denholt si alza.--Ho un lavoretto da finire... qualcosa che ho lascia-

to a metà quando... quando il suo arrivo mi ha interrotto. Se vuole scu-

sarmi per qualche minuto... Ma può andare a letto quando vuole.--

Poi, con un'occhiata alla porta della cucina.--E ricordi ciò che le ho

detto.

La ragazza torna dopo che il dottore è uscito, gli siede timidamente

davanti dall'altra parte del tavolo sparecchiato. Studia il viso di lui

con occhi socchiusi, come se non avesse mai visto prima un viso d'uo-

mo .

--Sono felice che rimanga--mormora alfine.--Lo desideravo tan-

to, perché... be', forse se lei è qui io non dovrò farmi l'iniezione.

O'Shaughnessy socchiude le palpebre lievemente.--Che iniezio-

ne?--chiede con lentezza quasi sonnolenta.

Lei agita una mano.--Non lo so, so solo che devo farmela. Circa una

volta al mese. Lui dice che se le trascuro mi succederà qualcosa di

brutto. E domani sarebbe il giomo della prossima se lei non fosse ve-

nuto.--Lo fissa con occhi patetici.--A me non piacciono perché dol-

gono orribilmente, e dopo mi fanno sentire tanto male. Una volta ho

cercato di scappare, ma la barriera mi ha fermata.

Un brillio come d'acciaio si accende negli occhi del pilota.--E cosa

ha fatto lui quando l'ha ripresa?--La bruna mano virile sul tavolo si

flette appena.

--Oh, nulla. Mi ha solo parlato, ha detto che era necessario che io le

facessi, mi piacessero o no. Ha detto che lui me le fa per il mio bene. E

che se lasciassi passare troppo tempo tra l'una e l'altra...

--Che succederebbe?

--Non si è spiegato con precisione. Qualcosa di orribile, ha detto.

140

J O'Shaughnessy ringhia quasi tra sé e sé. Dunque la droga eh? Ecco

probabilmente perché lei non ha memorie risalenti a più di due anni

prima e di tanto in tanto dice cose così strane. Ma a rifletterci no, non

può essere. Le iniezioni sono troppo infrequenti. E non le farebbero

tanto male, se si trattasse di droga. E poi, se fossero le iniezioni a pro-

vocarle la perdita di memoria, perché lei dovrebbe aver dimenticato

solo il passato più remoto ricordando invece benissimo quello più re-

cente? O'Shaughnessy non se ne intende di medicina, ma ha girato il

mondo e ne ha viste parecchie. Specie in Oriente e in Sudamerica ha

notato i segni di circa ogni tipo di droga che esista sotto il sole. Nova

non ne presenta alcun sintomo. E fresca come la pioggia che cade al di

fuori.

Le rivolge una domanda per assicurarsi:--Fa dei sogni... sogni pia-

cevoli... dopo aver fatto una di quelle iniezioni?

--No--rabbrividisce lei.--Mi sento come se avessi il fuoco addos-

so. Una volta mi svegliai e avevo tanto ghiaccio intorno...

Non si tratta di droghe, quindi. Forse lui ha giudicato male Denholt:

forse lei ha davvero bisogno di quel trattamento. La sua idea è che si

tratti di un vaccino o di un siero. Magari la ragazza ha avuto qualche

orribile malattia che le ha tolto la memoria e l'uso delle membra due

anni prima, e quelle iniezioni servono ad accelerare la sua guarigione,

a impedire una ricaduta. Eppure Denholt ha cercato di fargli credere

che lei è pazza, e questo assolutamente non è vero. No, in quella casa si

ordisce qualcosa di segreto... e di malvagio. Lo dimostrano la cinta di

filo spinato, l'allarme. Perché poi tenere la ragazza sequestrata quas-

sù, mentre potrebbe ricevere cure e attenzioni molto migliori... am-

messo che ne abbia bisogno... nei moderni ospedali di qualche grande

città?

--Ma è proprio vero che ha imparato a camminare e a parlare due

anni fa?

--Sì--risponde lei.--Adesso le mostro qualcuno dei libri dove ho

imparato.--Torna con uno sgualcito sillabario.

Lui lo sfoglia. "G come gatto. Il gatto vede il topo..." Chiude il libro,

più in alto mare che mai.

3 --Era grande come adesso quando le ha insegnato a camminare?

` --Sì. Portavo questo stesso vestito, ecco perché ne sono sicura. Per

lo più ho imparato da me. Lui mi metteva sul pavimento laggiù e poi

deponeva un pezzo di zucchero su una sedia dall'altra parte della stan-

za e mi incoraggiava a camminare per andarlo a prendere. Se striscia-

ti~ vo sulle mani e sulle ginocchia non me lo dava. Dopo un poco sono riu-

SCita a reggermi in piedi

--Basta!--fa lui. Si sente mancare il fiato.--Giusto a immaginar-

selo c'è da diventare pazzi! E qui... qui intorno si respira davvero aria

di follia! E io so da parte di chi. Non da parte sua! Dio solo sa cosa le ha

~' ~

141

fatto quell'uomo nei primi vent'anni della sua vita, per farle dimenti-

care tutto ciò che dovrebbe sapere...

Lei non risponde, sembra non capire quanto le sta dicendo. Ma la

durezza della sua voce le fa paura, è evidente. Lui vede che può farle

più male che bene facendole sapere che le altre persone non sono come

lei. E una donna adulta ed è stata tenuta qui in condizioni di schiavitù,

di servitù mentale... questo è il massimo che lui riesce a capire. E l'uo-

mo capace di far questo a un altro essere umano è un mostro e un ma-

niaco.

Con voce rauca di pietà e di collera le chiede:--Mi dica, non ha mai

visto in vita sua nessun altro uomo tranne me e il dottore?

--No--mormora lei.--E per questo che lei mi piace tanto.

--Non ha mai visto una ragazza... qualcuno come lei, che le faccia

compagnia?

--No solo lui. Nessun altro.

Lui scatta in piedi come se non riuscisse più a sopportare quella con-

versazione, fa qualche giro intorno alla stanza, torna alla sedia, la

sbatte per terra e si rimette a sedere.

Lei lo fissa timidamente, non dice nulla, ma ha gli occhi incupiti dal-

la paura. Lui appoggia i gomiti sul tavolo, la guarda e riflette. In qual-

che modo sa che la porterà via con sé quando se ne andrà, e si chiede se

ne ha il diritto. Che farà di lei in seguito... Ia lascerà in giro come un

agnello in mezzo ai lupi? O la trascinerà con sé da un bar a una cantina

a un bistrò, quando non sarà in aria a rischiare la pelle per qualche si-

gnore della guerra cinese o per un fuorilegge del Nicaragua? Quello è il

suo genere di vita... Almeno qui lei ha la pace, una certa sicurezza.

Si sentono scattare i chiavistelli alla porta del laboratorio. Vede gli

occhi di lei volgersi da quella parte, ma lui non si volta. Sulla parete

opposta l'ombra oscillante di Denholt appare più minacciosa che mai.

E un pazzo, un criminale, un samaritano... che cosa? Comunque ha as-

sunto il ruolo di Dio nei confronti di questa ragazza... in qualche oscu-

ro modo che lui, O'Shaughnessy, non riesce a intuire... e non ne ha il di-

ritto. Meglio per lei le cantine e i locali malfamati del tropico. Se c'è

nerbo in lei, non la toccheranno. Qui non ha neppure la possibilità di

mettere alla prova la propria tempra.

Il suo affrettato sussurro lo raggiunge mentre Denholt si sta chiu-

dendo dietro la porta.--Non lasci che mi faccia un'altra iniezione.

Forse se glielo chiede lei, acconsentirà!

--Non gliene farà altre dopo l'ultima!--Asserisce lui deciso.

Il dottore si accosta al tavolo, li guarda sospettoso. Poi un sorriso gli

sfiora le labbra.--Ancora alzato, eh? Bene, che ne direbbe di un bel

punch caldo per noi due prima di andare a letto?

Nova fa per alzarsi, ma lui le accenna di restare seduta.--Lo prepa-

ro io.

A O'Shaughnessy non sfugge quel maneggio. Fissa l'altro in viso e

aspetta un poco prima di rispondere:--Perché no?--sporgendo un

poco il mento.

Denholt va in cucina. Il pilota lo vede versare whisky in due bicchie-

roni, aggiungere zucchero. Di tanto in tanto il dottore gli lancia uno

sguardo obliquo, con una specie di ghigno soddisfatto in faccia.

O'Shaughnessy dice piano alla ragazza, che continua a berlo con gli

occhi:--Vada lì dov'è appeso il mio giubbotto ad asciugare. Nella ta-

sca interna troverà una busta impermeabile piena di carte. Tiri fuori le

carte e mi porti la busta senza farsene accorgere.

Introduce quella specie di sacchetto impermeabile sotto la camicia,

la riabbottona, allarga il colletto. Quindi si china in avanti, pianta i go-

miti sul tavolo e il mento sulle mani. Le braccia piegate gli nascondo-

no il petto e il collo. Mormora con voce strascicata qualcosa che lei non

capisce... un'altra delle cose incomprensibili che dice di continuo:

--Posso sentire l'odore di un narcotico a un miglio di distanza.

Denholt arriva coi bicchieri fumanti, le dice:--Meglio che tu vada a

dormire, Nova, è tardi e hai bisogno di riposo. E per domani sai.

Lei rabbrividisce a quelle parole, lentamente si ritira sotto l'occhio

imperioso di Denholt, ma prima lancia uno sguardo di supplica a

O'Shaughnessy. Una porta si apre e si richiude dalla parte del retro.

Denholt però ha notato quello sguardo.--Non so cosa vi stesse di-

cendo la mia pupilla...--comincia.

Ma il pilota non ha voglia di mostrare le sue carte.--Niente, dotto-

re, proprio niente--dice.--Perché? C'era qualcosa che poteva dirmi?

--No, no naturalmente--si affretta a rispondere l'altro.--Solo

che, sa, ha delle allucinazioni su iniezioni, roba del genere. Ecco per-

ché non le permetto più di entrare in laboratorio. Una volta lei mi ha

visto fare un'iniezione a un coniglio e si è impressionata. Sarebbe per-

fettamente capace di venirle a dire che è a lei che ho fatto l'iniezione, e

quel che è peggio ci crederebbe sul serio. Beviamo, su...

Porge all'ospite uno dei bicchieri. O'Shaughnessy lo prende con una

mano, tiene l'altra ripiegata sotto il mento. Alza appena il bicchiere:

--Beviamo a domani.

Lo sguardo penetrante di Denholt lo trafigge per un istante. Poi il vi-

so dell'uomo si rilassa in un lento sorriso di derisione.--Beviamo a

stanotte--ribatte.--Chi è sicuro del domani?

Il pilota tiene il bordo del bicchiere accostato alle labbra, dopo un

poco lo si vede orizzontale... e vuoto. Ma dev'essere proprio stanco, for-

se gli trema la mano, si è bagnato di punch il colletto...

La luce giallo~verdastra della lampada del dottore si allontana dalla

orta della camera da letto che O'Shaughnessy dovrà occupare. La

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stanza è totalmente buia, I'oscurità è tagliata solo dall'occasionale ba-

gliore dei fulmini fuori della finestra alta e stretta. Ma sono meno fre-

quenti ora, anche la pioggia sta rallentando.

O'Shaughnessy giace supino sulla branda zoppicante. Non si è spo-

gliato. Denholt gli ha detto, forse allusivamente: "Sono certo che sarà

morto al mondo in pochi secondi ! " mentre se ne andava. La prima cosa

che fa il pilota, appena la luce della lampada svanisce completamente

e si sente una porta chiudersi da qualche parte, è di togliersi da sotto la

camicia il sacchetto impermeabile ora pieno e vuotare a terra il liqui-

do che contiene.

Il fruscio della pioggia ora più calmo comincia a cullare i suoi sensi

senza che lui se ne accorga. Il dolore dei lividi si attenua, viene cancel-

lato dal sonno che sta cominciando a vincerlo. Le palpebre calano su-

gli occhi. La prima volta che gli succede lui le riapre, si costringe a te-

nerle aperte per pura forza di volontà. Non un suono, non un sussurro

lo aiuta a restare sveglio. La solitaria casa di montagna è mortalmente

silenziosa, e al di fuori non si sentono che il mormorio della pioggia e

l'ovattato rombo dei tuoni. La storia della ragazza comincia a sem-

brargli un sogno, irreale, remoto, fantastico...

Lo scricchiolio soffocato di un'asse del pavimento, appena fuori del-

la sua porta, lo fa destare di colpo. In un primo momento crede di esse-

re ancora a bordo del suo aeroplano, annaspa con le mani per afferrare

la cloche... Poi ricorda dove si trova.

Quanto tempo è passato da quando Denholt l'ha accompagnato lì?

Venti minuti, mezz'ora, un'ora? Forse anche di più. O'Shaughnessy

impreca silenziosamente contro se stesso per essersi abbandonato al

sonno. Ma si è svegliato in tempo: se è l'uomo che sta arrivando...

Dev'essere notte fonda. La pioggia è cessata, si sente solo il picchiet-

tare delle gocce che si staccano dalla grondaia. Un pallido lucore ar-

genteo, fioco e spettrale, entra dal finestrino. L'alba? No, una tarda lu-

na velata dalle ultime nuvole della tempesta.

Lo scricchiolio si ripete, più vicino, più distinto. Sente qualcuno re-

spirare. Disteso sulla branda tira su le ginocchia verso il torace, tende i

muscoli, si prepara al balzo. Cos'avrà l'altro... un coltello, una pistola,

qualche mortale strumento chirurgico? Le braccia del pilota si aprono

in una bieca parodia di abbraccio. L'oscurità nasconde i pugni serrati,

il ghigno minaccioso della sua bocca ..

Qualcuno è entrato. O'Shaughnessy ha sentito lo spostamento d'aria

che ha accompagnato quel passaggio furtivo, piuttosto che udire o ve-

dere qualcosa. Nella stanza sussurrano passi felpati. Una figura indi-

stinta si muove, attraversa la pallida luce argentea troppo debole per

rivelarla chiaramente, passa nella zona d'ombra nella quale si trova.

La branda sussulta, un corpo ne balza, due braccia si protendono ad

afferrare. Risuona un lieve singhiozzo spaurito, mentre la voce di

O'Shaughnessy brontola piano una filza di energiche imprecazioni.

La snella morbidezza del corpo che stringe lo ferma appena in tem-

po, prima che possa far di più che imprigionarle le braccia e farla ri-

manere senza fiato.--No, no--ansima lei--sono io.--Le mani di

lui ricadono. Con un lungo sospiro il pilota balza indietro, la reazione

lo fa barcollare contro la parete per rimettersi in equilibrio.--Lei!

Perché non si è fatta riconoscere? Stavo per...

--Avevo paura che lui mi sentisse. E in laboratorio. Ha lasciato la

porta aperta e io lo stavo spiando da fuori, nel buio..

--Cosa vuol fare, le sta preparando un'altra di quelle iniezioni?

--No, è per lei... Iui si prepara a farle qualcosa, non so che cosa! Ha

portato lì il suo giubbotto, ne ha tolto tutte le carte e le ha bruciate.

Poi... poi ha acceso il fuoco sotto parecchi dei suoi alambicchi e ha

messo a bollire una siringa come fa quando ha a che fare con me. Ma

ha anche un laccio di seta, vi ha fatto un cappio e ne ha preso la misura

intorno al suo collo, poi se l'è tolto e ha provato a lanciarlo e tirarlo

stretto. Ha anche una cosa nera di metallo, con una canna...

--Una pistola--dice piano O'Shaughnessy in tono di scherno.

--Ha previsto tutto, eh? Un narcotico nel punch, un laccio, una pisto-

la. Non ha per caso anche qualche bomba a mano?

Lei gli appoggia le mani sul petto.--Non resti qui, per favore! Io

E non voglio che le succeda nulla di male! Vada via prima che lui arrivi!

E straordinariamente svelto e forte, doveva vedere come mi correva

dietro la volta che cercai di scappare! Forse riuscirò a sgusciarvia sen-

za che lui se ne accorga... Non rimanga così immobile! La siringa stava

già bollendo. L'ho vista!--Piange come se le si spezzasse il cuore.

--Perché non va?

Lui siede invece sulla branda, lentamente infila le scarpe di tela che

Denholt gli ha prestate. Poi allunga le braccia verso di lei, se la tira da-

vanti, la tiene ferma di fronte a sé.

--Nova, ti piaccio?--le dice.

--Mi piaci molto... moltissimo.

Lui si passa le dita fra i capelli, arruffandoli.--Ora ascoltami con

` attenzione. Vuoi sposarmi?

--Che significa sposarti?

--Mi venisse un accidente--mormora lui tra sé.--Bene... vuoi sta-

re sempre con me, andare dove vado io, dirmi spesso quanto sono bra-

L` ~ VO e bello, tirarmi su quando sono depresso... e magari un giorno por-

L tare il lutto per me?

--Certo--dice lei piano.--Voglio starti sempre vicina. Se sposarsi

è questo, è proprio quello che desidero.

Lui le tende una mano.--Va alla porta, guarda il fascio di luce che

sbarra loro la strada, proveniente dalla porta del laboratorio.--C'è

ualcosa che vuoi portare con te? Ma penso che avrai ben poco come

uardaroba. Lui dove tiene le l~hi~vi~

--Quelle del cancello? Nel taschino della giacca, credo, gliele vedo

sempre prendere da lì. Ora non la porta però, si è messo il camice. Sarà

nella sua camera da letto.

--Bene, proveremo a rubarle. Non mi dispiacerebbe fare anche un

occhio nero al tizio per l'occasione, ma non voglio esporti al pericolo.

Anche se probabilmente lui con quella pistola avrà una mira da epilet-

tico guercio da un occhio. Vienimi dietro.

Scivolano fuori nell'oscurità, O'Shaughnessy davanti, la ragazza die-

tro che si tiene in contatto con lui appoggiandogli lievemente una ma-

no sulla schiena. Il corridoio è buio, ma in fondo è sbarrato da una fa-

scia di sinistro biancore che attraversa il soggiorno e il passaggio e si

riflette su una parete.

--Bisogna fare attenzione a queste assi--sussurra lui.--E facen-

dole scricchiolare che mi hai svegliato, e tu non pesi quanto me.--Il

tocco delle dita di lei sulla schiena gli dice che la ragazza trema come

una foglia.--Non aver paura. Sei con me ora.

Un'asse rabbrividisce appena, lui ne balza via agile come un gatto

prima che faccia rumore. La sbarra di luce si approssima lentamente.

L'oscurità della casa è tanto morale quanto fisica, lui pensa. Tintinnii

lievi, suoni come di qualcuno che si stia affaccendando provengono dal

laboratorio ancora distante, magnificati dal silenzio. Il maniaco sta fa-

cendo i suoi preparativi.

Davanti a una porta le dita di lei fanno un segnale.--Qui?--mor-

mora lui.--Resta accanto allo stipite, dove posso ritrovarti, vedo se

riesco a mettere le mani sulla sua giacca.

La trova dopo un sacco di cauti giri, navigando alla cieca. E appesa a

un gancio sulla parete. Trova subito la chiave, ma probabilmente a lei

parrà un secolo che lui è dentro. Scivola di nuovo fuori, allegro e fidu-

cioso come gli capita sempre di essere quando si è messo in qualche

pasticcio.--Eccola. Andiamo adesso.

Un passo dopo l'altro avanzano nel silenzio e nell'oscurità, la sbarra

di luce lontana è l'unica cosa visibile. Un'asse traditrice scricchiola

sotto il piede di lui prima che possa ritrarlo. Restano immobili ascol-

tando il suono echeggiare intomo. Dal laboratorio non si sente più

niente. O'Shaughnessy attira la ragazza contro la parete, vi si addossa

con lei.

Non un suono dal laboratorio. La sbarra di luce, fino a quel momen-

to ristretta, lentamente si allarga. Una sagoma vi si staglia, l'ombra di

Denholt proiettata sul pavimento e sulla parete. Rigido l'uomo si tiene

sulla soglia, in ascolto.

Sulle labbra di O'Shaughnessy è tornato il sorriso. Allunga una ma-

no e afferra quella di lei in una stretta rassicurante. Da molto tempo

non prova più paura. Quando è stata l'ultima volta? Quando aveva di-

ciassette, diciotto anni? Ogni tanto gli capita di pensare che è stata

una perdita per lui... Ia paura dà sapore alla vita. Si chiede come ha

fatto a smarrirla e se mai qualcosa, chissà che cosa, sarà capace di far-

gliela tornare.

Una cosa è certa, lei è spaventata per tutti e due e ce n'è d'avanzo: il

polso esile batte follemente sotto le dita di lui.

La sagoma si muove alfine, comincia a retrocedere nella stanza illu-

minata. Il rumore che l'aveva evocata non si è ripetuto. Tornano i suo-

ni come di chi si sta affaccendando. Solo la sbarra di luce è rimasta lar-

ga, pericolosa da attraversare senza farsi scoprire. Oramai ci sono qua-

si arrivati, possono sentire il respiro di Denholt nel laboratorio.

O'Shaughnessy si ferma, attira Nova di fronte a sé. Le preme sul palmo

la chiave del cancello.--Voglio essere sicuro che tu arrivi laggiù, a

qualunque costo. Tira un respiro profondo e attraversa la zona illumi-

nata. Non aver paura, ci sono io alle tue spalle.

Lei scivola avanti, spia attraverso la porta aperta. Apparentemente

Denholt le volta le spalle. In punta di piedi, agile, lei oltrepassa la bar-

riera luminosa. Dall'altra parte si ferma, si volta ansiosa, aspetta che

L lui la raggiunga~

Un istante dopo lui le è al fianco. Passando davanti alla porta ha ve-

duto di scorcio una figura vestita di bianco china davanti a uno scaffa-

le, intenta a riempire una siringa ipodermica. Sullo sfondo ci sono due

tavole operatorie, non una sola. Una è evidentemente improvvisata:

delle tavole poste su due sedie e coperte da un'incerata. "Per me e per

lei" pensa il pilota. "L'individuo non scherza".

Lei lo tira per un braccio, ma lui di colpo le resiste, s'immobilizza.

La ragazza si volge a guardarlo.--Vieni, vieni! Da un minuto all'altro

ormai...

La mia zampa di coniglio. Lui ce l'ha lì dentro, è nel mio giubbot-

to. Non posso andarmene senza.

--Ma ti ucciderà!

~3 --Sì, lui e dieci altri. Va' alla porta, bambina, e comincia a lavorar-

tela. Voglio che tu sia fuori tiro se quello comincia a sparacchiare. Io

vado a riprendermi il mio portafortuna, lo rivoglio assolutamente.--

Deve strapparsi alla lettera le dita di lei dal braccio, spingerla per met-

terla in moto. Finalmente lei si allontana con un gemito soffocato di

protesta Lui aspetta finché non sente dei fruscii venire dalla porta. Ma

un chiavistello stride sciaguratamente mentre lei lo tira e di nuovo nel

laboratorio cade un improvviso, preoccupato silenzio.

O'Shaughnessy, i muscoli tesi come corde di pianoforte, si fa sulla

soglia illuminata senza fretta, con aria indifferente. Tende una mano

verso l'uomo in camice bianco che si è girato a fronteggiarlo.--Il mio

giubbotto, dottore. Me ne vado.

Denholt ha messo giù la siringa piena. La pistola che la ragazza ha

menzionato è sul tavolo, ma già sotto la sua mano.--Così crede di an-

dársene? E proprio sciocco, amico mio. Sarebbe stato meglio che dor-

misse, come io avevo provveduto a farle fare. Niente timore allora,

niente agonia. Non si sarebbe accorto di morire.

--Anche così non ci sarà timore né agonia.--Il pilota calmo prende

il giubbotto, ne tira fuori la zampa di coniglio e la ripone nella tasca

dei calzoni.--Un'altra volta non abbia tanta fretta di bruciare le mie

carte--dice--o le farò girare la testa a ceffoni.

La pistola è ora spianata contro il suo petto.

Fuori nel buio la pesante porta d'ingresso si apre con un lungo cigo-

lio. Denholt svelto fa un passo in avanti. O'Shaughnessy non si muove,

gli blocca la strada.

Un fruscio di passi in corsa, leggeri, si allontana all'esterno, volando

sul terreno fangoso.

--Chi è?

--Chi vuole che sia? La ragazza. La porto con me.

Il viso di Denholt si trasforma all'improwiso in una maschera di

sgomento:--Non può!--urla.--Non sa cosa significa, pazzo! Non

può riportarla nel mondo con lei! Lei deve star qui, ha bisogno di

me!--La voce si alza stridula, disperata.--Nova! Torna indietro!

--Questo lo dice lei, io non ci credo.--Anche O'Shaughnessy ha al-

zato la voce. Si sposta per mettersi proprio davanti alla pistola, vuole

impedire che l'altro gli scivoli al fianco.

--Mi lasci passare o le sparo. Non volevo danneggiarle la pelle o fe-

rire un organo vitale, ma se mi ci costringe lo farò! E allora nulla potrà

riportarla indietro, capisce, nulla potrà riportarla indietro! Resterà

morto!

Il pilota è immobile, teso, lo misura con gli occhi. E un giocatore:

sente che Denholt è riluttante a sparargli e conta su quella riluttanza,

per quello che vale. Invece di allontanarsi dall'arma fa un passo in

avanti, poi due...

Tra gli alberi gocciolanti esplode la sirena di allarme. Dunque lei ha

aperto l'ultima barriera, ce l'ha fatta!

Ai lati del collo di Denholt le corde si tendono, rivelano al pilota che i

muscoli dell'indice hanno ricevuto l'ordine di premere il grilletto. Lui

si getta da una parte. Le due figure per un attimo appaiono saldate in-

sieme da una sbarra fiammeggiante di luce, rumore e fumo si produco-

no dopo. O'Shaughnessy non sente dolore ma sa che è stato colpito e

che non deve permettere all'altro di colpirlo ancora. La mano che

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stringe la pistola è serrata nella sua, dieci dita obbedienti a due cervel-

li impugnano una sola arma. Fa fuoco ancora e ancora e ancora... cin-

que, sei volte.

Il pilota intanto colpisce la testa di Denholt con la mano libera. I due

barcollano allacciati come in una folle danza. Intorno a loro è una

pioggia di vetri rotti. Il fumo degli spari, la polvere bianca che si stacca

dalle pareti colpite dalle pallottole aleggiano intorno a loro come una

nebbia. O'Shaughnessy finalmente strappa la pistola ormai inoffensi-

va dalle dita dell'altro, la lancia lontano. Altro vetro che si rompe, e

questa volta è accompagnato da un odore acido, pungente, che fa lacri-

mare gli occhi. Lo scricchiolio degli alambicchi polverizzati sotto i lo-

ro piedi fa sembrare che stiano lottando sulla sabbia o sulla neve indu-

rita.

Ora O'Shaughnessy si accorge che non può colpire col braccio sini-

stro, i messaggi del suo cervello arrivano alla spalla e lì si bloccano.

Usa allora il braccio per tenere Denholt, colpisce col destro. Il dottore

pare cercare qualcosa alle proprie spalle, tiene la mano dietro la schie-

na e quando ricompare è stretta intorno a un oggetto lampeggiante.

Un bisturi o roba del genere.

O'Shaughnessy si scioglie dall'awersario, balza indietro. Un colpo

vibrato verso l'alto gli manca per poco il torace. Afferra la mano prima

che tomi a riabbassarsi, la torce. Qualcosa cade a terra con un tintin-

nio. Allontana l'oggetto con un calcio, indietreggia per darsi lo slancio

e avventa alla mascella di Denholt un pugno devastante. Il dottore bar-

colla, scivola sui vetri, cade a terra stordito.

O'Shaughnessy sente la spalla pulsargli dal dolore. Ansima:--Ora

sono riuscito a ficcarglielo in testa che la porto con me?--Si gira e si

avvia a passo un tantino malfermo verso la porta.

Denholt tenta vanamente di rialzarsi, balbetta:--La sta portando

alla morte!

L'allarme continua a suonare, chiamandolo. Il pilota esce dal labora-

torio, si tuffa nell'oscurità, trova la porta aperta. L'aria fresca e umida

della notte tarda lo avvolge. Si volta e vede Denholt stagliato sulla so-

glia del laboratorio dove è riuscito a trascinarsi. Si sostiene allo stipi-

te, barcollando, tende verso di lui una mano in gesto di maledizione...

o di avvertimento.

--Ricordi quello che le dico. La sta condannando a morte. Oggi è il

tredici giugno. Ricordi questa data, la ricordi bene! Ha poco tempo...

poi saprà, saprà anche troppo presto! E tornerà da me, con lei... a stri-

· p SCiare, a supplicarmi di aiutarvi! Sì, v'inginocchierete davanti a me...

L; sarà la mia rivincita!

--E allora potrà spararmi, se le riuscirà--ringhia il pilota da sotto

gli alberi.

--Non la sta portando verso la vita, ma verso la morte... Ia morte

più spaventosa che possa toccare a un essere umano!

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La voce urlante si perde in altre folli imprecazioni ma ormai lui è

lontano, può vedere Nova che lo aspetta tremante davanti al cancello

aperto. Lui sguazza verso di lei sul terreno fangoso, tenendosi una ma-

no sulla spalla ferita. Le sorride e con la sua calma voce strascicata le

dice, abbastanza forte da farsi sentire al di sopra della sirena ora tre-

molante, scarica:--Salve, signora O'Shaughnessy. Ora ce ne andiamo

davvero.

La prende per un braccio.

O'Shaughnessy indugia nel bar della Palmer House, a Chicago, con un

uomo che si chiama Tereshko. A un certo punto si scusa e va a una cabi-

na a telefonare al suo appartamento in North Side.

--Perché non portiamo anche sua moglie a cena?--ha detto Te-

reshko.--Al Chez Paree, magari. Possiamo parlare di affari anche a

suon di musica.

--Splendido--ha risposto lui. Dopo tutto le transazioni d'affari so-

no una specie di guerra: chi ha più colpi li spara. E la luminosa, straor-

dinaria bellezza di Nova O'Shaughnessy equivale a un'intera batteria

di cannoni. Se lui è disposto a usarla per abbagliare il diffidente genti-

luomo col quale sta cercando di accordarsi, ciò non significa che l'ap-

prezzi di meno lui stesso.

Così dice al telefono:--Nova, vieni a raggiungermi al Chez Paree.

Ho con me un uomo. Cerca un pilota ed è disposto a sborsare parec-

chio, così fatti più bella che puoi. Prendi un tassì, tesoro.--Nova si

orienta ancora male nelle strade di città.--Oh, un'altra cosa. Se mi fa

qualunque offerta inferiore agli ottomila, tu mi dai un'occhiata come

per dire "Ma vaneggia?" Hai capito? E non dire una parola di... di quel

posto sulle montagne.

Al Paree ordinano un tavolo per tre. Hanno già bevuto parecchio, e a

Tereshko comincia a fare effetto. Non è proprio sbronzo, ma si fa più

ciarliero. Si sta lasciando un po' andare, insomma.

--Ha molta esperienza nel localizzare zone minerarie dall'alto?

--No, so volare e basta. Ma per quel che ho capito lei vuole solo che

la porti, in modo da guardarsele lei stesso. E questo lo so fare, posso ga-

rantirglielo. Tutto quello che mi serve è la direzione generale e la ben-

zina che occorre.

E evidente che l'ostacolo non consiste nei soldi. Tereshko deve aver-

ne fino alle orecchie, lo porta stampato addosso, anche se nel vestire è

pacchiano, volgare. La sua esitazione... e O'Shaughnessy è buon giudi-

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ce delle motivazioni altrui... pare derivi da un eccesso di cautela, come

se volesse accertarsi con chi ha a che fare prima di mettere le carte in

tavola. Ormai non può dubitare che lui sia un pilota abbastanza esper-

to da portarlo dovunque voglia andare, dopo i ritagli e i documenti che

gli è andato sciorinando davanti per tutto il pomeriggio.

--Naturalmente una cosa mi interessa più di tutte--Tereshko ta-

sta il terreno offrendo all'altro una sigaretta da un astuccio di platino

col fermaglio di smeraldi.--Ed è che la nostra missione rimanga

strettamente fra noi due. Nessuno deve sapere quale ne è lo scopo e la

destinazione. Nessuno, capite? Neppure quando l'avremo portata a

termine.

--Posso garantirle anche questo. Non sono un chiacchierone.

--No, mi sembra il tipo che si fa i fatti suoi... ecco perché l'ho cerca-

ta, in primo luogo.--Molto poco saggiamente ordina un altro cock-

tail.

Ora appare ancora più rilassato.--A questo punto posso confessar-

le--ammette--che la localizzazione di zone minerarie era una sto-

ria. Il metallo che cerco è già stato estratto e coniato, solo che l'hanno

seppellito di nuovo. E si trova esattamente in direzione opposta a quel-

la che vi ho detto. Non in Canada, ma in uno degli isolotti della costa

della Florida. O forse in una delle Bahamas. Suppongo che ciò le forni-

sca qualche indizio. Ma tanto pare proprio che sia l'uomo che fa per

noi, così non importa che sappia tutto.

--Un tesoro di pirati?

--Sì e no--dice Tereshko.--Certo che era davvero di un pirata,

ma risale al tempo del proibizionismo e non a quello del capitano

Kidd. Ormai avrà capito a chi mi riferisco.

O'Shaughnessy non ne ha la minima idea, ma non gli costa niente la-

sciare che l'altro lo ignori.

--Lui tanto non uscirà fino a... vediamo...--Un brillante grosso co-

me una noce fiammeggia mentre lui conta sulle dita.--Fino al 1948, o

forse è il '50? Diavolo, era un grand'uomo e tutto quanto il resto--ora

ha un tono come volesse giustificarsi--ma al resto di noi proprio non

potete dar torto. Dopo tutto si diventa vecchi. Lui la sua parte l'ha avu-

ta, perché noi non dovremmo prenderci la nostra? E dentro già da due

anni, perché dovremmo aspettare ancora?

--Allora non si tratta di roba vostra?

--Non è neanche sua!--scatta l'altro.--E roba di nessuno. Non

L, appartiene più neanche ai fessi ai quali lui l'ha scucita, perché gli pro-

pinava alcool di legno a quattro dollari al dito.

--Dipende dai punti di vista--osserva O'Shaughnessy senza com-

l~i promettersi~

--E da quale altro punto di vista vorrebbe vedere la cosa? Forse che

a roba è utile a qualcuno, seppellita com'è da qualche parte? Non ci

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sarebbe stato bisogno di prendersi tante scocciature se solo... Vede, le

banche non andavano bene, né le cassette di sicurezza o roba del gene-

re, perché i suoi guai erano... guai col Governo. E lui probabilmente se

li stava aspettando. Noi no, ma lui sì, per forza. Infatti proprio poco

prima che arrivassero, lui andò in crociera nelle acque della Florida

col suo yacht. Solo lui e un piccolo equipaggio, e... oh, sì, una ragazza

con la quale se la faceva in quel periodo. Nessuno di r~oi, neppure uno

di noi. Pensammo che fosse strano, perché lui era un ragazzo che ama-

va la compagnia. Fino a quel momento gli sarebbe parso di prender

freddo se non ci avesse avuti sempre intorno. Ma succede una cosa an-

cora più strana. Prima di tornare indietro si fermarono all'Avana. Lui e

la sua dama scendono a terra e a nessuno degli altri viene permesso di

sbarcare. Poi, a un improvviso ordine di lui, lo yacht riparte... senza

che lui e la ragazza tornino a bordo. Pare che dovesse passare a pren-

derli a Bimini, più tardi. Invece non fu più rivisto, un pezzo di legno

bruciacchiato venne ripescato parecchio dopo col suo nome sopra. Si

presunse distrutto in mare da un'esplosione e non un'anima a bordo

sopravvisse. Buffo, no, mandarlo avanti così mentre avrebbe potuto

aspettare quei due in porto?

--Buffo, sì, ma non molto da ridere.--approva O'Shaughnessy.

--E proprio mentre noi stavamo tirando fuori cravatte nere e pre-

parandoci a ordinare corone arriva un telegramma da lui: USpero non

vi siate preoccupati, io sto benissimo, torno in aereo, non è stato un f

terribile incidente?" Trenta giorni dopo esatti lo Zio Sam gli salta al 3

collo e...--Riunisce le dita di una mano, vi depone un bacio, le svento-

la.--E quanto crede che troviamo, dopo che il fumo si è dileguato?

Cinquemila dollari. Diavolo, lui non andava mai in giro senza portare

di più nel portafogli! Ho ragione o no? Ogni altro indizio che abbiamo

seguito da allora si è rivelato infruttuoso. Ce ne abbiamo messo di tem-

po a capitare su quello giusto, ma adesso credo proprio che ci siamo.

Ora pensa di poterci aiutare a fare il buco alla ciambella?

Il pilota fa una spallucciata.--Non c'è niente di difficile. Io posso

portarla a spasso per un mese o due, tutto il tempo che vuole. Bisogna

prendere un mezzo anfibio, naturalmente. C'è un particolare, per l'ap-

parecchio deve darmi un anticipo. Io ho perduto il mio due settimane

fa, è stato allora che mi sono fatto male alla spalla. Non si metta in

mente che sia stata colpa mia... mi ha baciato un fulmine.

--Ci pensiamo noi all'aereo--assicura Tereshko.--Si dia un'oc-

chiata in giro e prenda quello che ritiene migliore per la missione, e

quando torneremo potrà tenerselo come mancia.

UE quanto tempo mi lasceranno per godermelo?" pensa O'Shaugh-

nessy che non è un ingenuo. Ma la cosa non lo impensierisce, c'è già 5,

stata gente che ha cercato di sbarazzarsi di lui dopo essersene servita... f

e non ce l'ha fatta. Anche questo tizio se ne accorgerà.

--La gallinella potrebbe farvi da guida non sarebbe più comodo?

Avete pensato a mettervi in contatto con léi?--dice a voce alta.

--Se ci abbiamo pensato?--brontola l'altro.--La porta della cella

non si era neanche richiusa alle spalle di lui quando cominciammo a

far pressione sulla ragazza. Solo che ci andammo troppo pesanti. Ci

eravamo fatta un'idea sbagliata di lei. Purtroppo era una di quelle ra-

gazzine innocenti, non sapeva niente di quello che faceva lui finché il

coperchio non saltò in aria... forse lo credeva un capitano d'industria o

cose del genere.

Sulle labbra di O'Shaughnessy appare un sorrisetto assolutamente,

sarcasticamente incredulo.

--No, le assicuro che non ce l'ha data a bere--afferma Tereshko.

--Era proprio una ragazza così. Lui del resto ci diceva che con lei era

una cosa seria... sa cosa voglio dire. Lei non era la sua pupa... Iui la

chiamava la sua madonna.

--La madonna delle distillerie clandestine--ride il pilota.

--Voleva sposarla. Era una ragazzina del resto, avrà avuto diciotto

anni. Bene, fra il trauma che ebbe quando seppe con chi si era messa e

noi che cominciammo a farle pressioni, la povera gallinella finì male.

Disse che non sapeva niente di quel che era successo durante quella

crociera. Così la chiudemmo in garage al buio per tutta la notte, per-

ché la paura la inducesse a parlare. Le facemmo paura, come no, tanto

da farla tacere per sempre! La nostra solita fortuna... Lui non le aveva

mai permesso di tagliarsi i capelli, diceva che erano troppo belli così

lunghi, che la facevano sembrare un angelo. Così lei con una forcina

scassina le macchine, ce n'erano sei... accende i motori e respira mo-

nossido fino a lasciarci la pelle. Con un gattino in braccio che lui le ave-

va regalato.

--Particolare commovente.--O'Shaughnessy si acciglia per sim-

patia, non verso di loro ma verso la ragazza torturata e sola nel garage.

Tereshko ghigna.

--Già, non è vero? Di tutti gli sporchi trucchi! La dovemmo lasciar

nascoSta lì tutto il giorno. Quando si fece buio la tirammo fuori, la por-

tammo lontano molte miglia e la lasciammo da qualche parte. Non ho

mai letto che abbiano trovato il cadavere. Seppure l'hanno trovato

non devono esser riusciti a sapere chi era lei, non se n'è mai vista una

parola sui gior...

--Ecco mia moglie--interrompe il pilota alzandosi. L'ha vista al di

Sopra della spalla di Tereshko entrare dalla strada proprio in quel mo-

mentO. Si arresta un istante, si guarda intorno. Li localizza e si avvia

erso il loro, indirizzandogli un sorriso tutto per lui- e diamine, è una

bellezza da mozzare il fiato.

Tereshko le volta le spalle. Si alza anche lui e si volge, preparandosi

a salutarla.

O'Shaughnessy dice:--Nova, ti presento il signor Vincent Tereshko.

Il bicchiere dell'uomo cade a terra con un tintinnio. Tereshko barcol-

la all'indietro, la spalliera bassa della sedia lo urta alla schiena, lui vi

si rovescia sopra battendo la nuca sul sedile imbottito, quindi lui e la

sedia rotolano insieme sul pavimento. Istantaneamente si rialza e dal-

le labbra gli escono grida strozzate che è difficile intendere come paro-

le.--No, no! Via da me! Non sei vera!

Agita le braccia come per respingere un avversario invisibile, quindi

si volta e corre via. attraverso il ristorante, si precipita in strada.

Gli altri due c'impiegano un poco a rimettersi dallo sbalordimento.

--Bene, mi venisse... Ma l'hai visto? Cosa gli ha preso? Un minuto pri-

ma sta qui a parlare con me, un minuto dopo impazzisce.

--E stato a causa mia--dice lei stupita, ancora fissando l'uscita.

Lui scuote la testa impaziente a quella sortita.--Quando mai, co-

m'è possibile che fosse per causa tua? Sii ragionevole. Non sei ancora

abituata alla gente, ogni volta che qualcuno ti guarda pensi che in te ci

sia qualcosa che non va.--Dopo tutto lui non è realmente in grado di

dire chi o che cosa Tereshko abbia visto.

--No, è stato per causa mia--insiste lei, turbata.--Stava guar-

dando me; dritta in faccia! Ho qualcosa di strano? Devo proprio aver-

lo, perché stasera è la seconda volta che mi succede.

Lui sobbalza stupito.--La seconda? Che vuoi dire?

--Proprio adesso, fuori della porta. C'era un uomo seduto in una

berlina ad aspettare qualcuno. Quando sono uscita dal tassì si è volta-

to a guardarmi e poi... poi si è messo a gridare come l'uomo di qui e ha

messo in moto correndo via a centocinquanta all'ora, come se avesse

visto un fantasma...

O'Shaughnessy fa una faccia sbalordita.

--Girati un po'. Lasciati vedere--dice. Lei esegue.--Sei una me-

raviglia da tutte le parti. Non c'è proprio niente in te che possa far im-

pazzire di paura degli uomini fatti. Lui deve aver visto qualcuno che ti

stava dietro. Andiamo a casa e al diavolo tutto. Pare che l'affare sia an-

dato all'aria, e per me va bene così. Puzzava troppo fin dall'inizio.

Passano settantadue ore, la calma prima dell'uragano. Poi, la terza

sera dopo l'incidente, a lui capita di tornare al loro appartamento pri-

ma del solito. Non ha quasi più denaro e ha girato tutto il giorno cer-

cando di ricavare qualcosa dai suoi contatti. Ma non sembra che per il

momento ci sia grande richiesta di piloti mercenari, soldati di fortuna

dell'aria. E adesso lui ha una donna di cui prendersi cura...

Appena svoltato l'angolo la vede in piedi di fronte all'edificio. Sta

evidentemente cercando un tassì. Ne chiama uno con un cenno, e sta

per entrarci quando lui la chiama:--Ehi, Nova! Dove vai?--e arriva

di corsa.

Lei sembra stupita di vederlo. Non confusa, solo stupita.

--Scusami se ho tardato tanto. Non volevo farti aspettare così. Per

questo hai cambiato idea e sei tornato qui? Non sei mica arrabbiato

con me?

Lui chiede:--Di che parli? Perché dovrei essere arrabbiato?

--Perché ti ho fatto aspettare più di mezz'ora prima di raggiunger-

ti.

--Ma chi ti ha detto di raggiungermi?

Lei è più stupita che mai.--Ma tu me l'hai detto di prendere un tas-

sì e venire a...

Lui si guarda intorno, perlustra la strada con gli occhi.

--Vieni, saliamo--disse.--Mi scusi autista non ci serve più.--E

sopra:--Che altro ti ho detto?

--Di venire il più presto possibile, solo questo.

--Ma hai riconosciuto la mia voce al telefono?

--Non ho mai sentito la voce di nessuno tranne la tua, quindi ho

pensato che fossi tu. Parevi molto lontano però.

--Be', non ero io. E mi chiedo chi fosse. Nova, tesoro, ascoltami: do-

po di ciò non devi più uscire sola. Ti darò una parola d'ordine che use-

remo al telefono d'ora in poi. Filo spinato, te ne ricorderai? Se non mi

sentirai parlare di filo spinato saprai che non sono io.

--Va bene, caro.

La sera dopo, al suo arrivo, trova difficoltà a entrare. La chiave fun-

ziona, ma lei ha messo qualcosa contro la porta per bloccarla, forse

una sedia sotto la maniglia. L'ostacolo non lo trattiene molto a lungo.

Entra e lei è lì, ritta in mezzo alla stanza e trema come una foglia.

|~ --Perché hai fatto questo?--domanda lui.--E che è quel buco nel-

la porta, proprio sopra la serratura?

Lei gli si getta fra le braccia, lo stringe.--Hanno telefonato ancora.

Qualcuno ha detto che eri tu, ma io sapevo che non era vero perché non

ha parlato di filo spinato.

--Hanno cercato di nuovo di farti uscire?

--No, no. Hanno detto: aAbbiamo un messaggio per te da parte di

Benny". Chi è Benny?

O'Shaughnessy la fissa soltanto, e gli occhi gli si restringono.

--Poi hanno detto: aCosì ce l'hai fatta, eh?" Poi si sono messi a ride-

re e hanno detto: "Dove l'hai preso a rimorchio il fesso?" Ma di chi par-

1= lavano?

--Di me--fa lui piano.--E poi?

Lei scuote la testa sbigottita.--Io non capivo niente. Hanno detto an-

cora: "Bene, sei stata furba e ci hai presi in giro proprio bene. E stata

~- bella finché è durata, ma adesso non funzionerà più. Ci vediamo, bel-

la".

t --Nient altro?

- Oh, caro, ero così spaventata. Non sapevo dove trovarti, sapevo

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solo che eri da qualche parte giù nel Loop. Ho chiuso la porta a chiave

e mi sono nascosta nell'armadio, lasciando lo sportello aperto di un fi-

lo. Dopo una mezz'ora ho visto girare la maniglia, lentamente, come se

qualcuno cercasse di aprire. Quando non ha funzionato hanno comin-

ciato a suonare il campanello e una voce ha mormorato: "Sono io,

bambina, fammi entrare, ho dimenticato la chiaven. Ma io sapevo che

non eri tu. Mi sono rannicchiata in un angolo, dietro i vestiti...

Lui intanto ha tirato fuori la pistola dalla valigia dove la tiene e la

sta controllando, le mani un poco tremanti, scosso da una collera fu-

riosa. Quella bimba indifesa che lui ama è il suo punto vitale...

Lei continua:--Poi si è sentito uno scoppio e qualcosa ha attraver-

sato la porta ed è entrato qui. Non resistevo più, avevo paura che en-

trassero e mi prendessero. Sono corsa fuori dell'armadio, mi sono ar-

rampicata dalla finestra sulla scala antincendio, mi sono introdotta

nell'appartamento vicino e ho chiesto alla signora che ci abita di na-

scondermi. Le ho spiegato che qualcuno stava cercando di entrare nel

nostro appartamento e lei ha detto che dovevamo chiamare la polizia,

ma poi li abbiamo uditi che se ne andavano. Abbiamo sentito il calpe-

stio dei piedi per le scale, erano parecchi, e poi l'automobile è partita.

Camminando avanti e indietro e cercando di raccapezzarsi lui si

batte la canna della pistola sul palmo e dice:--Senti piccola, non so

proprio che faccenda sia questa, può magari essere un falso allarme,

ma... Sparare un colpo di pistola contro la porta in pieno giorno non è

uno scherzo. Se solo riuscissi a capire di che si tratta! Non mi pare que-

stione che riguardi n2e. Sa il cielo che di nemici me ne sono fatti abba-

stanza, ma non in questa nazione. Nova, dimmi la verità: sei mai stata

prima a Chicago?--Le si ferma davanti e la guarda negli occhi.

--Mai, caro, mai, finché non siamo arrivati qui due settimane fa.

Qui non conosco nessuno all'infuori di te. Credimi, credimi!

Lui le crede, come potrebbe farne a meno?

Ma allora di che si tratta? Se lui fosse ricco direbbe che hanno tenta-

to di rapirla per chiedere un riscatto. Un errore d'identità? Va bene

ma per chi la prendono? Tutta la faccenda è un enigma. Si chiede se

dovrebbe affidare alla polizia il compito di sbrogliarlo. Ma cosa può

dire ai poliziotti? Qualcuno si è fatto passare per me con mia moglie al

telefono, qualcuno ha cercato di entrare nel mio appartamento mentre

ero fuori. Messa così è una storia un po' debole. E comunque lui è un

individualista, abituato a sbrigarsela da sé. Questo enigma rappresen-

ta una minaccia per Nova, quindi preferisce trarla dagli impicci lui

personalmente.

Inaspettatamente Tereshko gli telefona quella sera.--Pronto, sono

Tereshko, O'Shaughnessy--dice.--Sono in un bar di State Street. b

Vorrei concludere quella transazione di cui abbiamo parlato. Non po- ~

tete fare una corsa qui? Sarà affare di una decina di minuti. ~i

_ Che è successo l'altra sera? Pareva che qualcosa l'avesse spaven-

tato.

Una risatella insincera.--Quando mai! Ho avuto solo un accesso di

nausea e ho preferito correre in strada.

Lui accenna a Nova di avvicinarsi, le accosta il ricevitore all'orec-

chio e mormora:--E questa la voce che hai udito le altre volte?

Lei scuote il capo in silenzio.

Lui dice:--No, francamente non me la sento di concludere l'affare,

diamoci un taglio.

Tereshko non sembra prendersela affatto, forse non si rende conto di

quanto ha chiacchierato quella sera.--Mi dispiace, ma in fondo lei è

giudice delle sue cose. Comunque, venga per un bicchierino, tanto per

separarci all'amichevole. Venga solo.

O'Shaughnessy decide subito che andrà, vuole mettere in chiaro una

cosetta. La prima sera Tereshko aveva insistito perché Nova li raggiun-

gesse. Adesso vuole lui solo. Forse quel che gli preme veramente è che

lei resti sola in casa. Forse c'è lui dietro tutta la faccenda. E allora biso-

gna assicurarsene. Dice:--Preparati.--E per strada, un paio d'isolati

più lontano:--Non sei mai stata al cinema, eh? Be', adesso ci andia-

mo.

Compra due biglietti, l'accompagna dentro, le cerca un posto.

--Adesso non ti muovere di qui finché io non torno a prenderti.--Co-

me con una bambina.

--Va bene, caro.

Non c'è ombra di Tereshko nel bar dove avrebbero dovuto incontrar-

si. O'Shaughnessy aspetta venti minuti, poi va a riprendere Nova.

Mentre salgono le scale della loro casa lui stringe la pistola che ha in

tasca.--Adesso credo di sapere chi è il nemico--sussurra fra sé e sé

--anche se non so per quale ragione.

La porta dell'appartamento è aperta. I due si scambiano un'occhia-

ta.--Pensavo... ti ho visto chiudere a chiave quando siamo usciti--

balbetta lei.

--Verissimo--assente lui cupo. Entra per primo, la pistola in ma-

no.

Non c'è nessuno.--Forse erano ladri--dice lui.

Lei si allarma.--I miei vestiti! Tutte le belle cose che tu mi hai da-

to!--Lui sorride a quella reazione così femminile, la vede correre al-

l~armadio. Si volta stupita.

--Manca qualcosa?

--No, ma... non ricordo che ci fosse questo, prima.--Gli mostra un

~ abito di seta nera. Un grande giglio è stato appuntato sulla scollatura.

L ~ Forse c'era e te ne sei dimenticata.

Lei carezza il fiore con le dita.--Ma è vero. Non vendono vestiti con

~fiori veri.

Certo, lui lo sa. Sa anche di che cosa è simbolo quel giglio. Comincia

a fischiettare una canzonetta:--Chicago, Chicago...

Il campanile di qualche chiesa dall'altra parte del fiume suona dodici

rintocchi.--Hai preparato tutto?--chiede lui piano.--Allora porto

giù le valigie. Tu spegni la luce.

Lei obbediente gli scivola dietro per le scale.--Non so quanto lonta-

no potremo arrivare con cinquecento dollari--riflette lui--ma è cer-

to che non posso più lasciarti qui sola di giorno, e neanche posso trasci-

narti in giro con me per tutta la città. Forse possiamo trovare una stan-

za dall'altra parte di Chicago...

Nel vestibolo lui depone a terra le valigie, le fa cenno di restare lì un

momento. Si dirige alla porta, spia al di fuori. Niente. La strada pare

morta.

Ma di colpo qualcosa gli sibila accanto, uscendo dal nulla. Qualcosa

urta il muro dietro di lui, rimbalza ai suoi piedi. Lui non si china a ve-

dere cos'è, lo sa benissimo. Ha già visto un sacco di volte quel genere di

giocattolini. Niente sparo, niente lampo che mostri da quale direzione

è venuto. Stanno usando silenziatori, naturalmente.

Non si è mosso. Pssss! Un'ape o una vespa gli sfiora la guancia, lo

punge, fa uscire una goccia di sangue. Rimbalza ancora contro il muro,

gli cade ai piedi. Questi insetti notturni dawero sembra che abbiano

intenzioni serie.

Lui rientra, si ferma appena dietro la soglia, spiando sempre la stra-

da. Se solo potesse vedere un lampo, rispondere! Intanto rimane mez-

zo dentro e mezzo fuori della porta di ferro battuto e vetro pesante.

Si ode un suono simile a una martellata e il vetro s'incrina circolar-

mente, sbilenchi raggi di ruota lo percorrono facendo centro a un buco

rotondo. Un altro proiettile cade nel vestibolo.

Due mani si aggrappano alla sua giacca, lo tirano indietro.--Caro,

caro, no! Ti farai uccidere se resti qui! Oh, pensa a me!

--Quella lampadina... soffocane la luce con la tua borsetta. Voglio

vedere se colgo almeno un lampo.

Ma lei si rifiuta, gli dice di farlo lui stesso. E quando lo ha trascinato

all'interno del vestibolo gli si aggrappa, lo stringe con tutte le sue for-

ze.--No! No! Non ti lascerò tornare là... vuoi morire? Che ne sarà di

me?--Lui si arrende alfine, sa che altrimenti dovrà tornare indietro

con lei attaccata addosso.

· --Va bene, va bene Dev'esserci un'uscita secondaria da questa ba-

racca.

Ma alla fine del lungo corridoio seminterrato, appena lui esce in

avanscoperta... ecco di nuovo insetti notturni sibilargli intorno, rim-

balzare dal muro.--Aspetta un momento!--ordina lui tagliando cor-

to ai suoi gemiti di protesta.--Credo proprio di aver sbirciato qualco-

sa. Sul tetto della casa di fronte.--Le fa cenno di indietreggiare.--La

lampadina su, la lampadina!--Questa volta lei obbedisce, il corridoio

si oscura dietro di lui.

Impugna la pistola e l'alza lentamente, resta immobile, faccia rivol-

ta al cielo. Una scommessa da giocatore: la sua vita contro la possibili-

tà di colpire un lampo sei piani più su. Il suo pollice sinistro cerca la

zampa di coniglio nel taschino, I'accarezza distrattamente.

A un'esile favilla lassù, dietro il cornicione, risponde il tuono del suo

sparo. Il muro si scheggia al di sopra della sua testa e poi una figura ne-

ra cade goffamente dal tetto della casa di fronte, urta l'asfalto con un

tonfo sordo, fuori vista dietro il muro di cinta.

Ancora lampi da lì, sei in fila, e un suono come di sassolini che gran-

dinano dove si trovano loro due. Ma O'Shaughnessy è già al riparo nel

corridoio.--Non ce la facciamo. Ce n'è un altro lassù, stanno facendo

le cose in stile. Torniamo nell'appartamento.

Salendo le scale lei si prende il viso tra le mani.--Quella caduta

Spero che fosse morto prima di arrivare a terra

--Oh, quello ha pareggiato un po' i conti--fa lui cinico.--Chi di

spada ferisce

Notte in un appartamento di Chicago. Lui dice:--La porta è chiusa

a chiave e ho la pistola. Tu cerca di riposare un poco, tesoro, qui c'è tuo

marito che ti protegge.

--Ma prometti che resterai qui con me, non scenderai di nuovo.

--Prometto.

Così lei si sdraia vestita sul letto e si addormenta, mentre lui fa la

guardia alla finestra dalle tapparelle abbassate, la punta incandescen-

te della sigaretta nascosta dalla mano.

L'uomo del latte arriva e neanche si sogna che la canna di una pistola

sia a un palmo da lui dietro la porta, quando si china a deporre la bot-

tiglia. Nova dorme come una bambina.

Così passa la notte in quell'appartamento di Chicago.

L Tre ore dopo l'alba sono pronti ad andarsene. Adesso c'è abbastanza

L gente per strada da dar loro una possibilità. Se non ce la fanno adesso,

non ce la faranno più. La rete che è stata gettata su di loro la notte pri-

ma si richiuderà appena farà di nuovo buio. Loro vogliono sbarazzarsi

di lui, ma vogliono lei viva. Di questo lui è sicuro.

Ma prima d'incamminarsi lui dice:--Un tassì è rimasto fermo lag-

13; giù all'angolo da quando ha fatto giorno. Io giurerei che c'è rimasto

~, tutta la notte. E lì non c'è pubblico posteggio.

k --Credi che siano... Ioro?

--Non me ne frega un accidenti se sono loro o no, qui ormai mi man-

ca il fiato, devo uscire all'aperto! Resta dietro di me, e se mi vedi cade-

re continua a camminare. Non è la prima volta che mi sparano. Sono

quel tale penny falso che rispunta sempre fuori, te ne sei dimenticata?

Appena mette la mano sulla maniglia, però, s'irrigidisce di colpo, co-

me se un qualche suono indefinibile gli fosse trapelato dall'interno.

--C'è qualcuno fuori--alita.

Lei rabbrividisce.--Troppo tardi!

Lui le fa cenno di metterglisi alle spalle, le fa scudo col proprio cor-

po; allunga la sinistra e gira la chiave, tenendo la pistola puntata.--E

aperto--dice a voce alta.--Entrate a vostro rischio e pericolo.

Per un minuto il battente non si muove, poi comincia a strisciare

verso di loro.

--Più in fretta o sparo!--Ma è lui a spalancarlo del tutto con un

calcio.

Due braccia alzate sono la prima cosa che vedono. E poi che non c'è

nessuno dietro la figura solitaria. O'Shaughnessy si fa un poco indie-

tro.

L'uomo è un orientale, un cinese. Porta gli occhiali e ha i capelli ta-

gliati cortissimi. Il cappello gli è caduto accanto.

O'Shaughnessy:--E questo il posto che cercava?

--Sì, se vuole permettermi di asciugarmi la fronte...

--Che c'è, ha caldo?

--No, ma il calore della sua accoglienza...

--Bene, entri e chiuda la porta. Ci sono state brutte correnti tutta la

notte.

Il visitatore s'inchina, nervoso.--Permetta che mi presenti.

--Con tutto il piacere.

--Il mio nome americano è Lawrence Lee. Sono qui per farle una

proposta interessante.

--Ne ho avuta già una, grazie, un paio di giorni fa.

--Ho faticato molto a trovarla...

--E faticherà anche di più a perdermi, se dietro questa faccenda c'è

lei.

--Io rappresento il generale Yang. Sono il suo agente di reclutamen-

to negli Stati Uniti. Ha ordinato parecchi ottimi aeroplani e ha biso-

gno di un buon istruttore. La sua fama ha raggiunto le sue orecchie.

Posso offrirle un posto nel suo stato maggiore?

O'Shaughnessy mantiene la pistola puntata, ma con la sinistra acca-

rezza qualcosa che sta nel taschino.--Da come la mette può essere

davvero un'offerta interessante. Se ci mettiamo d'accordo...

--Mille dollari americani la settimana.

--Mi prende per un novellino? Sa che sono già stato in Cina. Sono

Penny O'Shaughnessy di Winnipeg, il suo generale non può trovare il

mio pari da nessuna parte. I coolies nelle loro risaie si prostravano

quando io passavo nel cielo.--Che lui possa star lì a contrattare con

questa spada di Damocle sospesa sulle ~oro vite è... be', fa parte del fat-

to che è O'Shaughnessy.

--Duemila forse?

--Ora quasi ci siamo.--Si volta verso di lei che gli è ancora alle

spalle.--Di, lo facciamo questo viaggetto?--Poi rivolge un ampio

sorriso al cinese.--Suppongo che a Yang non interesserebbe un pilota

morto.

L'emissario, del tutto privo di senso dell'umorismo:--Un pilota

morto non potrebbe servire al mio padrone in modo soddisfacente.

--Bene, avrò forse qualche piccola difficoltà ad arrivare vivo alla

Northwest Station e non posso prometterle di farcela.--Sente lei

stringerglisi contro tremando.--Tuttavia ecco cosa le dico. Lasci due

biglietti per San Francisco pronti per noi alla stazione. Se non ci fac-

ciamo vedere a reclamarli, potrà sempre farseli rimborsare dalle ferro-

vie... e trovarsi un altro pilota.

--Li vuole per il treno di oggi? Sarà fatto. I biglietti del vapore la

aspetteranno a San Francisco agli uffici della linea N.Y.K. Gradisce un

anticipo di mille dollari?

O'Shaughnessy risponde in cinese:--Non potrei mai ferire con un

rifiuto la sua generosità.--Poi in inglese:--Non si rimetta il cappello

uscendo, così che si veda bene la sua faccia.

L'agente esce inchinandosi.--Felici atterraggi.

Quando si trovano di nuovo soli lui le dice:--Partenza per Shan-

ghai. Il Coast Limited parte alle undici, così abbiamo giusto un'ora per

farcela.

--Ma come faremo a uscire di qui?

--Ancora non lo so, ma ci riusciremo.--Lui torna alla finestra,

sbircia nella strada fra le tende tirate.--Ecco Confucio che se ne va

senza che nessuno faccia caso a lui, non lo hanno messo in relazione

con me.--Poi:--Chi è la grassona che passeggia su e giù con un bar-

boncino?

--Oh, è la signora dell'appartamento accanto, presso la quale ho

cercato rifugio l'altro giorno. Porta sempre a passeggio i cani tutte le

mattine.

--Cani? Io ne vedo uno solo.

--Ne ha due. Ma deve portarli giù uno per volta, se no litigano.

--Ci sono!--esclama lui.--Aspettiamo che risalga.

--Che vuoi fare?

--A portar giù il prossimo sarai tu. Voglio per prima cosa che tu ar-

rivi alla stazione sana e salva e che tu salga su quel treno. Io li tratterrò

qui. Tu chiamami appena sei sistemata... allora tenterò di raggiunger-

_ Lasciarti?--geme lei.

--In questo equipaggio sono io che dò gli ordini. Eccoia che arri-

va.--Va alla porta, la ferma, la fa entrare con lui. La donna ha roton-

dit~ abbondantissime e capelli accuratamente ossigenati sotto un

enorme cappello le cui ali le ondeggiano intorno alla faccia infantile.

--Abbiamo bisogno di un favore. Devo far uscire mia moglie da que-

sto edificio e non posso farlo apertamente... ci spiano. Vuole prestarci

il cappello, il cappotto e il cane? L'altro cane, intendo.

--Felice di prestarle cappello e cappotto, ma Fifi... Ia mia piccola Fi-

fi... chi me la riporterà?

--Mia moglie lascerà tutto al capostazione per lei, potrà riprendersi

ogni cosa dopo. Le assicuro, la sua vita è in pericolo. Vuole far questo

per noi?

--Sì--fa lei guardando Nova.--Credo di capire. Ero sicura di aver

già visto la sua faccia da qualche parte... sui giornali, sapete. Mi dica,

com'era lui? Era cattivo come dicono? Ho sentito dire che faceva met-

tere gente coi piedi in blocchi di cemento...

--Basta così--dice O'Shaughnessy--sta prendendo un granchio.

Per lo scambio bastano due minuti. Il cappello a larghe tese nascon-

de tutto tranne il mento di Nova. Lui le lega un paio di cuscini intorno

con lo spago, uno davanti e l'altro dietro sotto il cappotto, e intanto

chiede scusa:--Senza offesa.

--Oh, per carità--sospira la donna.--Lo so che sono grassottella.

La cicciona resta nel loro appartamento, pensa che sarebbe una buo-

na idea se "gli altri" la vedessero passare avanti e indietro dalla fine-

stra, così da esser sicuri che Nova è ancora là. Quindi sollevano un po-

co le tende. Lui accompagna nel vestibolo Nova e il cane. Il loro com-

miato è un misto di commedia e di tensione.--Io resto un momento

dietro la porta e ti copro con la pistola. Non aver paura. Imita quel suo

modo anatresco di camminare. Va' piano e bada al cane, come fa lei.

Aspetta di arrivare a un paio d'isolati almeno da qua, prima di acciuf-

fare un tassì. E qualunque cosa succeda, non lasciar cadere quei cusci-

ni sul marciapiedi.

--Mio caro, mio caro, se non ti farai vedere io morirò.

--Ci sarò, tesoro.

La grossa figura scivola fuori della porta, saltella a passettini dietro

il cane che tira il guinzaglio. Lui la segue con gli occhi da dietro la por-

ta semichiusa finché può, quindi torna sopra di corsa, a guardarla dal-

la finestra.

Il cane si ferma. La figura sotto il cappellone aspetta con pazienza.

Camminanounaltropoco,dinuovosifermano.--Dannatocane!--Im-

preca lui, sudato dall'ansia. Finalmente, tra passettini e fermate, a tap-

pe quasi impercettibili lei gira intorno all'angolo e lui non la vede più.

Ora i suoi occhi sono fissi sul tassì immobile. Lei è scomparsa anche

dalla loro vista. Se hanno qualche sospetto, se si mettono in moto per

seguirla...

Scorrono i minuti lenti e tesi. Lei ormai dev'essere abbastanza lon-

tana e quelli non si sono mossi. Ormai Nova dovrebbe essere sana e

salva in tassì, in corsa verso la stazione. Quindici minuti dovrebbero

bastarle ampiamente, anche considerando il traffico e i semafori. Ce

l'hanno fatta!

Siede e fuma, aspetta pazientemente. La grassona è ancora lì con

lui. Per lei è un romanzo con la R maiuscola, lo assapora con più deli-

zia di una scatola di cioccolatini.

Ma di colpo, prima quasi che lui se ne accorga, ecco che sono passati

diciassette minuti e lei non chiama, e la sua calma lo abbandona a

ogni boccata di fumo che esala.

Venti minuti. Butta via la sigaretta, passeggia nervosamente su e

giù per la stanza.--Dovrebbe aver già telefonato, a quest'ora--dice.

--Già--assente la grassona.--Non ci vuole tanto ad arrivare alla

Northwest Station da qui.

Venticinque minuti. Mezz'ora.--Forse il telefono è guasto.--Ma

no. Lui scuote il pugno verso l'apparecchio, arde di rabbia impotente.

Adesso balza verso la porta come un leone incollerito. Da una parte

della sua faccia c'è una striatura di sudore.--Non avrei dovuto la-

sciarla andare da sola... accidenti a me! Qualcosa è andato male. Non

ce la faccio più!--dice con voce strozzata.--Vado da lei...

--Ma come farete a...

--Spiccherò la corsa e sparerò se cercano di fermarmi.--E si pre-

cipita fuori, con la grassona che gli ripete sollecita:--Resto io qui. Se

lei chiama. Le dirò che state andando...

Attraversa il vestibolo con due ampie falcate, si getta contro la porta

come un centrattacco impegnato in un'azione. E il modo migliore.

Tiene la pistola in tasca: pronta, impugnata. Sparerà attraverso la fo-

dera se necessario. Sbatte da parte il battente senza rallentare e corre

lungo la parete dell'edificio, testa e spalle abbassate.

Era dawero il tassì. Non ne proviene alcun suono, almeno non da

tanta distanza, solo un lieve fumo azzurrino vi si diffonde intorno; po-

trebbe essere quello dello scappamento se il motore fosse acceso. Lun-

go la parete che sta costeggiando lo seguono lunghe file di schizzi...

polvere e frammenti di muro... ognuno mezzo metro dietro di lui, col-

pendo il posto dove si trovava un secondo prima. Ma non lo raggiun-

gono mai.

Svolta l'angolo incolume, si gira fulmineo, spara un colpo contro il

tassì ora come aureolato di nebbia. Ha messo in moto, si sta allontanan-

do dal marciapiedi. Un tintinnio di vetri: probabilmente ha colpito il

parabrezza. Vede la macchina oscillare come ubriaca e pensa che forse

la pallottola ha danneggiato anche qualche altra cosa oltre al vetro.

Quindi spicca la corsa lungo la strada senza aspettar di vedere altro.

In vista non c'è nulla che possa essergli di aiuto... un camion che avan-

za lentamente, il furgone di una lavanderia. Ma la musichetta di una

radio si sente da qualche parte dietro l'angolo: la radio di un tassì? Ci

arriva in volata, si precipita all'interno e mette in moto il tutto quasi

nello spazio di due sole note della canzone. E al volanté lui stesso.

Il guidatore sbuca costernato dal retro con in mano delle carte da

gioco, strilla:--Ehi! Che le piglia?

--Se non le va, si arrampichi davanti e guidi lei. Ho fretta, non ave-

vo tempo di abbassare la passerella.

--E questi altri?

Nel retro del tassì ci sono altri due o tre autisti che lui ha rapiti men-

tre giocavano a carte.

--Gli facciamo fare un giretto.--A distanza di due isolati l'altra

macchina è apparsa e sta accelerando. Mentre il guidatore gli si ar-

rampica in grembo, O'Shaughnessy lo ammonisce:--Quell'altro tassì

là dietro non deve accostarcisi. Faccia quello che vuole, vada a zigzag,

voli, ma non lo lasci avvicinare! O ci rimetterà le gomme.

L'altro è allarmato.--Che ha combinato? Non mi piace questa fac-

cenda!--Ma esegue una curva che quasi li fa cappottare.

Una serie di altre curve da capogiro e una combinazione di semafori

in loro favore... è certo che la zampa di coniglio sta facendo gli straor-

dinari... e si sottraggono dawero all'inseguimento.

Mancano dodici minuti e mezzo alla partenza del treno quando lui

balza giù dal tassì alla Northwest Station, getta una banconota da cin-

quanta nel finestrino e si tuffa all'interno.

Lo fermano alla barriera.--Biglietti, prego!

--Non ne è stato lasciato uno per me?

--No.

--Allora mia moglie deve esserseli portati tutti e due in treno. L'ha

per caso vista? Una bella bionda con un gran cappello...

--A me le bionde sembrano tutte carine, oggi almeno non ne ho vi-

sta una brutta.

--Fratello, la sua vita amorosa non mi interessa, tutto quello che

voglio è andare a vedere se posso trovarla...

--Ehi, tornate indietro!

Oh, I'agonia di quel selvaggio precipitarsi a capofitto in un vagone

dopo l'altro gridando invano.--Nova! Nova!--Nessun segno di lei.

Si precipita sopra di nuovo, a un chilometro al minuto, buttando qua-

si a terra l'impiegato per la seconda volta. Otto minuti al treno, ora.

Allo sportello dei biglietti:--Due per la Costa... O'Shaughnessy...

sono stati ritirati?

--No, eccoli qui che la stavano aspettando.

Non li ha ritirati ! Allora non è mai arrivata qui ! Sette minuti per tro-

varla, in quella maledetta città! Di nuovo fuori della stazione si guarda

attorno, non sa che fare. Sgomento e pericoloso... eppure impotente.

Pronto a fare qualunque macello, ma ignorando da dove cominciare.

Istintivamente tocca, com'è sua abitudine, la zampa di coniglio. Ed ec-

co, come il genio evocato dalla lampada di Aladino, un fattorino dal

berretto rosso gli si accosta. Uno fra i molti che dardeggiano qua e là

nella stazione, ma quello giusto, proprio quello giusto fra tutti!

--Tassì, capo?

_ No. Un momento, ragazzo. Una signora bionda con un gran cap-

pello... hai visto una persona del genere arrivare qui nell'ultima mez-

z'ora?

_ Aveva un cagnolino tutto ricciuto?

--Sì ! Sì!--Afferra il fattorino per le spalle .--Dimmi che ne è stato

di lei, per amor di Dio!

Il ragazzo ride.

--Le è successo un guaio, poveretta. Aveva dimenticato a casa i sol-

t di per il tassì e il conducente non ha voluto sentir ragioni. L'ha presa

per un braccio e l'ha portata al posto di polizia.

--Quale?

_ Quella della stazione, credo.

Ed è là che la trova quando fa irruzione due minuti dopo, seduta su

una panca sotto l'occhio del sergente di servizio, cane e tutto. C'è an-

che il tassista.

--Abbiamo cercato di metterci in comunicazione con lei, giovanot-

to.--Il sergente si schiarisce la gola con aria di complicità, gli strizza

I'occhio, gli fa capire che non lo metterà nei guai. La moglie che parte

in vacanza, un'altra donna che risponde al telefono: lui capisce.

--Non ci siamo riusciti.

t --Quanto devo? Abbiamo il treno in partenza.

--Due dollari e venti--dice il tassista.

--Ecco. Tenete il resto per il disturbo

Eccoli di nuovo correre all'entrata della stazione, sbarazzati del ca-

ne e dei cuscini. Hanno tre minuti. Lui non si accorge che proprio in

quel momento sta accostando al marciapiede un tassì dal parabrezza

~ fracassato.

t ~ Non c'è bisogno di essere lettori del pensiero perché quelli capisca-

' ~ no che direzione prenderanno le loro prede. Se intendono scappare

dalla città, andranno a una delle stazioni. Così prima hanno perlustra-

to quella di La Salle Street, ora sono arrivati a questa.

Lui la trascina attraverso l'immenso atrio a volta a tutta velocità.

r Un urlo improvviso dietro di loro:--Eccoli!--Cinque uomini li inse-

guonO, uno con una benda insanguinata intorno al capo.

~j~ O'Shaughnessy non osa parlare, la stazione è piena di gente. Neppu-

re i loro inseguitori DosSono, Però: non perché si preOcCuDinO di colPi-

re qualcuno che non c'entra, ma perché stanno correndo troppo in

fretta per mirare. Un facchino viene buttato da una parte, uno dei pi-

stoleri inciampa nella valigia che quello ha lasciato cadere, ruzzola

sul pavimento lucido eseguendo una magnifica capriola. Sulle loro te-

ste gli altoparlanti tuonano:--Coast Limited: Kansas City, Denver,

Salt Lake City, San Francisco, in carrozza.

Lui la spinge attraverso la barriera che si sta chiudendo, getta i bi-

glietti all'impiegato. Uno sparo e si vede la figura in uniforme ripie-

garsi in due: pure l'impiegato ancora tenta di tener chiusa la barriera.

Succede un putiferio: urla, gente che corre, poliziotti della stazione

che convergono agitando i manganelli. Ma una figura è sgusciata via

dalla confusione, li segue di corsa, la pistola in mano. Tereshko.

O'Shaughnessy la issa in un vagone.--Prendi posto, bambina. So-

no con te fra un minuto.--Il treno sta già sussultando.

La pistola di Tereshko fa fuoco, la pallottola porta via la L di El Do-

rado, il nome della carrozza scritto a lettere d'oro e che scivola pian

piano dietro le spalle del pilota. Tereshko non ha la possibilità di spa-

rare un'altra volta. O'Shaughnessy gli è sopra d'un balzo, avventa un

pugno che incontra a metà strada la mascella dell'altro mentre si pre-

cipita verso il treno. L'uomo cade di schianto sulla piattaforma. La pi-

stola gli cade di mano.

O'Shaughnessy gli rivolge un saluto burlesco.--Ho un treno da

prendere, se no ti avrei conciato davvero!--Si volta e afferra il corri-

mano del penultimo vagone, si issa a bordo. Tereshko fissa con occhi

annebbiati il Coast Limited che si allontana.

O'Shaughnessy si lascia andare, un po' stanco, sul sedile accanto a

Nova. Apre le braccia, lei gli si abbandona sul petto, lui la stringe con

protettività feroce:--Tu sei la mia ragazza, per sempre. Che si provi-

no a toglierti a me!

Pochi minuti dopo che il suo Bellanca ha baciato la pista dell'aeropor-

to municipale di Shanghai, O'Shaughnessy è già al telefono e chiede

del Broadway Mansions, il residence dove abitano lui e Nova. Sono

sette settimane che manca dalla città, sette settimane trascorse sulle

montagne rosse dello Szechuan, il "selvaggio west" della Cina, pilo-

tando intorno il grande generale Yang, buttando per lui qualche bom-

ba e trasportando nell'interno parti di mitragliatrici da Ichang, dove i

trasporti fluviali s'interrompono.

Non è un ufficiale o un combattente nell'esercito di Yang, no: solo

un pilota mercenario che rischia il suo apparecchio e il suo collo, pa-

gato in dollari americani e che si prende una licenza di tanto in tanto.

Come ora. Sette settimane è un sacco di tempo.

E ancora vestito della tuta sgualcita e sporca, nera di grasso con la

quale è partito, ma sotto porta una cintura rigirata due volte intorno

al petto e una volta intorno alla vita, imbottita di belle aquile d'oro

solide aquile sostanziose, non più di corso legale a casa, ma buone co-

me sempre in tutte le altre parti del mondo. Quindicimila dollari; il

suo salario di duemila dollari alla settimana e una gratifica di mille

dollari per aver liquidato un carro armato il cui aspetto era antipatico

a Yang. Niente male, un salario di duemila la settimana. Ma sette set-

timane è un sacco di tempo, da qualunque parte lo si consideri.

La voce di lei gli risuona all'orecchio vibrante di ansia. Ogni volta

che il telefono suonava, Nova sperava che fosse lui... ora finalmente è

lui davvero.

--O'Shaughnessy.--Un poema d'amore in una parola. Lei spesso

lo chiama cosi.

--Sono appena atterrato e porto con me quindicimila dollari di eli-

sir di lunga vita. Apri la doccia, tirami fuori lo smoking e preparati per

le celebrazioni!

Si trattiene appena il tempo di veder sistemare il suo aereo come si

deve, poi acciuffa un tassì all'entrata dell'aeroporto.--Il quartiere

bianco. In fretta.

--Certo, capo--sorride il guidatore. Shanghai è più sofisticata di

Chicago.--Salti dentro.

La città è cambiata dall'ultima volta che ne è partito, lo sente nel

momento stesso che arrivano in periferia, attraversano i congestionati

quartieri dei nativi e passano il ponte al di là del quale c'è il quartiere

bianco. Shanghai si sta preparando per la sua distruzione, senza sa-

perlo. E una città che danza sull'orlo della tomba. Nell'aria c'è una

tenSione elettrica, mai si è vista intorno tanta gaiezza, tanta eccitazio-

ne. Le strade che convergono nel Bund sono uno sfolgorare d'insegne

al neon vistose, accecanti, che alternano gli ideogrammi ai caratteri

latini a vista d'occhio. Ingorghi di traffico a ogni incrocio, vigili che

sofffiano nei loro fischietti, marciapiedi affollati, l'urlo dei sassofoni

~ dai locali notturni, e nel cielo le febbrili stelle d'oriente e i riflettori in-

r~ crociati delle navi da guerra ancorate nel Whang-poo. E la città giu-

sta, la notte giusta per avere la più bella ragazza del mondo e quindi-

cimila dollari tutti in una volta.

Davanti a una gioielleria di lusso lui dice:--Ferma un momento.

Balza dentro, esce con un solitario in tasca.

Il grattacielo del Broadway Mansions gli sta davanti. Lui conta le fi-

nestre fino al decimo piano, ne conta tre dall'angolo. Illuminate, in at-

~tesa di lui. Butta all'autista cinque dollari.

L'ascensore sembra strisciare, lui avrebbe voglia di saltarne fuori e

spingerlo. Una coppia inglese guarda con disapprovazione la sua tuta

sporca. Il ticchettio dei passi di lei dall'interno si confonde con la lun-

ga falcata di lui nel corridoio.

--Riconoscerei i tuoi passi anche con un tampone nelle orecchie!

--Sta' attenta, ti macchierai di grasso da capo a piedi.

Entrano abbracciati, parlando insieme.--Pensavo che non tornassi

mai, stavolta!

--Diamine, come ti sei vestita in fretta. Ti trovo già pronta per usci-

re.

In realtà non lo è, sono i guanti che lo traggono in inganno. Lei porta

uno scintillante abito d'argento, lunghi guanti bianchi, ma è in panto-

fole. E ha ancora i capelli sciolti.

Lui ride.--Ma come, ti metti i guanti prima delle scarpe?

Un'ombra le oscura il viso per un istante, ma subito lei si rischiara,

arrossisce.--Oh, saperti finalmente tornato mi ha così scombussola-

ta...

Lui fa la doccia in fretta, salta nello smoking. La sorprende proprio

nel momento che lei sta litigando con un paio di scarpine d'argento...

appena in tempo per afferrare l'espressione agonizzante che sbianca

quel viso così bello. Ma eccolo ridiventare immediatamente sereno.

--Che c'è... troppo strette? Mettine un altro paio.

--No, no, non è questo, mi vanno bene. E solo che ho i piedi un po'

gonfi, fa tanto caldo.

Lui abbandona l'argomento. --Suvvia, dove vogliamo andare?

Astor House, American Club, Jockey Club?--Di nuovo ride quando la

vede inondarsi di costoso profumo, vuotandosi letteralmente addosso

la bottiglia.--Oh, a proposito, forse sarà meglio che ci trasferiamo da

un'altra parte. In questa casa ho l'impressione che ci siano dei proble-

mi con le fognature, si sente un odore strano qui dentro... come di pu-

trefazione...

Ora per un fuggevole istante il viso di lei è stravolto dall'espressione

disperata dei condannati. Nova gli si aggrappa al braccio con selvag-

gia urgenza.--Andiamo, andiamo. Usciamo, caro. E una notte così

bella e tu sei di nuovo qui con me e... Ia vita è tanto breve!

L'atmosfera di tensione elettrica che pervade la grande città sull'or-

lo dell'abisso è più percettibile che mai nel cabaret tenuto da russi

bianchi dove vanno a finire. Si chiama, non del tutto incongruamente,

New York. Infatti non pare per nulla di essre in Cina. Una bionda pla-

tino dagli occhi a mandorla ha appena finito di guaire, con un accento

da Mott Street, I'ultimo successo di Broadway.

O'Shaughnessy riconduce Nova al tavolo scusandosi:--Lo sapevo

di non essere proprio tagliato per ballare, ma non credevo di essere un

tale disastro finché non ti ho guardata in faccia poco fa. Avevi un'e-

spressione come se stessi sul cavalletto di tortura. Perché non me l'hai

detto, bambina...

--No, non eri tu, caro...--ansima lei fievolmente.--Sono... sono i

miei piedi che mi stanno uccidendo.

--Però ho qui qualcosa che ti guarirà. Ci siamo visti poco ultima-

mente, signora O'Shaughnessy, ma ora che sono tornato... vedrai co-

me apprezzo la mia splendida moglie.--Tira fuori di tasca il solitario

da tremila dollari, glielo mostra.--Togliti il guanto, tesoro, e fammi

vedere che figura fa questo faro sulle tue belle dita...

Il viso di lei è una livida maschera di angoscia. Lui le prende la de-

stra.--Su, togliti il guanto.

Il gesto fulmineo, terrorizzato con cui lei gli sottrae la mano la tra-

disce. Il sorriso si cancella lentamente dalle labbra di lui.--Che suc-

cede... non vuoi il mio anello? Stai cercando di nascondere qualcosa,

con quei guanti? Li portavi quando ti sei pettinata, li portavi perfino

quando hai messo la cipria... Che c'è sotto? Toglili, lasciami vedere.

--No, caro, no!

La voce di lui si fa dura.--Sono tuo marito, Nova. Sfilati quei

guanti e laciami vedere le tue mani.

Lei si guarda intorno agonizzante.--Non qui, amore mio! Oh, non

qui !

I singhiozzi le lacerano il petto mentre cerca di tirarsi via un guan-

to. Ha gli occhi brucianti di supplica.--Soltanto un'altra notte, dam-

mi soltanto un'altra notte...--sussurra con voce rotta.--Ripartirai

di nuovo da Shanghai tra così poco tempo! Non guardarmi le mani,

caro, se mi amn..

Il guanto scivola finalmente, cade sul tavolino e di colpo lui sente un

gelido orrore penetrargli il cervello, batterlo, sconvolgerlo, annientar-

lo. L'impatto spietato lo fa barcollare sulla sedia, tanto che deve ag-

grapparsi ai braccioli per resistere alla vertigine.

O_uello che vede è un artiglio... due delle dita hanno le estremità già

denudate di carne fino alla seconda falange; ad altre due non ne aderi-

Scono che pochi brandelli avvizziti, esangui, putrescenti. Solo il polli-

ce è intatto, ma ha già un aspetto malsano, gonfio e floscio. La mano di

un cadavere, la mano di uno scheletro... su un corpo vivo. Un corpo

che solo poco fa era tra le sue braccia, sulla pista da ballo.

Un odore nauseante, la puzza del decadimento, della tomba, avvol-

ge ora i due.

Una donna indica la cosa dal tavolo vicino, urla. L'ha vista. Si na-

sconde la faccia, si rifugia contro la spalla del suo compagno, rabbrivi-

dendo. Ecco che anche lui la vede e di colpo il colletto della camicia

pare essergli diventato troppo stretto.

Anche altri vedono, a uno a uno. Una nube di terrore impalpabile

sembra spandersi all'intorno, dalla cosa orribile che giace lì, in piena

uce, sul tavolo di O'Shaughnessy... Io scheletro alla festa!

Smarrita lei mormora in quel silenzio sgomento:--Volevi che met-

tessi il tuo anello caro...--e lo fa scivolare sull'osso denudato che

sporge come una protuberanza nodosa dalla sua mano. L'anello è len-

to, scivola alla base della cosa e vi rimane appeso, rutilante di baglio-

ri. Un orrore inconcepibile, quel brillante sul dito di uno scheletro.

L'ipnosi si spezza; forse è lo scintillio dell'anello che provoca quel-

l'effetto, liberandolo, restituendolo a una sembianza di controllo su se

stesso. E così colposo e reale, così fuori posto. Non può parlare ma di

colpo afferra Nova, I'attira a sé, le loro sedie si rovesciano, le coppe di

champagne s'infrangono sul pavimento. Con un lembo della giacca lui

avvolge e nasconde la cosa che è stata la sua mano, se la stringe al pet-

to, trascina via la donna avvolgendola della protezione del suo brac-

cio. Passano lasciandosi dietro il bagliore di un abito d'argento, un ali-

to di gardenia, un soffio di decomposizione. La morte è stata portata

via da quel luogo dove i viventi si divertono. L'anello scivola dalla

scheggia d'osso insufficiente a trattenerlo, rotola dimenticato a terra.

--Non così in fretta, caro--ansima lei.--Anche i miei piedi... sono

così. E le ginocchia.

Dopo, nel tassì che sfreccia attraverso le ironiche costellazioni che

un'ora prima erano il Bund, lei dice:--La vita è stata bella, comun-

que, finché è durata. Solo starti vicina è stato... è stato tutto per me.

Lui ripete ciò che ha già detto una volta:--Nessuno ti toglierà mai

a me, nessuno!

Il medico inglese dice:--Mi pare che non sia niente di buono, sa

vecchio mio...

O'Shaughnessy ringhia qualcosa tra le labbra livide.

Il medico tedesco dice:--Non ho mai visto nulla di simile. Questo

caso diventerà sensazionale!

--Il caso magari sì, ma che ne sarà di lei? Questo m'interessa!

--Caro signore...

--Ho capito. Mandatemi la parcella.

Il medico americano dice:--C'è un'infima possibilità... quella che

voi chiamereste mille a uno... che l'olio di chaulmoogra possa farle be-

ne.

--Ma non avevate detto che non era lebbra?

--Non lo è infatti. Forse è un'oscura malattia cinese di cui nessuno

di noi ha mai sentito parlare. Sembra che lei stia diventando un cada-

vere vivente. Gli organi intemi sono intatti, per ora, lo dimostrano gli

esami; è la muscolatura esterna che si sta decomponendo. Se il proces-

so continua... e pare che non possiamo far niente per fermarlo... ci ri-

troveremo con uno scheletro vivente! Allora, però, naturalmente lei

morirà.

Il medico francese... i francesi sono tipi razionali e quindi buoni dot-

tori... dice:--M'sieu, temo che i miei colleghi non abbiano considera-

to la cosa dal giusto punto di vista...

Il viso sciupato di O'Shaughnessy s'illumina.--Cosa può dirmi?

--Solo questo: non c'è speranza. Sua moglie è perduta. Se è un uo-

mo compassionevole... noti, non le do questo consiglio come medico

ma da marito a marito... vada in una fumeria d'oppio di Chapei, ne

compri una quantità sufficiente e...

O'Shaughnessy risponde con voce soffocata:--Non sono uno che si

dà per vinto. Non voglio abbandonare la partita.

C'è una grande pietà negli occhi del medico.--Vada a Chapei, mon

ami. Ci vada stasera. Lo dico per amore della sua sanità mentale. Che

non resisterà alla vista di ciò che si presenterà ai suoi occhi tra qual-

che settimana.

Il pilota pronuncia due volte il nome di Dio, si nasconde il viso col

braccio ripiegato. Il francese gli mette una mano sulla spalla.--Mi

rendo conto di ciò che ha tratto in errore gli altri. Hanno cercato una

malattia dove non esisteva malattia alcuna. Lei non è malata, è lo sta-

to stesso della morte che la possiede. Come dire? Quella carne che si

va decomponendo, che imputridisce, è paradossalmente tessuto sano.

Il microscopio non mente. Vede è come quando una persona viene uc-

cisa, diciamo, da una pallottola. Per tutto il resto è sana, no? Pure gia-

ce nella tomba e la natura dissolve la sua carne. Ecco quel che abbia-

mo qui: l'effetto senza la causa...

Dopo qualche tempo O'Shaughnessy scopre la faccia, si alza, si av-

via lento alla porta.--Lei almeno è onesto--dice.--Bene, la scienza

medica mi assicura che è come se lei fosse già morta. Ma io non mi ar-

rendo. C'è ancora un modo.

Il dottore fa una spallucciata, sfiduciato.--Quale? A che modo pen-

sa? A Lourdes?

--E un modo spaventoso--risponde lui--ma ora è l'unico.

Barcolla fuori nel sole smagliante, erra senza meta, sprofondato nel-

la sua disperazione. E a un certo momento si trova a tremare da capo

a piedi, improvvisamente.

Paura. Di nuovo ha paura, per la pirma volta da quando era un ra-

gazzino. Prova quella paura che aveva creduto di non poter conoscere

mai più. Quella paura che nessun'arma, nessun pericolo, nessun cata-

clisma naturale sono stati capaci d'ispirargli fino a questo momento.

Eccola ora che gli scorre gelida per le vene nell'afa pomeridiana. Pau-

ra per la donna che ama, l'unica paura che possa sgomentare total-

mente un uomo coraggioso.

Paura del modo, il modo di cui ha parlato al dottore. Paura di ciò

che esso implica. Alle sue orecchie risuona ancora la voce folle, urlante

nelle tenebre:--Tornerete da me strisciando, a supplicare perché vi

aimi! Quella sarà la mia rivincita!

E la sua risposta! Oh, non è la certezza che la sua vita farà parte del

prezzo che gli verrà richiesto a farlo tremare; né qualunque orrore,

qualunque tortura che la mente di un pazzo possa escogitare d'inflig-

gergli per vendicarsi. Lui è pronto a sopportare tutto col sorriso sulle

labbra per dare a lei un'ora, un giorno, una settimana di vita in più.

Ma teme ciò che verrà dopo, ciò che lei dovrà affrontare sola, senza di

lui. La barriera di filo spinato che la imprigionerà con un maniaco,

che la terrà rinchiusa come un animale in gabbia dopo che lei ha cono-

sciuto il mondo. Meglio se l'avesse lasciata lì come l'aveva trovata...

Ma il modo è quello e non ne esistono altri. E una volta raggiunta la

decisione il tremore lo abbandona. Non vaga più senza meta. Può

guardare in faccia il destino senza paura.

Ha in tasca i biglietti del piroscafo, quando torna al Broadway Man-

sions. Su tutto il corridoio, dall'ascensore alla porta del loro apparta-

mento, indugia pesante una nuvola di profumo... per nascondere un

odore molto diverso.

Lei è distesa sul letto, sostenuta da cuscinit e una cameriera cinese

le fa vento. Lui sobbalza, si arresta sorpreso. Il folle tempo del suo sbi-

gottimento sembra esser tornato indietro a quella terribile notte,

quando lui era arrivato dalle montagne dell'interno... e non sapeva

nulla ancora. Perché lei è bellissima come sempre ma anche compo-

sta, serena, quasi sorridente, cancellati i segni che la coscienza della

fine orribile le aveva incisi sul viso.

--E arrivata la maschera.--Dice lei con voce lievemente risonan-

te. E quella che porta e che lui vede: una riproduzione perfetta dei suoi

lineamenti, cesellata da un abilissimo artigiano cinese dietro richiesta

di lei. Ha implorato terrorizzata che gliela facesse fare prima che il

suo viso diventasse irriconoscibile. Non per se stessa, ma per l'uomo

che ora è lì e la guarda... I'uomo al quale la vita e l'amore hanno sorri-

so e al quale la vita e l'amore, e il sorriso insieme, sono stati strappati.

Con un gesto lui accenna alla cinese di uscire.

Quando sono soli Nova chiede, indifferente come se volesse sapere

che tempo fa:--C'è speranza?

--Non qui.--Non è la prima volta che la domanda e la risposta si

ripetono, quindi non c'è più trauma.

Lui vede un sacchetto di tela pesante sul comodino accanto al letto.

--Cos'è?

--Un altro agente di Yang è venuto mentre eri fuori. Ha lasciato

dell'oro per te, e insieme la minaccia appena velata che il tuo té sarà

molto amaro se non ti ripresenti subito. Credono che tu voglia pian-

tarli. Meglio che torni da loro, carissimo.

--Neanche per sogno, tesoro. Ho venduto l'aereo. Torniamo negli

Stati Uniti. Ti riporto da Denholt.

Lei rimane in silenzio molto, molto a lungo. Lui la vede rabbrividi-

re, irrefrenabilmente sotto la pesante vestaglia di broccato, come era

successo anche a lui nella via assolata.

Le siede accanto.--Nova, ormai sei con me da quasi un anno. Hai

conosciuto tante ragazze della tua età, sai che nessuna di loro ha im-

parato a parlare e a camminare tardi come te. Evidentemente a te è

accaduto qualcosa di grave, e un solo uomo al mondo sa che cosa sia e

come rimediarvi. Quelle iniezioni... non capisci ora che lui con quelle

ti manteneva in vita? Non abbiamo alternative: dobbiamo tornare da

lui e avere il suo siero.--Amaramente tira fuori una valigia e l'apre.

Aggiunge:--Non fui così furbo come credevo allora. Avrei dovuto sa-

perne di più. E questo che ci ha sconfitti...

Discendono il Whangpoo fino allo Yangtse, fino al Mar della Cina.

Ormai la loro è una corsa contro il tempo, una corsa contro la morte. E

le probabilità paiono tutte contro di loro. Hanno da valicare il più

grande oceano della terra, quindi un intero continente da ovest a est.

Ci vorranno come minimo tre settimane. Potrà lei sopravvivere tanto

a lungo per pura forza di volontà? O hanno aspettato, come sciocchi,

finché non è stato troppo tardi? E poi, come possono esser sicuri che il

soccorso li attenda alla fine del lungo viaggio, perfino il soccorso che

ambedue temono tanto? Forse Denholt se n'è andato: e come ritrovar-

lo in tempo? O la sua pazzia può averlo sopraffatto. Forse in quello

stesso istante lui è stretto in una camicia di forza, il suo cervello anda-

to. Sì, le probabilità a loro favore sono ben poche. Ma... almeno esisto-

no.

Lei è allungata su una sdraio sul ponte, avvolta fino al mento in pe-

santi coperte; il bellissimo viso della maschera tra i capelli d'oro non

sorride mai, non è mai triste, non cambia. Solo gli occhi sono vivi, e la

voce. Lui segue sulle carte il loro progresso quotidiano. Torna a fare i

calcoli cento volte al giorno, pregando di poter avanzare di qualche

millimetro la linea in inchiostro rosso che segue il percorso del piro-

scafo.

Kobe. Cattive notizie. Un giornale anglo-giapponese si è impadroni-

E to della loro storia e l'ha stampata. Deve averla pescata da indiscre-

zioni circolanti a Shanghai. La paura di lei emerge perfino attraverso

la maschera.--Ecco. Lo sanno. "Bellissima donna in preda a una

morte vivente. Il primo caso al mondo di simile male. Il marito la sta

portando a casa..."

~ Un lungo singhiozzo profondo.--Non vedi? I giornali americani se

F~ ne impadroniranno, seguiranno la nostra storia minuto per minuto, le

E daranno la massima pubblicità. E c'è il tuo nome. Queui che volevano

farci del male sapranno che si tratta di noi, sapranno che stiamo tor-

nando indietro. Aspetteranno che sbarchiamo, poi... non ce la faremo

mai, mai. Oh, caro, torniamo indietro! Lasciami morire in Cina... che

~_ differenza fa? Ti ho già provocato abbastanza dolore, non lasciare che

S io sia causa di...

Lui la prende fra le braccia, la tiene stretta.--Sembra proprio che

tu non abbia una grande stima della mia abilità a prendermi cura di

noi due.

Involontariamente lei tende una mano per carezzare il viso chino

sul suo; ma subito ricorda e lascia ricadere l'artiglio inguantato.

Passano i giorni. La storia si è sparsa ora, e il piroscafo è un alveare

ronzante di curiosità. La gente trova tutti i pretesti per accostarsi alla

sdraio di lei, per passarvi davanti in modo da potersi poi voltare e

sbarrare gli occhi. O'Shaughnessy sente due uomini scommettere che

lei non raggiungerà viva San Francisco. Un pomeriggio Nova cerca di

fumare una sigaretta per tenerlo un po' su. Aspira attraverso le labbra

della maschera, il fumo esce dall'attaccatura dei capelli, dalle tempie,

da sotto il mento. Un cameriere a quella vista lascia cadere un vassoio

di bicchieri pieni. Dopo di ciò lei non si muove più dalla cabina.

Tremila anni dopo sono a Honolulu. Collane di fiori e mandolini sul

ponte, nella cabina in penombra un essere muto e immobile, saturo di

profumi, coperto di fiori freschi come se fosse già nella bara. E troppo

doloroso oramai forzare i piedi scarnificati a reggere il peso del corpo

per più di pochi istanti alla volta, anche se sono awolti in bende. I

giornalisti cercano di forzare l'ingresso per vederla. O'Shaughnessy

deve usare i pugni per tenerli a distanza.

Di nuovo in mare per l'ultima tappa del viaggio. Talvolta lui si chi-

na su Nova, le sussurra come l'allenatore di un pugile sfortunato che

ha concluso la ripresa in svantaggio:--Puoi farcela. Solo un altro po-

co, tesoro. Fallo per tuo marito.--Talvolta a notte alta sale sul ponte

e scuote il pugno chiuso... a che? Al piroscafo, all'oceano sconfinato,

all'orizzonte che non si avvicina mai, alle stelle indifferenti?

La zampa di coniglio gli è rimasta praticamente in mano per tutto il

viaggio. E ormai completamente spelacchiata dallo strofinio del suo

pollice, che ha sviluppato quasi il tic di ripiegarsi verso il palmo muo-

vendosi come a carezzare qualcosa.--Ce la faremo, io e te--sussurra

lui, torvo, al suo portafortuna.

Finalmente San Francisco. Gettano l'ancora nella baia... ce l'hanno

fatta! Tutti e tre, lui, lei e la mascotte. Dietro la maschera risuona an-

cora una voce: debole, senza fiato ma viva. E sono ancora vivi gli occhi

nella doppia cornice delle ciglia, quelle vere e quelle artificiali.

Lui ha telegrafato dalle Hawai per fissare un aereo, che ora è pronto

e lo aspetta all'aeroporto laggiù a Oakland. Riesce a far passare Nova,

distesa in una barella, attraverso la massa solida di giornalisti che si

accalcano sui ponti, giù per la passerella, mentre i flash lampeggiano

intomo a loro come costellazioni. La solleva e la porta in un'automo-

bile in attesa davanti alla dogana, e ancora i giornalisti sono intorno a

loro come un branco di segugi latranti. C'è solo un uomo che non lo

mitraglia di domande, non dice una parola... lancia solo una lunga oc-

chiata al bellissimo viso sul corpo avvolto nel bozzolo di coperte che

viene trasferito dalla barella alla macchina, e poi si tuffa nella più

prossima cabina telefonica. O'Shaughnessy non gli è abbastanza vici-

no da sentire che l'uomo fa una chiamata interstatale...

Ecco l'aereo, con un secondo pilota per darsi il cambio con lui. Sono

in volo verso est.--E non atterriamo né per la neve, né per la pioggia,

né per la nebbia, né se il motore ci pianta, finché non si arriva a Loui-

sville--dice O'Shaughnessy.

Per tutta la giornata sfrecciano nello spazio.--Ha quella mappa del

Kentucky che le ho chiesto di procurarmi?

Infine localizza la montagna, vi traccia intorno un grosso cerchio.

--Atterriamo qui, esattamente.

--Ma su quale pista? Ce n'è almeno una? Sarà buio molto prima

che ci arriviamo--protesta il secondo pilota.

--Atterreremo in quel punto-- è la risposta implacabile di

O'Shaughnessy--quando pure dovessimo far diventare questo aereo

una catasta di stecchini. Qui, verso l'orlo del cerchio, dove questa stra-

da secondaria si diparte dalla statale e sale verso ovest. E il punto più

vicino che possiamo raggiungere.

--Si metta in contatto radio con una delle città più vicine, fissi una

macchina che l'aspetti in quel punto, allora. Farà prima.

--Già, ha ragione--annuisce lui. Comincia a chiamare il capoluo-

go della contea.

Nova scuote la testa. Lui le si china accanto per sentire cosa vuole

dirgli.--Se indichi per radio il posto dove vogliamo atterrare... può

essere che tu lo faccia sapere anche a loro. E ci saranno addosso...

--Come possono batterci in velocità, a meno che non siano già nelle

vicinanze?

--Ma è questo il fatto, potrebbero esserci. Tu hai telegrafato da Ho-

nolulu e hai chiesto una carta di questa contea. Loro possono aver in-

tercettato il messaggio. E se ora si trovano nel raggio della nostra ra-

dio, sapranno in che punto esatto dovranno trovarsi.

--Ci si trovino e il diavoli li porti!--è tutto quello che lui risponde.

Manovra i pulsanti.--Pronto, Wellswille? Qui un aereo privato in vo-

~ lo verso di voi con a bordo un passeggero mortalmente malato. Abbia-

t~j rnO urgente bisogno di trasporto a terra...

Allò, qui Wellswille. Qui Wellswille. Non abbiamo comodità

~adatte al vostro caso.

--Non chiediamo un ospedale per il paziente. Ci serve solo un mez-

174 ~ 175

zo di trasporto. Voglio un'automobile nel punto dove la statale dician-

nove incrocia l'autostrada.

--Be'... non saprei.

--Avrà letto i giornali ultimamente--latra lui.--Io sono Penny

O'Shaughnessy!... Sì, sì quello della ragazza in preda alla morte viven-

te, se proprio vuole saperlo! Ora me la manda una macchina dove le

ho chiesto?

--Vengo io personalmente.

--Non vogliamo pubblicità, venga solo. Dovremmo esser lì per le

dieci. Inclini i fari verso l'alto per farci da guida, continui ad accender-

li e spegnerli a intervalli di due minuti, dovremo atterrare a buio pe-

sto. Se ce la facciamo senza trasformarci in frittelle, si tenga pronto a

partire istantaneamente. Non ci venga meno, una vita umana è in pe-

ricolo e questa è la sua unica possibilità.

Un'ora dopo il tramonto Louisville è un tappeto tempestato di pun-

tini luminosi, con lunghe linee occhieggianti che se ne dipartono in li-

nea retta come collane di perle scintillanti. Si dirigono a sudest, verso

il confine col Tennessee.

Alle nove avvistano una linea continua di punti luminosi, dritta co-

me una freccia. La seguono, volando ora così bassi che i fari di qualche

macchina in viaggio per l'autostrada sembrano sfiorare il ventre del-

I'aereo. E dopo trenta o quaranta minuti appare una lucciola nella

campagna buia. Si accende, si spegne, si accende, si spegne...

O'Shaughnessy afferra per le spalle Frazier, il secondo pilota, giubi-

lante.--Ha visto? Mi dia i comandi! A me riuscirà... niente può andar-

mi sbagliato ora!

Girano in una spirale sempre più stretta, si abbassano quasi a tocca-

re il tetto dell'automobile in attesa.--Si tenga forte!--esclama lui e

porta brevemente una mano alla tasca dov'è chiuso il suo portafortu-

na. La terra sale a incontrarli, liscia e nera come una lavagna. Un urto,

un sobbalzo, ancora un sobbalzo, un breve tratto di corsa sul carrello,

una frenata. Lui spegne il motore.

L'automobile che li aspetta ha abbassato i fari per far loro da guida. E

in un campo. Portando Nova a braccia, i due piloti vi si dirigono se-

guendo un sentiero di luce. Il guidatore scende, aiuta O'Shaughnessy a

sistemarla sul sedile di dietro. Ed ecco che una sagoma scura e immo-

bile appare un poco più su, ombreggiata dagli alberi che la nascondo-

no quasi completamente... si materializza come una seconda macchi-

na, ferma, oscurata, apparentemente deserta.

Frazier, che si è fatto da parte, di colpo grida:--Ehi, qui nel fosso

c'è il corpo di un tizio..

--Pigliatela calma, fratello--esorta una voce. Un lampo arancione

parte da un punto proprio dietro la prima automobile. Un'esplosione

infrange la quiete della notte, e il pilota si piega verso la strada come

se ci fosse una moneta e lui languidamente si chinasse a raccoglierla.

O'Shaughnessy non aspetta di vederlo cadere. Balza verso Nova,

vuole strapparla da quella macchina che è una trappola. Ma al di so-

pra del corpo di lei aleggia l'ovale sfocato di un altro viso, rivolto ver-

so di lui.

_ Neanche per sogno--dice una voce ironica.--Lei viene con noi.

si ricomincia da dove c'interrompemmo quella notte... e stavolta non

ci lasceremo imbrogliare!

Un secondo lampo balza ora verso O'Shaughnessy. Per un'infima

frazione di secondo il mondo intero pare immobilizzarsi. Poi si sente

la detonazione della pistola, un urto immenso lo squassa in tutto il

corpo come se fosse finito a capofitto contro un muro di pietra, e un

oceano di dolore lo inghiotte.

Una voce indistinta dice dall'ombra, mentre il suolo gli si alza velo-

ce incontro:--Finitelo voialtri! Ormai mi succede di non fidarmi più

che siano morti dawero, anche se sembrano proprio cadaveri!

Tre comete dardeggiano verso il corpo giacente a terra. Frammenti

di asfalto gli esplodono accanto alla tempia. Un ferro rovente gli tra-

passa il fianco, mentre qualcosa come una martellata gli percuote la

spalla. Sente la propria bocca aprirsi: forse tenta di dire qualcosa.

Da lontano, molto lontano, due voci lo raggiungono:--Hai sentito

E dove volevano andare?

--Sì, e pare proprio una buona idea...

Sopra di lui il motore ronzante scoppia in un ruggito, I'aria che cer-

ca di respirare gli viene sottratta, una nuvola di polvere e brecciolino

lo avvolge. Vede una luce rossa allontanarsi; ecco, ora è sparita. Lui è

solo, solo con il pilota che giace più lontano e un altro tizio che non ha

mai visto, al quale ha solo parlato per radio.

Vorrebbe tanto addormentarsi... morire... Io chiamano... ma non

può. Qualcosa lo disturba, lo tiene sveglio. Qualcosa che deve assolu-

L tamente ricordare. Non si tratta di Nova né del pilota, si tratta di

quell'altro tizio, I'estraneo.

Improvvisamente ricorda. Il tizio aveva una macchina. L'aveva por-

tata per lui. Adesso è morto, ma l'automobile è ancora lì, nascosta sot-

~ to gli alberi. L'ha vista con i suoi occhi.

E Deve arrivare a quella macchina. Lui magari sarà mezzo morto, ma

~- la macchina può portarlo dove deve andare. E deve andare da Nova,

dovunque essa sia.

F o Per prima cosa si rotola prono, e un mucchio di roba bagnata e cal-

da gli esce dalla spalla, dal fianco e dal petto. Questo gli fa capire che

il suo corpo è ancora vivo, perché duole come un accidente. Si butta

dalla parte sana, puntella a terra il braccio intatto che gli è rimasto

per utilizzarne la spinta.

E riusCitO a girarsi in cerchio e vede il tizio, poi il pilota, poi l'auto-

mobile. Comincia a trascinarsi in quella direzione. Sa bene che è inu-

tile tentare di mettersi in piedi.

Si ferma accanto al pilota, lo tocca, lo scuote un poco.

Frazier si muove appena, geme appena.

O'Shaughnessy si muove centimetro a centimetro verso l'automobi-

le. Si muove come un verme, contraendosi e raddrizzandosi, contraen-

dosi e raddrizzandosi; ma non come un verme sano, piuttosto come un

verme che qualcuno abbia schiacciato. Lascia dietro di sé una traccia

umida sull'asfalto.

E facile rizzarsi fino al predellino, ma arrivare attraverso chilometri

di sportello lucido alla maniglia è un'altra cosa. Ci riesce, chissà come.

Il finestrino è abbassato, per fortuna, una mano sulla cornice lo aiuta

a sostenersi. Si lascia cadere sul sedile.

La luce dei fari ora illumina in pieno i due corpi giacenti. La mac-

china traballa, sbanda, si raddrizza.

La corrente di aria fredda dai finestrini toglie un po' di ragnatele dal

suo cervello intontito. Ora sa dove quelli sono andati, dove seguirli.

"Hai sentito dove volevano andare?n ha detto la prima voce, e la se-

conda ha risposto che sembrava una buona idea.

Ecco finalmente il sentiero di terra battuta che s'interseca con la

strada e porta i segni del passaggio recente. Così ripido e pieno di cur-

ve è difficile da percorrere con un braccio solo a tenere il volante

La barriera di filo spinato ora corre da un lato della salita. Lui si

chiede se Denholt sia ancora dietro quel riparo. Ma ecco che vede la

cinta afflosciata a terra e una larga breccia al posto del cancello, e sa

come quelli abbiano fatto a entrare.

Entra anche lui, frena solo quando la loro automobile messa di tra-

verso gli blocca la strada. Al di là appare pallida la sagoma della casa.

Striscia fuori dal sedile, barcolla in avanti, si trova sotto il porticato.

Si aggrappa allo stipite della porta un momento. Non c'è nessuno di

guardia.

Non si sono neanche preoccupati di chiudere la porta, tanto sono si-

curi di aver lasciato tutti i possibili avversari morti laggiù, all'incro-

cio con l'autostrada. La luce bianca del laboratorio gli fa da guida. So-

no tutti lì; mentre si trascina sempre più vicino lui può sentirne le vo- ~

ci. Una è più alta delle altre, risuona stridula, minacciosa. 3

--Non venire a dirci che non sai cosa vogliamo! Perché quella bar-

riera di filo spinato e tutte quelle altre precauzioni se quel che cerchia-

mo non fosse qui? Perché questa ragazza, la Brown, correva qui a rot-

ta di collo con quel fesso che dice suo marito? E proprio il posto adatto

questo, altro che! E noi sempre a pensare che fosse in Florida! Tipico

del capo, davvero, andarsene in crociera da una parte per metterci su

una falsa traccia, e spedire i baiocchi dall'altra. Era furbo, non c'è che

dire, ne ha pensati un sacco di trucchi come questo. Ora fatti furbo tu,

idiota!

_ Nnr r' ~ n n~ l i, Non SO chi siate. cosa vo~liate, ma non c'è de-

naro qui. Solo... solo i risultati di una vita di... Per amor di Dio, state

attento!

La voce di Denholt. Già O'Shaughnessy è arrivato alla soglia e resta

Iì senza che nessuno lo noti. Gli voltano la schiena tutti, anche Nova

tenuta crudelmente ritta da due di loro. Solo Denholt lo fronteggia, lé

spalle al muro.

Anche da dietro lui riconosce una di quelle schiene: è Tereshko.

10

Vicino al suo braccio c'è un alambicco colmo di liquido incolore; I'ha

appena sfiorato col gomito facendolo traballare. Ma come Denholt

glielo indica, si china a guardarlo. La supplica frenetica ha su di lui

I'effetto opposto: si tratta di una cosa che quel vecchio pazzo ritiene

preziosa, quindi il suo impulso è di distruggerla immediatamente.

Con gesto deliberato la spazza via dallo scaffale.--Al diavolo la tua

robaccia! Tutto questo è solo una mascheratura chi credi di fregare?

L'alambicco s'infrange al suolo, il liquido si vérsa, si allarga, ormai

irrecuperabile.

Dalla gola di Denholt esce un grido strozzato, angoscioso. Il vecchio

balza contro di lui che ha distrutto il lavoro di tutta la sua vita. La pi-

stola di Tereshko esplode quasi con indifferenza, Denholt barcolla, si

piega lentamente in ginocchio come un penitente in preghiera.

Dopo un poco lo sentono mormorare:--Sì, è meglio così... ora.--

Si affloscia prono.

Ora è O'Shaughnessy a gettarsi contro Tereshko, e i quattro che gli

stanno dietro vengono sparpagliati dal suo assalto selvaggio. Nova

ora libera, sta per cadere; si sostiene al bordo della tavola operatoria. I

quattro si girano a guardare chi è il nuovo venuto e nella loro sbigotti-

ta incredulità dimenticano di usare le pistole. Tereshko cade all'indie-

tro, la gola serrata dal braccio dell'assalitore che con l'altra mano lo

Colpisce dove può, alla testa, alle costole.

~ La lotta dura ben poco: è troppo ineguale. I quattro si riprendono

r dalla sorpresa, gli si fanno addosso. I calci delle pistole piovono sul

corpo di O'Shaughnessy, gli farmo lasciare la presa, lo schiacciano a

terra.

Tereshko trema di rabbia.--Non lui ancora!--protesta, come con-

tro un'ingiustizia.--Accidenti, non fanno altro che morire e poi rial-

zarsi e rimettersi a camminare! Che diavolo, usiamo forse pistole ad

5 aCqua? O questi qui hanno tutti nove vite?

--Un momento!--E stata la maschera a parlare, e i cinque uomini

179

guardano stupiti il viso impassibile che li fronteggia. Se anche prima

non ha mai mentito, ora certo mente: così calma, così serena, per nul-

la turbata da una scena simile.--Che volete da noi... da me? Perché ci

braccate così? Che vi abbiamo fatto di male?

Tereshko sogghigna:--Tu sei la ragazza di Benedetto, no? Sei Jane

Brown, no? Lo dovresti sapere che vogliamo da te. Noi abbiamo fatto

il suo sporco lavoro per sette anni, e alla fine sei arrivata tu a papparti

il guadagno. Dove sono i soldi che lui ha accumulato in quei sette an-

ni, quando una percentuale su ogni bicchiere bevuto finiva dritta nelle

sue tasche? Dov'è il milione e mezzo di dollari che sparì quando lui fu

arrestato?

--Io non ho mai visto né conosciuto questo Benedetto--dice lenta-

mente la maschera.

--Sgualdrina bugiarda! Quella è la faccia che lui ha baciato tante

volte davanti a tutti noi. La faccia che si teneva sulla scrivania in una

cornice di diamanti. La voce che lo chiamava Benny-tesoro. Gli occhi

che piansero quando lui fu spedito in prigione... Certo! Tu sei Jane

Brown e basta!

Due mani guantate escono dal mantello che l'avvolge tutta, armeg-

giano un poco dietro le orecchie, in mezzo ai capelli d'oro.--Guarda-

temi più da vicino... e ditemi se sono la ragazza di Benedetto... se sono

Jane Brown!--La maschera cade, eppure si ripete identica nel viso

che c'è sotto, ancora intatto, solo più pallido.

Quelli trattengono il fiato dalla sorpresa. Ma poi Tereshko dice nel

silenzio:--Ebbene, portavi una maschera... e allora?--Però la voce

un poco gli trema.

Le mani di lei scendono ai fermagli del mantello, ne afferrano i lem-

bi per aprirlo.

--Guardatemi ancora--esorta lei--e poi ditemi se mi riconosce-

te!

--No, Nova... no!--grida O'Shaughnessy da terra.

La voce di lei si fa dolcissima.--Chiudi gli occhi, O'Shaughnessy...

chiudi gli occhi e tienili chiusi, se mi ami. Perché nessun amore po-

trebbe sopravvivere a questo, nessun amore al mondo

Docile, lui serra le palpebre. Sente il fruscio del mantello di lei, la

corrente d'aria che provoca aprendosi. Vicino a lui risuona come un

singhiozzo. Una pistola cade a terra. Poi un urlo selvaggio, terribile...

un improwiso pestare di piedi che corrono verso la porta. I cinque

fuggono, fulminati dal terrore.

--Via da me! Chi sei, chi sei?

La voce di lei ha ripetuto la domanda... chiara, serena, sepolcrale:

--Ora... sono dawero la ragazza di Benedetto? Sono la ragazza di

qualcuno?

I passi impazziti risuonano sulle assi del porticato. Una porta sbat-

te. Il motore di un'automobile si accende... Ia marcia stride, ingrana

appena. Il rumore della macchina si perde in lontananza. Poi all'im-

provviso uno scroscio, un fracasso di lamiere infrante vola nell'aria

della notte. Fievole, ultimo, risuona un lamento di dolore e di morte...

quindi cade il silenzio come un sipario sull'ultimo atto di un dramma.

Nel laboratorio per lunghi minuti nessumo si muove.

--Sono andati fuori strada--dice teso O'Shaughnessy. Apre gli oc-

chi e vede Nova di nuovo chiusa nel mantello. Dev'essere davvero mo-

ribonda, pensa, per aver spinto i vivi a fuggire come pazzi verso la

morte solo con la sua vista.

Una pistola giace sul pavimento, è tutto quel che resta dei cinque.

Lentamente, penosamente O'Shaughnessy si trascina verso Denholt,

gli si accascia vicino, riesce a rivoltarlo. Gli occhi dello scienziato lo

fissano, ancora vivi.

La voce del pilota è sorda, stridente:--Deve salvarla. Deve. Mi uc-

cida se le ho fatto un torto... ma vede, gliel'ho riportata, lei è il solo che

possa fare qualcosa... Denholt, mi sente?

Il morente annuisce, indica disfatto l'alambicco infranto, il liquido

sparso al suolo.

--Era quello?--O Shaughnessy lo scuote selvaggiamente, terro-

rizzato.--Dev'essercene dell'altro. Non può essere tutto lì! Non può

dirmi come farne dell'altro?

La voce dello scienziato alita fievolmente:--Non c'è tempo.

--Non ha scritto la formula?

Un debole cenno di negazione.--Avevo paura... non volevo che me

la rubassero.

La mano di O'Shaughnessy ha riacquistato tutta la sua forza quan-

do si contrae sulla spalla di Denholt.--Non è possibile. Non può dir-

melo così... che lei deve morire. Che non c'è niente, niente che lei con

tutta la sua scienza e io con tutto il mio amore possiamo fare per lei...

Proprio niente...?--Qualcosa come una mano gelida gli serra la gola.

Piccoli aghi gli pungono le palpebre finché non si sente le ciglia umi-

de. Nova, immobile, china lentamente il capo.

Una mano stringe il braccio di O'Shaughnessy, una mano sottile che

una volta dev'essere stata molto forte.--Aspetti. Si chini, così potrà

udirmi Stavo riempiendo un'ipodermica per uno dei conigli... quan-

do loro sono entrati. Non ricordo che ne é stato... Guardi intorno se

riesce a trovarla. Se è intatta basta per una iniezione... Faccia presto,

si fa buio... me ne sto andando.

Prima di guardare, prima ancora di muoversi, lui tocca il portafor-

tuna che ha in tasca.--Aiutami--dice poi a Nova.--Tu sai com'è,

ne hai viste tante...

Lei alza la testa, si fa da parte... ed ecco lì l'ipodermica, sulla tavola

peratoria E piena di un liquido trasparente, incolore.

Lui torna a chinarsi sul morente, gliela tiene davanti agli occhi.

--Sì, è quella. Tutto ciò che ne resta ora. Sarà perduto per sempre il

mio siero, tra pochi minuti, quando me ne andrò. Lo porto via con

me... dopo quel che ho visto stanotte della natura umana c'è un potere

troppo diabolico in una scoperta simile... per noi è meglio il modo co-

me la natura ha arrangiato le cose...

--Devo sollevarvi? Crede di poter restare in piedi abbastanza a lun-

go da...

--Non c'è tempo.--Rivolge un debole cenno a Nova, lei si awici-

na.--Stenditi sul pavimento qui, dove posso raggiungerti...--Poi a

O'Shaughnessy:--Le tenga sollevati i capelli dalla base del collo. E

mi regga il braccio...

L'ago si solleva, la siringa cade vuota.

Lui mormora, fissandola sfinito:--Un mese ora che sappiamo di non

aver più speranza... Be', forse aveva ragione quel dottore francese...

Ancora quella mano sul suo braccio.--Ascolti. Lei starà male, mol-

to male, per ventiquattr'ore. La reazione. Le tenga impacchi di ghiac-

cio intorno finché la temperatura non si abbasserà. Poi l'iniezione ar-

resterà il processo di decadimento per un poco. Non può riparare ciò

che è già distrutto... ma vi darò un poco di tempo. Un mese, forse più...

Mi dispiace di non potervi dare altro... e soprattutto di non potervi da-

re nessuna speranza.

Poi ciò che vi era in Denholt di umano e compassionevole muore.

--Vede, dopo tutto ho fallito. Non l'ho riportata veramente in vita.

Qualcosa in lei era morto, è rimasto morto. Il sangue stesso delle sue

vene le portava la morte in circolazione nel corpo! Le iniezioni che le

facevo controllavano, fermavano la putrefazione... non di più.

&li occhi del pilota hanno un brillio cupo.--Non aveva il diritto.

Non è stato giusto per lei né per me... e neppure--sorride tristemente

--per quei pistoleri impazziti che ora sono spiaccicati sulla sua mon-

tagna. Ha cercato di ridare la vita, Denholt... e il risultato è la morte.

Le labbra livide si piegano a una smorfia ironica.--Anche la mia--

sussurra il medico. Si drizza appena nelle braccia dell'altro, ora cerca

penosamente di giustificarsi.--Se lei non fosse venuto, O'Shaugh-

nessy... chi può dirlo? Forse nulla di tutto questo sarebbe successo.

Eppure lei ha rappresentato l'elemento umano... quello che io non

avevo contato. Sì, è stato il sangue che mi ha sconfitto... il caldo san-

gue appassionato degli uomini e delle donne, famelico e avido e vivo...

quel sangue che non ho potuto restituire intatto al corpo di Jane

Brown...

La spalla di O'Shaughnessy pulsa di dolore e sangue gli cola giù per

il braccio sotto la manica, giù per il polso e per la mano. Lui lo fissa

come assente e ripensa alle ultime parole di Denholt; poi di colpo una

forza sovrumana lo invade, perché ora ha qualcosa da fare. C'è un'au-

tomobile fuori, e più sotto un aereo che aspetta. E c'è Nova, il viso pal-

lido ora arrossato, acceso di febbre, le palpebre palpitanti, il respiro

affannoso. E c'è... sì, o Voi folli dei del Fato, c'è O'Shaughnessy, I'uomo

che ha ignorato la paura, almeno per se stesso, da quando aveva di-

ciotto anni. Sì, tutte le tessere del mosaico sono ora riunite e il disegno

che formano è chiaro nella mente di lui.

Si sente la testa leggera, ma la sua volontà è inflessibile. Può star rit-

to e muoversi con facilità, mentre poco prima poteva solo strisciare.

Solleva Nova tra le braccia, barcolla appena, esce a passi lenti ma fer-

mi e decisi.

La testa bionda gli riposa sulla spalla. Lei ha gli occhi aperti.--Che

facciamo ora?--chiede, con voce lievemente impastata dalla febbre.

--Che i,porta?--risponde lui. Non vuole dirglielo, non vuole che

lei lo sappia ancora.--Sono qui con te, Jane.

La chiama così per mostrarle che può pronunciare il suo vero nome

con la stessa tenerezza, che non le rimprovera di essere Jane Brown.

Ma lei non vuole. Quel nome non è il suo...

--Il mio nome è Nova--dice ferma e grave.--Nova O'Shaugh-

nessy.

Non dice altro mentre lui l'adagia nell'automobile o durante la di-

scesa, e nemmeno quando la riporta sull'aeroplano che è rimasto nel

luogo dell'atterraggio.

Poi lui va, ora barcollando un poco, a inginocchiarsi vicino al pilota

ferito.

--Come sta?

L'altro annuisce.--Non male, penso. Niente di grave.

--Allora va bene--dice O'Shaughnessy. Spinge un fascio di banco-

note nella mano di Frazier, aiuta l'uomo a mettersi a sedere.--Devo

prendere il suo aereo. Sono contento che stia meglio, perché avrei do-

vuto comunque prendere l'aereo e mi fa piacere non doverla lasciare

qui a morire. Può usare l'automobile per cercare soccorso.

Rughe di preoccupazione si approfondiscono agli angoli degli occhi

del pilota.--Mi sembra impazzitoche è successo lassù? E perché mi

dà questo denaro?

~- --Per compensarla dell'aereo.....in caso..Be' in caso di disgrazia.

Si rialza e se ne va, destreggiandosi sul terreno ineguale. Frazier pu-

re si rimette in piedi e gli barcolla dietro.--Ehi, mi aspetti. L'elica...

Dopo pochi minuti ha le mani sulle pale e dall'intemo dell'aereo la

Voce di O'Shaughnessy chiama:--Contatto!--Frazier dà il colpo alle

pale, I'elica comincia a girare. L'uomo si getta all'indietro e l'apparec-

chio si avvia a balzi, tra il rombo del motore.

In un modo o nell'altro O'Shaughnessy riesce a raffazzonare un de-

collo compiendo una cabrata impossibile, e Frazier sta lì a guardare a

- bOCca aperta, finché il nero del cielo e la distanza non hanno cancella-

to le piccole luci di posizione.

--Pazzo--sussurra asciugandosi il sudore dalla fronte.

Le dure mani di O'Shaughnessy stringono la cloche. Il tuono ora

romba più del motore, i fulmini squarciano le tenebre. La pioggia co-

mincia a frustare l'apparecchio.

Lui ricorda un altro uragano, un altro aereo, un'altra notte; e guar-

da la ragazza che gli è accanto. Lei sembra che avverta il suo sguardo,

apre gli occhi; le sue labbra vorrebbero parlare, ma la febbre che la

brucia non le lascia articolare le parole. Lui gliele legge negli occhi,

tuttavia, e sono chiarissime, e tutto il cuore di lei le accompagna. Non

sono domande; esprimono solo coraggio e fiducia.

--Ti ho portata io a questo--dice lui a quegli occhi.--Ora te ne

traggo fuori. Qui non c'è più posto per noi.

Le dita guantate si contraggono convulse sul polso maschile e paio-

no chiedere: 4Sola? Devo andare sola?".

Almeno lui questo immagina che lei voglia sapere, perché risponde

subito:--Con me, tesoro. Insieme, sempre.

La pressione delle sue dita si rilassa, poi si rinforza, più ferma ora,

tranquilla e tranquillizzante. Così lei gli dice:--Va bene, caro. Per me

va bene.

Il bel viso si annebbia davanti agli occhi di lui. Comincia a fischiet-

tare una stupida canzoncina che del resto non riesce a sentire, ma in

qualche modo lo conforta. Ancora lampi, e più fragoroso il rombo dei

tuoni. Una ventata scuote l'aereo. La massa nera di una cresta di gra-

nito, che sembra una gigantesca ondata sollevata da un tifone e solidi-

ficata dalla mano di Dio, appare davanti a loro.

La mano di lui cerca ora quella di Nova. Lei freme appena, ha gli oc-

chi chiusi. O'Shaughnessy inclina in avanti la cloche, il muso dell'ap-

parecchio s'inclina; la montagna rocciosa e desolata sembra proten-

dersi verso di loro, ma in quei secondi i due sono soli, soli col cielo e

l'uragano.

Ci vuole coraggio e forza di volontà per mantenere la cloche così in-

clinata, per tenere gli occhi aperti e fissare la parete rocciosa, irta di

pini, balzare loro incontro. Le labbra di lui sono serrate, il viso palli-

dissimo. Pure, all'ultimo momento O'Shaughnessy ride, un riso un po'

folle... un riso di sfida, di addio sarcastico e in qualche modo anche di

vittoria .

--Eccoci, bambina!--grida fra i denti.--Ora vedremo come ci si

sente a volare contro il fianco di una montagna!

Solo l'uragano può udire il clangore dell'apparecchio che si fracassa

contro la roccia... ma annega quel suono coi tuoni, come la folgore fa

impallidire le fiamme che si alzano come lingue fameliche dai rotta-

mi.

Titolo originale: Jat2e Brown's Bo~y

Traduzione di AM. Francavilla, su licen~a di Arnoldo Mondadori Editore

John W. Camp~belt jr

CHI VA LA?

Là dentro puzzava. Un fetore strano, composito, che solamente le ba-

racche coperte di ghiaccio di un campo antartico possono conoscere,

composto di acido sudore umano e dell'odore greve, simile a quello

dell'olio di fegato di merluzzo, che si leva dal grasso di foca fuso. Un

sottofondo di linimento contrastava con l'odore del muschio delle pel-

licce inzuppate di neve e di sudore. Inoltre, I'odore acre dello strutto

bruciato, e quello animalesco - ma non del tutto spiacevole - dei cani,

diluiti dal tempo, stagnavano nell'aria.

Persistenti odori di olio lubrificante contrastavano nettamente con

le tracce di quelli del grasso per i finimenti delle slitte, e del cuoio. E

tuttavia, in modo difficile da definire, al di là di tutto quel fetore di es-

seri umani e di ciò che li accompagnava - cani, macchine, cucina - si

avvertiva un'altra traccia. Era strana, faceva rizzare i capelli: era il

debolissimo suggerimento di un odore che non rientrava affatto tra

quelli dell'attività e della vita. Eppure sembrava l'odore di un organi-

smo vivente. Ma veniva dalla cosa che giaceva legata con corde e tela

cerata sul tavolo, e che lentamente, metodicamente, sgocciolava sulle

assi massicce, bagnate e nude sotto la luce forte e non schermata delle

lampadine.

Blair, il biologo della spedizione, piccolo e dalla testa calva, allun-

gava nervosamente la mano verso la tela cerata, facendo trapelare il

ghiaccio scuro e cristallino che stava al di sotto, e poi rimetteva a po-

sto la tela, senza riuscire a stare fermo. I suoi piccoli movimenti di an-

sia repressa, simili a quelli di un uccellino, facevano danzare la sua

ombra sulla fila di biancheria grigia e consunta ch'era appesa al basso

soffittO, e la cintura equatoriale di capelli crespi e grigi che circondava

il suo cranio calvo formava sulla testa dell'ombra una sorta di comica

aureola.

Il comandante Garry spostò di lato le ~ambe mollicce di una tuta di

maglia e si avvicinò al tavolo. Lentamente, il suo sguardo esplorò le fi-

le di uomini ammassati come sardine nell'Edificio Amministrativo.

Infine il suo corpo alto e rigido si raddrizzò, ed egli annuì.--Trenta-

sette. Tutti presenti.--La voce era bassa, ma possedeva la chiara au-

torità del comandante per natura, oltre che per grado.

"Voi conoscete a grandi linee la storia del ritrovamento effettuato

dalla spedizione al polo secondario. Ho parlato con il comandante in

seconda McReady, e con Norris, come pure con Blair e il professor

Copper. C'è differenza di opinioni, e poiché essa riguarda l'intero

gruppo, è dunque giusto che sia il personale della Spedizione, al com-

pleto, a decidere.

"Ora chiederò a McReady di darvi i particolari della storia, poiché

ciascuno di voi è stato troppo occupato con il proprio lavoro per poter

seguire con attenzione il lavoro degli altri. McReady?"

Facendosi avanti dal fondo della stanza velato dal fumo, McReady

parve una figura uscita da qualche mito dimenticato: una gigantesca

statua di bronzo che prendeva vita e si metteva a camminare. Torreg-

giò con la sua altezza di un metro e novanta quando si fermò accanto

al tavolo, e, dopo aver lanciato una delle sue occhiate caratteristiche

al soffitto per assicurarsi che ci fosse ancora spazio sotto le basse travi,

raddrizzò la schiena. La giacca a vento, disadorna e di un chiassoso

color arancione vivo, che aveva ancora addosso, non pareva tuttavia

fuori luogo sulla sua massiccia figura. Anche laggiù, un metro e venti

al di sotto delle folate di vento che soffiavano sulle solitudini antarti-

che sopra il soffitto, il freddo del continente di ghiaccio riusciva ugual-

mente a penetrare, e spiegava la rudezza dell'uomo. Ed egli era come

un uomo di bronzo: folta barba di bronzo rossiccio, folti capelli dello

stesso colore. Le dita nodose e robuste che si stringevano, si allentava-

no, tornavano a stringersi e poi a rilasciarsi sulle assi della tavola era-

no color del bronzo. Anche gli occhi profondamente incassati sotto le

massicce sopracciglia erano bronzei.

La robustezza del metallo capace di sfidare il tempo parlava dai li-

neamenti rugosi e pesanti del suo volto, e dal timbro tonante della sua

voce stentorea.--Norris e Blair sono d'accordo su una cosa; I'animale

che abbiamo trovato non era... di origine terrestre. Norris teme che in

questo ci possa essere del pericolo; Blair dice che non ce n'è affatto.

"Ma riprenderò dal modo, e dal motivo, che ce l'hanno fatto trovare.

A quanto si sapeva prima che noi venissimo qui, si aveva l'impressio-

ne che questo punto si trovasse esattamente al di sopra del polo ma-

gnetico sud della Terra. La bussola punta effettivamente verso il bas-

so, qui, come tutti voi ben sapete. Gli strumenti più raffinati dei fisici,

progettati espressamente per questa spedizione e i suoi studi sul polo

magnetico, hanno scoperto un effetto secondario: un influsso magneti-

co secondario, meno potente, posto a circa 130 chilometri a sudovest

da noi.

"La spedizione al polo magnetico secondario si recò a investigare.

Non c'è bisogno di scendere nei particolari. L'abbiamo trovato, ma

non si tratta della grossa meteorite o della montagna magnetica che

Norris si era aspettato di trovare. I minerali ferrosi sono magnetici,

naturalmente; il ferro lo è ancora di più... e certe leghe speciali lo sono

ancora più del ferro. Dalle indicazioni alla superficie, il polo seconda-

rio da noi trovato era piccolo; talmente piccolo che l'effetto magnetico

da esso posseduto era assurdo. Nessun materiale magnetico immagi-

nabile avrebbe potuto avere un simile effetto. Rilevamenti acustici

eseguiti attraverso il ghiaccio indicavano che si trovava a meno di

trenta metri dalla superficie del ghiacciaio.

"Credo sia bene spiegarvi la struttura del luogo. C'è un ampio pla-

teau, una spianata ininterrotta che si stende per più di 250 chilometri

a sud della stazione, dice Van Wall. Egli non aveva né il tempo né la

benzina per volare più in là, ma a quella distanza continuava a esten-

dersi verso sud. E proprio in quel punto, dove si trovava la cosa sepol-

ta, c'è una catena montuosa sommersa dai ghiacci: una parete graniti-

ca irremovibile, che ha arginato il ghiaccio che avanzava dal sud.

"E a 650 chilometri più a sud c'è il Plateau Polare Sud. Varie volte

mi avete chiesto perché qui da noi faccia più caldo quando si alza il

vento, e molti di voi lo sanno. Come meteorologo, io avrei dato la mia

parola che nessun vento potesse soffiare a meno 50 gradi, e che solo un

vento di 10 chilometri all'ora potesse soffiare a meno 45, senza riscal-

darsi a causa dell'attrito con il terreno, la neve, il ghiaccio e l'aria stes-

sa.

"Ci accampammo laggiù sul bordo di quella catena di monti som-

- mersi dal ghiaccio per dodici giorni. Scavammo il campo nel ghiaccio

azzurro che costituiva la superficie, e riuscimmo a ripararci dalla

maggior parte del vento. Ma per dodici giorni consecutivi il vento sof-

fiò a settanta chilometri all'ora. Salì fino a settantacinque e scese alle

volte fino a sessanta. La temperatura era meno 53 gradi. Salì a meno

~- 51 e scese a meno 56. Era meteorologicamente impossibile, ma conti-

nuò senza interruzione per dodici giorni e dodici notti.

"In qualche punto a sud, I'aria gelida del Plateau Polare scivola giù

per una discesa di 6000 metri, valica un passo montano, passa su un

ghiacciaio e si dirige a nord. Ci deve essere una catena montana che le

r~ fa da canale e da guida per 400 miglia, fino a colpire il plateau liscio

dove abbiamo trovato il polo secondario; poi, 350 miglia più a nord,

~ raggiunge l'Oceano Antartico.

· "Laggiù ogni cosa è coperta dal ghiaccio fin da quando l'Antartide

·~ congelò venti milioni di anni fa. Laggiù non c'è mai stato il disgelo.

~, "Venti milioni di anni fa, I'Antartide cominciava a congelarsi. Ab-

biamo svolto indagini, meditato e costruito illazioni. Ciò che pensia-

o sia successo, si dev'essere svolto pressappoco così: qualcosa scese

dallo spazio: una nave. L'abbiamo vista laggiù nel ghiaccio azzurro:

un oggetto simile a un sottomarino, ma privo di torretta e di timone di

profondità, lungo novanta metri e largo quindici nel punto più ampio.

aEh, Van Wall? Dallo spazio? Sì, ma lo spiegherò meglio più avan-

ti.n La voce ferma di McReady continuò: "Scese dallo spazio, spinta e

sollevata da forze che gli uomini non hanno ancora scoperto, e chissà

come - forse qualcosa, a quel punto, entrò in avaria - fu risucchiato

dal campo magnetico della Terra. Giunse qui a sud, probabilmente

fuori controllo, muovendosi in cerchio intorno al polo magnetico.

Questa è una zona selvaggia, ma quando l'Antartide si stava ancora

congelando dev'essere stata mille volte più selvaggia. Ci devono essere

state delle tormente, delle valanghe, nuova neve che cadeva mentre il

continente si copriva di ghiaccio. Laggiù i turbini dovevano essere

particolarmente violenti, e il vento doveva gettare una cortina impe-

netrabile di bianco sui bordi della montagna che ora è sepolta.

"La nave urtò col muso il granito massiccio, e si spezzò. Non tutti i

passeggeri che erano a bordo furono uccisi dall'urto, ma la nave si de-

v'essere guastata irreparabilmente, il suo meccanismo di pilotaggio si

dev'essere bloccato. Era rimasto intrappolato dal campo magnetico

della Terra, ritiene Norris. Nessuna cosa costruita da esseri intelligen-

ti può scontrarsi con la morta immensità delle forze naturali di un

pianeta e sopravvivere.

"Uno dei passeggeri uscì all'estemo. Il vento da noi osservato in quel

punto non è mai sceso al di sotto di sessanta chilometri all'ora, e la

temperatura non ha mai superato i meno 51 gradi. E a quell'epoca il

vento doveva essere ancora più forte. E la neve scendeva come una col-

tre compatta. La cosa si dev'essere completamente perduta dopo i pri-

mi dieci passi." S'interruppe per un istante, e la sua voce profonda e

ferma lasciò il posto al sibilo del vento che spazzava il tetto, e al-

l'inquieto, maligno gorgoglio dell'aria che vibrava nel camino della

stufa.

La tempesta: un vento di tempesta spazzava il terreno sovrastante

In quello stesso momento, la neve raccolta dal vento echeggiante veni-

va spinta sotto forma di strati orizzontali, accecanti, contro il fronte

del campo sepolto. Se un uomo fosse uscito dai tunnel che collegava-

no, al di sotto della superficie, tra loro gli edifici del campo, quell'uo-

mo si sarebbe perduto dopo dieci passi. Là fuori, le dita nere e sottili

dell'antenna radio s'innalzavano nell'aria per un centinaio di metri, e

sulla sua punta c'era il chiaro cielo notturno. Un cielo di vento sottile e

sibilante che si precipitava senza interruzioni da un orizzonte all'al-

tro, sotto il manto ondulato della vicina aurora. E lontano, a nord, I'o-

rizzonte fiammeggiava dei colori strani, iracondi, del crepuscolo della

mezzanotte. Questa era la primavera, a un'altezza di cento metri sulla

superficie antartica.

Quanto alla superficie stessa... la superficie era la morte bianca.

Morte portata da un gelo dalle dita sottili come aghi, un gelo scacciato

sempre più avanti dal vento, capace di risucchiare l'ultima briciola di

calore da ogni cosa che lo possedesse. Il gelo... e la bianca nebbia della

tormenta senza fine e senza posa, le fini, finissime particelle di neve

che sfioravano ogni cosa e l'oscuravano.

Kinner, il piccolo cuoco dal volto segnato da una cicatrice rabbrivi-

dì. Cinque giorni prima, era uscito alla superficie per andarsi a riforni-

re a una scorta di carne congelata. L'aveva raggiunta con un balzo, dal

sud. La bianca, gelida morte che fluiva lungo il terreno l'aveva acceca-

to in venti secondi. Aveva cominciato a camminare in cerchio, barcol-

lando, incapace di ragionare. C'era voluta quasi mezz'ora perché alcu-

ni uomini con corde lo trovassero in quella caligine impenetrabile.

Era facile per un uomo - o per una cosa - perdersi in dieci passi.

--E a quell'epoca la tormenta era probabilmente ancor più impe-

netrabile di oggi.--La voce di McReady richiamò con un sobbalzo

l'attenzione di Kinner. La richiamò al gradito, umido tepore dell'Edi-

ficio Amministrativo.--E inoltre, a quanto pare, il passeggero della

nave non era affatto preparato a ciò che incontrò. Esso congelò a meno

di dieci passi di distanza dalla nave.

"Noi scavammo nel ghiaccio per trovare la nave, e per caso il nostro

tunnel incrociò il corpo ghiacciato dell'...animale. L'ascia da ghiaccio

di Barclay gli colpì il cranio.

"Quando vedemmo di cosa si trattava, Barclay ritornò al trattore

accese il fuoco, e quando il vapore fu a pressione inviò una chiamata

per far venire Blair e il dottor Copper. Barclay era ammalato, in quel

momento. Rimase malato per tre giorni, anzi.

t UQuando Blair e Copper furono da noi, tagliammo via l'animale e il

blocco di ghiaccio che lo sigillava, come vedete; lo avvolgemmo in un

telo e lo caricammo sul trattore per portarlo qui. Volevamo entrare in

quella nave.

i~ "Raggiungemmo il fianco della nave e vedemmo che il metallo non

era di tipo a noi conosciuto. r nostri attrezzi non magnetici, di bronzo

berillio non riuscivano a intaccarlo. Barclay aveva sul trattore alcuni

utensili d'acciaio, e neppure quelli riuscirono a scalfirlo. Eseguimmo

alcuni test che ci vennero in mente: provammo perfino con l'acido del-

F~ le batterie, ma senza risultato.

'Dovevano conoscere qualche processo passivante che permetteva

al magneSiO di resistere in quel modo all'acido, e la lega doveva essere

Costituita almeno al novantacinque per cento di magnesio. Ma non

avevamo modo di saperlo, e così, quando scorgemmo il portello, ch'e-

,~ ra ancora semiaperto, tagliammo il ghiaccio che lo circondava. C'era

del ghiaccio duro e cristallino all'interno della camera stagna, in pun-

ti che non potevamo raggiungere. Dalla piccola apertura potevamo

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vedere all'interno: c'erano soltanto metallo e attrezzi: perciò decidem-

mo di spaccare il ghiaccio con una bomba.

"Avevamo bombe alla decanite e alla termite. La termite va bene

per sciogliere il ghiaccio; la decanite avrebbe potuto infrangere cose

di valore, mentre invece il calore della termite si sarebbe limitato al

ghiaccio. Il dottor Copper, Norris e io piazzammo una bomba alla ter-

mite da 10 chili, la innescammo e facemmo correre il cavo di collega-

mento lungo il tunnel, fino alla superficie, dove Blair e il trattore a va-

pore ci attendevano. A un centinaio di metri, dietro quella parete di

granito, facemmo esplodere la bomba alla termite.

"Il magnesio della nave prese fuoco, naturalmente. Il bagliore della

bomba ci illuminò e poi si estinse, ma subito riprese nuovamente a

brillare. Corremmo indietro, al trattore, mentre a poco a poco il ba-

gliore aumentava. Dal punto in cui ci trovavamo, potevamo vedere

che l'intero campo di ghiaccio era illuminato dal di sotto da una luce

insopportabile; l'ombra della nave era un grosso cono scuro, diretto

verso nord, dove il crepuscolo era appena terminato. Durò ancora per

un momento, e noi contammo ancora tre forme d'ombra, che poteva-

no forse essere altri... passeggeri... Iaggiù congelati. Poi il ghiaccio co-

minciò a sgretolarsi e a cadere sulla nave.

"Ecco perché vi ho descritto quel luogo. Il vento che scendeva dal

Polo era alle nostre spalle. Il vapore e la fiamma chiara come quella

all'idrogeno furono spazzate via, formando una nebbia di ghiaccio; il

calore che fiammeggiava sotto il ghiaccio fu spinto via, in direzione

dell'Oceano Antartico, prima che ci toccasse. Altrimenti non saremmo

mai tornati indietro, neppure con la protezione di quel costone di gra-

nito che schermava la luce.

"Eppure, anche in quell'inferno accecante, siamo riusciti a vedere

delle grandi forme aggobbite, alcune masse scure che si arrossavano.

Per un certo tempo riuscirono perfino a resistere alla furiosa incande-

scenza del magnesio. Quelli, noi lo sapevamo, dovevano essere i moto-

ri. Segreti che se ne andavano in fumo in quel chiarore abbagliante...

segreti che avrebbero potuto dare all'uomo i pianeti. Misteriose cose,

che potevano sollevare e spingere quella nave... e che si erano saturate

della forza del campo magnetico terrestre. Vidi muoversi le labbra di

Norris, e mi buttai a terra. Non riuscii a udire le parole precise.

"L'isolamento... o quello che era... aveva ceduto. Tutto il campo ma-

gnetico, che avevano assorbito venti milioni d'anni prima, si scatenò

improvvisamente. L'aurora della parte di cielo sovrastante abbassò la

sua lingua su di noi, e l'intero pianoro si bagnò di un fuoco gelido che

copriva la vista. L'ascia che tenevo in mano divenne rossa per il calore,

e sibilò sul ghiaccio. 1 bottoni metallici dei miei vestiti mi bruciarono

la pelle. E da dietro la parete di granito saettò verso l'alto un lampo di

colore blu elettrico.

"Poi le pareti di ghiaccio crollarono sulla nave. Per un istante stri-

dettero come quando si schiaccia tra due pezzi di metallo il ghiaccio

secco.

"Per ore fummo ciechi, costretti a brancolare nel buio, mentre i no-

stri occhi riacquistavano gradatamente la vista. Scoprimmo che tutti

gli avvolgimenti elettrici, entro il raggio di un paio di chilometri, era-

no rottami fusi; la dinamo e tutte le apparecchiature radio, le cuffie e i

microfoni. Se non avessimo avuto il trattore a vapore, non saremmo

mai riusciti a raggiungere il Campo Secondario.

~AII'alba Van Wall volò fino a noi dal Magnetico Principale, come

sapete. Tornammo alla base il più presto possibile. E questa è la storia

di... quell'...animale." La folta barba bronzea di McReady indicò la co-

sa posata sul tavolo.

Blair continuava a muoversi nervosamente: le sue dita minute e ossu-

te si torcevano alla luce della lampada. Piccole lentiggini scure sulle

sue nocche scivolavano avanti e indietro quando, sotto la pelle, i mu-

scoli si contorcevano. Alzò un angolo della tela cerata e fissò con impa-

zienza la cosa scura, incastonata nel ghiaccio, che vi era contenuta.

Il corpo massiccio di McReady si raddrizzò. Quel giorno aveva gui-

dato per sessanta chilometri il trattore a vapore, tra scossoni e sobbal-

zi, per giungere al Magnetico Principale. Perfino la sua calma decisio-

ne aveva dovuto cedere all'ansia di riunirsi nuovamente con altri uo-

mini. Tutto era troppo isolato e tranquillo, laggiù al Campo

Secondario, dove un vento da lupi scendeva dal Polo, ululando. Un

vento da lupi che ululava mentre egli dormiva: il sibilo del vento e la

maligna, indescrivibile faccia del mostro che si alzava minacciosa, co-

sì come egli l'aveva scorta nel ghiaccio chiaro e azzurrino, con un'a-

scia da neve, di bronzo, conficcata nel cranio.

Il gigantesco esperto di meteorologia riprese a parlare.--Il proble-

ma è il seguente. Blair desidera esaminare la cosa. Farla sgelare, fare

dei vetrini da microscopio con i suoi tessuti e così via. Norris ritiene

che ci siano dei pericoli, e Blair ritiene che non ce ne siano. Il dottor

Copper è più o meno dell'idea di Blair. E Norris, ovviamente, è un fisi-

co, e non un biologo. Comunque, ha fatto un'osservazione che merita

di essere esposta a tutti quanti noi. Blair ha parlato di forme di vita

microscopiche che, quando i biologi le trovano, sono ancora piena-

_nnente vitali, perfino in questo luogo freddo e inospitale. Queste forme

di vita congelano ogni inverno e si sgelano ogni estate - per tre mesi -

e Continuan ~ viv~rP

a l9l

--L'osservazione fatta da Norris è questa: sgelandosi, ritomano in

vita. Ci devono essere delle forme microscopiche viventi, associate a

questa creatura. Ce ne sono con tutte le forme viventi che conosciamo.

E Norris ha paura che noi si possa scatenare un'epidemia, una malat-

tia portata da qualche germe sconosciuto qui sulla terra se facciamo

sgelare gli esseri microscopici che sono rimasti congelati laggiù per

venti milioni di anni.

°Blair ammette che simili microrganismi potrebbero conservare an-

cora con sé il potere della vita. Cose prive di organizzazione, quali pos-

sono essere le singole cellule, possono conservare la vita per periodi

sconosciuti, una volta completamente congelate. La bestia in sé è mor-

ta come quei mammut congelati che ogni tanto si trovano in Siberia.

Le forme di vita organizzate, altamente sviluppate non sopportano il

congelamento.

"Ma i microrganismi potrebbero sopportarlo. Norris suggerisce che

rischiamo di mettere in libertà qualche tipo di malattia contro cui

l'uomo, non avendola mai incontrata in precedenza, sarebbe total-

mente privo di difesa.

"La risposta di Blair è che ci possono essere dei simili germi ancora

vitali, ma che Norris ha completamente rovesciato i termini del pro-

blema. Questi germi sono assolutamente non-immuni all'uomo. La

nostra biochimica organica, probabilmente...n

--Probabilmente!--La testa del piccolo biologo si sollevò di scat-

to, con un movimento simile a quello di un uccello. Il cerchio di capel-

li grigi intorno alla sua testa calva si arruffò, come per la collera.

--Ehi, basta dare un'occhiata...

--Lo so--ammise McReady.--Quella cosa non è terrestre. Non

sembra probabile che possa avere una biochimica sufficientemente si-

mile alla nostra da rendere anche lontanamente possibile un'infezione

reciproca. Direi che non c'è pericolo.

McReady fissò lo sguardo sul dottor Copper. Il fisico scosse lenta-

mente la testa.--Nessunissimo pericolo--affermò con aria di sicu-

rezza.--L'uomo non può infettare o essere infettato da germi che vi-

vono in forme relativamente vicine alla nostra come possono esserlo i

serpenti. E i serpenti sono, vi assicuro--la sua faccia ben rasata fece

un sorriso inquieto--molto più vicini a noi di quanto non lo sia...

quella cosa.

Vance Norris si fece avanti, irritato. Egli era relativamente basso in

quella riunione di omoni, con la sua statura di un metro e settantacin-

que o poco più, e la costituzione massiccia e muscolosa lo faceva sem-

brare ancora più piccolo. I suoi capelli neri erano ricci e duri come

corti fili di ferro, e i suoi occhi avevano il colore grigio dell'acciaio

spezzato. Se McReady era un uomo di bronzo, Norris era d'acciaio. I

suoi movimenti, i suoi pensieri, il suo portamento avevano gli impulsi

rapidi, secchi, delle molle d'acciaio. I suoi nervi erano d'acciaio: duri,

pronti ad agire, facili a corrodersi.

Egli era certo del proprio punto di vista, ora, e scattò in sua difesa

con un caratteristico, rapido fiotto di parole smozzicate.--Biochimi-

ca differente, al diavolo. Quella cosa può essere mortale, o, per Dio,

può non esserlo, ma a me non piace affatto. Maledizione, Blair, fa' ve-

dere a tutti il mostro che ti stai accarezzando là sotto. Fagli vedere

quella cosa schifosa, e lascia che decidano da soli se sono disposti a

permettere che si scongeli qui, in questo accampamento.

"E a proposito di scongelarsi, poi. Se la vogliamo scongelare, deve

venire scongelata in una delle capanne, questa sera stessa. Qualcuno...

chi è di guardia questa sera? Magnetismo? ...no, Connant. Questa sera,

raggi cosmici. Bene, ti tocca startene a tenere compagnia a questa

mummia di Blair che ha venti milioni di anni.

"Togli la tela, Blair. Come diavolo possono sapere cosa stanno per

accettare, se non possono vederla? Può benissimo avere una biochimi-

ca diversa. Non so che cos'altro abbia, ma so che ha molto che non mi

va. Se si può giudicare dall'espressione della sua faccia--e non è uma-

na, perciò non si può mai dire - era infastidita al massimo, quando è

congelata. Infastidita, anzi, è un termine molto approssimativo per

definire ciò che provava: approssimativo come dire che rivela un odio

folle, pazzesco, insano. Nessuna delle due definizioni giunge a sfiorare

la realtà, neppure lontanamente.

°Come diavolo possono capire, questi uomini, la cosa su cui stanno

votando? Loro non hanno visto quei tre occhi rossi, e quei capelli blu

che sembrano vermi che si agitano. Che si contorcono... accidenti, con-

tinuano a contorcersi anche in questo stesso istante, dentro il ghiac-

cio!

°Nessuna cosa che sia stata mai generata dalla Terra sarebbe riusci-

ta ad avere un'espressione come quella: I'indescrivibile concentrato,

sublimato, di collera distruttrice a cui quella cosa ha atteggiato il pro-

prio volto quando si è guardata intorno, in questa solitudine di ghiac-

cio, venti milioni di anni fa. Folle? Era completamente impazzita: una

follia bruciante, fulminante!

aAI diavolo! Continuo a fare brutti sogni da quando ho visto per la

prima volta quei tre occhi. Incubi. Ho sognato che quella cosa si scon-

gelava e tornava in vita... che non è stata morta, e neppure del tutto in-

Cosciente~ per tutti questi venti milioni di anni, ma soltanto rallenta-

ta, in attesa. E la sognerete anche voi, mentre quella maledetta cosa

che la Terra non riconoscerebbe mai come sua, continuerà a sgocciola-

re e sgocciolare nella stanza dei raggi cosmici, questa notte.

"E tu, Connant" Norris si girò di scatto verso lo specialista in raggi

Cosmici °ti divertirai certamente a rimanere lì tutta la notte, nel silen-

zio. Col vento che soffia al di sopra di te, e quella cosa che sgocciola..."

~, Tacque per un istante, e si guardò intorno.

; _ 193

NLo so. Dite che non sono scientifico. Ma adesso ecco la scienza: la

psicologia Avrete incubi per un anno. Ogni notte, da quando ho posa-

to l'occhio su quella cosa, li ho. E per questo che la odio... sì, la odio

proprio... e non la voglio tra i piedi. Rimettetela là da dove è venuta, e

lasciatela nel ghiaccio per altri venti milioni di anni. Ho avuto degli

incubi molto dettagliati: che non è fatta come noi - cosa che è ovvia -

e che la sua carne è di tipo diverso dalla nostra, e che essa la può con-

trollare. Che può cambiare la propria forma, e assumere l'aspetto di

un uomo, e mettersi in agguato per uccidere e divorare...

"Non si tratta di un argomento logico. Lo so. Ma quella cosa, co-

munque, non obbedisce alla logica terrestre. Forse possiede una bio-

chimica aliena, e forse i suoi microbi hanno una biochimica differente.

Un germe non può resistere alla nostra biochimica, ma voi, Blair e

Copper, cosa mi dite di un virus? Un virus è solo una molecola di enzi-

mi, mi insegnate. Per operare gli occorre soltanto una molecola protei-

ca di un corpo qualsiasi.

aE come potete essere certi che, con tutti i milioni di varietà di vita

microscopica che può ospitare, nessuna di tali varietà sia pericolosa?

Che mi dite di malattie come l'idrofobia, la comune rabbia, che attac-

ca qualsiasi creatura a sangue caldo, qualunque sia la sua biochimi-

ca? E la psittacosi, la febbre trasmessa dai pappagalli? La tua biochi-

mica è come quella dei pappagalli, Blair? E la putrefazione pura e

semplice, la cancrena, allora? Questa non fa affatto la schizzinosa, non

guarda la biochimica!"

Blair sollevò lo sguardo interrompendo i propri movimenti nervosi

quel tanto che bastava per incontrare per un istante gli occhi incolleri-

ti, grigi di Norris.--Finora, di tutto ciò che hai detto, I'unico male che

si trasmetta sono i sogni. Posso arrivare ad ammetterlo.--Un sorrisi-

no vagamente maligno, da diavoletto, si disegnò sulla faccia coperta

di rughe dell'omino.--Ne ho fatti anch'io. Trasmette l'infezione dei

sogni. Che, senza dubbio, è una malattia estremamente pericolosa!..

NE per quanto riguarda le altre cose da te elencate, i tuoi concetti SUl

virus sono affetti da gravi errori. In primo luogo, nessuno ha dimostra-

to che la teoria della molecola enzimatica costituisca la vera - e l'uni- !

ca possibile - spiegazione. E in secondo luogo, fammelo sapere, quan-

do ti prenderai il mosaico del tabacco o la ruggine del grano. Una

pianta di grano è molto più vicina, come biochimica, al tuo corpo, di

quanto non possa esserlo questa creatura di un altro mondo.

"E anche la rabbia che tu hai citato è un fenomeno assai circoscritto.

Non puoi prenderla, né trasmetterla a una pianta di cereale o a un pe-

sce: e il pesce è un discendente collaterale di un antenato comune a te

e al pesce. Mentre questa cosa, Norris, non lo è affatto." Blair indicò

compiaciuto, con la testa, la massa deposta sul tavolo e coperta dalla

t ~ r:~t~_

_ E allora scongela quella maledetta roba in una vasca di formali-

na, se proprio vuoi scongelarla. Io avevo suggerito di...

--E io ti ho detto che la cosa era priva di senso. Non si possono ac-

cettare dei compromessi. Perché tu e il comandante Garry siete venuti

qui a studiare il magnetismo? Perché non vi siete limitati a studiarlo a

casa vostra? A New York c è tutto il magnetismo terrestre che volete

lo non potrei studiare il tipo di vita che questa cosa ha posseduto un

tempo, se dovessi servirmi di campioni tenuti in formalina: esatta-

mente come VOi non potreste ricavare a New York il tipo di informa-

zioni che vi occorrono. E se questa cosa venisse trattata con la formali-

na maz ptU, tn tutto il futuro, si pofrà averne un duplicato! La razza di

cui faceva parte deve essersi ormai estinta, nei venti milioni di anni in

CUi e rimasta congelata, cosicché, anche se fosse venuta da Marte, noi

non potremmo mai più trovarne un'altra. E... Ia nave è distrutta.

c e un solo modo m cui lo si deve fare, e questo è il miglior modo

possibile Deve essere scongelata lentamente, con attenzione; non in

Il comandante Garry fece un passo avanti, e Norris indietreggiò

borbottando irosamente tra sé e sé.--Credo che Blair abbia ragione

signori. Che cosa dite voi?

Connant brontolò:--Ci sembra giusto, credo... solo che forse do-

vrebbe starsene lui a fare la guardia mentre si sgela.--Fece un sorri-

sino rassegnato, scostandosi dalla fronte un ciuffo di capelli rossi co-

me una ciliegia matura.--Magnifica idea, anzi: che se ne stiá a far da

balia al cadavere che gli è così simpatico!

Garry sorrise. Una risata generale di assenso si diffuse a ondate tra

i gruppo.--Penso che qualsiasi spettro quella cosa possa avere pos-

seduto, debba già essere morto di fame da tempo, se è rimasto da que-

ste parti per tanti anni, Connant--disse Garry.--E tu mi sembri ca-

pace di tenergli testa. Connant, detto anche l'Uomo di Ferro, sarà cer-

° capace di tenere testa a qualsiasi oppositore, credo!

Connant si agitò nervosamente.--Gli spettri non mi danno molti

pensieri. Comunque, diamo un'occhiata a quella cosa. Io

E mpaziente, Blair stava già sciogliendo le corde. Un singolo stratto-

c- ne assestato alla tela cerata rivelò la cosa. Il ghiaccio si era un po'

,, Ci0 to a causa del calore della stanza, ed era chiaro e azzurrino come

un Vetro spesso, di buona qualità. Risplendeva umido e lucido sotto la

ce aspra della lampadina appesa al soffitto.

a stanza, immediatamente, si fece muta. La cosa giaceva a faccia

su, sulle assi grezze e unte del tavolo. L'ascia da ghiaccio era rotta

na la sua punta era ancora conficcata in un cranio di forma strana

occhi folli, pieni d'odio, brillavano di una fiamma vivente, lucida

rne sangue appena sgorgato, in una faccia contornata da un orribile

rto nido di vermi: vermi blu, mobili, che strisciavano dove ci sa-

e dovuto essere del pelo

Van Wall, il pilota alto un metro e ottanta, fatto di 90 chili di nervi

di ghiaccio, emise uno strano gorgoglio strangolato e scappò in corri-

doio. Metà dei presenti guadagnarono le porte. Gli altri indietreggia-

rono goffamente per allontanarsi dal tavolo.

McReady rimase immobile a un capo del tavolo a osservarli: il suo

corpo massiccio restò piantato solidamente sulle gambe robuste. Nor-

ris, all'altro capo, fissava la cosa con occhi truci, carichi di odio bru-

ciante. Fuori della porta, Garry cercava di parlare contemporanea-

mente con una mezza dozzina di uomini.

Blair aveva con sé un martello da tappezziere. Il ghiaccio che rac-

chiudeva la cosa si sfaldava facilmente sotto quell'artiglio d'acciaio,

liberando gradualmente ciò che teneva imprigionato da ventimila

millenni...

--Lo so che quella creatura non ti piace, Connant, ma non si può fare

a meno di scongelarla ora. Tu dici di lasciarla stare com'è adesso, fino

al nostro ritorno alla civiltà. Certo, ammetto che la tua obiezione, che

nel mondo civile potremmo fare un lavoro più accurato e completo, è

ragionevole. Ma... come possiamo far attraversare l'Equatore a questo

blocco? Dovremo fargli attraversare prima una zona temperata, poi la

zona equatoriale, e poi una buona metà dell'altra zona temperata, pri-

ma di arrivare a New York. Tu non sei molto entusiasta di dover rima-

nere nella stessa stanza per una notte; però, che cosa consigli? Che

metta quella cosa in ghiacciaia con i quarti di bue?--Blair rialzò il

capo, interrompendo per un attimo il suo minuzioso lavoro di scalpel-

latura. Il suo cranio pelato e macchiettato di efelidi annuì trionfante.

Kinner, il cuoco massiccio dalla faccia segnata da una cicatrice, ri-

sparmiò a Connant la fatica di rispondere.--Ehi, stammi ad ascolta-

re, professore. Tu prova solo a ficcare quella roba in ghiacciaia con la

carne, e, per tutti gli dèi che sono mai esistiti, io ci ficco anche te a te-

nerle compagnia. Voialtri sapientoni avete già abusato dei miei tavoli

della mensa per metterci ogni cosa di questo campo che si poteva

muovere, e io ho dovuto sopportarlo senza dire niente. Ma provate a

mettere una cosa come questa nella mia ghiacciaia fuori, o anche solo

nella ghiacciaia qui dentro, e poi la vostra sbobba ve la cucinerete voi.

--Ma, Kinner, questo è l'unico tavolo dell'Accampamento Magneti-

co Principale che sia abbastanza ampio per lavorare comodamente

obiettò Blair.--Tutti noi te l'abbiamo spiegato.

--Certo, e tutti voi ci avete portato qualcosa. Clark porta qui i suoi

cani tutte le volte che si azzuffano, e li mette sul tavolo per ricucirli.

Ralsen ci porta le sue slitte. Accidenti, I'unica cosa che non abbiate an-

cora messo su questo tavolo è I aeroplano. E ci avreste messo anche

quello, se soltanto aveste potuto inventare un modo per farlo passare

nei tunnel.

Il comandante Garry sorrise in direzione di Van Wall, il massiccio

capo pilota. La folta barba bionda di Van Wall fremette in modo so-

spetto mentre egli rivolgeva gravemente un cenno d'assenso a Kinner.

_ Hai ragione, Kinner. Il reparto aviazione è l'unico che ti tratti in

modo corretto.

_ In effetti, qui dentro a volte diventa davvero un po' troppo affol-

lato--ammise Garry.--Ma temo che tutti noi proviamo la stessa

sensazione, di tanto in tanto. Non c è molta privacy, in un accampa-

mento all'Antartide.

_ Privacy? E che diavolo è? Sapete, quello che dawero mi ha fatto

piangere, è stato quando ho visto Barclay attraversare questa stanza a

passo di marcia, salmodiando: "L'ultima asse del campo! L'ultima as-

se del campo!" e portarsela via per costruire quella specie di casetta

che si è fatto sul trattore. Accidenti, la luna intagliata nella porta che

si è portato via mi è davvero mancata: più di quanto non mi sia man-

cato il sole quando è tramontato. Ciò che Barclay si portava via non

era solamente l'ultima asse di legno. Si portava via l'ultimo pezzetto

di intimità che esistesse in questo posto maledetto da Dio.

Un sorriso si fece strada perfino sul volto arcigno di Connant, men-

tre si alzava un'ennesima volta il bonario mugugno di Kinner. Ma su-

bito si dileguò quando i suoi occhi scuri, profondamente infossati, si

volsero nuovamente verso la cosa dagli occhi rosso vivo che Blair scal-

pellava via dal bozzolo di ghiaccio. Si passò una manona tra i capelli

lunghi fino alla spalla, e con gesto familiare spostò una ciocca che gli

cadeva dietro l'orecchio.--So che la baracca dei raggi cosmici diver-

rà un po' troppo affollata, se dovrò starci seduto insieme con quella

cosa--brontolò.--Perché non continui a togliere il ghiaccio che ha

intorno, e nessuno verrà a ficcarci il naso, ti assicuro, e poi non appen-

di quella roba sopra la caldaia del generatore? Il calore è sufficiente.

Riuscirebbe a scongelare un pollo, o perfino un quarto di bue, in poche

L ore.

--Lo so--protestò Blair, posando il martello per poter meglio ge-

sticolare con le dita ossute coperte di lentiggini; il suo corpo minuto

era teso dall'impazienza.--Ma tutto questo è troppo importante per

Correre rischi. Non c'è mai stato un ritrovamento come questo; non

potrà mai più essercene uno uguale. E l'unica possibilità che l'uomo

potrà mai avere, e occorre eseguire le cose nel modo più esatto.

} --Senti, ricordi quei pesci che abbiamo preso tempo fa, nel Mare di

~ Ross? Congelavano quasi nello stesso momento in cui li Dosavamo sul

1~ ~ 197

ponte, e poi ritornavano in vita se li scongelavamo lentamente. Le for-

me di vita inferiori non muoiono, se le si congela rapidamente e le si

sgela con lentezza. Noi abbiamo...

--Ehi, per l'amore del cielo! Stai dicendo che quella maledetta cosa

ritornerà a vivere!--strillò Connant.--Piglia quella tua schifosa be-

stia... No, ci penso io! La faccio a pezzetti così piccoli che...

--No! No, sciocco.--Blair balzò davanti a Connant per proteggere

il suo prezioso ritrovamento.--No. Soltanto le forme di vita rnferiori.

Per l'amor di Dio, lasciami finire. Non puoi scongelare le forme di vita

superiori e pretendere che rivivano. Aspetta un momento, ora... ferma-

ti! Un pesce può riaversi dopo essere stato congelato, poiché è una for-

ma di vita talmente bassa che le singole cellule del suo corpo possono

riprendere a vivere, e questo da solo basta a ripristinare la vita. Ma

ogni altra forma di vita, superiore a quella di un pesce, che si faccia

scongelare allo stesso modo resterà morta. Anche se le cellule singole

ritornano in vita, esse poi muoiono, poiché per vivere hanno bisogno

di organizzazione, di un'attività cooperativa. In ogni animale che non

abbia subìto danni e che sia stato congelato rapidamente c'è una sorta

di vita potenziale. Ma non può, non può, in nessuna circostanza, ridi-

ventare vita attiva negli animali superiori. Gli animali superiori sono

troppo complessi, troppo delicati. Questa è una creatura intelligente,

giunta a un livello di evoluzione, che equivale a quello a cui siamo

giunti noi. O forse superiore. Ed è altrettanto morta quanto potrebbe

esserlo un uomo congelato.

--Come fai a saperlo?--chiese Connant, brandendo minacciosa-

mente l'ascia che aveva afferrato un istante prima.

Il comandante Garry gli posò una mano sulla spalla massiccia, per

calmarlo.--Aspetta un istante, Connant. Desidero chiarire un punto.

Sono d'accordo: non scongeleremo questa cosa, se c'è la sia pur remo-

ta possibilità che ritorni in vita. Sono d'accordo che è un essere estre-

mamente spiacevole da avere tra noi, vivo; non avevo idea che questa

remota possibilità di resurrezione potesse esistere.

Il dottor Copper si tolse la pipa dai denti e sollevò il suo corpo mas-

siccio, scuro, dalla cuccetta dove era rimasto a sedere fino a quel mo-

mento.--Blair sta facendo un discorso tecnico. Quella cosa è morta.

Morta come i mammut che trovano in Siberia, congelati. La vita po-

tenziale è come l'energia atomica: c'è, è lì, ma nessuno può farla usci-

re, ed essa certamente non si libera da sola, se non in casi rarissimi:

rari come il radium nella nostra analogia fisica. Abbiamo ogni sorta di

prove che gli animali non rivivono dopo essere stati congelati: neppu-

re i pesci, parlando in generale; non esiste alcuna prova contraria, che

cioè le forme di vita superiori possano rivivere, in nessuna circostan-

za. Che cosa volevi dire, Blair?

Il piccolo biologo scosse il capo. La sottile corona di capelli che face-

va cerchio intorno alla sua pelata tremolò della collera del giusto.

_ Volevo dire--cominciò in tono risentito--che le singole cellule

potrebbero esibire talune caratteristiche che possedevano quando era-

no in vita, se venissero scongelate nella debita maniera. Le cellule dei

muscoli umani sopravvivono per molte ore, dopo che l'uomo muore.

Per il semplice fatto che sopravvivono, e che sopravvivono alcune al-

tre cose, poche, comunque, come i capelli e le unghie, non potete cer-

tamente accusare un morto di essere uno zombie o qualcosa di simile.

"Ora, se io scongelerò questa cosa nel modo adatto, forse avrò la

possibilità di determinare il tipo di pianeta da cui proviene. Noi non

sappiamo, né potremmo sapere con alcun altro sistema, se sia prove-

nuta dalla Terra o da Marte o da Venere o dal di là delle stelle.

"E per il semplice fatto che ha un aspetto diverso da quello del-

I'uomo, voi non potete accusarla di essere malvagia, o crudele o chissà

cosa. Forse l'espressione che vediamo sulla sua faccia è l'equivalente

di una rassegnazione al destino. Il bianco, per i cinesi, è il colore del

lutto. Se gli uomini possono avere usanze differenti perché non po-

trebbe una razza, così diversa da noi, avere un codicé diverso per in-

terpretare le espressioni del viso?"

Connant rise piano, senza alcuna allegria.--Pacifica rassegnazione

al destino! Se quello è il meglio che riesce a fare quando si tratta di

rassegnarsi, non credo di avere alcuna voglia di vedere l'espressione

che ha quando impazzisce di collera. Quella faccia non è mai stata in-

tesa perché esprimesse la pace. Anzi, non ha mai avuto alcun pensiero

filosofico corrispondente alla pace, nella sua natura.

"So che adesso è il tuo beniamino, ma cerca di ragionare. Quella co-

sa ha passato la sua adolescenza nel male, facendo lentamente arrosti-

re vivi i locali equivalenti dei gatti, e ha raggiunto poi la maturità ac-

E compagnandosi con nuove, ingegnose torture."

E --Non hai il minimo diritto di dire queste cose--ribatté irosamen-

te Blair.--Come puoi fare la benché minima affermazione a riguardo

di espressioni facciali che per loro intrinseca natura sono completa-

t mente diverse da quelle umane? Può darsi che non esista neppure, l'e-

quivalente umano di quei sentimenti. Si tratta solamente di un modo

diverso con cui la Natura ha scelto di svilupparsi: un ulteriore esem-

E pio della meravigliosa capacità di adattamento che troviamo nella

j~ Natura. Cresciuta su un pianeta diverso, forse più aspro, essa ha una

forma e connotati diversi. Ma è un figlio legittimo della Natura, esat-

tamente come lo sei tu. Tu ora esibisci l'infantile debolezza umana

consistente nell'odiare ciò che è diverso. Sul suo mondo d'origine, essa

probabilmente classificherebbe te come una mostruosità bianca

smorta come la pancia di un pesce, con un numero insufficiente di oc-

chi e un corpo fungoide, pallido e gonfio di gas. Solo perché la sua na-

tura è diversa, non hai alcun diritto di affermare che tale natùra è ne-

cessariamente malvagia.

199

Norris proferì un unico, tonante:--Puah!--Abbassò lo sguardo

sulla cosa.--Può darsi che le creature provenienti da altri mondi non

debbano necessar2amente essere malvage soltanto perché sono diverse,

certo. Ma quella creatura lo era dawero! Figlia della Natura, eh? Be',

per l'Inferno, come doveva essere malvagia quella Natura!

--Ehi, volete piantarla lì, voialtri rompiscatole, di polemizzare tra

di voi? e volete decidervi a togliere quella roba dal mio tavolo?--

brontolò Kinner.--E metteteci un telo sopra. Ha un aspetto indecen-

te.

--Kinner mi diventa pudico--lo burlò Connant.

Kinner guardò con la coda dell'occhio il corpulento fisico. La guan-

cia sfregiata si torse, unendosi alla linea delle labbra strette per for-

mare un ghigno.--D'accordo, grand'uomo, ma di cosa ti lamentavi

un minuto fa? Possiamo mettere quella roba su una sedia accanto alla

tua, queta sera, se lo desideri.

--Non ho paura della sua faccia--ritorse Connant.--Non mi dà

nessun particolare piacere fargli la veglia funebre, ma vedrò ugual-

mente di farlo.

Il sorriso di Kinner si allargò.--Già, già--fece. Si accostò alla stu-

fa e cominciò alacremente a far scendere la cenere, seppellendo le

schegge di ghiaccio. Blair si rimise al lavoro.

- Clic - riferì il contatore dei raggi cosmici. - Clic, brrrp, clic. -

Connant sobbalzò e lasciò cadere la matita.

--Maledizione.--Il fisico lanciò un'occhiata all'indirizzo dell'altra

estremità della baracca, al contatore Geiger collocato sul tavolo ac-

canto a quell'angolo, e si mise carponi sotto il tavolo dove stava lavo-

rando, per cercare di recuperare la matita. Poi si rimise a sedere e ri-

prese il lavoro, cercando di scrivere in modo più chiaro. La sua calli-

grafia tendeva ad avere sobbalzi e fremiti, all'unisono con i suoni

improvvisi, simili al verso di una gallina soddisfatta, che emetteva il

contatore Geiger. Il sibilo attutito della lampada a petrolio che usava

per l'illuminazione, la mescolanza di gorgoglii e di fanfare provenien-

te dalla decina di persone che dormivano nel corridoio della Casa Pa-

radiso costituivano i rumori di fondo su cui s'inserivano i chioccolii ir-

regolari del contatore e il fruscio occasionale del carbone che si asse-

stava nella stufa panciuta di rame. Oltre al debole, continuo

d77p-drip-dr2p della cosa nell'angolo.

Connant si strappo di tasca un pacchetto di sigarette, ne batté il fon-

200

do in modo che una sigaretta saltasse fuori, quindi si piazzò fra le lab-

bra il cilindretto di tabacco. L'accendino fece cilecca, ed egli frugò rab-

biosamente in mezzo álla pila di carte, per trovare un fiammifero. Fe-

ce scorrere varie volte la ruota dell'accendino, lo lasciò cadere sul

tavolo con un'imprecazione e si alzò per andare a prendere con le mol-

le, dalla stufa, un pezzo di carbone acceso.

L'accendino funzionò poi al primo colpo, non appena egli fu ritorna-

to alla scrivania.

Il contatore emise una serie di chioccolii soddisfatti quando una sal-

va di raggi cosmici lo raggiunse. Connant si voltò verso il contatore

per indirizzargli un'occhiata di stizza, e cercò di concentrarsi sull'in-

terpretazione dei dati raccolti nel corso della precedente settimana. Il

riepilogo settimanale...

Poi vi rinunciò, arrendendosi alla curiosità, o al nervosismo. Prese

la lampada dalla scrivania e la trasportò sul tavolo nell'angolo. Poi ri-

tornò alla stufa e raccolse le molle. La bestia continuava a sgelarsi da

diciotto ore, ormai. Egli la tastò con la molla, ponendo in quell'atto,

un inconsapevole cautela: la carne non era più dura come le lastre di

una corazza, ma aveva assunto una consistenza di gomma. Sembrava

una massa di gomma bagnata, azzurra, coperta di luccicanti goccioli-

ne d'acqua simili a piccoli gioielli rotondi, alla luce della lampada a

petrolio.

Connant provò l'irragionevole desiderio di versare l'intero serbatoio

di petrolio su quella cosa contenuta nella cassa, e di gettarvi la siga-

retta accesa. Insensibili, i tre occhietti rossi lo fissavano trucemente, e

i bulbi oculari color rubino rimandavano a lui i raggi di luce fumosi e-

opachi.

Comprese vagamente di avere continuato a fissare quegli occhi per

un tempo assai lungo, e addirittura comprese in modo assai vago che

insensibili, quegli occhi, non lo erano più. Ma questo non gli parve im-

portante: come non gli parve importante il faticoso lento movimento

delle appendici simili a tentacoli che spuntavano dalla base del collo

sottile, lentamente pulsante.

Connant riprese la lampada e ritornò alla sedia. Si mise a sedere

fissando le pagine di espressioni matematiche che aveva davanti a sé.

Il chioccolio del contatore, adesso, era divenuto, stranamente, meno

fastidioso; il fruscio dei carboni nella stufa non riusciva più a distrarre

la sua attenzione-

Il cigolio del pavimento di assi di legno, dietro di lui, non interruppe

il filo dei suoi pensieri, mentre egli scriveva in modo automatico il re-

SOConto settimanale, riempiva colonnine di cifre e apponeva delle note

di commento, col riassunto delle osservazioni

Il cigolio delle assi del pavimento si fece piu vicino.

201

Blair riemerse bruscamente dalle profondità del sonno, agitate da in-

cubi. La faccia di Connant galleggiava vagamente sopra di lui; per un

istante gli parve la continuazione degli orrori scatenati che gli erano

apparsi nel sogno. Ma la faccia di Connant era rabbiosa, e un poco spa-

ventata.--Blair... Blair, maledetto dormiglione, sveglia.

--Uhm?... Eh?--Il piccolo biologo si strofinò gli occhi e le sue dita

ossute e lentigginose si raccolsero a formare come il pugno mutilato di

un bambino. Dalle cuccette adiacenti, altre facce si sollevarono per

fissarli.

Connant si raddrizzò.--Alzati... e muoviti. Il tuo maledetto anima-

le è scappato.

--Scappato?... cosa?--La voce stentorea del capo pilota Van Wall

s'innalzò a un volume che fece tremare le pareti. Dal fondo del tunnel

di comunicazione, altre voci si misero improvvisamente a urlare. I do-

dici abitanti della Casa Paradiso si precipitarono d'improvviso nella

stanza: Barclay, massiccio e quasi tondo in un enorme paio di mutan-

doni di lana, portava con sé un estintore.

--Che diavolo succede?--chiese Barclay.

--Questa vostra maledetta bestia si è liberata. Mi sono addormen-

tato una ventina di minuti fa, e quando mi sono svegliato, la cosa non

c'era più. Ehi, Doc, col cavolo che ci hai raccontato che quelle bestie

non possono ritornare in vita. La maledetta vita potenziale descritta

da Blair ha sviluppato un potenziale del diavolo e ci è scappata sotto il

naso.

Copper lo fissò con occhi vacui.--Non era... terrestre --sospirò

d'improvviso.--Io... io credo che le leggi della Terra non siano valide

per essa.

--Be', si è messa in lista per una licenza e se l'è presa da sola. Dob-

biamo trovarla e catturarla in qualche maniera.--Connant imprecò

amaramente; i suoi occhi neri e infossati erano torvi e incolleriti.--E

un miracolo che quell'infernale creatura non mi abbia divorato men-

tre dormivo.

Blair gli restituì lo sguardo, e i suoi occhi pallidi furono improv-

visamente pieni di paura.--A meno che... ehm... uhm... dovremo sco-

prirlo.

--Scoprilo tu. Era la tua beniamina. Io ne ho più che abbastanza;

starmene seduto laggiù per sette ore, con il contatore che ticchettava

ogni pochi secondi, e voialtri dormiglioni qui dentro a fare il coro dei

russanti. Mi meraviglio di essere riuscito ad addormentarmi. Vado al-

I'Amministrazione.

Il comandante Garry entrò in quel momento, chinandosi per passa-

re sotto I uscio. Era occupato ad allacciarsi la cintura.--Non ce ne sa-

rà bisogno. Il ruggito di Van sembrava il suo aeroplano quando decol-

la controvento. Allora, non era morta?

--Non sono stato io a portarla fuori in braccio, di questo potete es-

serne certi--ritorse Connant.--L'ultima volta che l'ho vista, da quel

suo cranio spaccato cominciava a uscire una poltiglia verde, come

quando si schiaccia un grosso bruco. Doc ha detto in questo istante

che le nostre leggi non valgono per quella cosa, non è terrestre. Be', è

un mostro ultraterreno, con un caratterino ultraterreno, a giudicare

dalla faccia, e se ne va a spasso con la testa spaccata e il cervello che

gli cola fuori.

Sulla soglia comparvero Norris e McReady; dietro di loro, gli stipiti

incorniciavano le facce di molti uomini tremanti.--Qualcuno l'ha vi-

sta venire da questa parte?--domandò Norris, in tono innocente.

--Alta circa un metro e venti, tre occhi rossi, cervello che cola fuori...

Ehi, qualcuno ha controllato che non sia uno scherzo di dubbio gusto?

Se lo fosse, penso che tutti sareste d'accordo con me nel prendere il be-

niamino di Blair e legarlo al collo di Connant come l'albatros nella

ballata dell'antico marinaio.

--Non è una burla--disse Connant, rabbrividendo.--Oh, Dio,

preferirei che lo fosse. Preferirei portarmela al...--S'interruppe. Un

urlo selvaggio, sovrannaturale, echeggiò lungo i corridoi. Gli uomini

s'irrigidirono bruscamente. Metà dei presenti si volse verso quella di-

rezione.

--Credo che sia stata localizzata--terminò Connant. I suoi occhi

scuri si posavano qua e là, animati da uno strano nervosismo. Corse

alla sua cuccetta nella Casa Paradiso, e quasi immediatamente fu di

ritorno con un pesante revolver calibro 45 e un'ascia. Li brandì tutti e

due con delicatezza, e si avviò lungo il corridoio in direzione del cani-

le.--Andando in giro a caso, deve avere imboccato il corridoio sba-

gliato... ed essere finita tra i cani. Ascoltate, i cani hanno spezzato le

catene...

I guaiti semiterrorizzati della muta si erano trasformati nella confu-

Sione selvaggia della caccia. Le voci dei cani rimbombavano negli

stretti corridoi, e insieme con esse giunse un basso ringhiare intermit-

tente: odio allo stato puro. Uno strillo di dolore; una dozzina di guaiti

ringhiosi.

Connant corse alla porta. A un passo da lui, McReady, poi Barclay e

:~ il comandante Garry lo seguirono immediatamente. Altri uomini si

avviarono di corsa verso l'Amministrazione, e verso le armi: la capan-

r~ na delle slitte. Pomroy, che si occupava delle cinque mucche dell'Ac-

r Campamento Magnetico Principale, si avviò per il corridoio nella dire-

zione opposta: aveva in mente un certo forcone dal manico lungo qua-

si due metri e dalle punte assai sottili.

Barclay si arrestò con uno scivolone, quando la mole gigantesca di

McReady fece una brusca giravolta e si allontanò dal tunnel che con-

duceva al canile, svanendo in una direzione laterale. Nel dubbio, il

meccanico esitò per un momento, senza lasciare l'estintore che aveva

in mano, mentre decideva il percorso da seguire. Poi riprese a correre

dietro le ampie spalle di Connant. Qualunque cosa McReady avesse in

mente, ci si poteva fidare che fosse capace di metterla in atto.

Connant si arrestò al gomito del corridoio. Il respiro sibilò brusca-

mente nella sua gola.--Gran Dio...--La pistola sparò con fragore di

tuono; tre assordanti, quasi tangibili ondate di suono echeggiarono

negli stretti corridoi. Poi altre due. Il revolver cadde sulla neve com-

pressa del camminamento, e Barclay vide l'ascia da ghiaccio passare

in posizione difensiva. 11 corpo massiccio di Connant gli ostruiva la vi-

sta, ma dietro di esso egli udì qualcosa che miagolava e, follemente, ri-

deva. Adesso i cani erano più calmi: nel loro basso ringhiare c'era una

mortale serietà. Zampe munite di artigli raschiavano sulla neve indu-

rita, catene spezzate sbattevano e tintinnavano.

Connant bruscamente cambiò piede, e Barclay poté vedere cosa ave-

va davanti. Per un istante rimase impietrito, poi il fiato gli uscì dalle

labbra in una feroce bestemmia. La cosa si lanciò contro Connant, e le

braccia poderose dell'uomo calarono l'ascia, di piatto, su quella che

sarebbe potuta essere una testa. Ci fu un terribile scricchiolio, ma poi

la carne ridotta a brandelli, lacerata da una mezza dozzina di cani da

slitta inferociti, ritornò di nuovo in piedi. Gli occhi rossi bruciavano di

un odio ultraterreno, di un'ultraterrena, insopprimibile vitalità.

Barclay volse contro di essa l'estintore; il getto accecante, corrosivo,

di nebbia chimica confuse la cosa, la disorientò e, insieme con il sel-

vaggio attacco dei cani - incapaci di provare per più di pochi istanti

paura di qualsiasi cosa che fosse, o che potesse essere, viva - la tenne a

bada.

McReady, aprendosi la strada in mezzo agli altri, stava arrivando

dal corridoio stretto, stipato di persone che non riuscivano a vedere la

scena. L'attacco di McReady aveva la decisione di qualcosa di proget-

tato con cura. Una delle torce a cherosene usate per riscaldare i motori

dell'aereo era stretta nelle sue mani bronzee. La torcia ruggì impetuo-

samente quando egli svoltò il corridoio e aprì la valvola. Il rabbioso

miagolio salì di tono. I cani si ritirarono precipitosamente dalla lancia

di fiamma, lunga quasi un metro e di colore bluastro.

--Bar, prendi un cavo sotto tensione, portalo fino a noi in qualche

maniera. E un manico. Possiamo folgorare con l'elettricità questo...

mostro, se non riesco a incenerirlo io.--McReady parlava con l'auto-

rità di chi ha già in mente un programma d'azione. Barclay si avviò

per il lungo corridoio, diretto all'impianto generatore, ma già prima

di lui Norris e Van Wall si erano messi a correre.

Barclay trovò il cavo nell'armadietto dei pezzi di riserva dell'impian-

to elettrico, nella parete del tunnel. La voce di Van Wall echeggiò in un

grido di avvertimento:--Tensione!--quando la dinamo con motore

a benzina, tenuta di riserva per i casi di emergenza, entrò rombando

in azione. Una mezza dozzina di uomini, intanto, si era già radunata

laggiù; carbone e legna venivano infilati nel focolare dell'impianto

elettrico a vapore. Norris, che bestemmiava con voce bassa e monoto-

na, lavorava con dita svelte e sicure dall'altra estremità del cavo di

Barclay, collegandola a una presa.

I cani si erano ritirati, quando Barclay raggiunse il gomito del corri-

doio: si erano ritirati di fronte a una mostruosità inferocita che lancia-

va fiamme dai tre occhi rossi e pieni d'odio, miagolando per la rabbia

di vedersi in trappola. I cani formavano un semicerchio di musi spor-

chi di rosso, con una frangia di denti bianchi e scintillanti, e uggiola-

vano con malvagia bramosia che quasi uguagliava la furia degli occhi

rossi. Calmo, McReady stava all erta nel gomito del tunnel: nelle mani

aveva la torcia ancora ferocemente accesa, ed era pronto a rimetterla

in azione contro il mostro. Fece un passo di lato senza distogliere gli

occhi dalla bestia quando Barclay lo raggiunse. C'era un sorriso esile e

tirato sulla sua scarna faccia bronzea.

La voce di Norris lanciò un richiamo dal fondo del corridoio, e Bar-

clay fece un passo avanti. Il cavo elettrico era fissato con del nastro

isolante al lungo manico di una pala da neve: i due conduttori erano

stati allontanati tra loro, e venivano tenuti alla distanza di un paio di

spanne per mezzo di un pezzo di legno legato ad angolo retto, di tra-

verso, sull'impugnatura del manico. I fili di rame, privi d'isolamento,

caricati a 220 volt, scintillavano alla luce delle lampade a petrolio. La

cosa miagolò, s'immobilizzò per un attimo e poi cercò di sottrarsi.

McReady si accostò al fianco di Barclay. I cani davanti a loro avverti-

rono la natura del piano degli uomini con l'intelligenza quasi telepati-

ca dei cani da slitta addestrati. Il loro uggiolio divenne più acuto, più

sommesso, e i loro passi al rallentatore li portarono più vicini al mo-

stro. All'improvviso un enorme cane dell'Alaska, nero come la notte, si

lanciò contro la cosa intrappolata. Essa si voltò come un turbine, col-

pendo il cane con le zampe armate di artigli affilati come sciabole.

Barclay fece un balzo in avanti e affondò la sua arma. Un urlo sovru-

mano, acutissimo, si alzò e si ruppe, soffocato. L'odore di carne brucia-

ta si fece più aspro in tutto il corridoio; si alzarono volute pigre di fu-

mo denso e grasso. L'eco del rombo della dinamo a benzina divenne un

tonfo cupo, all'altro capo del corridoio.

Gli occhi rossi si velarono nella tremolante parodia, sempre più rigi-

da, di una faccia. Membra simili a braccia e a gambe sobbalzarono e

tremarono~ I cani balzarono avanti, e Barclay ritirò la sua arma mon-

ata sul manico di una pala. La cosa che giaceva sulla neve non si mos-

se più, mentre i denti scintillanti la facevano a brandelli.

204 = 205

Garry si guardò attorno, nella stanza affollata. Trentadue uomini: al-

cuni ancora tesi per il nervosismo, appoggiati contro la parete; altri

incerti e rilassati; alcuni seduti; molti, volenti o nolenti, costretti a ri-

manere in piedi per mancanza di spazio, vicini come sardine. Trenta-

due, più i cinque che si stavano occupando di ricucire le ferite dei ca-

ni: trentasette in tutto, il personale al completo.

Garry cominciò a parlare:--D'accordo, penso che siamo arrivati

tutti. Alcuni di voi... tre o quattro al massimo... hanno visto ciò che è

successo. Tutti voi avete visto la cosa che è sul tavolo, e potete farvi

un'idea generale. A beneficio di chiunque non l'avesse vista, ora solle-

verò...--La sua mano corse al telo cerato che copri~a il rigonfiamento

della cosa deposta sul tavolo. Ne usciva un acre odore di carne brucia-

ta. Gli uomini si affrettarono a dire che non ce n'era bisogno, e si agita-

rono preoccupati.

--Ho proprio idea che Charnauk non guiderà più nessuna muta--

continuò Garry.--Blair vuole poter mettere le mani su questa cosa,

per compiere degli esami più dettagliati. Noi vogliamo sapere che co-

s'è successo, ed essere certi che adesso sia permanentemente, comple-

tamente morta. Giusto?

Connant sorrise.--Chiunque non sia d'accordo può venire qui a te-

nerle compagnia per la notte.

--D'accordo, allora. Blair, che cosa mi puoi dire di essa? Che

cos'era?--Garry si voltò verso il piccolo biologo.

--Mi chiedo se l'abbiamo mai vista nella sua vera forma natura-

le.--Blair portò lo sguardo sulla massa ancora coperta dalla tela ce-

rata.--Può darsi che imitasse le creature che hanno costruito quell'a-

stronave... ma non penso che sia la ~erità. Secondo me, quella era la

sua vera forma. Quelli di noi che erano vicino al gomito del corridoio

l'hanno vista in azione; la cosa che c'è sul tavolo è il risultato. Quando

si è liberata, a quanto pare, ha cominciato a guardarsi attorno. L'An-

tartide è ancora coperta di ghiaccio come lo era intere epoche geologi-

che fa, quando questa creatura la vide per la prima volta... e si conge-

lò. Dalle osservazioni da me compiute mentre si stava scongelando, e

dai campioni di tessuto organico che in quella occasione ho staccato e

colorato, credo che fosse originaria di un pianeta più caldo della Ter-

ra. Non poteva, nella sua forma naturale, sopportare la temperatura.

Non c'è alcun organismo vivente sulla Terra che possa vivere nell'An-

tartide durante l'inverno, ma la miglior soluzione di compromesso so-

no i cani. La cosa ha trovato i cani, e in qualche modo è riuscita ad av-

vicinarsi a Charnauk e a ucciderlo. Gli altri cani hanno sentito il suo

odore... o il suo rumore... non so, e si sono inferociti, hanno spezzato le

catene e l'hanno attaccata prima che avesse finito con Charnauk. La

cosa che noi abbiamo trovato era in parte Charnauk, che stranamente

era morto solo per metà, in parte Charnauk semidigerito dal protopla-

sma di quella creatura, simile a gelatina, e in parte era un residuo del-

la cosa che abbiamo trovato originariamente, fusosi, o qualcosa di si-

mile, fino a raggiungere lo stato base del suo protoplasma.

--Quando i cani l'hanno attaccata, essa si è trasformata nella mi-

glior creatura da combattimento che le è venuta in mente. A quanto si

direbbe, una bestia di un altro pianeta.

--Trasformata--scattò Garry.--E in che modo?

--Ogni organismo vivente è costituito di gelatina... di protoplasma

cioè, e di minuscole, submicroscopiche entità chiamate nuclei, che

controllano la massa che li circonda, il protoplasma. Questa cosa non

era altro che una modificazione del piano universale seguito dalla Na-

tura; cellule, costituite di protoplasma, controllate da nuclei infinita-

mente più piccoli. Voi fisici potreste paragonarla... paragonare uma

cellula isolata di qualsiasi organismo vivente... a un atomo; la massa

dell'atomo, la parte che riempie lo spazio, è costituita dalle orbite de-

gli elettroni, ma le sue caratteristiche sono determinate dal nucleo

atomico.

"Queste considerazioni non s'allontanano in modo troppo radicale

da ciò che già conosciamo. Si tratta solamente di una modificazione

che non abbiamo mai incontrato in passato. E altrettanto naturale, al-

trettanto logica, quanto ogni altra manifestazione della vita. Obbedi-

sce esattamente alle stesse leggi. Le cellule sono fatte di protoplasma,

le loro caratteristiche sono determinate dai nuclei.

"Solo che in questa creatura i nuclei cellulari possono controllare le

cellule con un atto di votontd. Ha digerito Charnauk, e, mentre lo dige-

riva, ha studiato ciascuna cellula dei suoi tessuti, e ha modificato le

proprie cellule in modo da imitarla esattamente. Alcune parti della

cosa... le parti che hanno avuto il tempo di cambiare fino in fondo...

sono cellule di cane. Ma non hanno nuclei come quelli delle cellule di

cane.n Blair sollevò un angolo della tela cerata. Ne uscì una zampa di

cane tutta lacerata, coperta di ispidi peli grigi. nQuesta, per esempio,

non è affatto canina; è imitazione. Di alcune parti non sono certo, il

nucleo si nasconde dietro un altro nucleo che imita quello delle cellule

canine A tempo debito, neppure un microscopio avrebbe potuto mo-

strare la differenza."

--E supponendo--chiese amaramente Norris--che avesse avuto

tUtto il tempo che voleva?

--Allora sarebbe diventata un cane. Gli altri cani l'avrebbero accol-

ta tra loro. Noi l'avremmo accolta tra noi. Noi stessi l'avremmo accol-

ta come uno di noi. Non credo che possa esistere uno strumento capa-

ce di distinguerla: né il microscoDio. né i raoai X. né altro. E un mem-

bro di una razza supremamente intelligente: una razza che ha appreso

i segreti più profondi della biologia, e li ha volti a proprio uso.

--E che cosa intendeva fare?--Barclay lanciò un'occhiata alla tela

cerata e ciò che si nascondeva sotto di essa.

Blair sorrise, a disagio. L'ondeggiante aureola di capelli sottili che

circondava il suo cranio pelato si scosse, accompagnando il movimen-

to dell'aria.--Impadronirsi del mondo, immagino.

--Impadronirsi del mondo! Proprio questo, tutto da solo?--Con-

nant boccheggiò.--Mettersi sul trono come un dittatore solitario?

--No.--Blair scosse il capo. Il bisturi che aveva continuato a strin-

gere fra le dita gli cadde di mano; si chinò a raccoglierlo, cosicché,

mentre parlava, la sua faccia rimase nascosta agli altri.--Divente-

rebbe la popolazione del mondo.

--Diventerebbe... Popolerebbe il mondo? Perché, si riproduce in

modo asessuale?

Blair scosse il capo e trangugiò.--E un... non ne ha bisogno. Pesava

38 chili. Chamauk ne pesava circa 40. Sarebbe diventato Charnauk, e

gli sarebbero rimasti 38 chili per diventare... o Jack, per esempio, o

Chinook. Pub imitare qualsiasi cosa, ossia diventare qualsiasi cosa. Se

avesse raggiunto il Mare Antartico, sarebbe diventato una foca... ma-

gari due foche. Avrebbero potuto attaccare un'orca marina, e poi di-

ventare due orche, oppure un branco di foche. O magari avrebbe preso

un albatros, o un gabbiano, e sarebbe volato fino in Sudamerica.

Norris imprecò a voce bassa.--E ogni volta che avesse digerito

qualcosa, e l'avesse imitato...

--Gli sarebbe rimasto il proprio peso di partenza, per ricominciare

di nuovo--terminò Blair.--Nulla potrebbe ucciderlo. Non ha nemi-

ci naturali, poiché diventa qualsiasi cosa voglia diventare. Se un'orca

marina lo attaccasse, diventerebbe un'orca marina. Se fosse un alba-

tros e un'aquila lo attaccasse, diventerebbe un'aquila. Signore, po-

trebbe diventare un'aquila femmina. Tornare indietro, fare il nido e

deporre le uova!

Sei sicuro che quella creatura infernale sia morta?--chiese il

dottor Copper, piano.

--Sì, grazie al Cielo--rispose il piccolo biologo.--Quando hanno

portato via i cani, io stesso sono rimasto lì, a colpirla per cinque minu-

ti con l'aggeggio per la folgorazione elettrica costruito da Bar. Ormai è

morta... e cotta.

--Allora possiamo soltanto ringraziare che siamo nell'Antartide,

dove non ha neppure un'unica, singola, solitaria forma di vita da imi-

tare, tolti gli animali dell'accampamento.

--Noi--fece Blair, con una risatina sciocca.--Potrebbe imitare

noi. Un cane non riuscirebbe a percorrere seicentocinquanta chilome-

tri fino al mare; non c'è cibo. Non ci sono gabbiani da imitare in que-

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sta stagione. Non ci sono pinguini, così nell'entroterra. Non c'è nulla

che possa raggiungere il mare da questa località... eccetto noi. Noi ab-

biamo il cervello. Noi possiamo farlo. Non capite?... Deve imitare noi...

deve essere uno di noi... è l'unico modo in cui può servirsi di un aeropla-

no... votare per due ore, e dominare... essere... tutti gli abitanti della Terra.

Ha un mondo da raccogliere... se imita noi!

--Ma non lo sapeva ancora. Non ha avuto la possibilità di imparar-

lo. Aveva fretta... era in pericolo... ha preso la cosa che ha trovato, la

più vicina alla sua stessa taglia. Ecco... io sono Pandora... ho aperto il

vaso! E l'unica speranza che può uscirne... è che non c'è nulla che pos-

sa uscirne! Voi non mi avete visto. Me ne sono occupato io. Ho risolto

il problema. Ho rotto il magnete di ciascun aereo. Non è rimasto un

solo aereo che possa volare. Nulla può volare.--Blair rise sciocca-

mente e si accasciò a terra, piangendo.

Il capo pilota Van Wall si tuffò in direzione della porta. I suoi passi

erano un'eco che svaniva nel corridoio mentre il dottor Copper si pie-

gava senza fretta sul corpo del piccolo uomo steso sul pavimento. Dal

suo armadio all'altra estremintà della stanza, egli prese qualcosa e

iniettò un'imprecisata soluzione nel braccio di Blair.--Forse ritorne-

rà normale quando si sveglierà--disse con un sospiro, rialzandosi.

McReady lo aiutò a sollevare il biologo e a trasportarlo di peso su una

cuccetta.--Dipende solo da questo: se riusciremo a convincerlo che

quella cosa è morta.

Van Wall ritornò nella baracca, strofinandosi con aria distratta la

folta barba bionda.--Non pensavo che un biologo potesse portare

avanti fino in fondo una simile iniziativa. Si è dimenticato dei ricambi

del secondo armadietto. Tutto a posto. Li ho rotti io.

Il comandante Garry annuì.--Mi domandavo della radio.

ll dottor Copper sbuffò.--Non penserete che possa scappare via su

'~ un'onda radio, vero? Se sospendessimo le trasmissioni, arriverebbero

cinque spedizioni di soccorso nel giro di tre mesi. La cosa da farsi è

quella di parlare, senza riferire niente. Ora mi chiedo se

McReady fissò il medico con aria interrogativa.--Potrebbe essere

come una malattia infettiva. Ogni cosa che abbia assorbito il suo san-

gue

p Copper scosse il capo.--Blair ha dimenticato una cosa. Sarà benis-

i~ simo capace di imitare, ma deve possedere, almeno fino a un certo

- punto, una propria chimica organica, un proprio metabolismo. Se non

li avesse, allora diventerebbe cane, certo... ma resterebbe un cane e

niente di più. Deve essere un cane fasullo. E dunque lo possiamo sco-

prire mediante prove sul siero. E la sua chimica, poiché proviene da

un altro mondo, deve essere così completamente, radicalmente diver-

sa, che alcune cellule, ad esempio quelle che raggiungono l'organismo

dalle gocce di sangue, sarebbero trattate come germi patogeni dall'or-

L~ ganismO del cane... o dell'uomo.

--Sangue?... Una di quelle imitazioni sarebbe capace di sanguina-

re?--domandò Norris.

--Certo. Nel sangue non c'è nulla di arcano. I muscoli sono compo-

sti di acqua per il 90~o; il sangue è diverso soltanto in questo: ha qual-

che centesima parte di acqua in più, e meno tessuto connettivo. Un'i-

mitazione sanguinerebbe normalmente--gli assicurò Copper.

Dalla cuccetta, Blair si rizzò bruscamente a sedere.--Connant...

Dov'è Connant?

Il fisico si recò accanto al piccolo biologo.--Sono qui. Che cosa

vuoi?

--Tu sei?--disse Blair, ridendo scioccamente. Tornò a sprofondare

nella cuccetta, contorcendosi in mute risate.

Connant lo fissò con occhi vacui.--Che? Sono io cosa?

--Sei dawero lì?--Blair fu scosso da un accesso di risate.--Sei

dawero Connant? Quella bestia voleva essere un uomo... non un cane!

Il dottor Copper si alzò stancamente dalla cuccetta e lavò con cura la

siringa ipodermica. Il sottile tintinnio parve molto rumoroso, nella

stanza affollata, ora che la gorgogliante risata di Blair era finalmente

cessata. Copper rivolse lo sguardo verso Garry e scosse lentamente il,

capo.--Non c'è speranza, temo. Non credo che riusciremo mai a con-

vincerlo che la cosa è morta.

Norris fece un sorriso incerto.--Non credo che riuscirete a convin-

cere me. Oh, accidenti a te, McReady.

--McReady?--Il comandante Garry distolse lo sguardo da Norris

per fissare McReady con curiosità.

--Gli incubi--spiegò Norris.--McReady aveva una teoria sugli

incubi da noi avuti alla stazione Secondaria dopo avere trovato quella

cosa.

--E com'era?--Garry fissò McReady senza battere ciglio.

Per lui rispose Norris, parlando inquieto, a scatti.--Che la creatura

non fosse morta ma avesse una sorta di esistenza enormemente rallen-

tata- un'esistenza che le permetteva comunque di essere vagamente

cosciente del passare del tempo, e del nostro arrivo dopo infiniti anni.

Io stesso ho sognato che era capace di imitare le cose.

--Be'--brontolò Copper--ne è capace.

--Non fare lo stupido--ritorse Norris.--Non è questa la parte che

mi preoccupa. Nel sogno poteva leggere la mente; leggere i pensieri e

le idee e i modi di agire individuali.

_ E cosa c'è di male? Mi pare che la cosa vi preoccupi più di un'al-

tra, e cioè il pensiero di come sarà divertente avere con noi un matto,

in un campo antartico.--Copper indicò con il capo la sagoma dor-

miente di Blair.

McReady scosse lentamente la testa.--Voi sapete che Connant è

Connant: infatti egli non soltanto assomiglia a Connant... cosa che, a

quantO cominciamo a pensare, era capace di fare anche la bestia... ma

pensa come Connant, parla come Connant, si comporta con noi come

si comporta Connant. E per farlo non basta solamente un corpo che as-

somigli al suo, occorre anche la mente stessa di Connant, i suoi pensie-

ri e i suoi caratteristici modi di agire. Pertanto, anche se da una parte

voi sapete che la cosa avrebbe potuto assumere un aspetto simile a

quello di Connant, dall'altra l'intera questione non vi preoccupa mol-

to, poiché voi sapete che la mente della cosa proverrebbe da un altro

mondo: sarebbe una mente completamente inumana, non potrebbe

reagire e pensare e parlare come un uomo che conosciamo, e non po-

trebbe farlo in maniera così abile da ingannarci anche solo per un mo-

mento. L'idea che quella creatura imiti uno di noi è affascinante, ma è

irreale, poiché la cosa è troppo inumana per poterci ingannare. Essa

non possiede una mente umana.

--Come ho detto in precedenza--ripeté Norris, fissando McReady

senza battere ciglio--tu riesci a dire le cose più infernali nel più in-

fernale dei momenti. Mi fai il favore di completare il tuo pensiero... in

un modo o nell'altro?

Kinner, il cuoco della spedizione dal volto segnato da una cicatrice,

era rimasto fermo accanto a Connant fino a quel momento. Improv-

visamente si scosse e, attraversando l'intera lunghezza della stanza af-

follata, si diresse alla sua cucina, dove si mise rumorosamente a scuo-

t tere la cenere dal focolare della stufa.

--Alla cosa non servirebbe a niente--disse il dottor Copper a voce

bassissima, come se pensasse a voce--limitarsi ad assomigliare a

t qualcosa che essa cerca di imitare; dovrebbe comprenderne le sensa-

i zioni, le reazioni. E la cosa è profondamente inumana; ha poteri di imi-

~ tazione che vanno al di là di qualsiasi concetto degli uomini. Un buon

L attore, mediante l'esercizio, può giungere a imitare un altro uomo, i

suoi modi di agire, in modo sufficiente a ingannare quasi tutti. Natu-

ralmente~ però, nessun attore riuscirebbe a imitarlo in modo talmente

t~` perfetto da ingannare uomini che sono vissuti con la persona imitata

nella assoluta mancanza di privacy che c'è in un accampamento del-

E I~Antartide. Ciò richiederebbe un'abilità superumana.

--Oh, ci sei arrivato anche tu?--Norris lanciò un'imprecazione, a

voce bassa.

Connant, che era fermo accanto alla parete, da solo, a un'estremità

[ della stanza, si guardò intorno ferocemente. con il viso nallidissimo

Con una sorta di lentissima osmosi, gli uomini si erano pian piano

spostati verso l'altra estremità della stanza, e adesso intorno a lui s'e-

ra fatto il vuoto.--Santo Dio, volete starvene zitti, voi due menagra-

mo?--A Connant tremava la voce.--Che cosa sono, io? Una sorta di

esemplare microscopico che voialtri state dissezionando? Un verme

talmente sudicio da doverne parlare in terza persona?

McReady alzò lo sguardo su di lui; per un istante, le sue mani cessa-

rono di torcersi lentamente.--Ci divertiamo moltissimo. Peccato che

non ci sia anche tu. Firmato: Tutti.

"Connant, se ti pare di essere in una posizione infernale, basta che tu

ti metta per un momento nei panni degli altri. Tu hai l'unica cosa che

noi non abbiamo: tu sai qual è la risposta. Ti dirò una cosa: in questo

momento tu sei la persona più temuta e rispettata di tutto il Campo

Magnetico Principale."

--Gesù; se tu potessi vedere i tuoi occhi--disse Connant, boccheg-

giando.--Smettila di fissarmi, per favore! Che cosa diavolo intendi

fare?

--Ha qualche suggerimento, dottor Copper?--chiese a voce ferma

il comandante Garry.--Questa situazione è impossibile.

--Ah, sì?--ritorse Connant.--Venite da questa parte, e guardate

quella folla. Santo Cielo, sembrano esattamente la muta di cani dietro

il gomito del corridoio. Benning, la pianti di agitare quella maledetta

ascia da ghiaccio?

La lama di bronzo cadde a terra con un suono metallico quando il

meccanico degli aerei, innervosito, mollò la presa. Si chinò all'istante

e la raccolse, la soppesò lentamente, facendosela girare tra le mani,

mentre i sui occhi scuri si muovevano a scatti per tutta la stanza.

Copper si sedette sulla cuccetta accanto a Blair. Il legno cigolò ru-

morosamente. Lontano, in fondo a un corridoio, un cane uggiolò per il

dolore, e le voci tese degli addestratori dei cani si alzarono piano.

--Un esame al microscopio--disse il dottore, pensoso--sarebbe

inutile, come ci ha detto Blair. E già trascorso un tempo considerevo-

le. Però un esame del siero risulterebbe conclusivo.

--Esame del siero? Che cosa intende dire esattamente?--doman-

dò il comandante Garry.

--Se ho un coniglio cui è stato iniettato sangue umano... che per i

conigli è un veleno, naturalmente, così come è un veleno il sangue di

qualsiasi altro animale, escluso i conigli stessi... e le iniezioni conti-

nuassero per qualche tempo, salendo continuamente di dose, il coni-

glio diventerebbe immune all'uomo. Se poi gli togliessimo una piccola

quantità del suo sangue, e la lasciassimo sedimentare in una provetta

e aggiungessimo al siero trasparente una goccia di sangue umano, ci

sarebbe una reazione assai appariscente, la quale dimostrerebbe che il

sangue che abbiamo introdotto è umano. Se aggiungessimo sangue di

mucca o di cane... o qualsiasi altro materiale proteico diverso da un'u-

nica cosa, cioè il sangue umano... non si verificherebbe alcuna reazio-

ne. Questo sarebbe la dimostrazione definitiva.

_ E mi puoi dire dove posso trovare il coniglio che ti serve, dotto-

re?--chiese Norris.--Cioè, senza andare in Australia: non vogliamo

perdere tempo per arrivare fino là.

_ so che non ci sono conigli in Antartide--disse Copper, annuen-

do col capo--ma il coniglio è solo l'animale che si usa di solito. Ogni

altro animale, a eccezione dell'uomo, va ugualmente bene. Ad esem-

pio, un cane. Ma la cosa richiederà alcuni giorni, e, data la mole della

bestia, una grossa quantità di sangue. Due di noi dovranno diventare

donatori.

--Posso offrirmi io?--chiese Garry, annuendo.--Mi metterò im-

mediatamente all'opera.

--E per quanto riguarda Connant, nel frattempo?--domandò Kin-

ner.--Uscirò da quella porta e mi metterò a correre verso il Mare di

Ross, piuttosto che cucinare per lui.

--Potrebbe anche essere umano...--cominciò a dire Copper.

Connant esplose in una serie di imprecazioni.--Umano! Potrei an-

che essere umano, accidenti a te, maledetto segaossa! Ma cosa diavolo

credi che io sia?

--Un mostro--disse seccamente Copper.--E adesso chiudi il bec-

cO e dammi retta.--Dal viso di Connant era scomparso ogni colore; si

mise pesantemente a sedere quando l'accusa venne pronunciata.

--Finché non lo sapremo... e tu sai bene quanto noi che abbiamo degli

ottimi motivi per mettere in dubbio la cosa, e soltanto tu sai quale po-

trà essere la risposta... ci si aspetta logicamente che noi ti si metta sot-

to chiave. Se tu sei... non umano... sei molto più pericoloso del povero

Blair qui presente, e per quanto riguarda Blair mi occuperò io stesso

di chiuderlo a chiave in modo che non possa uscire. Prevedo che il suo

prossimo passo sarà quello di provare il violento desiderio di uccider-

ti, di uccidere i cani e probabilmente anche noi. Quando si sveglierà,

sarà sicuro che noi tutti siamo non umani, e nulla in Terra potrà cam-

biare le sue convinzioni. Sarebbe più gentile lasciarlo morire, ma non

possiamo farlo, è chiaro. Finirà in una delle baracche, e tu potrai ri-

manere nella baracca dei raggi cosmici insieme con le tue apparec-

chiature. Che poi è la cosa che faresti in qualsiasi caso. Devo andare a

preparare un paio di cani.

Connant annuì, amaramente.--lo sono umano. Fa' in fretta con

quell~esame. I tuoi occhi... Signore, se solamente tu potessi vedere i

tuoi occhi, come mi fissano...

Il comandante Garry osservò con ansia mentre Clark, l'addetto ai

cani, teneva fermo il grosso eschimese bruno e Copper dava inizio alle

miezioni. Il cane non era eccessivamente ansioso di collaborare: l'ago

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pungeva, e già al mattino aveva sperimentato la sua dose di cucito.

Cinque punti suturavano una lacerazione che gli partiva dalla spalla

per giungere fino a metà del corpo, passando sulle costole. Una lunga

zanna era spezzata a metà; la parte mancante si sarebbe potuta trova-

re semisepolta nell'osso della spalla della cosa mostruosa che giaceva

sul tavolo dell'edificio Amministrazione.

--Quanto occorrerà?--chiese Garry, stringendosi delicatamente il

braccio. Era tutto indolenzito per la puntura dell'ago usato dal dottor

Copper per estrarre il sangue.

Copper alzò le spalle.--Non lo so, detto francamente. Conosco il

metodo in generale e l'ho usato sui conigli. Ma non ho mai sperimen-

tato con i cani. Sono animali grossi, goffi per questo tipo di lavoro di

laboratorio; naturalmente, i conigli immuni all'uomo, li forniscono

opportuni laboratori: pochi sono i ricercatori che si prendano la fatica

di prepararseli da sé.

--Ma che cosa se ne fanno, laggiù?--chiese Clark.

--La criminologia è un campo vasto. A dice di non aver ucciso B, e

che il sangue sulla sua camicia viene da un pollo. La polizia fa un test,

poi spetterà ad A spiegare come mai quel sangue reagisca con i conigli

immuni all'uomo, e non con quelli immuni al pollo.

--Che ne faremo di Blair nel frattempo?--chiese stancamente

Garry.--Va benissimo lasciarlo dormire lì per un po', ma quando si

sveglierà...

--Barclay e Benning stanno mettendo qualche robusto chiavistello

sulla porta della baracca dei raggi cosmici--rispose Copper, con un

sorriso torvo.--Connant si sta comportando da geniluomo. Ho l'im-

pressione che il modo con cui gli altri lo guardano possa contribuire a

fargli desiderare un po' di privacy. Dio sa, come tutti noi, individual-

mente, abbiamo pregato per un po' di intimità.

Clark rise amaramente.--Adesso non più, grazie tante. Fitta briga-

ta, vita beata.

--Blair--continuò Copper--dovrà a sua volta avere intimità... e

chiavistelli. Avrà certamente in testa un piano ben dettagliato, quan-

do si sveglierà. Avete mai sentito il modo per fermare l'afta nei bovini,

quello che usavano una volta?

--Se non c'è afta, non ci sarà afta--Copper spiegò.--Potete sba-

razzarverne uccidendo ogni animale che ne mostra i segni, e ogni ani-

male che è stato vicino a un animale ammalato. Blair è biologo, e co-

nosce certamente questa vecchia storia. Inoltre ha paura di questa co-

sa che abbiamo messo il libertà. Probabilmente avrà già chiara la

risposta: uccidere tutto e tutti in questo campo, prima che un gabbia-

no o un albatros che si spinge all'interno con la primavera capiti per

caso da noi e... si prenda la malattia.

Le labbra di Clark si torsero.--Mi sembra logico. Se le cose doves-

sero diventare troppo brutte... forse faremmo meglio a lasciare libero

Blair. Ci impedirebbe di commettere suicidio. Anzi, potremmo fare un

voto, un giuramento, che se le cose dovessero veramente volgere al

peggio, si provveda a fare una cosa simile.

Copper rise piano.--L'ultimo uomo rimasto in vita al Campo Ma-

gnetico Principale... non sarebbe un uomo--spiegò.--Qualcuno do-

vrà uccidere quelle... creature che non desiderano uccidersi da sole, lo

sai. Non abbiamo abbastanza termite per farlo tutto in una volta, e l'e-

splosivo alla decanite non servirebbe a molto. Ho l'impressione che

anche i piccoli pezzi di una di quelle cose possano essere autosufficien-

ti.

--Se possono--disse Garry, pensoso--modificare il loro proto-

plasma a volontà, non pensa che si limiteranno a modificare se stessi

trasformandosi in uccelli e poi se ne voleranno via? Possono leggere

tutto ciò che occorre sugli uccelli, e imitare la loro struttura senza ve-

nire direttamente in contatto con essi. Oppure imitare uccelli del loro

pianeta.

Copper scosse il capo e aiutò Clark a liberare il cane.--L'uomo ha

studiato gli uccelli per centinaia di anni, cercando di imparare come

costruire una macchina che volasse come loro. Non riuscì mai a sco-

prire il modo; infine, il successo gli giunse quando rinunciò nettamen-

te a quell'idea e si mise a cercare nuovi metodi. Tra conoscere il prin-

cipio in generale e conoscere nei dettagli la struttura dell'ala e del-

I'osso e del tessuto nervoso c'è molta, moltissima differenza. E per ciò

che riguarda gli uccelli di altri mondi, forse, anzi molto probabilmen-

, te, le condizioni atmosferiche che abbiamo qui sono talmente diverse

~r da quelle che regnano laggiù che i loro uccelli non potrebbero volare.

Anzi, forse quella creatura è venuta da un pianeta come Marte, con

~-~ un'atmosfera talmente rarefatta che non esistono gli uccelli.

Barclay entrò nella stanza, portando con sé un rotolo di cavo d'ac-

ciaio per i comandi degli aerei.--Tutto fatto, Doc. La baracca dei rag-

gi cosmici non può essere aperta dall'interno. E adesso, dove mettia-

mo Blair?

Copper guardò Garry.--Non c'è nessuna capanna riservata ai bio-

logi. Non so dove potremmo isolarlo.

@ --Che ne dice della baracca Est?--chiese Garry, dopo averci pen-

sato per un momento.--Blair è in grado di badare a se stesso, oppure

ha bisogno di... essere sorvegliato?

L Ne è abbastanza in grado. Saremo noi, quelli da sorvegliare--

~`. gli assicurò Copper, con amarezza.--Prenda una stufa, un paio di

sacchi di carbone e qualche arnese per mettere a posto il tutto. Non c'è

~ pib stato nessuno dallo scorso autunno, vero?

·L Garry scosse la testa.--Se diventa rumoroso... mi pare che possa

~ essere una buona idea.

Barclay sollevò gli attrezzi che aveva con sé e fissò Garry.--Se il

brontolio che sta emettendo ora è una buona indicazione, passerà l'in-

tera notte cantando. E le sue canzoni non ci piaceranno.

--Che cosa dice?--chiese Copper.

Barclay scosse il capo.--Non avevo voglia di ascoltare a lungo. Se

vuoi, puoi ascoltarlo tu. Ma ho capito che quel maledetto idiota ha fat-

to tutti i sogni che ha fatto McReady, e qualcuno in più, anche. Ha dor-

mito accanto alla cosa, a ogni fermata che abbiamo fatto nel ritornare

dal Polo Magnetico Secondario, ricorda. Ha sognato che la cosa era vi-

va, e l'ha sognato in maggiori dettagli. E - che possa dannarsi l'anima

- sapeva che non si trattava solamente di un sogno, o almeno aveva

motivo di pensarlo. Sapeva che aveva dei poteri telepatici che si stava-

no vagamente ridestando, e che non solo poteva leggere la mente, ma

poteva anche proiettare i pensieri. Non erano sogni, vedi. Erano pen-

sieri in libertà che la cosa proiettava, un po' come Blair, in questo stes-

so momento, sta proiettando i suoi... una sorta di mormorio telepatico

nel sonno. Per questo sapeva così tante cose dei suoi poteri. Penso che

tu, Doc e io non siamo così sensibili, se pensi di poter credere alla tele-

patia.

--Non posso farne a meno--sospirò Copper.--Il dottor Rhine del-

la Duke University ha mostrato che esiste, e ha mostrato che alcune

persone sono assai più sensitive di altre.

--Be', se desideri sapere un mucchio di dettagli, va' ad ascoltare ciò

che Blair comunica. Ha costretto la maggior parte dei ragazzi a scap-

pare via dell'Edificio dell'Amministrazione; Kinner continua a sbatte-

re le casseruole come se fosse carbone che rotola lungo uno scivolo.

Quando non ha sottomano nessuna casseruola da sbattere, sbatte la

cenere.

--A proposito, comandante, cosa faremo questa primavera, adesso

che gli aeroplani sono in panne?

Garry sospirò.--Temo che la nostra spedizione sia destinata a esse-

re una netta perdita. Non possiamo dividere le nostre forze in questo

momento.

--Non sarà una perdita... se continueremo a vivere, e riusciremo a

uscire fuori da questa situazione--gli promise Copper.--Il ritrova-

mento da noi fatto, se riusciremo a metterlo sotto controllo, è abba-

stanza importante. I dati sui raggi cosmici, il lavoro sul campo ma-

gnetico e quello sull'atmosfera non subiranno gravi ritardi.

Garry rise senza allegria.--Stavo proprio pensando alle trasmis-

sioni radio. Riferire a mezzo mondo i meravigliosi risultati dei nostri

voli esplorativi, cercando di ingannare persone come Byrd ed Ells-

worth nella madrepatria, facendo loro credere che stiamo facendo

qualcosa.

CoDDer, serio, annuì.--Si accorgeranno che c'è qualcosa che non

va. Ma uomini come quelli hanno abbastanza giudizio per capire che

non cercheremmo di ingannarli se non avessimo una qualche sorta di

motivo, e aspetteranno il nostro ritorno per giudicarci. Penso che in

fin dei conti la situazione risulterà la seguente: gli uomini abbastanza

esperti per riconoscere il nostro inganno aspetteranno il nostro ritor-

no. Gli uomini che non hanno fede e discrezione sufficienti ad attende-

re, non avranno neppure l'esperienza necessaria a scoprire un ingan-

no. Noi conosciamo a sufficienza le condizioni di qui per poter imba-

stire un plausibile bluff.

--Solo perché non inviino spedizioni di "salvataggion--si augurò

Garry.--Quando - e se - saremo in grado di uscire, dovremo informa-

re il capitano Forsythe di portare con sé una scorta di magneti, quan-

do verrà da noi. Se invece... no, per ora lasciamo perdere.

--Se non potremo mai allontanarci, vuoi dire?--chiese Barclay.

--Mi chiedevo se un bel racconto in presa diretta di un'eruzione o di

un terremoto via radio, con un opportuno finale sonoro ottenuto me-

diante un candelotto di decanite sotto il microfono, non potesse aiu-

tarci. Nulla, ovviamente, riuscirà a tenere lontano la gente in eterno.

Ma una di quelle eleganti, melodrammatiche scene tipo "ultimo su-

perstite" potrebbe convincerli a non affrettarsi troppo.

Garry sorrise, sinceramente divertito.--E anche gli altri uomini

del campo si danno da fare per trovare simili idee?

Copper rise.--Che cosa crede, Garry? Siamo sicuri di poter vincere

in definitiva. Ma non sarà una cosa troppo facile, penso.

Clark alzò la testa e sorrise, distogliendo gli occhi dal cane che, a

forza di carezze, cercava di far tornare alla calma.--Sicuri, hai detto,

dottore?

Blair si aggirò inquieto per tutta l'ampiezza della piccola baracca. I

suoi occhi scattavano e tremolavano lanciando vaghe occhiate sfug-

r~ genti ai quattro uomini che lo accompagnavano: Barclay, alto un me-

,1~ tro e ottanta e pesante più di 80 chili; McReady, un gigante bronzeo; il

dottor Copper, basso, tozzo e robusto; e Benning, un metro e settanta-

Cinque di nervi d'acciaio.

Blair si rannicchiò contro la parete più lontana della baracca Est: la

sua roba era accumulata in mezzo al pavimento, accanto alla stufa, e

formava come un'isola tra lui e i quattro uomini. Le sue mani ossute

Continuavano a stringersi e ad aprirsi, terrorizzate. I suoi occhi chiari

emolavano inquieti e la sua testa calva e coperta di lentiggini guiz-

zava da una parte all'altra con movimenti da uccellino spaventato.

--Non voglio che nessuno venga qui. Mi farò da mangiare da me--

disse, nervosamente.--Kinner può essere umano, ora come ora, ma

ne dubito. Troverò una soluzione, ma non intendo mangiare nessun ci-

bo che voi mi mandiate. Voglio scatolette. Scatolette chiuse ermetica-

mente.

--Va bene, Blair, te le porteremo questa sera--promise Barclay.

--Hai del carbone, e il fuoco è acceso. Farò un ultimo...--Barclay si

fece avanti.

Blair corse immediatamente a rifugiarsi nell'angolo più lontano.

--Esci fuori! Sta' lontano da me, mostro!--urlò il piccolo biologo, e

cercò di aprirsi la strada con le unghie nella parete della baracca.

--Stai lontano... stai lontano... non intendo lasciarmi assorbire... non

voglio...

Barclay si rilassò e si tirò indietro. Il dottor Copper scosse il capo.

--Lascialo solo, Bar. Per lui sarà più facile controllarsi da solo. Dob-

biamo occuparci della porta, credo...

I quattro uomini uscirono. Con efficienza, Benning e Barclay si mi-

sero al lavoro. Non c'erano lucchetti in Antartide: non c'era abbastan-

za intimità per renderli necessari. Ma in ciascuno degli stipiti erano

state awitate delle grosse viti, e cavo di scorta degli aerei, un cavo

d'acciaio intrecciato, estremamente robusto, venne legato tra le viti e

teso forte. Poi Barclay si mise all'opera con un trapano e un seghetto:

in poco tempo aprì nella porta uno sportellino da cui si sarebbe potuto

passare nella stanza gli alimenti, senza necessità di aprire la porta.

Tre spessi cardini presi da una cassa di provviste, due nottolini e una

copiglia da dieci centimetri assicuravano che non venisse aperto al-

I'interno.

All'interno, Blair si muoveva nervosamente. Tra sbuffi e impreca-

zioni a mezza voce, era intento a spingere qualche oggetto in direzione

della porta. Barclay aprì lo sportello e diede un'occhiata, mentre il

dottor Copper cercò di sbirciare da dietro le sue spalle. Blair aveva

spinto contro la porta la pesante branda. La porta, ormai, era impossi-

bile ad aprirsi senza la sua collaborazione.

--Non so, ma ho l'impressione che quel poveraccio abbia ragio-

ne--disse McReady, sospirando.--Se riesce a uscire, ha giurato di

uccidere tutti noi, nessuno eccettuato, il più presto possibile: progetto

col quale non siamo molto d'accordo. Ma c'è qualcosa, dalla nostra

parte di quella porta, che è ben peggio di un maniaco omicida. Se si

trattasse di scegliere tra i due, credo che verrei qui di persona a toglie-

re il cavo che blocca la porta.

Barclay gli sorrise:--Fammelo solo sapere, e ti farò vedere il modo

più svelto per toglierlo.

Il sole tingeva l'orizzonte settentrionale di arcobaleni multicolori,

sebbene tramontato già da due ore. Il campo di neve si stendeva a per-

dita d'occhio verso nord, e scintillava, sotto quei colori fiammeggian-

ti, con un milione di glorie riflesse. Basse montagnole bianche e tonde

sull'orizzonte settentrionale mostravano la Catena Magnetica, che su-

perava di poco la cima della tormenta. Piccole spirali di neve spinta

dal vento si allontavano dai loro sci mentre facevano ritorno all'ac-

campamento principale, a due miglia di distanza. Il dito scheletrico

dell'antenna radio s'innalzava come un sottile ago nero sullo sfondo

bianco del continente antartico. La neve sotto gli sci era come sabbia

fina: dura e frusciante.

--La primavera--disse Benning con amarezza--è giunta. Non è

divertente? Io aspettavo con ansia di potermi allontanare da questo

maledetto buco scavato nel ghiaccio.

_ Non ci proverei, se fossi in te--disse Barclay.--La gente che

cercherà di squagliarsela di qui nei prossimi giorni risulterà estrema-

mente impopolare.

_ Come va il tuo cane, dottor Copper?--chiese McReady.--Hai

già qualche risultato?

--In trenta ore? Magari ne avessi! Oggi gli ho fatto un'iniezione del

mio sangue. Ma penso che occorreranno altri cinque giorni. Non cono-

sco a sufficienza il procedimento per fare più in fretta.

--Mi chiedevo se Connant fosse... cambiato, ci avrebbe avvertito

così in fretta dopo la fuga della creatura? Non avrebbe aspettato un

po' di più, in modo da darle maggiore possibilità di assumere la nuova

forma? Non avrebbe aspettato che finisse di dormire?--chiese lenta-

mente McReady.

--Quella cosa egoista. Al vederla, non ti pareva che si ispirasse ai

più alti principi di giustizia, no?--gli fece notare il dottor Copper.

--Ogni parte di essa è la sua totalità, ogni sua parte pensa a se stessa,

immagino. Se Connant fosse stato cambiato, allora, allo scopo di sal-

vare la propria pelle, egli avrebbe dovuto... ma i sentimenti di Con-

nant non sono cambiati; sono perfettamente imitati, o sono i suoi. E

chiaro che l'imitazione farebbe esattamente le stesse cose che farebbe

Connant.

_ Di', Norris o Van non potrebbero sottoporre Connant a qualche

tipo di test? Se la cosa è più intelligente degli uomini, allora potrebbe

ConosCere la fisica più di quanto si suppone possa conoscerla Connant,

e loro due potrebbero accorgersene--suggerì Barclay.

Copper scosse stancamente il capo.--No, se legge nella mente. Non

puoi prepararle una trappola. Van ha già suggerito la stessa cosa la

Scorsa notte. Sperava che rispondesse a certe domande di fisica alle

quali anche lui vorrebbe dare una risposta.

Quest'idea di uscire a gruppi di quattro ci rallegrerà l'esisten-

za disse Benning, guardando i propri compagni.--Ciascuno di noi

terrà d'occhio i propri compagni per accertarsi che non facciano nulla

219

di... particolare. Gente, diventeremo proprio un bel gruppo di persone

ispirate alla reciproca fiducia! Ciascuno guarda il vicino esibendo il

massimo di fede e di fiducia... ora comincio a capire cosa intendesse

Connant quando diceva: ~Vorrei che potessi vedere i tuoi occhi~. Di

tanto in tanto dobbiamo avere anche noi lo stesso sguardo, credo.

Ognuno di noi si guarda attorno con uno sguardo del tipo: «Mi chiedo

se gli altri tre non siano per caso...~>. Tanto per chiarire, non voglio che

questo non si applichi anche a me.

--Per quanto ne sappiamo, l'animale è morto, con qualche residua

perplessità a riguardo di Connant. Nessun altro è sospetto.--McRea-

dy fece lentamente questa asserzione.--L'ordine di stare sempre in

"gruppi di quattron è soltanto una misura precauzionale.

--Mi aspetto che tra un po' Garry dia l'ordine di "quattro per cuc-

cetta~.--Barclay sospirò.--Pensavo che già prima si avesse poca in-

timità, ma da quell'ordine in poi...

Nessuno osservava con tensione superiore a quella di Connant. Una

piccola provetta sterile, piena a metà di un liquido paglierino. Una...

due... tre... quattro... cinque gocce della soluzione chiara che il dottor

Copper aveva preparato con le gocce di sangue prese dal braccio di

Connant. La provetta venne scossa attentamente, poi collocata in un

matraccio pieno di acqua pura e tiepida. Il termometro lesse la tempe-

ratura del sangue, un piccolo termostato scattò e poi la piastra elettri-

ca di riscaldamento cominciò ad arrossarsi, mentre le luci delle lam-

padine si abbassavano un poco. 3~

Poi minuscoli fiocchi bianchi di precipitato cominciarono a formar- ~a

si e a scendere come neve all'interno del liquido paglierino.--Signo- .

re--disse Connant. Si lasciò cadere pesantemente in una cuccetta, ;

piangendo come un bambino.--Sei giorni...--singhiozzò.--Sei

giomi dentro quella baracca, chiedendomi se quel maledetto test

mentisse.

Garry si avvicinò silenziosamente a lui, e gli appoggiò il braccio sul-

la spalla.

--~on poteva mentire--disse il dottor Copper.--Il cane era im-

mune all'uomo... e il siero ha reagito.

--E... è a posto?--ansimò Norris.--Allora... l'animale è morto...

morto per sempre?

--E umano--disse Copper, con sicurezza--e l'animale è morto

Kinner scoppiò a ridere, istericamente. McReady si voltò verso di

lui e cominciò a schiaffeggiarlo metodicamente: uno, due, uno, due. Il

cuoco rise, deglutì, pianse e infine si mise a sedere, strofinandosi la

guancia e mormorando vaghi ringraziamenti.--Se avevo paura, Si-

gnore, se avevo paura...

Norris rise seccamente.--E credi che noi non ne avessimo, razza di

scimmione? Pensi che Connant non ne avesse?

L'edificio Amministrazione si rianimò come per un improvviso rin-

giovanimento. Alcuni cominciarono a ridere, gli uomini ammassati

accanto a Connant parlarono con voci troppo alte, voci convulse, ner-

vose, che ridiventavano sollevate e amichevoli. Qualcuno lanciò un

suggerimento, e una decina di persone si diresse agli sci. Blair. Blair

poteva rinsavire... Il dottor Copper continuava a pasticciare con le sue

provette, sollevato dal nervosismo, occupato a provare varie soluzio-

ni. Il gruppo di salvataggio diretto alla baracca di Blair uscì dalla por-

ta, con gli sci che battevano rumorosamente. Lungo il corridoio i cani

emisero un rapido suono che stava a metà tra un guaito e un uiulato,

quando l'aria di eccitazione e di sollievo giunse fino a loro

Il dottor Copper continuò a pasticciare con le sue provette. Il primo

a notarlo fu McReady: lo vide seduto sul bordo della cuccetta, con in

mano due provette piene di liquido paglierino reso bianco dai fiocchi

del precipitato. La sua faccia era più bianca dei fiocchi nella provetta,

e dai suoi occhi, terrorizzati fino a un attimo prima, scendevano lacri-

me silenziose.

McReady si sentì trapassare il cuore da una gelida lama di paura

che gli raggelò il petto. Il dottor Copper sollevò lo sguardo.

--Garry--gridò con voce roca.--Garry, per l'amor di Dio, venga

qui.

Il comandante Garry si diresse rapidamente verso di lui. Il silenzio

calò bruscamente sull'edificio Amministrazione. Anche Connant alzò

lo sguardo, si sollevò rigidamente in piedi.

--Garry... i tessuti del mostro... anch'essi formano il precipitato. Il

testo non prova niente. Prova solo che il cane era anche immune al

mostro. Uno dei due che hanno donato il sangue... uno di noi due, io e

lei, Garry... uno di noi è un mos~ro.

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i --Bar, richiama indietro quegli uomini prima che arrivino da

Blair--disse piano McReady. Barclay si recò alla porta- debolmente

le Sue grida giunsero agli uomini rimasti nella stanza, tesi e silenziosi

~>oi ritornO all'interno.

--Stanno tornando--annunciò.--Non ho spiegato loro il perché.

Solo che il dottor Copper ha detto di non andare.

--McReady--sospirò Garry--adesso il comando è tuo. Che Dio ti

possa aiutare. Io non posso farlo.

Il gigante di bronzo annuì lentamente, fissando sul comandante

Garry gli occhi profondi.

--Potrei essere io--Garry aggiunse.--Io sono certo di non esserlo,

ma non posso dimostrarlo a voi in alcun modo. Il test del dottor Cop-

per è andato in fumo. Il fatto che egli stesso ci abbia mostrato che è

inutile, mentre al mostro sarebbe stato utile che tale inutilità non fos-

se nota, sembra dimostrare che egli è umano.

Copper si dondolò lentamente sulla cuccetta, avanti e indietro.--Io

so di essere umano. Anch'io non ho modo di dimostrarlo. Uno di noi

due è un bugiardo, perché quel test non può mentire, e il test afferma

che uno di noi due lo è. Io ho dato la prova che il test è inutile, e questo

parrebbe dimostrare che io sono umano, e ora Garry ha dato la dimo-

strazione logica che io sono umano... una dimostrazione che non

avrebbe dovuto dare, se fosse il mostro. E un giro vizioso che gira... gi-

ra... gira...

La testa del dottor Copper, poi il suo collo e le spalle cominciarono

lentamente a girare, al ritmo delle parole. Poi, bruscamente, stese la

schiena sulla cuccetta, scoppiando in una fragorosa risata.--Non c'è

bisogno di dimostrare che uno di noi è un mostro! Non c'è affatto biso-

gno di provarlo! Ho-ho. Se siamo tutti dei mostri, il ragionamento fila

lo stesso! Siamo tutti mostri... tutti... Connant e Garry e io... e tutti voi.

--McReady--chiamò piano Van Wall, il capo pilota dalla barba

bionda--tu avevi cominciato gli studi di medicina prima di passare

alla meteorologia, no? Puoi escogitare qualche test?

McReady si avvicinò lentamente a Copper, gli tolse la siringa dalla

mano e la lavò accuratamente in una soluzione di alcool al 95 per cen-

to. Garry rimase immobile a sedere, sul bordo della cuccetta, con il

volto rigido come legno, sorvegliando Copper e McReady.--Ciò che

Copper ha detto, è possibile--fece McReady, sospirando.--Van, vuoi

aiutarmi, per favore? Grazie.--L'ago si piantò nella coscia di Copper.

La sua risata non si interruppe, ma lentamente si trasformò in un sin-

ghiozzo e poi in un sonno profondo quando la morfina fece effetto.

McReady si voltò di nuovo. Gli uomini che erano partiti per recarsi

da Blair erano fermi all'altra estremità della stanza, con gli sci spor-

chi di neve e gocciolanti; le loro facce erano bianche come i loro sci.

Connant aveva in ciascuna mano una sigaretta accesa: da una traeva

boccate, con espressione assente, e intanto fissava il pavimento. Il bru-

ciore di quella che teneva nell'altra mano richiamò bruscamente la

sua attenzione; egli la fissò, poi fissò stupidamente quella da cui aspi-

rava. Infine ne gettò una a terra e la calpestò lentamente con il tacco.

222

--Il dottor Copper--ripeté McReady--potrebbe avere ragione. Io

5o di essere umano... ma è chiaro che non posso dimostrarlo. Ripeterò

il test per mia personale informazione. Se un altro di voi vuole farlo, lo

faccia pure a sua volta.

Due minuti più tardi, McReady mostrò la provetta in cui il precipi-

tato bianco si separava lentamente dal siero paglierino.--Anche que-

sta reagisce al sangue umano, e quindi nessuno dei due è un mostro.

--Non pensavo che potessero esserlo--disse Van Wall, con un so-

spiro.--Anche questa sarebbe stata una soluzione insoddisfacente

per il mostro: scoprendolo, avremmo potuto uccidere i mostri nascosti

tra noi. Ma perché il mostro non ci ha distrutto, mi chiedo? Sembra

che sia libero tra noi.

McReady sbuffò. Poi rise piano.--Elementare, mio caro Watson. Il

mostro desidera avere disponibili delle forme di vita. Non può anima-

re un corpo morto, a quanto pare. Si limita ad attendere... ad attende-

re l'occasione più opportuna. Noi che siamo ancora umani, ci tiene di

riserva.

Kinner rabbrividì violentemente.--Ehi. Ehi, Mac. Mac, io lo sa-

prei, se fossi un mostro? Lo saprei, se il mostro mi avesse già preso?

Oh Signore, io potrei già essere un mostro.

--Lo sapresti--rispose McReady.

--Ma non lo sapremmo noi.--Norris rise seccamente, quasi isteri-

camente.

McReady guardò l'ultima provetta di siero che ancora restava.

--C'è una sola cosa a cui questa maledetta roba può servire, però--

disse, pensoso.--Clark, tu e Van potete venire ad aiutarmi? Gli altri è

meglio rimangano tutti insieme qui dentro. Tenetevi d'occhio tra di

voi--disse con amarezza.--Ma badate a non combinare qualche

guaio, se capite cosa intendo dire.

McReady si avviò lungo il tunnel, in direzione del canile seguito da

Clark e Van Wall.--Ti occore altro siero?--Domandò Cíark.

McReady scosse il capo.--Test. Ci sono quattro vacche e un toro, e

quasi settanta cani, laggiù. Questa sostanza reagisce soltanto al san-

gue umano... e ai mostri.

~4cReady, ritornato all'edificio Amministrazione, si recò silenziosa-

~ente al lavandino. Clark e Van Wall si unirono a lui un istante più

tardi. Sulle labbra di Clark era sorto un tic che le contraeva in smorfie

--Che cosa avete fatto?--sbottò Connant.--Altre immunizzazio-

ni?

Clark fece una smorfia, poi sobbalzò per un singulto.--Immunizza-

zioni. Già. Immuni, sicuro.

--Quel mostro--disse con voce ferma Van Wall--è molto razio-

nale. Il nostro cane immune era perfettamente a posto, e abbiamo pre-

levato da lui un po' di siero per i test. Ma ora non ne faremo più.

--Non possiamo usare il sangue umano... su un altro cane?...--co-

minciò Norris.

--Non ci sono--disse McReady, lentamente--altri cani. E neppu-

re vacche, devo aggiungere.

--Non ci sono altri cani?--Benning appoggiò lentamente le spalle

allo schienale.

--Sono molto cattivi quando cominciano a cambiare--disse Van

Wall, soppesando le parole.--Ma lenti. Quell'aggeggio per la scossa

elettrica che hai fatto tu, Barclay, è molto efficace. Resta solamente un

cane... il nostro cane immune. Il mostro ce lo ha lasciato, in modo che

potessimo divertirci con i nostri inutili test. Gli altri...--Sollevò le

spalle e si asciugò le mani.

--Le vacche...--Kinner deglutì a vuoto.

--Anche quelle. Hanno avuto una bella reazione. Hanno un aspetto

molto ridicolo, quando cominciano a sciogliersi. Una bestia non ha

molte possibilità di scappare in fretta, quando è legata con la catena

da cani, e doveva essere legata, per la riuscita dell'imitazione.

Kinner si alzò lentamente in piedi. I suo occhi sbarrati corsero per

l'intera stanza e giunsero a fermarsi, su un recipiente di stagno posto

nella dispensa. Lentamente, un passo dopo l'altro, si ritirò verso la

porta, aprendo e chiudendo silenziosamente la bocca, come un pesce

fuor d'acqua.

--Il latte...--boccheggiò.--Le ho munte un'ora fa...--La sua vo-

ce si spezzò e divenne un urlo mentre si buttava fuori della porta. Uscì

sulla banchina polare senza giacca a vento o abiti pesanti.

Van Wall lo seguì per un istante con lo sguardo, pensosamente.

--Probabilmente è impazzito senza rimedio--disse infine--ma po-

trebbe anche essere un mostro che fugge. Non ha preso gli sci. Prepa-

rate una di quelle torce degli aerei... non si sa mai.

L'esercizio fisico dell'inseguimento fece loro bene: era una cosa che

andava fatta. Tre degli altri vomitavano tranquillamente. Norris gia-

ceva supino, con la faccia verdognola, e fissava senza battere ciglio il

fondo della cuccetta sopra la sua.

--Mac, da quanto tempo le mucche... non sono più mucche?

McReady scosse le spalle, impotente. Si recò al secchio del latte e

cominciò a lavorare su di esso con la sua piccola provetta di siero. Il

latte formò una nuvoletta all'interno della provetta, rendendo difficile

dare un giudizio. Infine McReady rimise la provetta nella rastrelliera

e scosse il capo.--Il test è negativo. Questo significa che erano muc-

che al momento della mungitura, oppure, essendo delle perfette imita-

zioni, che hanno dato del lattte perfettamente imitato.

Copper si agitò inquieto nel sonno ed emise un gorgoglio che stava a

metà tra il ridere e il russare. Occhi silenziosi si piantarono su di lui.

--La morfina... su um mostro...--cominciò a chiedere qualcuno.

--Lo sa Dio--disse McReady, alzando le spalle.--Agisce su ogni

animale terrestre a me noto.

Connant, bruscamente, sollevò la testa.--Mac! I cani devono avere

inghiottito pezzi del mostro, e i pezzi li hanno distrutti! I cani, ecco il

posto dove era il mostro. Io ero chiuso a chiave. Questo non dimostra

che io?...

Van Wall scosse il capo.--Spiacente. Non dimostra nulla su cib che

tu sei; dimostra solo ciò che non hai fatto.

--Non dimostra neppure quello-- disse McReady, sospirando.

--Siamo impotenti. Poiché non ne sappiamo abbastanza, e siamo così

nervosi, non riusciamo neppure a ragionare correttamente. Chiuso a

chiave! Avete mai visto come un globulo bianco attraversa la parete di

un vaso sanguigno? No? Emette uno pseudopodo. E poi te lo trovi di

là... dall'altra parte della parete.

--Oh--fece Van Wall, tristemente--le vacche hanno cercato di

sciogliersi, no? Avrebbero potuto sciogliersi del tutto... divenire sem-

plicemente un filo di materia e scivolare sotto la porta per poi rico-

struirsi dall'altra parte. Legarli con corde, no... non servirebbe neppu-

re questo. E in un serbatoio sigillato non potrebbero vivere...

--Se spari a uno nel cuore, e quello non muore, allora è un mo-

stro--disse McReady.--E il miglior test a cui riesco a pensare, così

su due piedi.

--Niente cani--disse Garry, piano.--E niente vacche. Ora deve

imitare uomini. E chiudere la gente a chiave non risolve niente. Il tuo

test potrebbe essere utile, Mac, ma temo che la cosa sarebbe un po' du-

ra per gli uomini...

F, Clark alzò lo sguardo dalla stufa, quando Van Wall, Barclay, McReady

e Benning entrarono, scuotendosi la neve dagli abiti. Gli altri uomini

E affollati nell'edificio Amministrazione continuarono ostentatamente a

fare ciò che stavano facendo: giocare a scacchi, a poker, leggere. Ral-

sen riparava una slitta, sul tavolo- Van e Norris~ con le te~te vicino.

leggevano dei dati sul magnetismo, mentre Harvey leggeva ad alta vo-

ce alcune tabelle.

Il dottor Copper ronfava piano, sulla sua cuccetta. Garry stava lavo-

rando con Dutton a un fascio di messaggi radio, su un angolo della

cuccetta di Dutton e su una piccola frazione del tavolo della radio.

Connant aveva occupato la maggior parte del tavolo con i fogli dei ri-

levamenti dei raggi cosmici.

Dall'altro capo del corridoio, nonostante le due porte, si udiva abba-

stanza forte la voce di Kinner. Clark posò rumorosamente un bricco

sulla stufa e rivolse silenziosamente a McReady un cenno del capo. Il

meteorologo si avvicinò a lui.

--Non è che mi dispiaccia cucinare--disse Clark nervosamente

--ma non c'è un modo di far tacere l'amico? Tutti noi pensiamo che

sarebbe preferibile toglierlo dalla baracca dei raggi cosmici.

--Kinner?--McReady indicò l'uscio col capo--Temo di no. Potrei

dargli un narcotico, penso, ma non abbiamo riserve illimitate di mor-

fina, e non è in pericolo di perdere la ragione. E semplicemente isteri-

co.

--Be', siamo noi che siamo in pericolo di perdere la nostra. Tu sei

stato via un'ora e mezzo. La cosa è andata avanti senza interruzione,

per tutto il periodo, e andava avanti già da due ore. C'è un limite, sai.

Garry si avvicinò lentamente a loro, con aria di scusa. Per un istante

McReady colse una scintilla ferina di paura, di orrore, negli occhi di

Clark, e in quello stesso istante seppe che anch'egli l'aveva negli occhi.

Garry... Garry o Copper... era certo un mostro.

--Se potessi farlo smettere, Mac, penso che sarebbe una buona poli-

tica--disse Garry, parlando tranquillamente.--Ci sono già abba-

stanza... tensioni, in questa stanza. Eravamo d'accordo che sarebbe

stato meglio avere Kinner qui, poiché ogni altra persona del campo è

sotto costante sorveglianza.--Garry rabbrividì debolmente.--E cer-

ca, per l'amor di Dio, cerca di trovare un test che funzioni.

McReady sospirò.--Sorvegliato o no, ciascuno di noi è teso. Blair

ha sbarrato il portello, cosicché ora non possiamo aprirlo. Dice di ave-

re abbastanza cibo, e continua a gridare: «Andate via, andate via... sie-

te dei mostri. Non mi lascerò assorbire. Non voglio. Lo dirò agli uomi-

ni quando arriveranno. Andate via.« E così... siamo andati via.

--Non c'è qualche altro test?--chiese Garry, implorante.

McReady scosse le spalle.--Copper aveva perfettamente ragione. Il

test del siero sarebbe stato assolutamente decisivo se non fosse stato...

contaminato. Ma ci è rimasto un solo cane, e ormai è immunizzato.

--Con la chimica? Un test chimico?

McReady scosse il capo.--La nostra chimica non è così progredita.

Ho cercato col microscopio, lo sai.

Garry annuì.--Il cane mostro e il cane vero erano identici. Ma... de-

vi continuare. Cosa faremo dopo cena?

Van Wall si era unito a loro senza far rumore.--Dormiremo a tur-

no. Metà dormono, metà restano svegli. Mi chiedo quanti di noi siano

mostri. Tutti i cani lo erano. Noi pensavamo di essere al sicuro, ma in

qualche modo ha preso Copper... o te.--Gli occhi di Van Wall si mos-

sero inquieti.--Potrebbe avervi presi tutti... e tutti voi, io eccettuato,

forse ve lo state chiedendo, state facendo dei progetti. No, non è possi-

bile. Vi limitereste a saltarmi addosso. Io sarei inerme. Noi umani, ho

I'impressione, dobbiamo essere ancora in maggioranza, in questo mo-

mento. Ma...--e s'interruppe.

McReady rise seccamente.--Stai facendo la stessa cosa che Norris

ha rinfacciato a me. Lasciare a mezzo un'affermazione. «Ma se ancora

uno cambia, questo potrebbe spostare l'equilibrio delle forze.« La co-

sa non lotta. Non credo che lotti mai. Deve essere una creatura pacifi-

ca... nel suo irripetibile modo. Non ne ha mai avuto bisogno, perché ha

sempre ottenuto il proprio scopo in altri modi.

Le labbra di Van Wall si storsero in un sorriso malato.--Allora, tu

seggerisci che forse ha già la maggioranza, e si limita ad attendere...

tutti si limitano ad attendere... tutti voi, per quel che ne so io... atten-

dere finché io, che sono l'ultimo degli umani, abbandono la cautela

per addormentarmi. Mac, hai notato i loro occhi, tutti fissi su di noi?

Garry sospirò.--Voi due non siete rimasti a sedere qui per quattro

ore filate, mentre tutti i loro occhi silenziosamente valutavano l'infor-

mazione che uno di noi due, io e Copper, è certamente un mostro... e

che forse lo siamo entrambi.

Clark ripeté la sua richiesta.--Non volete farlo tacere? Mi fa im-

pazzire. Almeno fategli abbassare la voce.

--Continua a pregare?--Chiese McReady.

--Continua a pregare--Grugnì Clark.--Non ha smesso un secon-

do. Le preghiere non mi danno fastidio, se pensa che gli facciano bene,

ma quello urla, canta salmi e inni e grida preghiere; pensa che Dio non

riesca a udire bene, a questa distanza.

:. --Forse Dio non ci riesce proprio--brontolò Barclay--altrimenti

egli avrebbe fatto qualcosa per questa cosa uscita dall'inferno.

--Qualcuno finirà per sperimentare il test che dicevi, se non riusci-

rai a farlo stare zitto--disse Clark, trucemente.--Penso che un col-

tello da macellaio in testa potrebbe essere un test altrettanto valido

j~ che un proiettile nel cuore.

Prepara la cena. Io vado a vedere cosa posso fare. Magari in qual-

i~ che armadio posso trovare qualcosa di utile.--McReady si mosse

stancamente verso l'angolo che Copper usava come farmacia. Erano

tre armadietti alti, di assi grezze e due erano chiusi con un lucchetto:

I in essi erano depositate le medicine del campo. Dodici anni prima,

McReady si era laureato in medicina, aveva cominciato a fare pratica

in un ospedale e poi si era indirizzato verso la meteorologia. Copper

era un ottimo medico: un uomo che conosceva completamente, in mo-

do aggiornato, la sua professione. Più di metà dei farmaci disponibili

erano completamente sconosciuti a McReady; molti degli altri se li

era dimenticati. Laggiù non c'era una grossa biblioteca medica, non

c'erano a disposizione collezioni di giornali medici da cui imparare le

cose che aveva dimenticato: le cose che a Copper sarebbero parse sem-

plici, elementari, tanto che non le aveva giudicate meritevoli di essere

incluse nella piccola biblioteca che si era portato e che era ridotta al

minimo. I libri pesano, e ogni grammo dell'equipaggiamento era stato

portato in aereo.

McReady prese un barbiturico, speranzosamente. Barclay e Van

Wall gli stavano dietro. Un uomo non andava da nessuna parte da so-

lo, al campo Magnetico Principale.

Ralsen aveva tolto dal tavolo la slitta, e i fisici si erano allontanati;

al loro ritorno, la partita a poker si era interrotta. Clark serviva il cibo.

Il tintinnio dei cucchiai e i suoni attutiti del pasto erano l'unico segno

di vita della stanza. Non vi furono parole quando i tre ritornarono;

semplicemente, tutti gli occhi si fissarono su di loro con aria interro-

gativa, mentre le mascelle si muovevano metodicamente.

McReady s'irrigidì bruscamente. Kinner urlava un inno religioso,

con voce roca e spezzata. Guardò stancamente Van Wall, gli rivolse un

sorriso tirato e scosse il capo.--Ehm-ehm.

Van Wall lanciò una bestemmia e si sedette al tavolo.--Dovremo

sopportarlo finché non gli mancherà la voce. Non può continuare a

gridare a quel modo per tutta l'eternità.

--Ha la gola di bronzo e la laringe di ghisa--spiegò ferocemente

Norris.--Oppure, con un po' di licenza, potremmo dire che è uno dei

nostri amici. In tal caso potrebbe andare avanti, rinnovandosi la gola,

fino alla consumazione dei secoli.

Il silenzio precipitò bruscamente sull'accampamento. Per venti mi-

nuti, tutti mangiarono senza pronunciare una parola. Poi Connant

balzò in piedi, furente.--Siete qui immobili come un mucchio di sta-

tue di marmo. Non dite una sola parola, ma, oh, Signore, she occhi

espressivi avete! Continuano a roteare come un sacco di bilie di vetro

rovesciate su un tavolo. Sbattono, si chiudono e fissano... e mormora-

no cose. Voi ragazzi non potreste guardare da qualche altra parte, per

favore, tanto per cambiare un po'?

"Senti, Mac, sei tu che comandi, adesso. Proiettiamo qualche film

per il resto della notte. Li avevamo tenuti da parte per farli durare.

Durare a che scopo? Chi potrà vedere quelle ultime bobine? Vediamo-

le finché possiamo, e guardiamo qualcosa che, una volta tanto, non so-

no le nostre facce".

--Buona idea, Connant. Io per primo sono disposto a fare tutto ciò

che posso per cambiare la situazione.

_ Alza il volume, Dutton. Forse riuscirai a superare gli inni--sug-

gerì Clark.

--Ma non spegnere completamente la luce--disse Norris, piano.

--Le luci saranno spente-- disse McReady, scuotendo il capo.

_ Proietteremo tutti i cartoni animati che abbiamo. Non vi dispiace

vedere i vecchi cartoni animati, vero?

--Bello, bello, un film per bambini, mi sento giusto in quello spiri-

to.--McReady si voltò a guardare colui che aveva parlato: un tale

magro e allampanato, originario del New England, che rispondeva al

nome di Caldwell. Caldwell si stava riempiendo lentamente la pipa, e

teneva su McReady un occhio un po' acido.

Il gigante di bronzo fu costretto a ridere.--D'accordo Bart, hai vin-

to. Forse non siamo proprio nello spirito adatto per Braccio di ferro e

Topolino, ma è qualcosa.

--Allora giochiamo alle classificazioni--suggerì lentamente Cald-

1 well.--O magari voi lo chiamate in altro modo. Si fanno delle righe

su un foglio di carta, e si segnano classi di oggetti... animali ad esem-

pio. Una riga per la U, e una per la S e così via. Come ad esempio

"Umano" e "Sconosciuto". Penso che sarebbe un gioco più utile. La

classificazione, ho l'impressione, è una cosa che in questo momento ci

serve più che il cinema. Forse qualcuno ha una matita per tirare le ri-

ghe: per tirare le righe tra gli animali U e gli animali S, tanto per fare

un esempio.

_ McReady sta cercando di trovare quel tipo di matita--gli rispo-

se tranquillamente Van Wall.--Ma abbiamo tre tipi di animali, qui,

'~ come sai. Uno che comincia con M. E non ne vogliamo altri.

--Matti, intendi dire. Uh-uh. Clark, ti do una mano con quei piatti,

in modo che si possa cominciare lo spettacolino.--Caldwell si alzò

lentamente in piedi.

Dutton e Barclay e Benning, che si occupavano di allestire il proiet-

tore e gli altoparlanti, svolgevano il loro lavoro senza parlare, mentre

~ I'edificio Amministrazione veniva spazzato e i piatti venivano lavati.

'~ McReady si spostò lentamente fino a raggiungere Van Wall, e si sedet-

te nella cuccetta accanto a lui.--Mi chiedevo, Van--disse con un

sorriso ironico--se dire o non dire le mie idee prima di passare al-

I applicazione. Mi dimenticavo che gli animali S, come li chiama

Caldwell~ possono leggere la mente. Ho una vaga idea di una cosa che

potrebbe funzionare. Ma è ancora troppo vaga per pensarci sopra.

~, Continua la proiezione, mentre io cerco di pensare alla logica della co-

sa. Lasciami questa cuccetta

~`* Van Wall alzò gli occhi e annuì. Lo schermo si sarebbe trovato prati-

amente allineato alla cuccetta, e laggiù le immagini lo avrebbero di-

tratto di meno, in quanto sarebbero state quasi inintelligibili.--For-

e dovresti dirci quello che hai in mente. Ora come ora, soltanto gli S

conoscono il tuo piano. Potresti... diventare un S prima di passare al-

l'azione.

--Non occorrerà molto, se riuscirò a chiarirmi l'idea. Ma non vo-

glio che si ripeta la situazione: tutti mostri meno il cane del test. Fa-

remmo meglio a spostare Copper e a metterlo nella cuccetta diretta-

mente sopra la mia. Tanto, neanche lui guarderà lo schermo.--

McReady indicò col capo la forma di Copper, intenta a russare piano.

Garry li aiutò ad alzare e a trasportare il dottore.

McReady si appoggiò alla cuccetta e cadde in una sorta di trance

per la concentrazione, cercando di calcolare possibilità, operazioni,

metodi. Quasi non notò che gli altri si distribuivano in silenzio ai pro-

pri posti, e che lo schermo s'illuminava. Vagamente, le preghiere folli,

urlate da Kinner e i suoi inni striduli gli procurarono un senso di fasti-

dio finché non entrò in funzione il sonoro. Le luci erano spente, ma le

vaste zone dello schermo su cui erano proiettati i colori chiari riflette-

vano abbastanza luce da permettere la visibilità. La luce riflessa face-

va scintillare gli occhi degli uomini, che continuavano a roteare senza

posa. Kinner continuava a pregare, urlando, e la sua voce era un rauco

accompagnamento ai suoni riprodotti meccanicamente. Dutton alzò il

volume dell'amplificatore.

Per così tanto tempo la voce del cuoco aveva continuato a echeggia-

re, che a tutta prima McReady fu solo vagamente consapevole di una

sorta di mancanza di qualcosa d'indefinito. Nella sua posizone sdraia-

ta, di fronte al corridoio che portava alla baracca dei raggi cosmici, la

voce di Kinner l'aveva raggiunto con molta chiarezza, nonostante il

sonoro delle pellicole. Ora si accorse improwisamente che la voce si

era interrotta.

--Dutton, ferma il suono--gridò McReady, rizzandosi bruscamen-

te a sedere. Le immagini guizzarono ancora, mute e stranamente futili

in quell'improvviso, profondo silenzio. Il vento che si andava alzando

sulla superficie al di sopra di loro inviava malinconiche lacrime di

suono nei camini delle stufe.--Kinner si è fermato--disse McReady,

piano.

--Per l'amor di Dio, allora riattacca il suono: potrebbe essersi fer-

mato per ascoltare--gridò Norris.

McReady si alzò in piedi e si avviò lungo il corridio. Barclay e Van

Wall lasciarono i loro posti all'altra estremità della stanza per segurli.

Macchie colorate si gonfiarono e si distorsero sul dorso della tuta di

maglia grigia che Barclay indossava quando egli attraversò il fascio

luminoso del proiettore, che era ancora in funzione. Dutton accese le

luci, e le immagini cinematografiche svanirono.

Norris era alla porta come aveva chiesto McReady. Garry sedeva

tranquillamente nella cuccetta più vicina alla porta, costringendo

Clark a farsi da parte. Molti degli altri erano rimasti esattamente do-

v'erano. Solo Connant andava lentamente avanti e indietro per la

stanza, con un ritmo fisso e invariabile.

_ Se non la pianti, Connant--sbottò Clark--faremo volentieri a

meno di te, umano o no che tu sia. La vuoi piantare di andare su e giù?

--Scusa--il fisico andò a sedersi su una cuccetta, e si mise a guar-

darsi pensosamente le dita dei piedi. Passarono quasi cinque minuti,

cinque epoche geologiche, in cui l'unico suono era quello del vento,

prima che McReady riapparisse alla porta.

--Noi--annunciò--non abbiamo abbastanza fastidi, qui. Qual-

cuno ha cercato di aiutarci. Kinner ha un coltello in gola, e questo è il

motivo che gli ha fatto smettere di cantare, probabilmente. Abbiamo

mostri, matti e macellai. C'è qualche altra M che ti viene in mente

Caldwell? Se c'è, tra non molto incontreremo anche quella.

--Blair è libero?--domandò qualcuno.

--Blair non è affatto libero. A meno che non sia capace di volare. Se

c'è qualche dubbio sull'origine del nostro gentile aiutante, questo può

chiarire da dove è venuto.--Van Wall mostrò un coltello lungo una

trentina di centimetri e dalla lama sottile, avvolto in un tovagliolo. Il

manico di legno era mezzo bruciato, e le zone carbonizzate avevano il

caratteristico schema del ripiano della stufa della dispensa.

'L~ Clark lo fissò.--Sono stato io a bruciarlo, oggi. Mi sono dimentica-

to di quel coltello e l'ho lasciato sulla stufa.

Van Wall annuì.--E io ne ho sentito l'odore, ricordi? Sapevo che il

coltello veniva dalla dispensa.

--Mi domando--disse Benning, lanciando un'occhiata circospetta

E agli altri uomini presenti nella sala--quanti altri mostri abbiamo?

Se qualcuno si fosse allontanato dal suo posto, fosse andato dietro lo

schermo~ fino alla dispensa, e poi alla baracca dei raggi cosmici, e poi

fosse ritornato... perché è poi ritornato, vero? Sì, siamo tutti qui. Se

S uno di noi ha potuto fare tutto questo...

--Forse è stato un mostro a farlo--suggerì Garry, pacatamente.

--C'è anche questa possibilità.

--Il mostro, come tu stesso hai detto oggi, ha soltanto uomini da

irnitare. Pensi che vorrebbe ridurre la sua... scorta, diciamo?--Fece

, ~notare Van Wall.--No, ci dobbiamo occupare di un normale delin-

uente~ un assassino. Di solito lo chiameremmo un "inumano assassi-

" penso, ma ora come ora dobbiamo stare attenti ai termini. Abbia-

o degli assassini inumani, e adesso anche degli assassini umani, o al-

~nenO uno di essi.

--C'è un umano in meno--disse piano Norris.--Forse i mostri

adesso hanno forze pari alle nostre.

--Lasciamo perdere--disse McReady, sospirando e voltandosi

verso Barclay.--Bar, per favore, puoi prendere quel tuo aggeggio

elettrico? Vorrei assicurarmi che...

Barclay si avviò per il corridoio per prendere lo strumento della fol-

gorazione elettrica, mentre McReady e Van Wall tornavano alla ba-

racca dei raggi cosmici. Barclay li raggiunse mezzo minuto più tardi.

Il corridoio che portava alla baracca dei raggi cosmici faceva delle

curve, così come quasi tutti gli altri corridoi del Campo Magnetico

Principale, e Norris era di nuovo all'ingresso del tunnel. Ma tutti udi-

rono, piuttosto attutito, l'improvviso urlo di McReady. Ci fu un sel-

vaggio tonfo di colpi sordi: ssh-tunk, shluff.--Bar-Bar...--E un urlo

selvaggio che sembrava un miagolio, e che tacque prima ancora che

Norris, di corsa, raggiungesse il gomito del corridoio.

Kinner, o ciò che era stato Kinner... giaceva sul pavimento, tagliato

quasi in due dal grosso coltello impugnato da McReady. Il meteorolo-

go era appoggiato al muro, e il coltello che teneva in mano era sporco

di sangue. Van Wall si agitava piano sul pavimento, gemendo, con la

mano che meccanicamente si strofinava la mascella. Barclay, con un

indescrivibile bagliore selvaggio negli occhi, calava metodicamente

l'arma elettrica che teneva in mano e colpiva... colpiva... colpiva.

Sul braccio di Kinner si era sviluppato uno strano pelame scaglioso,

e la carne si era contorta. Le dita si erano accorciate, la mano si era ar-

rotondata, le unghie erano divenute artigli lunghi sette centimetri,

cornei e color rosso mattone, duri come l'acciaio e affilati come rasoi.

McReady sollevò il capo, fissò il coltello che stringeva in mano e lo

lasciò scivolare a terra.--Be', chiunque sia stato, adesso può parlare.

E stato un assassino inumano in un senso: nel senso che ha assassinato

un inumano. Giuro su tutto ciò che c'è di sacro che Kinner era un ca-

davere senza vita, steso sul pavimento, quando siamo arrivati. Ma

quando la cosa ha capito che intendevamo pungerla con la scossa elet-

trica... è cambiata.

Norris lo fissò con allarme.--Oh, Signore, se quelle cose sanno reci-

tare! Starsene qui seduta per ore e ore, gridando preghiere a un Dio

che odiava! Urlare inni con voce spezzata... inni di una chiesa che non

ha mai conosciuto. Farci impazzire con le sue grida senza tregua...

UBene, allora parli, chiunque sia stato. Lui non lo sa, ma ha fatto un

favore al campo. E voglio sapere come diavolo ha fatto a uscire da

quella stanza senza essere visto. La cosa potrebbe servire per sorve-

gliarci meglio."

--Quelle urla... quei canti. Neppure l'altoparlante riusciva a vin-

cerli.--Clark rabbrividì.--Era un mostro.

--Oh--disse Van Wall, comprendendo a un tratto.--Tu sedevi ac-

canto alla porta! Ed eri già quasi dietro lo schermo.

Clark annuì, confuso.--La cosa è tranquilla, adesso. E morta...

Mac, il tuo test non vale niente. Era morta in qualsiasi caso, mostro o

uomo che fosse, era morta.

MacReady rise piano.--Ragazzi, vi presento Clark, I'unico di cui

sappiamo che è umano. Clark, colui che dimostra di essere umano cer-

cando di commettere un omicidio... senza riuscirci. E per favore gli al-

tri cercheranno di evitare per un po' di tempo di dimostrare di essere

umani? Credo che possiamo fare un altro test.

_ Un test!--esclamò allegramente Connant, poi la sua faccia tornò

a rabbuiarsi.--Sarà un'altra di quelle faccende alla "così è se vi pa-

re.n

--No--disse McReady, senza batter ciglio.--Guarda bene e sta'

attento. Vieni nell edificio Amministrazione. Barclay, porta il tuo ag-

geggio. E qualcuno... Dutton... resta con Barclay per assicurarti che lo

faccia. Ciascuno tenga d'occhio il proprio vicino, perché, per l'inferno

da cui questi mostri sono scaturiti, io ho effettivamente qualcosa, e i

mostri lo sanno. Diventeranno pericolosi!

Il gruppo entrò bruscamente in tensione. Un'atmosfera di schiac-

ciante minaccia era scesa su tutti. Gli uomini si fissarono con attenzio-

ne; con maggiore attenzione di prima: I'uomo accanto a me è un mo-

stro inumano?

--Di che si tratta?--chiese Garry, quandQ furono di nuovo nella

sala principale.--Quanto tempo richiederà?

--Non lo so, con esattezza--disse MacReady, con voce stridula.

.l --Ma so che funzionerà, e non c'è possibilità d'equivoco. Dipende da

una qualità fondamentale dei mostri, non dipende da noi. E stato ~in-

ner a convincermi, proprio ora.--Rimase immobile nella sua solidità

bronzea, finalmente di nuovo sicuro di sé.

--Questo--disse Barclay, sollevando l'arma dal manico di legno

sormontato dai conduttori aguzzi e carichi--diverrà assolutamente

neCessario~ mi par di capire. Il generatore elettrico non si fermerà sul

più bello?

Dutton annuì.--Il serbatoio è pieno, e il generatore a benzina è

prontO a entrare in funzione. Van Wall e io l'abbiamo preparato per la

proiezione cinematografica, I'abbiamo controllato accuratamente più

volte, lo sai. Chiunque tocchi quei fili, muore--assicurò trucemente.

Io lo so perfettamente.

Il dottor Copper si agitò vagamente nella cuccetta, strofinandosi gli

· occhi con mani intorpidite. Si mise lentamente a sedere, batté le pal-

pebre ancora pesanti di sonno e di morfina, e negli occhi gli comparve-

ro gli orrori indescrivibili degli incubi generati dalla droga.--Gar-

mormorò--Garry, ascolta. Egoisti... sono venuti dall'inferno, e

~ono diabolicamente egoisti... io...--poi si lasciò ricadere nella cuc-

etta e riprese a russare piano.

_ L

2~7 ~ 233

McReady lo guardò, pensosamente.--Tra poco lo sapremo--disse,

annuendo lentamente.--Ma hai detto giusto, egoisti. Forse ci hai pen-

sato nella sonnolenza, adesso. Non mi ero chiesto che sogni tu potessi

fare. Ma è giusto. Egoisti è la parola. E devono esserlo per forza, sai.--

Si voltò verso gli uomini della baracca: uomini tesi, silenziosi, che si

fissavano con occhi da lupo.--Egoisti, e, come ha detto il dottor Cop-

per, ciascuna parte è un irltero. Ciascun pezzetto è autosufficiente, un

animale in se stesso.

"Questa frase, e un'altra, vi sveleranno tutto. Non c'è niente di arca-

no nel sangue: è un normalissimo tessuto organico, esattamente come

un pezzo di muscolo o un pezzo del Eegato. Ma non ha la stessa quanti-

tà di tessuto connettivo, sebbene abbia milioni, miliardi di cellule vi-

venti.n

La grossa barba bronzea di McReady si arricciò in un crudele sorri-

so.--Questo è sufficiente, in un certo senso. Io sono sicurissimo che

noi umani tuttora superiamo di numero voi... altri. Voi altri che siete

qui. E noi abbiamo una cosa che voi, razza di un altro mondo, eviden-

temente non avete. Non un istinto imitato, ma l'articolo genuino,

compenetrato nelle ossa, un autentico fuoco inestinguibile e trasci-

nante. Noi lotteremo: lotteremo con una ferocia che voi potrete cerca-

re di imitare, ma che non potrete mai uguagliare! Noi siamo umani.

Noi siamo reali. Voi siete imitazioni, falsi fino al cuore di ogni vostra

cellula.

"D'accordo. Adesso siamo alla resa dei conti. Voi lo sapete. Voi, con

la vostra lettura del pensiero. Avete colto l'idea nel mio cervello. Ma

non potete farci nulla. Siete lì immobili...

"Basta. Il sangue è un tessuto. Devono sanguinare, e se non sangui-

nano quando li tagli, allora, per Dio, sono falsi! Copie venute dall'in-

ferno! Se sanguinano... allora quel sangue, separato da loro, è un indi-

viduo... un iru~i~iduo appena nato, un altro individuo a pieno titolo, esat-

tamf~nte come gli altri, chR si sono staccati, tutti, da un solo onginale,

sono degli individui separati!

"Hai capito, Van? Hai visto la risposta, Bar?n

Van Wall rise molto piano.--Il sangue... il sangue non obbedirà. E

un nuovo individuo, con tutto il desiderio di proteggere la propria vita

che ha l'originale: la massa più grande da cui si è distaccato. Il saugue

si metterà a vivere... e cercherà di allontanarsi da un ago rovente, ad

esempio!

McReady prese il bisturi dalla tavola. Dalla scansia prese una fila di

provette, una piccola lampada ad alcool, e un pezzo di filo di platino

fissato a una bacchetta di vetro. Sulle sue labbra aleggiava un sorrisO

di truce soddisfazione. Per un momento alzò gli occhi su coloro che lo

attorniavano. Barclay e Dutton si avvicinarono lentamente a lui, te-

nendo pronto il loro strumento elettrico dal manico di legno.

--Dutton--disse McReady--tu potresti metterti accanto al punto

dove hai giumtato i cavi elettrici. Tanto per essere sicuri che nessuna...

cosa lo strappi.

Dutton si spostò.--Adesso, Van, suppongo che tu vorrai essere il

primo.

Pallido in viso, Van Wall fece un passo avanti. Con delicatezza e pre-

cisione, McReady gli tagliò una vena alla base del pollice. Van Wall fe-

ce una piccola smorfia, poi tenne immobile il dito mentre un paio di

centimetri di sangue si raccoglievano nella provetta. McReady rimise

la provetta nella rastrelliera, diede a Van Wall un po' di allume per

fermare il sangue e gli indicò la tintura di iodio.

Van Wall rimase immobile a osservare. McReady riscaldò il filo di

platino con la fiamma della lampada ad alcool, poi lo tuffò nella pro-

vetta. Il filo sfrigolò piano. Per altre quattro volte ripeté la prova.--E

umano, direi.--McReady sospirò e si raddrizzò.--Per ora, la mia

teoria non ha ancora ricevuto una conferma, ma nutro buone speran-

ze, vi assicuro.

"Tra l'altro, non fatevi distrarre da questi test. Abbiamo con noi al-

cuni indesiderabili, non c'è dubbio. Van, per favore, da' il cambio a

Barclay all'arma elettrica. Grazie. A te, Barclay, e posso dire che mi

auguro che tu resti con noi? Sei un ottimo ragazzo."

Barclay sorrise nervosamente; fece una smorfia quando il bisturi lo

tagliò. Infine, con un largo sorriso, riprese la sua arma.

--Il signor Samuel Dutton... Barclay!

Tutta la tensione accumulata si scaricò in quell'istante. Per grande

che fosse la parte d'inferno che i mostri avevano in sé, in quell'istante

gli uomini la uguagliarono. Prima ancora che Barclay avesse la possi-

bilità di muovere la sua arma, una ventina d'uomini si gettò sulla cosa

che aveva assunto le sembianze di Dutton. La cosa miagolò, e soffiò, e

cercò di farsi spuntare le zanne... e poi rimasero soltanto cento pezzi

Strappati e schiacciati. Senza coltelli e senza armi, con solo la forza

brutale di una squadra di uomini scelti, la cosa venne schiacciata, di-

t laniata.

Lentamente gli uomini si rialzarono, con gli occhi fiammeggianti,

freddissimi nelle loro emozioni. Solo un bizzarro tic alle labbra tradi-

va una sorta di nervosismo.

E Barclay si fece avanti con la sua arma. Brandelli di cosa fumarono e

bruciarono con un odore acre. L'acido che Van Wall versò su ciascuna

j, gOCcia di sangue sollevò fumi spessi e irritanti.

McReady sorrise: i suoi occhi infossati erano lucidi e accesi e vivaci.

--Forse--disse piano--ho sottovalutato le possibilità dell'uomo

andO ho detto che nulla di umano avrebbe potuto uguagliare la fe-

ia degli occhi della cosa da noi trovata. Rimpiango di non aver avu-

~° la possibilità di trattare queste cose in modo più adatto. Olio bol-

235

lente... o piombo fuso per esempio o forse arrostirle a fuoco lento nella

caldaia della turbina. Quando ripenso all'uomo che era Dutton...

"Non importa. La mia teoria è stata confermata da... da uno che sa-

peva? Bene, Van Wall e Barclay sono immuni. Io penso, allora, che

cercherò di dimostrarvi una cosa che già so. Che anch'io sono umano."

McReady tuffò il bisturi nell'alcool, accostò alla fiamma la lama af-

filata, e poi si tagliò in modo esperto la base del dito.

Venti secondi più tardi, distolse lo sguardo dalla scrivania e lo posò

sugli uomini in attesa. I sorrisi che comparivano sui loro volti erano

aumentati: sorrisi amichevoli, eppure con qualcosa d'altro negli oc-

chi.

--Connant--disse McReady, ridendo piano--aveva ragione. I ca-

ni da slitta che hanno tenuto a bada la cosa in quel gomito di corridoio

non erano certamente più feroci di voi. Chissà perché noi riteniamo

che soltanto il sangue di lupo abbia diritto alla ferocia? Forse nella

crudeltà spontanea il lupo ha la palma, ma dopo questi sette giorni...

Iasciate ogni speranza, o lupi che entrate qui dentro!

"Forse si potrà risparmiare del tempo. Connant, per favore, vuoi..."

Anche ora, Barclay e la sua arma si dimostrarono troppo lenti. C'e-

rano più sorrisi, meno tensione, quando Barclay e Van Wall termina-

rono il loro lavoro.

Garry disse con voce bassa e amara:--Connant era uno dei migliori

di tutti noi... e cinque minuti fa sarei stato pronto a scommettere che

era un uomo. Quelle maledette cose sono più che delle imitazioni.--

Garry rabbrividì e tornò a sprofondarsi nella cuccetta.

E trenta secondi più tardi, il sangue di Garry cercava di ritrarsi dal

filo rovente di platino, e lottava per uscire dalla provetta: lottava con

la stessa frenesia con cui un'imitazione di Garry improvvisamente fe-

roce, dagli occhi rossi, in via di dissoluzione, lottava per sottrarsi al-

l'arma guizzante come un serpente che Barclay spingeva verso di essa,

con la faccia pallida e sudata. La cosa nella provetta urlò con una voce

minuscola e metallica quando McReady la rovesciò sui carboni arden-

ti della stufa.

14

--Abbiamo finito?--il dottor Copper guardò giù dalla cuccetta con

occhi tristi, iniettati di sangue.--Quattordici...

McReady annuì.--In un certo senso, se soltanto avessimo potuto

evitare permanentemente la loro diffusione, mi piacerebbe avere qui

con noi anche solo le imitazioni. Il comandante Garry... Connant.--

Dutton... Clark...

--Dove le portano?--Copper indicò la barella che Barclay e Norris

stavano portando via.

--Fuori. Sul ghiaccio, dove hanno fatto a pezzi una quindicina di

casse, hanno aggiunto mezza tonnellata di carbone e poi aggiungeran-

no cinquanta litri di benzina. Abbiamo versato acido su ogni goccia

versata, su ogni piccolo frammento. I pezzi più grossi li inceneriremo.

--Mi sembra un buon programma.--Copper annuì stancamente.

--Mi domandavo, non hai detto se Blair...

McReady sobbalzò.--Ce ne siamo dimenticati! Avevamo tante al-

tre cose da fare! Mi chiedo... pensi che potremo guarirlo, ora?

--Se...--cominciò il dottor Copper, e tacque significativamente.

McReady sobbalzò una seconda volta.--Neppure un matto. Ha

imitato Kinner e la sua isteria religiosa...--McReady si volse verso

Van Wall, seduto al lungo tavolo.--Van, dobbiamo fare una spedizio-

ne alla baracca di Blair.

Van alzò gli occhi e lo fissò con espressione interrogativa, poi la

preoccupazione svanì per un istante dal suo volto, sostituita dalla sor-

presa e dal ricordo. Poi si alzò, annuì.--Barclay. E meglio che venga

anche Barclay. E stato lui a mettere i cavi, e può trovare il modo di en-

trare senza spaventare eccessivamente Blair.

Tre quarti d'ora, nel gelo dei 38 gradi sotto zero, mentre il sipario

dell'aurora si gonfiava sopra le loro teste. Il crepuscolo durava quasi

dodici ore, fiammeggiava a nord sulla neve che sotto i loro sci era si-

mile a bianca sabbia cristallina. Un vento di circa dieci chilometri al-

l'ora spingeva linee di neve in direzione nordest. Occorrevano tre

quarti d'ora per raggiungere la baracca semisepolta dalla neve. Dalla

piccola baracca non si alzava alcun filo di fumo, e gli uomini amretta-

rono il passo.

--Blair!--Barclay gridò nel vento, quando era ancora distante un

centinaio di metri.--Blair!

--Zitto--disse McReady, piano.--E corri. Può darsi che voglia fa-

re una lunga tappa. Se dobbiamo metterci al suo inseguimento... sen-

za aerei, e con il trattore fermo...

t --Un mostro può avere la resistenza di un uomo?

--Se si rompe una gamba, non resta fermo più di un minuto--os-

servò McReady

Barclay emise tutt'a un tratto un gemito soffocato e indicò qualcosa

in alto. Confusa sullo sfondo del cielo illuminato dal crepuscolo, una

~i creatura alata volava in cerchi di grazia e leggerezza indescrivibili.

randi ali bianche si inclinavano leggermente, e l'uccello passava so-

~ra di loro in silenzio, incuriosito.--Un albatros--disse Barclay,

~ianO.--Il primo della stagione. Chissà per quale motivo si è spinto

~osì avanti nell'entroterra? Se c'è un mostro in libertà

~ ~orris si curvò sul ghiaccio, e si aprì in fretta gli abiti pesanti, la

236 ~ ~7

giacca a vento. Poi si raddrizzò, con la giacca a vento che sbatteva e

con un'arma di metallo azzurrino in mano. L'arma ruggì la sua sfida al

bianco silenzio dell'Antartide.

La creatura volante emise un grido roco. Le sue grandi ali si mosse-

ro freneticamente, mentre una dozzina di penne si staccavano dalla

sua coda. Norris fece nuovamente fuoco. L'uccello ora aveva preso a

muoversi rapidamente, lungo una linea di ritirata quasi retta. Gridò

di nuovo, altre piume caddero al suolo, e con grandi battiti d'ali riparò

dietro un costone di ghiaccio e scomparve.

Norris si affrettò a raggiungere gli altri.--Non tornerà indietro--

disse, ansimando.

Barclay gli indicò di tacere, e con la mano gli segnalò qualcosa. Una

luce azzurrina, stranamente intensa, usciva dalle fessure della porta

della baracca. Dall'interno proveniva un basso ronzio, unito a un tic-

chettio di utensili: i suoni, in qualche modo, parevano trasmettere un

messaggio di frenetica attività.

McReady impallidì.--Che Dio ci aiuti se quella cosa...--Afferrò

Barclay per la spalla, e fece con le dita il gesto di tagliare dei fili, mo-

strando l'intreccio di cavi che bloccava la porta.

Barclay si tolse di tasca le pinze, e senza fare alcun rumore si ingi-

nocchiò presso la porta. Il suono dei cavi che si spaccavano fece un

chiasso indescrivibile nel silenzio dell'Antartide. Ad opporsi al rumore

dei cavi c'erano soltanto lo strano, delicato ronzio proveniente dall'in-

temo della baracca, e i rumori di utensili metallici.

McReady spiò da una fessura della porta. Inspirò profondamente e

le sue dita si serrarono dolorosamente sulla spalla di Barclay. Il me-

teorologo fece un passo indietro.--Non è...--spiegò molto piano

--Blair. E inginocchiato presso qualcosa che ha posato sulla cuccet-

ta... qualcosa che continua a sollevarsi. Qualunque sia l'oggetto su cui

sta lavorando, è una cosa che sembra uno zaino... e galleggia.

--Facciamo irruzione insieme--disse Barclay, deciso.--No, Nor-

ris, resta dietro, e impugna quella tua arma. Può darsi che la cosa sia

armata...

Insieme, il corpo massiccio di Barclay e la forza gigantesca di

McReady colpirono la porta. All'interno, la cuccetta che era stata so-

spinta contro il battente cigolò fortemente e andò in pezzi. La porta

crollò a terra, scardinata, e gli stipiti si inclinarono verso l'interno.

Come una palla azzurra di caucciú, una cosa balzò all'attacco. Una

delle sue quattro braccia simili a tentacoli guizzò avanti, come un ser-

pente nell'atto di mordere. In uma mano con sette tentacoli, un tubo

metallico lungo venti centimetri, sottile e lucente, scintillò e si alzò

puntandosi contro di loro. Le labbra della cosa, sottili come linee, si

spalancarono rivelando una dentatura da serpente, con una smorfia di

rabbia, mentre gli occhi rossi fiammeggiavano.

238

Il revolver di Norris rimbombò in quello spazio chiuso. La faccia

stravolta dall'odio si contorse per il dolore, e il tentacolo si ritrasse

bruscamente. L'oggetto di metallo lucente che teneva in mano era un

rottame frantumato, la mano dai sette tentacoli era una massa di car-

ne maciullata da cui colava un liquido giallo-verdastro. La pistola

ruggì ancora tre volte. Tre fori ciechi si aprirono al posto dei tre occhi,

prima che Norris le scagliasse 1 arma sulla faccia.

La cosa urlò con odio belluino, portandosi agli occhi un tentacolo si-

mile a una frusta. Per un istante strisciò sul pavimento, sferzando sel-

vaggiamente con i tentacoli, con il corpo che si contorceva. Poi si rial-

zò, barcollando, mentre gli occhi ciechi si agitavano, ribollivano osce-

namente, e la carne macellata sporgeva fuori in grumi umidicci.

Barclay si rimise in piedi e si tuffò in avanti con un'ascia da ghiac-

cio. Una piattonata del pesante attrezzo schiantò il cranio della cosa.

Ancora una volta il mostro immortale cadde a terra. I tentacoli guiz-

zarono ancora, e bruscamente Barclay si sentì avvolgere i piedi dalla

stretta di una corda livida, vivente. La cosa prese a dissolversi mentre

egli cercava di afferrarla: una striscia incandescente che gli mordeva

la carne delle mani come fuoco vivo. Freneticamente cercò di togliersi

di dosso quella materia, di tenere le mani dove non potessero venire

colpite. La cosa accecata toccò e tirò gli abiti robusti, pesanti, imper-

meabili, cercando carne... carne da trasformare...

La grossa torcia che McReady si era portato tossì profondamente.

Poi ruggì la sua disapprovazione. Poi rise con un gorgoglio, ed emise

una lingua di fiamma biancazzurra, lunga un metro. La cosa sul pavi-

mento urlò, sbatté ciecamente i tentacoli che si contorcevano e si ince-

nerivano nella rabbia della torcia. Strisciò sul pavimento, rotolando-

si, urlò e sobbalzò follemente, ma sempre McReady le puntò la torcia

sulla faccia, sugli occhi ciechi che bruciavano e ribollivano inutilmen-

te. Frenetica, la cosa strisciò e gemette.

Da un tentacolo germogliò un crudele artiglio... e si accartocciò nel-

la fiamma. Senza interruzione, McReady continuò la sua offensiva

L truce e programmata. Inerme, folle, la cosa si ritrasse dalla torcia gor-

t gogliante, dalla lingua carezzevole, sottile. Per un momento si ribellò,

L urlando il suo odio inumano al contatto della neve ghiacciata. Poi si

~; ritirO davanti al rovente soffio della torcia, immersa nel fetore della

~li propria carne bruciata. Disperatamente continuò a indietreggiare...

~ sempre di più, sulla neve dell'Antartide. Il vento pungente la colpì,

1~ Spostando anche la lingua di fiamma; invano la cosa si dibatté, la-

sciando sul suo cammino una scia di fumo nauseabondo e oleoso.

McReady ritornò silenziosamente alla capanna. Barclay lo attende-

va sulla soglia.--Altre?--gli chiese il gigantesco meteorologo.

Barclay scosse il capo.--No. Si è suddivisa?

- Aveva preoccupazioni di tutt'altro tipo--lo rassicurò McReady.

--Quando l'ho lasciata, era un tizzone rovente. Che cosa stava facen-

do?

Norris rise seccamente.--Siamo proprio furbi, noialtri. Rompiamo

tutti i magneti, così che gli aerei non volino più. Strappiamo dai trat-

tori i tubi della caldaia. E poi lasciamo sola per una settimana, in que-

sta baracca, quella cosa. Sola e indisturbata.

McReady osservò più attentamente l'interno della baracca. L'aria,

nonostante la porta fosse aperta, era calda e umida. Su un tavolo al-

I'altra estremità della stanza era appoggiato un oggetto fatto di tubi a

serpentina e di piccole elettrocalamite, di tubi di vetro e di valvole ra-

diofoniche. Al centro c'era un pezzo di roccia. E dal centro della roccia

proveniva la luce che permeava tutto l'ambiente: una luce azzurrina,

più chiara del bagliore di un arco voltaico. E dalla pietra veniva anche

il debole ronzio. Su un lato c'era un altro meccanismo di vetro cristal-

lino: un dispositivo soffiato con incredibile precisione e delicatezza:

piastre metalliche e una strana luccicante sfera che non pareva com-

posta di alcuna materia esistente al mondo.

--Che cos'è?--McReady si avvicino.

Norris grugnì.--Lascialo com'è, per poterlo esaminare. Ma credo

di poter indovinare. Si tratta di un generatore atomico. Quella roba a

sinistra... è una cosettina semplice semplice, che riesce a fare ciò che

gli uomini cercano di fare con i ciclotroni da 100 tonnellate e altri

grossi calibri. Separa i neutroni dall'acqua pesante: acqua che preleva

dal ghiaccio circostante.

--E dove ha trovato... oh. Certo. Un mostro non può venire chiuso:

né in una stanza, né fuori di essa. Ha rovistato gli armadietti delle at-

trezzature.--McReady osservò l'apparato.--Dio, che intelligenza de-

ve avere quella razza.....................I

--La sfera luccicante... credo sia una sfera di pura forza. I neutroni

possono passare attraverso ogni materia, e la Cosa voleva farsi una

scorta di neutroni. Basta proiettare neutroni contro il silicio... il cal-

cio... il berillio... qualsiasi cosa, in pratica, e si libera energia atomica.

Quell'oggetto è il generatore atomico.

McReady prese dalla tasca un termometro.--Qui dentro ci sono 50

gradi, nonostante la porta sia aperta. I nostri abiti hanno tenuto lonta-

no il caldo, in una certa misura, ma io comincio a sudare.

Norris annuì.--La luce è fredda. Me ne sono accorto. Ma fornisce

attraverso quell'avvolgimento il calore necessario per riscaldare l'am-

biente. La cosa aveva tutta l'energia che si possa desiderare. Poteva te-

nere questo ambiente tiepido e confortevole, nei termini in cui la sua

razza pensa al tepore e al comfort. Hai notato la luce, il suo colore?

McReady annuì.--La risposta è al di là delle stelle. Da dietro le

stelle, da un pianeta più caldo, che ruota attorno a un sole più lumino-

so, più azzurro, sono giunte quelle cose.

240

McReady spostò lo sguardo sulla porta, sulla scia bruciata e sporca

di fumo che attraversava ciecamente la neve.--Non ne giungeranno

altre, ritengo. E stato un puro caso che siano atterrate qui, e la cosa è

successa venti milioni di anni fa. Ma perché si sarà presa la briga di

costruire tutto questo?--E indicò I apparato sul tavolo.

Barclay rise piano.--Hai notato l'oggetto a cui stava lavorando

quando siamo entrati? Osserva.--Indicò il soffitto della baracca.

Il meccanismo, simile a uno zaino e fatto di lamierini presi da vec-

chi barattoli di caffè, con cinghie pendenti e una cintura di cuoio, ade-

riva al soffitto. In esso ardeva un minuscolo, rovente cuore di fiamma

sovrannaturale, eppure quella fiamma lambiva il legno del soffitto

senza danneggiarlo. Barclay lo raggiunse, afferrò due delle cinghie che

pendevano e lo tirò in basso con una certa fatica. Se lo assicurò attor-

no al corpo. Un piccolo salto gli fece percorrere una lunga traiettoria

da un capo all'altro della capanna.

--Antigravità--disse McReady, piano.

--Antigravità--annuì Norris.--Sì, li abbiamo fermati senza ae-

roplani e senza uccelli. Gli uccelli non sono arrivati... ma avevano sca-

tole di caffè e pezzi di apparecchi radio, e vetro, e l'officina durante la

notte. E una settimana... un'intera settimana a disposizione. Da qui

all'America in un balzo solo, con l'antigravità alimentata dall'energia

atomica della materia.

--Noi li abbiamo fermati. Un'altra mezz'ora... quando siamo arri-

vati stava legando le cinghie al suo apparecchio, in modo da poterlo

indossare... e noi saremmo rimasti isolati nell'Antartide, a sparare a

ogni essere animato che provenisse dal resto del mondo.

--L'albatros...--disse piano McReady--pensi che...

--Adesso che lo zaino era quasi finito? Con l'arma mortale che ave-

va in mano?

--No, per grazia di Dio, che evidentemente ci riesce a udire molto

bene, anche qui in Antartide, e grazie a un margine di mezz'ora, siamo

riusciti a tenere per noi il nostro mondo, e anche gli altri pianeti del si-

stema solare; e l'antigravità, sai, e anche l'energia atomica. Poiché le

cose sono venute da un altro sole una stella al di là delle stelle. Le cose

sono venute dal mondo di un soie più azzurro.

olo originale: Where Goes There?

aduzione di Riccardo Valla, su licenza di Editrice Nord

241

Murray Leinster

BIVI NEL TEMPO

Ripensandoci, sembra strano che nessuno, eccetto il professor Minott,

avesse previsto in anticipo quel che sarebbe accaduto. Le indicazioni

erano più che evidenti. All'inizio di dicembre, il professor Michaelson

annunciò di avere scoperto che la velocità della luce non era un assolu-

to: non poteva venire considerata invariabile. Naturalmente, quello

era uno dei primi indizi di quanto stava per succedere.

Una seconda indicazione si ebbe il 15 febbraio, quando, alle 12 e 40,

tempo medio di Greenwich, il sole diventò all'improvviso di colore l

bianco-azzurro e l'aumento enorme della radiazione fece aumentare la ji

temperatura della superficie terrestre di 12 gradi in cinque minuti. Al

termine di quei cinque minuti, il sole tornò alla radiazione normale,

senza altri sintomi di perturbazione.

Naturalmente, seguì una gran ridda di pubblicazioni di aspiranti al-

la fama scientifica, ma non si trovò una spiegazione plausibile del fe-

nomeno che giustificasse la totale mancanza successiva di perturba-

zioni nella fotosfera solare.

Un terzo, chiaro prodromo degli eventi di giugno fu quello che capi-

tò il 10 marzo, quando la giraffa di sesso maschile del Giardino Zoolo-

gico del Bronx, a New York, smise di mangiare. Nei nove giorni che se-

guirono cambiò forma, assorbendo le proprie estremità, persino il col-

lo e la testa, in una straordinaria massa a forma ovoidale di carne e

ossa, ancora vivente, che il decimo giorno cominciò spontaneamente a

dividersi e che il dodicesimo giorno si scisse in due masse carnose leg-

germente pulsanti.

Il giorno dopo, nelle due masse apparvero delle protuberanze. Creb-

bero, assunsero una forma precisa, e venti giorni dopo l'inizio del feno-

meno, diventarono gambe,~olli e teste. E poi due giraffe, entrambe di

sesso maschile, si aggirarono nel recinto. Ognuna pesava un po' men°

della metà dell'animale ori~inario. Avevano Dezzature identiche. E

mangiavano e si muovevano e si comportavano come due animali nor-

mali, anche se immaturi.

Un fenomeno simile fu segnalato dalla repubblica Argentina, dove

uno stallone delle pampas stava riproducendosi nello stesso straordi-

nario modo, sotto gli occhi attenti degli scienziati argentini.

J Oggi sembra incredibile che gli scienziati del tempo non avessero

compreso il significato di queste stranezze. Oggi conosciamo abba-

stanza le tensioni che le produssero, anche se non si verificano più. Ma

tra il gennaio e il giugno, le agenzie di stampa nazionali erano piene di

dispacci dello stesso genere.

Per due giomi il fiume Ohio scorse a ritroso. Per sei ore gli alberi di

Euclid Park a Cleveland agitarono pazzamente i rami come se fossero

investiti da una tremenda tempesta, benché non spirasse un alito di

vento. E a New Orleans, verso la fine di maggio, i pesci uscirono dal

fiume Mississippi e nuotarono nell aria, poi "annegarono" nell'aria che

- inspiegabilmente li sorreggeva, si girarono a pancia in su e galleggia-

rono placidamente a un livello d'acqua immaginario, circa quattro

metri e mezzo al di sopra dell'asfalto della città.

Ma a quanto pare Minott fu I unico che intuì il significato, oggi rela-

tivamente chiaro, degli sviluppi successivi. Minott era allora docente

di matematica presso il Robinson College di Fredericksburg, Virginia.

Sappiamo ora che egli previde con buona approssimazione ciascuno

degli eventi che ancor oggi fatichiamo a spiegarci, benché essi abbiano

influenzato la vita di tutti gli abitanti del pianeta - nonché, probabil-

t mente, di altri pianeti dei quali non sospettiamo nemmeno l'esistenza.

~-r Minott non fece alcun tentativo di condividere con altri le sue sco-

perte. A prima vista ciò può sembrare incredibile, ma in realtà un si-

mile tentativo sarebbe stato inutile. Minott era un semplice assistente

- non un vero professore - in quella che non si può definire altrimenti

che un'oscura università di provincia. Non godeva di particolare repu-

tazione scientifica, e perfino i suoi colleghi di facoltà e i suoi ex inse-

gnanti dell'Università Johns Hopkins lo consideravano impulsivo, pre-

suntuoso~ inaffidabile e bisognoso di un corso di aggiornamento in

buona educazione. Fargli abbassare la cresta sarebbe piaciuto molto a

tutti quanti. Se Minott avesse reso pubbliche le sue teorie, con ogni

robabflità nessuno le avrebbe prese in considerazione, neppure per

onfutarle. Le sue ipotesi matematiche, oltretutto, erano così avanzate

che pochissime persone al mondo sarebbero state in grado di capirle -

propriO com'era avvenuto, all'inizio, con la Teoria della relatività di

~ Einstein - e non si sarebbe potuta escogitare nessuna verifica speri-

; ~lentale~ salvo attendere la spontanea perturbazione cosmica che si

I ~erificò più tardi.

| ;~I Se anche avesse tentato di far valere i prodromi - descritti in prece-

~enZa_ della perturbazione in questione come prove delle proprie teo-

rie, con ogni probabilità Minott non avrebbe ottenuto altro che di farsi

passare per matto.

Eppure egli sapeva. Se a metterlo sulla strada giusta fosse stato il re-

soconto di Michaelson sulle variazioni della velocità della luce, che

provò l'esistenza di irregolarità mai osservate in precedenza - tra l'al-

tro la velocità della luce ha ormai cessato di presentare qualsiasi ano-

malia - o se altre violazioni delle normali leggi della natura avessero

rappresentato il punto di partenza per le sue ipotesi stravaganti, è una

questione sulla quale non possiamo nemmeno congetturare. Quel che

è certo è che Minott aveva previsto ogni cosa prima che effettivamente

accadesse. Aveva previsto tutto così bene da poter calcolare l'ammon-

tare delle nostre possibilità di sopravvivenza, risultato pari a uno su

quattro. La quale catastrofica previsione gli avrebbe valso di essere su-

bito zittito in malo modo, se l'avesse resa nota anzitempo.

A ogni modo egli non fece alcun tentativo di mettere sul chi vive gli

abitanti del pianeta Terra; si procurò invece vari libri e alcune rivoltel-

le. Per fronteggiare il più grande pericolo mai corso dall'uomo in qual-

siasi luogo e in qualsiasi tempo, e tentare la più stravagante impresa

che mente umana avesse mai concepito, fece preparare dei panini im-

bottiti. Può darsi che abbia avuto successo: non lo sapremo mai.

Sulla vita di Minott, dalla nascita agli eventi in questione, siamo ab-

bastanza bene informati. Era figlio di un agricoltore della Virginia oc-

cidentale, e particolari manifestazioni di genio non erano mai state os-

servate in nessun ramo della sua famiglia. Aveva frequentato una

scuola di campagna che riuniva in un unico edificio le elementari, le

medie e le superiori, rendendosi insopportabile a ogni e ciascun inse-

gnante che ebbe a che fare con lui. Riuscì poi a iscriversi all'Università

Johns Hopkins di Baltimora, dimostrando lo stesso talento nel render-

si sommamente impopolare. Era dotato di un'intelligenza di prim'or-

dine- di ciò non possiamo più dubitare - ma era così smodatamente

ambizioso, e così ardentemente desideroso di dimostrare questa sua

qualità da suscitare noia e insofferenza dovunque andasse. E ormai ce-

lebre un aneddoto riguardante la breve dissertazione che presentò co-

me prova scritta alla fine del primo anno, su una questione di calcolo

delle probabilità. Non contento di avere risolto il problema in modo

assolutamente non ortodosso, egli aggiunse il seguente, sarcastico

post-scriptum: Ciò che precede è ctò che ci si aspetta da uno studente de-

sideroso di ottenere un buon voto. Si dà il caso che sia anche incredibil-

mente p~ertle. Una soluzione un po' più elegante potrebbe essere la se-

guente...

Dopo di che aveva riformulato il problema in termini dei quali i suoi

insegnanti non avevano capito una virgola, e ottenuto una soluzione

che nessuna delle matematiche conosciute poteva giustificare. La pro-

va scritta era stata conservata Der caso, e doDo l'universale riconosci-

mento del genio di Minott fu attentamente studiata. L'equazione di Mi-

nott è ora considerata con riverenza, e ha rivoluzionato il trattamento

matematiCo di moltissimi aspetti della teoria delle probabilità.

L'ispido carattere di James Minott ha causato al mondo una grande

perdita. Egli era amareggiato per via della sua impazienza, assillato

dalla sua intelligenza, e palesemente dotato di un'ambizione incompa-

tibile col ruolo di insegnante di matematica presso il Robinson College

di Fredericksburg. Forse se il suo temperamento fosse stato più norma-

le il mondo ne avrebbe guadagnato. E forse ne avrebbe guadagnato an-

che Minott. Ma è inutile abbandonarsi alle congetture. Quel che è certo

è che se egli non avesse bruciato i suoi appunti, la notte di quel fatale

- quattrO giugno, le nostre conoscenze matematiche sarebbero oggi così

progredite da permetterci di inserire tutte le scienze, senza eccezioni,

in una nuova CorniGe unitaria. Già i pochi pezzi di carta superstiti rin-

t venuti nel suo camino ci lasciano intravedere barlumi di tale metateo-

~ia unitaria, turbando i sonni di filosofi e scienziati: il loro valore è

semplicemente inestimabile. Alcuni frammenti bruciacchiati sono in-

sopportabili nella loro enigmaticità, ma gli appunti più importanti

Minott deve averli portati con sé, in qualche luogo impossibile da in-

dovinare dove potrebbero benissimo aver dato frutto.

Alle 7,30 del mattino del 5 giugno la cittadina di Joplin nel Missouri,

stava destandosi dal suo buon sonno estivo. Sulle foglioline d'erba

brillava la rugiada e molti rami sfavillavano del diadema intessuto dai

a ragni mattinieri ai prirni raggi del sole.

~ella periferia più a est della città, un liceale uscì di casa sbadiglian-

do e cominciò a darsi da fare con la falciatrice in giardino; ogni tanto

guardava l'orologio perché temeva di arrivare tardi a scuola. Poco più

| in là una scassatissima utilitaria stentava a mettersi in moto. Ci fu una

detonazione di gas nel tubo di scappamento e dopo qualche sternuto,

lo Sconquassato motore si decise a muoversi. L'auto rimase ferma, con

il motore al minimo, come in attesa. Dalle case si levavano alte le grida

dei bimbi. Una lavandaia negra apparve tra gli alberi di un giardino e

, si diresse verso una fune per stendere i panni. Da una finestra si senti-

va una radio che comandava: un, due, tre, quattro! Alte le braccia!... tre,

uattro! Indietro quelle spalle, mi raccomando!... due, tre, quattro!. Poi,

improvviso~ la radio chiocciò. Cominciò a emettere un acutissimo

tridio meccanico che si trasformò in breve in uno strano chioccolio.

~Poi fece un fracasso spaventoso: come se avessero messo in onda tutta

FCI energia statica di diecimila folgori. E fu il silenzio.

Il liceale si piegò sul manico della sua falciatrice. Cadde a sedere sul-

|l erba rorida di rugiada nel momento stesso in cui la radio smetteva di

~are quel tremendo baccano. La lavandaia negra si aggrappò treman-

do al tronco dell'albero più vicino. Dal cesto della biancheria, rove-

sciatosi al suolo, si sparsero sul prato umidi panni variopinti. Tra le al-

tissime grida di terrore dei bimbi, voci di donne spaventate gridavano:

--Il terremoto! Il terremoto!--Dalle ville, dalle palazzine della via si

videro uscire, correndo, i pacifici abitanti di Joplin. Uno uscì dalla fi-

nestra e si lasciò scivolare giù per una colonna della veranda, e finì

bocconi nel rosaio del suo giardino. Pochi secondi, e tutti erano in stra-

da.

E poi fu il silenzio. Un silenzio vuoto pauroso. Non c'era stato il ter-

remoto. Non era crollata alcuna casa. Non s'era incrinato nemmeno

un camino e non s'era udito cadere al suolo un piatto, una lastra di ve-

tro dalle finestre. La sensazione provata da tutte quelle persone non

era quella di un effettivo movimento del suolo. Un movimento c'era

stato, la terra s'era mossa, ma in modo che nessun uomo poteva imma-

ginare. Quelle persone avrebbero saputo di quel movimento solo dopo

molto tempo. In quell'istante, non seppero far altro che rimaner lì, a

bocca aperta. A guardarsi l'un l'altro, stupefatti.

E nel silenzio profondissimo fattosi improvvisamente tutt'intorno,

in quel silenzio rotto soltanto dal vagito d'un neonato, dal ronzio som-

messo d'un motore d'auto, s'udì un altro rumore: il passo cadenzato

delle fanterie in marcia. Lo accompagnava un clangor di metallo, un

cupo sferragliare. E si sentì abbaiare un comando pronunciato in una

lingua che non era inglese. Da un capo d'una stradina periferica di Jo-

plin del Missouri, il 5 giugno, avanzava un folto drappello d'uomini ar-

mati di lancia e spada. Stringevano al petto lo scudo e vestivano il cor-

to gonnellino dei soldati di Roma. Di sotto agli elmi guardavano intor-

no a sé non meno stupiti dei cittadini di Joplin. A passo cadenzato, la

milizia di Roma antica avanzava. Ogni soldato stringeva la lancia con

l'aria di chi è abituato a servirsi di quell'arma.

A un secco comando, la truppa si fermò. Un ufficiale basso, dal volto

raggrinzito con una corta spada al fianco rivolse una domanda agli

sbalorditi cittadini, agitando la corta spada. Il liceale trasalì. L'uomo

incartapecorito ripeté imperiosamente la sua domanda. Balbettando,

il liceale riuscì a pronunciare qualche sillaba e, uditala, il vecchio bor-

bottò soddisfatto. Poi prese la parola, impaziente, ma compitando

chiaramente. Sbalordito, il liceale si rivolse ai suoi compatrioti e disse

quasi incredulo:--Vuol sapere come si chiama la nostra città. Parla

latino. Sì, quello che ci insegnano a scuola. Dice che non ha trovatO

questa città sulle sue carte e quindi non sa dove è andato a finire. Co-

munque, ha annunciato di aver preso possesso di Joplin in nome di Va-

lerius Fabricius, imperatore di Roma e di tutta la terra. Dice--Conti

nuò balbettando il ragazzo--che la sua è la prima delle sei coorti della

Quarantaduesima Legione di guarnigione a Messaglia. Laggiù a due

giorni di marcia da quella parte--concluse, puntando il dito in dire-

zione di St. Louis.

L'auto si mise improvvisamente in movimento. S'awentò lungo la

strada tra uno stridio di pneumatici. Chiese il passaggio con un autori-

tario colpo di clacson, e si precipitò verso i legionari romani che l'a-

docchiarono impietriti dallo stupore. Suonò nuovamente il clacson, e

I'auto continuò a dirigersi verso di loro.

A un ordine fulmineo, i militi si scagliarono sull'auto con le lance in

resta, agitando minacciosamente le spade. Sino a quell'istante, tutti

gli abitanti di Joplin, nessuno escluso, avevano creduto che quegli ar-

mati fossero un branco di comparse del cinema o un gruppo di buon-

temponi mascherati, o qualche cosa d'altro, altrettanto pazzo, tuttavia

comprensibile. Ma i soldati che si buttarono all'assalto dell'auto face-

~ano sul serio! L'aggredirono da ogni parte come se fosse una bestia

strana e probabilmente feroce. Furono visti battagliare con la macchi-

na animati da disperato valore.

Non recitavano, no! Non ci fu niente di fittizio nel modo con cui pas-

sarono a fil di lancia il povero signor Horace B. Davis che aveva sem-

plicemente chiesto la strada per giungere in tempo al magazzino di co-

tone presso il quale era capo contabile. Convinti che il meschino si ac-

cingesse a farli trucidare da quello strano mostro, s'erano affrettati,

in~lece, a trucidare lui. Il liceale assisté al triste spettacolo sempre più

pallido. Quando un uomo armato di spada si fece avanti per mostrare

al capitano la testa mozza del signor Davis, da un orecchio del quale

pendevano ancora in modo grottesco gli occhiali, il ragazzo piombò

svenuto a terra.

L'alba del 5 giugno colse Cyrus Harding nell'atto di deglutire frettolo-

samente la prima colazione. Poco prima, e solo per pochi istanti, egli

s'era sentito poco bene. Aveva avvertito una strana vertigine. Adesso,

' ~ inVece~ si sentiva proprio in forma. L'odore di fritto riempiva la cucina,

sua moglie cucinava, e lui vuotava rumorosamente il piatto. Aveva

mani ossute e callose e la sua espressione era compiaciuta e soddisfat-

ta. Lanciò un'occhiata al calendario, omaggio della Compagnia di

mangimi e fertilizzanti di Bryan, Ohio, e disse:--Oggi lo sceriffo sven-

de la roba di Amos. Spero di aggiudicarmi quei quaranta acri a nord

per un boccone di pane.

| --Te li aveva offerti da un anno!--commentò stancamente la don-

na.

-~ --E vero!-- confermò ancor più soddisfatto Cyrus Harding.

--Amos aveva anche mollato sul prezzo. Comunque, nessuno oserà

ontrastarmi l'acquisto di quella terra, alla vendita all'asta. Sanno che

~ni preme e sanno che posso diventare un vicino molto pericoloso, se

~hi pestanO i piedi. Oh! Mi conoscono bene e la terra l'avrò a molto me-

~p di quel che me ne chiedeva Amos! Sperava di venderla bene, per ti-

r avanti ancora un anno! L'avrò a metà prezzo.

S'alzò da tavola, asciugandosi la bocca con il dorso d'una mano e si

diresse verso la porta.

--Quel bracciante dovrebbe già essere avanti con l'aratura--com-

mentò.--Vado a dargli un'occhiata e poi andrò all'asta!

E spalancata la porta della cucina rimase sbalordito. Abitualmente

quando apriva la porta, Cyrus si vedeva davanti l'aia. Mai troppo in or-

dine, a dire il vero, quell'aia si spalancava su una pianeggiante distesa

di campi, in quella stagione fittamente coperti di promettenti piante

di granturco, sin dove si perdeva l'orizzonte.

Ora lo spettacolo era del tutto diverso. Tutto era rimasto come pri-

ma sino all'aia. Ma oltre era un sogno delirante. Enormi, rigogliose fel-

ci arboree lanciavano il loro fogliame a trenta metri di altezza. Una fit-

tissima trina di rami fronzuti formava un tetto d'incredibile consisten-

za, steso a proteggere una giungla primeva quale nessun uomo al

mondo aveva mai veduto. Al confronto di quella giungla, le impenetra-

bili foreste del Rio delle Amazzoni sarebbero sembrate un parco. Era

un inestricabile groviglio di vegetazione in cui la crescita era guerra, la

guerra era vita, e la vita era un conflitto mortale e spietato. Nessun uo-

mo avrebbe potuto avanzare neppure di tre metri in quella giungla. Se

ne levava un fetore nel quale si mescolava il lezzo della decomposizio-

ne, I'odore di linfe vegetali, il profumo di fiori dalle vivide corolle. Era

la giungla che i paleobotanici ascrivevano al Carbonifero: la giungla

che aveva dato vita ai nostri giacimenti di carbone.

--Non è possibile--disse con un filo di voce Cyrus Harding.

La moglie non gli rispose. Non aveva visto. Stava rigovernando le

stoviglie che erano servite alla colazione del suo signore e padrone.

Scese gli scalini della cucina scosso e con gli occhi sbarrati, dirigen-

dosi verso l'assurda apparizione che nascondeva i suoi campi. L'appa-

rizione rimase, nonostante il suo avvicinarsi. A una decina di metri di

distanza si fermò, sempre a~tonito e con gli occhi spalancati, ancora

incredulo, e per giunta assillato dal dubbio terrificante di essere diven-

tato pazzo.

Poi qualcosa si mosse nella giungla. Un lungo collo serpentino, del

diametro di quasi un metro alla base, che si riduceva allo spessore di

una trentina di centimetri immediatamente dietro la testa della pro-

porzione di un barile. Quel collo mostruoso si snodò per sei metri, fin-

ché non fu proprio sopra Cyrus Harding. L'uomo si vide osservato da

un paio d'occhi dallo sguardo freddo e inespressivo. La bestia spalancò

la bocca e Cyrus Harding lanciò un urlo.

Anche sua moglie alzò gli occhi. Guardò attraverso il vano della por-

ta e vide la giungla. Vide le fauci del mostro che si chiudevano sul ma-

rito. Vide socchiudersi gli occhi assenti di quel "qualcosa" che inghiot-

tiva tossicchiando. Vide un rigonfiamento scivolar giù nel collo mo-

struoso: dal tratto più sottile, proprio dietro la testa, sino alla seZione

enorme che s'inseriva nel corpaccio nascosto tra la selva. Vide quella

testa rientrare nella giungla e scomparire quasi istantaneamente.

La vedova di Cyrus Harding impallidì. Si mise il cappellino e con

aria rassegnata uscì dalla porta che dava in strada. S'incamminò deci-

sa verso la casa più vicina. Mentre procedeva, diceva a se stessa, con

composteZZa:--Sapevo che sarebbe finita così. Sono impazzita. Mi

chiuderanno in un manicomio. Ma almeno non dovrò più sopportarlo.

Non dovrò più sopportarlo!

E alle 10,30 del mattino del 5 giugno, James Minott puntò le due pisto-

le delle quali era armato su un gruppetto di studenti. Dal suo viso era

scomparsa anche l'ultima traccia dell'espressione severa del docente

le cui estreme facoltà di nuocere non vanno oltre l'assegnazione di un

cattivo voto. Sostituiti gesso e matita con due pistole, continuava a

sorridere gelido. Ma negli occhi gli brillava una luce minacciosa. Tanto

che le quattro ragazze del gruppo rimasero con il fiato mozzo dallo

spavento. Anche gli studenti, abituati a vederlo soltanto in classe, si re-

sero conto in un baleno che James Minott non solo sapeva adoperare le

armi, ma era deciso a servirsene. E guardarono il loro assistente di ma-

tematica con il rispetto pavido che ci ispira uno scassinatore, un rapi-

natore di trista fama o un assassino di professione. Agli sguardi dei

suoi allievi James Minott era salito molto in alto. Trasformatosi al-

l'istante in un capo, era diventato addirittura un despota, grazie alle

sue rivoltelle.

--Come vedete--disse Minott con voce piana--io avevo previsto

la situazione nella quale ci troviamo. Da un momento all'altro, inutile

nascondercelo, tutta la razza degli uomini, noi compresi, può venir

t spazzata via in modo così radicale che cerchereste invano di immagi-

narlo. Potremmo anche sopravvivere: e io sono preparato a trarre il

masSimO profitto dalla mia soprawivenza, se sopravviveremo.

E James Minott tacque, per osservare attentamente, l'uno dopo l'al-

tro, gli studenti che l'avevano seguito per esplorare la foresta di se-

quoie inspiegabilmente apparsa a nord di Fredericksburg.

--So che cosa è successo--affermò gelido Minott.--E so anche

quanto pUò accadere ancora. E so anche come comportarmi d'ora in

poi. Chi di voi è pronto a seguirmi, lo dica. Se c'è qualcuno che recalci-

s. tra. Ebbene... La situazione non tollera ribelli o ammutinati! Sarò co-

'~ Stretto a sparargli.

Et _ Professore!--esclamò Blake innervosito.--Per prima cosa si do-

- - vrebberO accompagnare a casa le ragazze!

--Le ragazze non torneranno mai più a casa!--disse Minott, cal-

~mo.--Non ci tornerà nessuno di voi. Non appena vi sarete convinti

~che Sono pronto a servirmi delle armi, vi dirò che cosa è successo e cosa

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significa. Sono settimane che mi preparo ad affrontare questa evenien-

za.

A mezzogiorno del 5 giugno, s'aprì la porta della prigione. Entrò un uo-

mo dal viso adorno di un bel paio di baffi. Indossava una strana unifor-

me grigia. Avvicinatosi al detenuto, gli batté gentilmente la mano su

una spalla.

--Sono il dottor Holloway, medico militare--si presentò con inco-

raggiante urbanità.--Vuole avere la bontà di dirmi che cosa le è suc-

cesso? Sono certo che si potrà accomodare ogni cosa.

--... Ma... maledizione!--proruppe il prigioniero.--Ero partito da

Louisville, stamattina. Quando sono a metà strada mi piglia un capo-

giro, un malessere strano e... Chi ne capisce niente? Si vede che ho sba-

gliato strada, perché a un certo momento mi guardo intorno e il pae-

saggio mi sembra poco familiare. E poi salta fuori un soldato in unifor-

me grigia e si mette a urlare. Io accelero e quello si mette a spararmi

addosso. Fermo l'auto, e mi arrestano perché ho la bandiera america-

na dipinta sull'auto! Sbattono in galera un povero diavolo che viaggia

per la Compagnia Dolciaria Zio Sam soltanto perché... Ma uno non

può esporre la bandiera della sua nazione?

--Beh, nella sua nazione, sì--convenne il medico con atteggiamen-

to conciliante.--Ma dovrebbe sapere, signore, che qui permettiamo

di esibire solo la nostra bandiera! In sostanza ha violato le nostre leggi!

--Vio... violato le sue leggi?!-- esclamò attonito il detenuto

--Ma... E mai possibile che non si possa esporre la bandiera america-

na negli Stati Uniti?!

--Negli Stati Uniti, è padrone di farlo--disse il dottore sorridendo.

--E lei ha varcato il confine senza accorgersene, evidentemente. Vuole

che glielo dica francamente? I nostri soldati l'hanno scambiata per un

pazzo! Sono convinto, invece, che si è trattato di un semplice errore...

--Confine?--ripeté balbettando sbalordito il prigioniero.--Dove

mi trovo? Non sono negli Stati Uniti, forse? Se non ci sono, dove diavo-

lo sono finito?

--A dieci miglia al di là del confine della Confederazione, vecchio

mio!--esclamò il medico.--E sconfinato per errore e, me ne rendo

perfettamente conto, non è stato per recarci offesa. La farò rilasciare

immediatamente. C'è già abbastanza tensione tra Washington e Rich-

mond, senza l'ennesimo incidente di frontiera a irritare le nostre teste

calde.

--Confederazione?--disse il prigioniero.--Non verrà a dirmi che

allude agli Stati Confederati...?

--Proprio a quelli, vecchio mio! Alludo agli Stati Confederati del-

I'America del Nord! Che cos'altro credeva?

--Io sono diventato matto!--dichiarò cupo il detenuto, deglutendo

faticosamente.--Devo essere impazzito! Ma... E Gettysburg?

--Gettysburg? Certo! Vuole che non la ricordi? E le altre batta-

glie?--Il dottore annuì con aria indulgente.--E ne andiamo giusta-

mente fieri! Nel corso di quella battaglia, il fato della Confederazione

si decise nel corso degli ultimi dieci minuti di lotta! Più di una volta mi

sono chiesto che cosa sarebbe stato di noi se la carica di Pickett fosse

stata respinta. Ma due giorni dopo il vittorioso assalto di Pickett, I'In-

ghilterra ci riconosceva ufficialmente, mentre la Francia seguiva il suo

esempio a una settimana di distanza. I crediti illimitati accordati alla

Confederazione in quei giorni, ci permisero di concludere vittoriosa-

mente la guerra. Se ne era dimenticato? Ce la siamo cavata per il rotto

della cuffia, in quell'occasione!

Il prigioniero deglutì ancora. Guardò dalla finestrella del carcere...

Vide un grosso edificio sulla facciata del quale era scritto a grandi let-

tere: PALAZZO Dl GIUSTIZIA. Davanti c'era un'asta altissima. Vi garriva

allegramente alla brezza meridiana la bandiera della Confederazione!

La sera del 5 giugno, I'ufficiale postale di North Centerville, Massachu-

setts, uscì dal recinto che lo separava dal pubblico per ascoltare anche

lui la Unovità". La panciuta stufa dello spaccio irradiava una luce acco-

gliente, sebbene poco necessaria. Prima di cominciare il suo discorso,

il testimone oculare ridacchiò.

--Dico sul serio, oh! Li ho visti doppiare il capo! Erano una trentina

a bordo d'un barcone lungo diciotto o venti metri, che aveva intorno ai

fianchi dei cosi rotondi... una specie di scudi! Remavano come inde-

moniati. Appena vedono la nostra città, rimangono lì coi remi a mez-

z'aria e fanno una faccia stupita che non vi dico. Vengono quasi a riva e

appena ci scorgono si mettono a parlare un dialetto che nessuno capi-

sce. Ohé! Non parlavano mica in americano, non parlavano! Il vecchio

Peterson che è lì con un pesce che ha abboccato all'amo in quel mo-

mentO, appena li sente lascia andare la canna in acqua. Poi tenta di ri-

spondere a quelli là. Si capiscono, ma fanno una fatica d'inferno. Al-

lora quelli della barca virano di bordo e se ne vanno. I casi sono due: o

eranO attori del cinema che avevano voglia di prenderci in giro o quei

ricconi dell'altra riva ne hanno inventata una nuova per ammazzare la

noia Roba da matti, vi dico! Da matti! Fatto sta che il vecchio Peter-

Son sostiene che quei buffoni parlavano una specie di scandinavo anti-

co O che so io. Ha raccontato che gli hanno detto di essere venuti da

Leifsholm~ o qualcosa del genere, giù lungo la costa. Ma quel che è fan-

tasticO è che sostenevano di non aver mai visto la nostra città! Buona

questa no? Ma non è finita; perché dice che quelli là erano Vichinghi!

Chiamávano Winland l'America e giuravano che... Bontà divina! Che

cosa succede ? !

Urla, invocazioni, ruppero improvvisamente la quiete della notte.

Da lontano, s'udì tuonare un fucile da caccia. Gli oziosi convenuti a

scambiare quattro chiacchiere uscirono sul portico. In dodici punti di-

versi della spiaggia si erano accesi alti falò. Illuminavano di luce rossa-

stra una decina di imbarcazioni dalla prua alta, adoma d'un serpente,

che s'avvicinavano alla riva velocissime, sotto l'impulso dei remi. Al

chiarore delle torce, si vedevano corazze e spade accendersi di baglio-

ri. Brutalmente ghermita da un omone dalla lunga capigliatura bion-

da, una donna lanciò un grido di terrore. Corazza ed elmo del guerriero

scintillavano orrendamente. L'aggressore rideva. Ad affrontare quel

gigante biondo avanzò un uomo che indossava una tuta da lavoro.

Brandiva minacciosamente una scure...

11 gigante lo abbatté con un fendente della spada già intrisa di san-

gue, e lanciò un grido selvaggio. Gli vennero a prestar man forte altri

guerrieri vestiti e armati come lui. 11 sacco e la carneficina ripresero

con rinnovato fervore, mentre da un'altra imbarcazione subito accorsa

balzavano sulla spiaggia altri armati. Poco dopo, balenavano i primi

incendi...

Tutto intorno al gruppetto, si levavano altissimi i tronchi degli alberi.

Alberi giganti. Alberi magnifici. Svettavano nel cielo, alti quarantacin-

que, cinquanta metri, con un'aria di calma venerabile che era a un

tempo la prova più convincente della loro reale esistenza, e l'aspetto

meno accettabile della realtà affermatasi improvvisamente nelle im-

mediate vicinanze di Fredericksburg, in Virginia. Il piccolo drappello

di cavalleggeri s'era fermato, pavido in sella, accanto a quelle mo-

struose creature della foresta. Minott osservò con occhio critico i tre

giovanotti e le quattro ragazze che facevano parte della sua comitiva

di studenti del Robinson College.

E Minott, ormai, non era più il docente che s'era offerto di mettersi

alla testa di una piccola spedizione uscita in esplorazione. Era quel che

si dice un condottiero deciso a tutto.

Alle otto e trenta del mattino del 5 giugno, gli abitanti di Frederick-

sburg avevano avvertito all'unanimità uno strano stordimento. Era

passato subito. Il sole brillava luminoso. Nulla, sembrava, era interve-

nuto a mutare gli abituali aspetti dell'esistenza di tutti i giorni. Dopo

un'ora, tuttavia, la sonnecchiante cittadina ronzava di eccitazione. La

strada che portava a Washington, proprio quella che tutte le carte

chiamavano Statale n. 1, era rimasta improvvisamente interrotta a

circa tre miglia a nord. A tagliarne bruscamente il percorso era appar-

sa, come per magia, una colossale, gigantesca foresta. Le comunicazio-

ni telegrafiche con Washington erano rimaste interrotte. Le stazioni

radio della ca~itale non trasmettevano più. Nessuno, in tutta Frede-

ricksburg, ricordava d'aver mai visto alberi così alti come quelli della

straordinaria foresta. Somigliavano soltanto a quelli di certe fotogra-

fie delle gigantesche sequoie della costa del Pacifico, ma... insomma!

Non poteva essere!

In un'ora e mezzo, Minott aveva trasformato in drappello di caval-

leggeri un pugno di studenti decisi a veder da vicino la foresta. E non

sfuggì a nessuno che Minott si sceglieva i compagni con strana ocula-

tezza. Tre giovani e quattro ragazze in tutto. Se li avesse lasciati fare,

gli studenti si sarebbero pigiati nella sconquassata utilitaria apparte-

nente a uno di loro, ma Minott aveva scartato quest'idea.

--Ci troveremo sbarrata la via all'altezza della foresta--aveva ri-

cordato Minott, sorridendo.--Non sarebbe più divertente esplorarla

a dorso di cavallo? Ci penso io, ai cavalli.

Le cavalcature furono pronte di lì a una decina di minuti. Scompar-

se per andarsi a infilare i pantaloni da cavallerizze, al loro ritorno le

ragazze avevano notato, molto soddisfatte, che oltre alle selle, i cavalli

avevano anche capaci bisacce. Con il solito sorrisetto, Minott era stato

pronto a spiegare:--Dato che si parte per una spedizione, è giusto at-

trezzarci da veri esploratori. Nelle bisacce ho fatto mettere dei viveri.

Quando saranno vuote le colmeremo di tutte le rarità botaniche che

troveremo.

E partirono. Le ragazze emozionate, i giovani compiaciuti e soddi-

sfatti. Peccato che ad attenuare la loro gioia intervenissero di continuo

le motociclette e le auto che li sorpassavano rombando. I cittadini di

Fredericksburg accorrevano in massa all'improbabile foresta.

Nel punto in cui la statale era interrotta, si erano già ammassate au-

tomobili a centinaia. Una vera folla di curiosi sbarrava l'occhio sui

| tronchi altissimi della selva. I tronchi giganteschi affondavano nella

terra radici di grandezza mai vista. Qua e là, spiccava al suolo la mac-

chia di qualche cespuglio. Ovunque, tra i tronchi, spirava un senso di

pace, di serenità profonda

t Su tutto una sensazione di pace e assoluta serenità e di eterno. Dalla

folla dei convenuti si levava un mormorio sommesso. Si commentava,

E si cercava di spiegareEra uno spettacolo impossibile. La foresta pa-

reva un miraggio.

I cavalieri giunsero sul luogo, proprio quando una frotta di coraggio-

si usciva dalla foresta nella quale aveva osato addentrarsi. Tornavano

increduli, dubitando dei loro sensi, benché tutti avessero le mani piene

di rami, di foglie. Ce n'era uno che aveva raccolto una quantità di bac-

'L che mai viste sulla costa atlantica.

Accortosi delle intenzioni di Minott, un agente levò una mano per

dare l'alt al drappello dei giovani.

--Ehi!--disse.--Abbiamo sentito degli strani rumori venire da lì

dentro, e sino a che non saremo sicuri di quel che sta succedendo, non

lascio passare nessuno!

--Saremo molto cauti--promise Minott.--Sono il professor Mi-

nott del Robinson College e guido i ragazzi che si propongono unica-

mente di far raccolta di qualche specie botanica. E poi sono armato di

pistola. Non potrà succederci nulla di male.

E aveva spronato il cavallo. Ancora privo di ordini precisi, il poli-

ziotto aveva allora ceduto al desiderio di Minott con un'alzata di spal-

le. Ma aveva poi impedito a tutti gli altri di accedere alla foresta per

compiervi un'esplorazione. Pochi minuti dopo, gli otto cavalli e i loro

cavalieri erano scomparsi alla vista.

Erano passate tre ore da quell'istante. Per tre ore, Minott aveva gui-

dato il drappello puntando un poco più a sud della direzione nord est.

Sino a quel momento non avevano incontrato animali pericolosi. Ave-

vano osservato, in compenso, molte piante familiari. Avevano visto co-

nigli in quantità, e in un caso una sfuggente forma grigia che Tom

Munter, il laureando in zoologia, aveva supposto essere un lupo. Lupi,

nei dintomi di Fredericksburg non se n'erano mai visti. Neanche se-

quoie, a dire il vero. E gli esploratori non avevano trovato traccia di vi-

ta umana, benché Fredericksburg si trovasse in una zona agricola,

densamente popolata. In tre ore, i cavalli dovevano aver coperto alme-

no quindici miglia senza che la foresta accennasse a finire. Il giovane

Blake cominciò a protestare quando fu avvistata la sagoma gibbosa

d'un animale che non poteva essere altro che un bufalo selvaggio, raz-

za estintasi sin dal lontano 1820 a est delle Montagne Rocciose.

--Qui stanno succedendo un sacco di stranezze, signore--aveva

cominciato il ragazzo imbarazzatissimo.--Per quel che mi riguarda,

sono pronto a continuare l'esplorazione, quanto vuole, ma non dobbia-

mo dimenticare le ragazze! Se non facciamo presto a ritornare, il pre-

side ce la farà pagare cara!

Era stato allora che Minott aveva puntato i revolver sui ragazzi, an-

nunciando tranquillamente che non sarebbe tornato indietro nessuno.

E che egli sapeva che cosa era successo e che cosa potevano aspettarsi.

E che sarebbe stato pronto a fornire qualsiasi delucidazione, non appe-

na i suoi ascoltatori si fossero convinti che era pronto a usare la pistola

in caso di ammutinamento. 5

--Ci affrettiamo a fare atto di sottomissione--si affrettò a dire il

giovane Blake.

Aveva stretto rigidamente le labbra, ma non aveva battuto ciglio.

Venuto a mettersi prudentemente tra Maida Haynes e la canna delle

pistole, continuò:--Vorremmo sapere in virtù di quale strano feno-

meno gli alberi di questa foresta, che dovrebbero trovarsi a cinquemi-

la chilometri di distanza da noi, crescono in Virginia. Quel che mi inte-

ressa maggiormente, tuttavia, è questo: perché il suolo sul quale si tro-

va questa foresta nuova di zecca è rimasto topograficamente lo stesso

di prima? I rilievi si stendono nella direzione in cui si stendevano an-

che ieri, ma, scomparso quanto vi si trovava ventiquattro ore fa, è sal-

tata fuori questa incredibile foresta.

_ Magnifico, Blake!--esclamò Minott approvando soddisfatto.

--Sei un buon osservatore. Benché avessi le mie buone ragioni per la-

sciarti a casa, ho preferito averti con me perché sapevo che sei un buon

geologo. Saliamo in cima a quella collinetta, prima. Dovremmo veder-

vi il Potomac, se non mi sbaglio. Poi vi spiegherò. Temo, tuttavia, che

dovremo cavalcare ancora a lungo, oggi.

Riluttanti, i cavalli si spinsero ansando lungo il pendio. Si procede-

va fra tronchi giganteschi e folta boscaglia: in tre ore non s'era incon-

trata una sola strada tracciata dall'uomo. Gli avventurosi esploratori

dovevano trovarne una in cima al colle. Era un viottolo stretto, tutto

segnato dai solchi serpeggianti lasciati dai carri. I cavalieri ne seguiro-

no il tracciato senza parlare. Dopo un quarto di miglio di continui an-

t dirivieni, il sentiero scendeva all'improvviso. Davanti a Minott e ai

suoi compagni si stendevano le acque del Potomac.

Tutti i cavalieri, tranne uno, lanciarono grida di stupore. Sulle rive

del fiume c'era un abitato. Nel porticciolo si dondolavano alcune im-

barcazioni. Natanti e navicelle apparvero anche più lontano: alcune

risalivano faticosamente il fiume venendo dalla direzione di Chesapea-

ke Bay, e altre che filavano veloci trascinate dalla corrente che andava

verso valle. Ma non si trattava né delle barche né del villaggio che ci si

aspettava di vedere sul Potomac.-

5 Il villaggio era piccolo e tutto cinto da mura di fango. Piccole figure

d'uomini vestiti d'azzurro si muovevano indaffarate tra i campi che

circondavano l'abitato da ogni parte. Le costruzioni, la linea ricurva

dei tetti e soprattutto la sagoma inconfondibile di quello che non pote-

va essere che un tempio, proprio al centro del villaggio fortificato, era-

no cinesi. Le imbarcazioni in vista differivano dalle classiche giunche

- unicamente nelle vele, che sembravano esser fatte di tela, invece che di

bambù. I campi tutto intorno alle basse mura di fango erano coltivati

in modo assolutamente inusitato. Lungo il fiume, là dove la riva avreb-

be dovuto ospitare le caratteristiche marcite del Potomac, si vedevano

intensive colture di riso.

E all'improvviso, accanto ai cavalieri, spuntò un uomo. Oltre all'am-

pio cappello che gli copriva il capo, indossava una camicia ampia, ara-

bescata, di cotonina imbottita. Portava pantaloni di cotone e calzava

L un paio di zoccoletti. Era il prototipo del contadino cinese. Lo sembrò

ancor di più quando, rivolti gli ~7cchi a mandorla sulla piccola comiti-

va di cavalieri, atteggiò il volto a un'espressione di sommo terrore e

prese a fuggire precipitosamente, gridando. Nella fuga, aveva abban-

L donato un pesantissimo bastone, alle due estremità del quale aveva

ppeso un paio di ceste colme di bacche raccolte nella foresta.

E i cavalieri sbarrarono gli occhi. Che in quel momento ci fosse il Po-

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tomac, era perfettamente logico, normale. Ma quel villaggio, quelle

giunche cinesi che ne navigavano il corso...

--Io devo essere impazzita--mormorò Maida Haynes con la voce

rotta.--O no?

Minott alzò le spalle. Sembrava deluso, ma stranamente risoluto.

--Niente affatto--disse.--Non è impazzita. E successo semplice-

mente che i cinesi sono stati i primi coloni d'America. Non è novità: si

sa che i figli del Celeste Impero avevano spinto le loro giunche sin sulle

spiagge americane bagnate dal Pacifico, assai prima di Colombo. Evi-

dentemente vi hanno creato delle colonie. Non so... Forse hanno fatto

per intero la traversata del continente, oppure sono arrivati qui facen-

do il giro da Panama. Comunque sia andata, questo, adesso, è un conti-

nente cinese. E a noi non serve. Continuiamo la cavalcata.

Dal villaggio, avevano avvistato la figuretta del contadino che fuggi-

va strillando. Si levò il clangore discorde di un gong. Dai campi, fu un

frenetico accorrere di uomini che andavano a rifugiarsi dietro le mura

di fango che difendevano il villaggio. Cominciarono a scoppiare i pri-

mi mortaretti tra un coro di grida minacciose.

--Avanti!--ordinò Minott.--Sarà bene affrettarci.

E fatta compiere una mezza giravolta alla cavalcatura, diede di

sprone. Istintivamente, soltanto perché Minott sembrava essere il solo

a sapere che cosa si doveva fare, gli studenti seguirono il docente.

La cavalcata s'interruppe all'improvviso barcollare dei cavalli. I ca-

valieri provarono un'acuta, strana vertigine. Non durò più di qualche

secondo, ma anche Minott impallidì un poco.

--Vediamo un po' che cosa sarà successo, ora...--disse con calma.

--Le probabilità sono ancora abbastanza buone; avrei preferito tutta-

via che le cose restassero a questo punto ancora un poco. Almeno quan-

to bastava per provare qualche altro posto.

Anche la folla dei curiosi che si accalcava ai margini della strada che

conduceva a nord di Fredericksburg era stata colta da quel senso di

vertigine accompagnata da nausea. Per poco più d'un secondo, tutti

avevano sofferto un malessere indescrivibile che impedì loro persino

di vedere. Recuperata la vista, tra la folla fu il pandemonio. Si levaro-

no esclamazioni di terrore e si determinò un fuggi fuggi generale a bor-

do delle auto. Ma non erano pochi quelli che se la battevano a piedi.

La foresta di sequoie non c'era più. Scomparsa. Sostituita da una di-

stesa squallida, biancheggiante. Semisepolti tra la neve, qua e là si ve-

devano spuntare monconi d'alberi anneriti. A perdita d'occhio si sten-

deva una pianura ondulata, ammantata da una polvere bianca, scintil-

lante...

Pochi minuti, e tutto scomparve alla vista, dietro un denso banco di

nebbia formatosi all'istante, non appena il tiepido mattino di giugno

in Virginia venne a contatto, raggelandosi, con quella immensa coltre

di neve. Con altrettanta rapidità, tuttavia, i banchi di neve comincia-

rono a sciogliersi. E si videro le auto degli abitanti di Fredericksburg

darsi a fuga precipitosa lungo la strada asfaltata inseguiti da una corti-

na di nebbie che andava sempre più dilatandosi. Fiumiciattoli e tor-

renti, alimentati da un costante afflusso d'acque inattese, si gonfiaro-

no spumeggiando tumultuanti...

C'erano solo alberi radi e un'erba alta e rigogliosa, con steli simili a

canne. Il suolo tremava ancora, e c'era nebbia. Al di là di qualche cen-

tinaio di metri non si vedeva nulla. Eppure la topografia, per quanto

riguardava valli e rilievi, non era cambiata. Ma videro un tapiro - ri-

cordò loro, all'inizio, un elefante in miniatura - e altre creature simili

a uomini, ma che uomini non erano. Allora due studenti si misero in te-

sta al gruppo, per controllare che qualcosa non si nascondesse nell'er-

ba alta oltre un metro e mezzo; veniva poi Minott con le studentesse,

mentre il quarto studente fungeva da retroguardia.

--Questo posto non mi piace--disse freddamente Minott.--Non

mi piace per niente. Ma andremo avanti.

Lucy Blair cavalcava al suo fianco. Minott le aveva mostrato come

usare la rivoltella. Anche Maida Haynes cavalcava accanto a Minott,

dalla parte opposta.

--Cos'erano quelle cose che abbiamo visto?--chiese Lucy preoccu-

pata.--Sembravano... esseri umani. Ma lo erano dawero?

--Dipende dal significato che si dà alla parola "umano"--rispose

Minott.--Se ci si riferisce alla specie Homo sapie~s--alla nostra spe-

cie, cioè--allora probabilmente non lo erano. La famiglia umana era

composta un tempo da molte specie, come accade ancora oggi agli

equini e ai felini. C'erano l'uomo di Neanderthal, quello di Giava e via

dicendo. L'Homo sapiens le ha spazzate via, nel mondo da cui veniamo.

Ma nella porzione di spazio-tempo in cui ci troviamo lo scontro po-

trebbe avere avuto un esito diverso.

Maida Haynes si umettò le labbra. Era terribilmente tesa.

--Antropologia!--esclamò con voce stridula.--Cosa c'entra con

quello che ci sta succedendo? Non capisco più niente... Mi sembra di

Sognare. Sì, deve... dev'essere tutto un sogno.

--Anch'io ho l'impressione di sognare--disse Lucy.--E ho anche

molta paura. Ma nello stesso tempo è... affascinante. Credo che finirò

coll~abituarmi perfino alla paura. Almeno, lo spero.

Uno dei due studenti dell'avanguardia si era messo di traverso.

Avanzò un poco, con prudenza, poi tirò le redini, spronb il cavallo e

raggiunse al ~aloPPo il ~ruPpO di Minott.

--Ci sono alcune... creature, laggiù, sdraiate nell'erba. Sembrano...

in attesa--disse balbettando.--La cosa strana è che assomigliano

a... degli esseri umani. Cosa facciamo?

Minott ci pensò su, imperturbabile.

--Se avessimo deciso di restare--disse d'un tratto, senza tradire

nessuna emozione--converrebbe caricarli e ucciderne un certo nume-

ro, per dar loro una lezione difficile da dimenticare. Ma non abbiamo

intenzione di stabilirci qui. Proprio non ne varrebbe la pena. Non ab-

biamo niente da guadagnare. Aggiriamoli. Se tentano di inseguirci ne

abbattiamo uno o due.

Harris si tuffò nell'erba alta e tornò in testa al gruppo, accanto al

giovane Blake; poi entrambi mutarono direzione. Grida bestiali si al-

zarono dal punto che avevano deciso di evitare. Figure curve saltel-

lanti, con capelli scuri lunghi e incolti si misero a correre cercando di

intercettarli. Erano armate di lance e bastoni.

Minott estrasse il revolver, prese la mira con cura e sparò sei colpi. Il

primo degli inseguitori emise un urlo straziante, gli altri fuggirono ur-

lando. Il ferito continuò a urlare e a dibattersi per un po', infine emise

un verso gorgogliante, e restò immobile. Minott ricaricò la rivoltella.

--L'ha... L'ha ammazzato!--esclamò Maida Haynes inorridita.

--Poco ma sicuro--confermò tranquillamente Minott.--Uccider-

ne uno ha messo in fuga gli altri. Se ci avessero attaccato tutti insieme

ne avremmo dovuti uccidere parecchi, e ciò avrebbe comportato un

grande spreco di munizioni.--L'intelligenza non può servirci a molto,

qui--aggiunse.--Non c'è molto da ricavare, da questo paese di sel-

vaggi.

Non fece altri commenti. In lontananza l'aria caliginosa sembrava

ancora più satura di umidità. Davanti a loro c'era un vero e proprio

banco di nebbia, che sembrava prolungarsi indefinitamente sia verso

destra che verso sinistra. Continuarono ad avanzare risolutamente.

--Crede davvero che prima o poi incontreremo una civiltà in cui sa-

remo i benvenuti, professor Minott?--chiese all'improvviso Lucy

Blair.

--Certo che sì--rispose Minott asciutto.--Non ho organizzato

questa spedizione senza avere in mente un progetto ben preciso.

--E lei crede che potremo... che riusciremo a...

--Conquistarla? Le assicuro che io la conquisterò. Mi basta essere

accolto--essere accettato - da una comunità culturalmente non trop-

po progredita, o, per meglio dire, appena al di sopra dello stato selvag-

gio. Data questa premessa, potrò mettere a frutto nel modo migliore le

mie specialissime conoscenze. Tutto quello che mi occorre è una socie-

tà fluida, malleabile, non ancora prigioniera di una gabbia istituziona-

le di qualsiasi genere: finirò inesorabilmente col dominarla. Nella no-

stra cultura gli uomini non pensano ad altro che a difendere quello che

hanno già, sono meschini e prudenti. Non posso concludere nulla con

gente simile. Datemi invece degli uomini che bramano ciò che ancora

non possiedono, e io glielo farò avere! Li renderò prosperi come per

magia.

--Con la matematica?--chiese Lucy, incredula.

Minott fece un sorriso vago.

--Se vuole chiamarla così--rispose Minott in tono ironico.--Per

lei, probabilmente, la matematica non è che una congerie di tecniche

di calcolo applicabili agli aspetti quantitativi della realtà. La logica,

ovviamente, è una forma di calcolo applicabile a nozioni non quantita-

tive ma qualitative. Ma possono ben esserci--ci sono! - procedimenti

di calcolo in grado di cogliere entrambi gli aspetti della realtà, e altri

aspetti ancora al di fuori dell'opposizione quantità-qualità. Ci sono, e

io li ho scoperti. Ma nella nostra epoca non servono a nulla. Mettereb-

bero in discussione troppe false certezze, troppe opinioni fatte passare

per verità rivelate. Tuttavia funzionano, e con la stessa inesorabile effi-

cacia della matematica e della logica formale. Vi assicuro che mi da-

ranno lo stesso vantaggio, nei confronti dei membri di una qualunque

cultura, che la capacità di eseguire le quattro operazioni dà nei con-

fronti dei membri di una tribù di selvaggi.

Lucy Blair lo fissò perplessa.

--Ipotesi scientifiche, teorie... Ma il suo modo di comportarsi è ben

diverso. Posso dirle una cosa? Lei mi sembra um uomo terribilmente

solo.

--Lo sono sempre stato--confermò Minott in tono amaro--e sem-

pre lo sarò. Ma finalmente ho la possibilità di ottenere qualcosa, in

cambio di tante sofferenze! Tutto ciò che mi occorre è una popolazione

i cui membri siano abbastanza turbolenti e ambiziosi: io saprò pla-

smarla, modificarla, governarla e guidarla verso...

A questo punto s'interruppe. Lucy non sembrava affatto scandaliz-

zata. Incuriosita, domandò:--E noi che parte avremo in tutto ciò?

--Mi aiuterete--rispose Minott.--Tutti voi. Non avete altra scel-

ta, ovviamente; ma la vostra ricompensa sarà più grande di quanto

possiate immaginare. So bene di non dovervi costringere: non avete al-

ternative. Ma alla fine sarete felici, ne sono sicuro.

--Ma è... pura follia!--protestò Maida, costernata--Non... Non

tornare mai più a casa...

--Lei si sposerà, signorina--replicò Minott in tono pratico--e di

tornare a casa non le importerà più nulla. Anche in questo, comunque,

lei è assolutamente libera di scegliere. Anche se probabilmente non

troverà molto di suo gusto dei semiselvaggi; non più di quanto possa

trovarli di suo gusto uno qualunque di noi. Ma qualcuno che le piace fi-

nirà col trovarlo, vedrà.

Lucy e Maida si guardarono negli occhi. Erano in otto: quattro stu-

dentesse~ tre studenti, e... Minott.

--Già--continuò il docente in tono che non ammetteva repliche

--perché io sposerò una di voi. La più adatta ai miei piani. L'impera-

trice del mondo dovrà essere molto intelligente.

Dopo di che galoppò avanti. Il banco di nebbia davanti a loro si sten-

deva da un orizzonte all'altro. Quando i cavalli degli otto vagabondi

del tempo vi entrarono, I'aria diventò gelida tutt'a un tratto.

Il ferryboat proveniente da Berkeley, in California, avanzava lenta-

mente nella luminescenza biancastra. La sirena fischiava agli interval-

li prescritti. In plancia, il capitano disse in tono confidenziale al co-

mandante in seconda:--Vuoi sapere una cosa? Ho appena avuto la

plU strana sensazione della mia vita. Proprio ora. Era come essere

sbronzo e avere il mal di mare nello stesso tempo.

--E tu vuoi sapere una cosa?--chiese il secondo.--L'ho avuta an-

ch'io. Proprio un momento fa. Sarà colpa della digestione. Però è stra-

no...

--Che cosa?

--C'era un gran via vai nella baia fino a un attimo fa. Sirene in con-

tinuazione. E adesso, da qualche minuto, neanche un fischio. Ascolta!

I due marinai tesero le orecchie. Udirono il rumore della sala mac-

chine, che faceva tutt'uno con la sorda vibrazione della nave; udirono

il brusio discontinuo di conversazioni che veniva dal ponte passeggeri,

qualche metro sotto di loro. Udirono il ritmico sciacquio delle onde

contro le fiancate del ferryboat. E nient'altro. Non sentirono nessun al-

tro rumore.

--Curioso--disse il capitano.

--Maledettamente curioso--confermò il secondo.

Il ferryboat continuò ad avanzare. La nebbia riduceva la visibilità a

un raggio inferiore ai cento metri.

--La cosa più buffa che mi sia mai capitata--disse il capitano in

tono preoccupato. Allungò il braccio verso la corda della sirena, la tirò,

e un lungo suono lamentoso si diffuse tutt'intorno.--Dovremmo esse-

re vicini al nostro molo, comunque. Se soltanto...

Sbuffando e tossicchiando una motolancia a vapore sbucò dalla neb-

bia, e virò improvvisamente; gli uomini a bordo fissavano sbigottiti la

mole imponente del ferryboat. La motolancia fece un giro completo in-

torno all'enorme, lenta, tozza imbarcazione, e a un certo punto uno de-

gli uomini che erano a bordo si alzò e prese a urlare a squarciagola

qualcosa di totalmente incomprensibile. La motolancia completò il gi-

ro; I'uomo urlò di nuovo. Indicò con un braccio la bandiera fissata alla

poppa della piccola imbarcazione - una bandiera che il capitano e il

secondo non avevano mai visto - ed emise una specie di ruggito.

--Guarda quel tipo come dà fuori di matto! Vorrei sapere con chi ce

l'ha--disse il comandante in seconda, perplesso. Improvvisamente si

levò una leggera brezza, la nebbia cominciò a diradarsi, e la zona di

260

cielo debolmente luminosa che avevano di fronte - il sole - divenne più

luminosa, acquistò un contorno più definito. La brezza continuò a di-

sperdere la nebbia, finché la chiara luce del giorno permise loro di di-

stinguere perfino il colorito paonazzo dell'uomo sulla motolancia, in-

capace di rassegnarsi al fatto che le sue parole non ottenevano l'effetto

voluto.

Poi anche gli ultimi residui di nebbia si dissolsero, e si poté ammira-

re la Baia di San Francisco in tutto il suo splendore. La Baia di San

Francisco? Ma quella non era San Francisco! Gran parte degli edifici

della città erano di legno. E la città era piccola. Piccola, piuttosto spor-

ca con strade strette, lampioni a gas nelle strade, e quattro mostruosi

edifici simili a caserme al centro del porto. Nob Hill era al suo posto,

ma priva di edifici. E

--Dio del Cielo!--esclamò il comandante in seconda.

Stava guardando un'enorme costruzione in legno, culminante in

una cupola gigantesca e di forma strana, coperta di scanalature a spi-

rale. Uno stendardo altrettanto strano sventolava su alcuni edifici. C'e-

t ra gente nelle strade, e c'erano veicoli a motore, ma grossi, goffi e lenti.

Gli occhi del secondo si posarono su un carro trainato da cavalli. Da

t tre cavalli affiancati, per l'esattezza, ma addestrati in modo tale, o con

le redini così tirate, che solo il cavallo centrale guardava davanti a sé. I

colli degli altri due erano torti verso l'esterno, secondo l'uso della Rus-

sia zarista.

Eppure, in un certo senso, tutto ciò era perfettamente normale: ap-

pena si ebbe a disposizione un interprete, il comandante del ferryboat

e il suo secondo furono duramente redarguiti, per essere entrati nel

porto di Novo Skevsky violando praticamente tutte le norme di ingres-

so nei porti promulgate da Sua maestà Alexiei, Zar di tutte le Russie.

Le quali norme, essi appresero, erano fatte rispettare con specialissi-

mo zelo in Alaska, nonché negli altri territori russi situati sul continen-

te americano.

Gli otto cavalieri erano pallidissimi in volto. Quando tirò le redini del-

la sua cavalcatura, persino Minott apparve visibilmente scosso. Ma

non meno determinato di prima.

t --Sarete soddisfatti, adesso, spero--disse.--Blake, tu che sei il

geologo della comitiva, guarda un po' la riva del fiume. Non ti sembra

Eamiliáre?

Il giovane, esangue in viso, fece un cenno d'assenso. Indicando il Po-

omac, disse:--Sì. Riconosco anche le cascate. Questa, professore, è la

Sponda sulla quale sorgeva Fredericksburg, fino a stamattina. Lì c'era,

o ci sarà, il Ponte Grande. E l'autostrada per Richmond dovrebbe pas-

are press'a poco lì. Dove c'è quella mastodontica quercia. L'albergo

261

Princess Anne dovrebbe essere dietro quel colle. A mio awiso, profes-

sore, dovremmo aver compiuto un passo indietro nel tempo. Non so

come, ma... A meno che non si sia invece balzati in pieno futuro. Sono

ore che cerco di capire. Mi sembra di dover diventar matto da un mo-

mento all'altro...

--Benissimo--approvò Minott freddamente.--Ci troviamo sulla

riva del Potomac nel punto esatto di Fredericksburg. Ma non siamo an-

dati né avanti né indietro nel tempo, ragazzi. Spero che abbiate notato

il punto nel quale siamo usciti dalla foresta di sequoie. Ci deve essere

una specie di "falla" lì. E sarà molto utile ricordarcene. Non ci trovia-

mo nel passato, Blake--riprese Minott dopo una pausa.--E non sia-

mo nemmeno nel futuro. Il nostro viaggio nel tempo si è compiuto late-

ralmente; in una specie di oscillazione tra un sentiero e l'altro del tem-

po. In questo momento, siamo capitati in, come dire, una linea del

tempo in cui Fredericksburg non esiste. Allo stesso modo, poco fa ci

trovavamo in un "punto" del tempo in cui i cinesi hanno preso possesso

del continente americano. E adesso sarà bene fare colazione.

Minott smontò di sella. Le quattro ragazze si strinsero l'una accanto

all'altra. A Maida Haynes battevano i denti. Blake si mise davanti ai

cavalli.

--Non perdete la testa--sussurrò.--Dovunque siamo, ormai sia-

mo qui. Tra qualche minuto il professor Minott ci spiegherà ogni cosa.

E dato che lui sembra perfettamente al corrente del fenomeno, possia-

mo star tranquilli. Scendete da cavallo e mangiate qualcosa. Ho una

fame da lupi! Vieni, Maida!

Balzata a terra, la povera ragazza cercò di fare una specie di sorriso.

--E di lui che ho paura!--confessò al compagno in un sussurro.

--Più che ogni altra cosa, mi fa paura il professore! Stammi vicino.

Blake aggrottò la fronte. Minott disse, asciutto:--Troverete dei pa-

nini imbottiti nelle bisacce. E ci troverete anche le armi da fuoco. Vi

consiglio di mettervi le pistole al fianco, ragazzi. Dato che la speranza

di tornare al mondo che conosciamo appare inconcepibile, ritengo

giunto il momento di potervi affidare le armi.

Il giovane Blake fissò Minott prima di cominciare l'ispezione delle

sue bisaccee. Contenevano due rivoltelle e una quantità enorme di car-

tucce. Ma c'erano anche numerosi libri ai quali erano state strappate

le copertine. Dopo aver osservato da intenditore le due pistole, se le in-

filò in tasca. Ripose i volumi.

--Ti nomino comandante in seconda della spedizione, Blake--dis-

se a questo punto Minott, con accento ancora più asciutto di prima.

--Non capisci niente, ma almeno vuoi capire. Non mi sono sbagliato

quando ho deciso di portarti con me. Anche se avevo buonissime ragio-

ni per lasciarti a casa. Siedi. Ti racconterò cosa è successo.

Preannunciato da un brontolìo, dalla boscaglia vicina emerse sof-

fiando un orsacchiotto bruno. Lo si vide attraversare velocemente una

radura che aveva ospitato, sino a quel mattino, una ben fornita stazio-

ne di servizio. Subito messo in allarme, il gruppetto tornò alla calma.

E, all'improvviso, le ragazze cominciarono a ridere, quasi istericamen-

te. Addentato tranquillamente un panino, Minott disse:--Purtroppo

sarò costretto a esprimermi in termini matematici. Mi sforzerò, tutta-

via, di farvi un'esposizione meno noiosa delle mie solite lezioni. Infat-

ti, i recenti avvenimenti sono spiegabili unicamente in termini mate-

matici, e, più precisamente, attraverso certi concetti di fisica matema-

tica. Dato che voi siete soltanto degli studenti universitari, mi vedo

costretto a parlare in maniera molto semplice. Come se avessi davanti

un branco di ragazzini di dieci anni

UNon fare quella faccia, Hunter! Se hai avvistato qualcosa che somi-

glia a un indiano, tira fuori la pistola e sparagli. Taglierà la corda. Quel

poveraccio, con tutta probabilità, non ha mai sentito parlare di un'ar-

L ma da fuoco. Non ci troviamo più su un continente cinese, ormai."

Ansante, spaurito, Hunter armeggiò impacciatissimo intorno alle

sue bisacce. E mentre il giovane si armava delle pistole, Minott conti-

nuò imperturbabile:--La natura ha subìto gli effetti di un sommovi-

mento tuttora in atto. Il fenomeno, tuttavia, non ha la forma di scosse

7 sussultorie o ondulatorie della terra e delle rocce: sono scosse sussulto-

rie e ondulatorie di spazio e tempo. E qui, sarà bene fermarci un mo-

mento a stabilire qualche principio fondamentale. Il tempo è una di-

mensione, del quale passato e futuro sono due estensioni, due comple-

menti, così come, in un ordine di grandezze più familiare a noi, l'est è

l'estensione opposta all'ovest.

"Mentre si è soliti considerare il tempo come una retta, come un tun-

nel, ci si guarderebbe bene dal commettere simile errore quando si ha

a che fare con grandezze d'uso quotidiano. Mi spiego subito: sappia-

mo, per esempio, che Annapolis, King George, Curt, Norfolk si trovano

~- all'est rispetto a noi. Ma sappiamo che non ci si arriva puntando esclu-

sivamente a est, per la semplice ragione che occorre anche piegare a

nord o a sud. Quando però ci capita di compiere un viaggio immagina-

rio nel futuro, eccoci pronti a considerare il futuro una retta anziché

una coordinata, un binano invece che una direzione. Partiamo dal pre-

Supposto che un viaggio nel futuro ammetta una sola destinazione. E

questo è assurdo quanto pensare che occorra dirigersi soltanto a est,

dimenticare che esistono nord-est e sud-est e tutta una quantità di

_ punti intermedi.n

Comprendo, professore--disse lentamente Blake.--Ma non ve-

do come

3 --..tutto ciò possa avere attinenza con la nostra situazione attuale?

-r Ebbene, ti sbagli!--lo interruppe Minott mostrando i denti in un lar-

go sorriso. Addentò il suo panino e proseguì:--Immaginiamo che

giunto a un bivio, indeciso sulla direzione da prendere, io lanci in aria

la monetina. Qualunque sia la scelta, sul sentiero che percorrerò attra-

verserò certi luoghi, vivrò certe avventure. Le une e le altre non saran-

no mai identiche a quelle che contraddistinguono il sentiero che io ho

scartato.

dChiaro quindi, che nel decidere per una delle due soluzioni che mi si

sono presentate, io non avrò soltanto dato la preferenza a queste o

quelle caratteristiche topografiche, ma avrò scelto tra due diverse ca-

tene di awenimenti, di vicende, di episodi. Avrò scelto non solo tra due

strade sulla superficie terrestre, ma anche tra due strade nel tempo. E

così come due strade diverse mi condurrebbero a due diverse città, due

sentieri diversi aperti sul futuro mi condurranno a due futuri comple-

tamente differenti. Mentre il primo può portarmi alla ricchezza e al

successo, il secondo può portarmi al più banale degli incidenti stradali

e lasciarmi il corpo martoriato, non solo su un bivio di un'autostrada

della Virginia, ma anche su un bivio di un'autostrada nel tempo. In so-

stanza, mi preme di farvi notare che i futuri nei quali ci possiamo im-

battere sono più di uno e che noi scegliamo il nostro tra i molti futuri

con maggiore o minore consapevolezza. Ma i futuri che non avremo

scelto di percorrere lungo le strade che non abbiamo imboccato esisto-

no, e sono realtà. Come esistono e sono realtà le locálità lungo le strade

che non abbiamo scelto. Noi non li vediamo quei futuri, ma ne ammet-

tiamo l'esistenza."

Ancora fu Blake a protestare.

--Tutto ciò--disse il giovane--è molto interessante. Ma non rie-

sco a capire che cosa c'entri con quanto è successo.

--Ma non capisci--ribatté Minott impaziente--che se esiste uno

stato di cose simile nel futuro, deve essercene uno del geneFe anche nel

passato? Non capisci che mentre si continua a parlare di tre dimensio-

ni, ci si ostina ad ammettere un solo passato e un solo futuro, quando

invece c'è la necessità teorica, dovrei dire matematica, di ammettere

l'esistenza di più d'un futuro?

"Esiste um numero indefinito di futuri possibili. Potremmo incon-

trarne uno qualsiasi a condizione di scegliere bene ai bivi che si aprono

sul tempo. Come ci sono infinite direzioni verso est, così ci sono infini-

te direzioni nel futuro Se tu parti a centocinquanta chilometri di di-

stanza a ovest di qui e ti dirigi all'est scegliendo le strade a caso, come

fai quando devi scegliere tra le strade che si spalancano sul tempo,

puoi anche arrivare qui. Ammettiamo pure che tu sia giunto un po' a

sud o a nord di questa località: sarai sempre a est, rispetto al tuo punto

di partenza. Adesso prova a immaginare di aver preso le mosse non già

a centocinquanta chilometri di distanza all'ovest di questo punto, ma

a cento anni di distanza da questo momento!"

Ancora brancolando nel buio, il giovane Blake mormorò impacciato:

_ Non so se ho capito bene, professore. In sostanza, lei sostiene che,

ammessa l'esistenza di un numero imprecisato di futuri, bisogna am-

mettere anche che vi siano stati un numero imprecisato di passati, as-

sai diversi da quelli di cui si legge nei nostri testi di storia. Ne consegue

che debba esistere anche un numero incalcolabile di, come devo chia-

marli, presenti...

Inghiottito l'ultimo boccone del suo panino, Minott fece un cenno

d'assenso.--Esattamente! E la convulsione subìta oggi dalla natura,

ha fatto di quei presenti una mescolanza. Peggio, ne continua a sov-

vertire l'ordine a intervalli. Gli Scandinavi un tempo colonizzarono

l'America. Nel susseguirsi degli eventi che hanno accompagnato il

cammino compiuto dai nostri antenati quel tentativo di colonizzazio-

ne è fallito. Ma lungo un altro cammino attraverso il tempo, le colonie

scandinave si sono sviluppate. Sono divenute fiorenti. Così, sappiamo

anche che i cinesi sono sbarcati sulle coste della California. Mentre

lungo la pista di tempo seguita dai nostri padri tale evento è rimasto

privo di ulteriori conseguenze, stamattina siamo finiti su di un sentie-

ro del tempo nel quale i cinesi hanno colonizzato e conquistato il conti-

nente americano, benché si sia potuto notare, dal terrore dimostrato

dal contadino nel quale ci siamo imbattuti, che non sono riusciti a

sterminare gli Indiani.

"Da qualche parte, continua a esistere l'Impero romano, e non è im-

probabile che abbia colonizzato l'America, come un tempo aveva sot-

tomesso la Britannia. Da qualche parte, forse, sussiste ancora l'Era

glaciale, e la Virginia è sepolta sotto una coltre di neve. Non mi stupi-

rebbe certamente se apprendessi che da qualche parte esiste ancora il

Carbonifero. E per avvicinarci un tantino a un presente che ci è mag-

giormente noto, potrebbe darsi che in una determinata strada del tem-

po la disperata carica di Pickett alla battaglia di Gettysburg abbia con-

dotto i sudisti alla vittoria; per cui, in questa località imprecisata del

tempo gli Stati Confederati d'America sono ora una nazione indipen-

dente, con un confine ben fortificato e un atteggiamento di bonaria su-

periorità nei confronti degli Stati Uniti."

A muovere obiezioni, a porre domande, era stato soltanto Blake. Ma

anche i suoi compagni avevano ascoltato Minott a bocca spalancata.

Preso il coraggio necessario, Lucy Blair disse:--Ma professor Minott,

dove siamo adesso?

--E probabile--rispose Minott sorridendo--che ci troviamo in un

sentiero del tempo in cui l'America non è stata scoperta dall'uomo

bianco. E non ne sono soddisfatto. Ci conviene andare in cerca di qual-

cosa di meglio. Vi vedete al riparo di una tenda indiana, vestiti di pel-

li? E necessario trovare un ambiente che faccia meglio al caso nostro.

Spero che ci rimangano un paio di settimane, almeno, per questa ricer-

ca A meno che spazio e tempo non vengano cancellati per intero dal fe-

nomeno che ci ha ridotti al punto in cui siamo.

265

Tom Hunter si agitò a disagio.

--Ma allora--disse--non abbiamo fatto un viaggio in avanti o al-

l'indietro nel tempo...

--No--ripeté Minott. E alzatosi, aggiunse:--A quanto sembra,

quello strano senso di nausea che ci ha colti sarebbe caratteristico dei

movimentii laterali del tempo. Dovrebbe essere il sintomo che accom-

pagna una oscillazione nel tempo. Comunque, in sella, ragazzi. Andia-

mo un po' a vedere che razza di mondi ci aspettano. Costituiamo un

gruppo di gente ben preparata per una spedizione di questo genere.

Hunter è il nostro zoologo. Blake è l'ingegnere e geologo della compa-

gnia e Harris--proseguì Minott, mentre l'interessato, un giovane di

statura assai bassa per la sua età, arrossiva violentemente nel sentirsi

guardato da tutti--e Harris, a quanto mi si dice, è un buon chimico.

La nostra signorina Ketterling è assai competente in botanica e la si-

gnorina Blair...

Maida Haynes si alzò lentamente.

--Dunque, professore, lei aveva previsto tutto quanto! E ciò nono-

stante non ha esitato un attimo a trascinarci con lei in un'avventura,

che, sono sue parole, non ammette neppure in teoria il nostro ritorno a

casa. Sapeva i pericoli a cui andavamo incontro, e ha deliberatamente

scelto noi per compagni. Perché? Qual è il motivo che l'ha spinta ad

agire in questo modo?

Minott balzò in sella. Sorrise. Un sorriso pieno d'amarezza.

--Nel mondo che conosciamo, io non ero che l'oscuro assistente di

matematica in un'università altrettanto oscura. Nella migliore delle

ipotesi, un giorno sarei stato titolare d'una cattedra. In questo mondo,

invece, io sono il capo d'un gruppetto di giovani molto intelligenti. Co-

me avete potuto constatare, non ho soltanto pensato a fornirvi di armi:

nelle vostre bisacce ci sono strumenti assai più importanti per la no-

stra attività futura. Ci sono dei libri! Continueremo a vagare nel tempo

sino a che non ci imbatteremo in un tipo di civiltà capace di accogliere

le cognizioni tecniche di cui siamo ricchi. Se tempo e spazio non saran-

no completamente annientati, noi vivremo in quel mondo e faremo

buon uso della nostra scienza.

--Perché?--disse Maida Haynes.--A quale scopo?

--Per conquistarlo!--gridò Minott con insospettato vigore.--Sis-

signori ! A noi sarà dato di dirigere un mondo, come non è mai stato fat-

to da nessuno. Da che tempo è tempo! Vi prometto che non appena

avremo trovato l'ambiente adatto, sarete ricchi a miliardi, avrete

schiavi a migliaia, potrete soddisfare ogni brama di lusso e di potere di

cui è capace l'anima umana!

--E lei, professore?--intervenne Blake con voce piana.--Che cosa

riserva per lei?

--Il sommo potere!--dichiarò Minott con decisione. Sarò impera-

tore del mondo!

Minott spronò il cavallo e volse le spalle ai ragazzi aprendo la caval-

cata.

Pallida, Maida Haynes accostò il cavallo a quello di Blake. Afferrò un

braccio del compagno con dita convulse.

--Jerry!--sussurrò.--Ho paura!

Ma Lucy Blair continuò a cavalcare, con un sorriso strano in volto.

Il bambino corse gridando verso il villaggio.--Nonno, nonno! Guar-

da! Guarda gli uccelli!--E puntò l'indice mentre correva.

Un uomo alzò pigramente lo sguardo e rimase di sasso. Una donna

smise di lavorare e spalancò gli occhi. Verso ovest si stendevano le ac-

que azzurre del Lago Superiore, e agli abitanti del villaggio capitava

spesso di guardare in quella direzione. Ma ora, mentre il bambino cor-

reva e awisava tutti di ciò che aveva visto, gli uomini si meravigliava-

no, le donne allibivano, gli altri bambini correvano anche loro, e urla-

vano e saltavano, eccitati dalla meraviglia degli adulti.

Sopra la grande, sparsa foresta di pini gli uccelli stavano arrivando.

Giungevano in grandi distese scure, non dozzine o centinaia, o mi-

gliaia. Giungevano a milioni, in grandi nuvole nere che oscuravano il

cielo. Solo due enormi stormi erano in vista quando il bambino aveva

gridato la prima volta; ma prima che fosse arrivato a casa e avesse av-

vertito i genitori ne erano arrivati altri quattro.

E altri, incredibilmente numerosi, si stavano dirigendo verso il vil-

laggio. L'oscurità calò bruscamente quando il primo stormo passò so-

pra le case. Il rumore di quei milioni di ali era così forte che gli abitanti

dovevano quasi gridare per esprimere la loro meraviglia, e chiedersi

l'un l'altro cosa stesse succedendo. Tornò la luce del sole, e poi di nuo-

vo I'oscurità, al passare del secondo stormo.

La grandezza di ciascuna formazione si doveva misurare non in me-

tri o in chilometri, ma in decine di chilometri. E a una formazione ne

seguiva un'altra, e poi un'altra, e poi un'altra ancora...

--Cosa sono, nonno? Devono essere milioni e milioni!

Da qualche parte arrivò lo sparo di una doppietta. Piccole forme scu-

re cadevano dal cielo. Un altro sparo, e un altro. Una grandinata di

pallini da caccia si alzò dal villaggio verso la distesa di ali in movimen-

. to, e piccoli corpi coperti di piume cominciarono a cadere, piroettan-

do, tra le case.

Il nonno ne raccolse uno, e ne carezzò le piume arruffate. Emise

un'esclamazione, e rimase senza fiato.--E un piccione selvatico, quel-

li che si usava chiamare piccioni di passo. Fino al '78 di questi uccelli

ce n'erano a milioni. Ho sentito dire che nel Michigan, in un solo anno,

i~ ne abbatterono un miliardo! Così, almeno, diceva la gente. Adesso non

Z. ce ne sono più. Sono scomparsi. Come il bufalo. No... Non ce ne sono

più!

E il cielo nereggiava sopra il capo del vecchio. Uno stormo largo

quattro chilometri e lungo sette obbligò il villaggio ad accendere le lu-

ci. L'aria era colma del battito delle ali. Il piccione di passo era riap-

parso in un continente dal quale mancava da oltre cinquant'anni.

Stormi di colombi volavano alti in fitta schiera eguagliando in nu-

mero quelli che avevano fatto stupire Audubon nel 1813: quando ne

aveva contati a centinaia di miliardi nel Kentucky. E a stormi di cui si

sarebbe tentato invano di contare i colombi selvatici volavano puntan-

do a occidente. Il sole era già tramontato, e l'aria era ancora piena del

loro volo. Parecchie ore dopo il tramonto, si sentiva, incessante, il rom-

bo di quelle ali.

Un grande fuoco lambiva le pietre fra le quali l'avevano acceso. Inquie-

ti, i cavalli brucavano le erbe vicine. Il profumo delle carni messe ad

arrostire era molto invitante. Ma una delle ragazze non smetteva un

istante di gemere battendo i denti, distesa su un letto di foglie. Harris

cucinava. Tom Hunter s'era messo a tagliare legna, mentre Blake mon-

tava la guardia immediatamente al di là dell'alone rossastro della

fiamma. Sbarrava gli occhi sull'oscurità che gli si spalancava davanti,

con le pistole pronte in pugno. Minott studiava attentamente una car-

ta topografica della Virginia e Lucy Blair faceva del suo meglio per rin-

cuorare la compagna piangente.

--La cena è pronta--annunciò Harris. E pronunciò perfino quella

frase timidamente, quasi in tono di scusa.

Minott ripiegò la mappa, mentre Tom Hunter tagliava grosse fette di

carne fumante. Porse la cacciagione ai compagni, servita su pezzi di

corteccia ricoperti da foglie. Minott allungò la mano e ne prese uno.

Mangiò con ottimo appetito. Posata la carta topografica sembrava es-

sersi liberato anche da ogni altra preoccupazione. Faceva sfoggio delle

buone qualità di un buon capo.

--l~arai il cambio a Blake, non appena avrai finito di mangiare,

Hunter--disse.--Dopo disporremo i turni di guardia per la notte. A

proposito, ragazzi: non dimenticate di caricare gli orologi. Sarà anzi

utile regolarli.

Hunter finì di mangiare in fretta e raggiunse Blake nel suo nascondi-

glio. Scambiarono qualche parola a bassa voce. Venuto accanto al falò

Blake prese la carne che Harris gli porgeva e cominciò a masticare

adocchiando ogni tanto la compagna malata.

--Più che altro--commentò Minott--si tratta di una reazione allo

spavento. Non ha che una semplice scalfittura, al braccio. Non è un'e-

sperienza comune, per una laureanda del Robinson College, una ferita

da freccia.

Blake fece un cenno d'assenso.--Ho sentito rumori strani, là fuo-

ri--disse.--E benché non sia in grado di giurarlo, ho avuto la sensa-

zione di essere spiato. A un certo momento m'è sembrato persino di

udire una voce umana.

--Niente di più facile--ammise Minott.--Comunque, siamo usci-

ti, ormai, dal sentiero di tempo in cui siamo stati assaliti dagli indiani.

Ammesso che qualcuno dei nostri aggressori ci abbia seguito dovrebbe

essere troppo stupefatto per costituire un pericolo.

--Speriamo!--commentò Blake senza la minima cordialità per

Minott. Minott aveva deliberatamente cacciato un gruppetto dei suoi

allievi in una situazione dalla quale non c'era scampo. Peggio, il pro-

fessore aveva messo insieme proprio quel gruppo di studenti, per tra-

scinarli poi con sé all'awentura. Pur essendo disposto a riconoscere a

Minott qualità di capo, Blake non sapeva dimenticare il tiro mancino

iniziale del docente. Comunque, non si proponeva affatto di scalzare

Minott dal suo ideale seggio autoritario.

Ma quantunque fosse molto giovane, Blake sentiva anche un certo

diritto al comando. Ed era maturo quanto bastava per costringersi a

non rivelare le sue virtù di condottiero prima che Minott gli avesse fat-

to conoscere con esattezza i suoi fini. Quanto c'era ancora da aspettar-

si, soprattutto. Tese l'orecchio, e dopo un poco disse:--Credo di poter

affermare che la sua lezioncina di stamani sia stata ormai digerita,

professore. Potrebbe dirci quanto può durare ancora lo strano sovver-

timento di cui sono vittime tempo e spazio? Se ben ricordo, lasciata

Fredericksburg, ci siamo diretti a cavallo verso il Potomac, e l'abbia-

mo trovato territorio cinese. Tornati a Fredericksburg ne abbiamo

constatata la scomparsa. Al suo posto, invece, abbiamo incontrato un

mucchio di Indiani che ci hanno lanciato nugoli di frecce, una delle

quali ha ferito Bertha Ketterling a un braccio. Ed è stata una fortuna

che ci trovassimo quasi fuori tiro.

--Li abbiamo spaventati, poveracci--disse Minott.--Quelli erano

Indiani che non avevano mai visto un cavallo. E chissà come sono ri-

masti impressionati nel vedere la pelle bianca delle nostre facce! Natu-

ralmente, appena hanno sentito i nostri spari e harmo visto uno dei lo-

ro cadere ucciso, hanno messo le ali ai piedi.

--D'accordo! Ma che cosa è successo a Fredericksburg? Perché non

possiamo tornarvi così come ne siamo partiti?

r ~ _ Il sovvertimento di spazio e tempo non è cessato mai e continua

tuttora--disse Minott, asciutto--ricorderete, spero, che abbiamo

provato più d'una volta quella strana vertigine durante la giornata. E,

ogni volta che abbiamo avvertito quel malessere, il terreno sul quale ci

trovavamo subiva una di quelle oscillazioni di tempo. Ecco... Guarda

qui!

Minott si alzò per andare a prendere la mappa che aveva studiato si-

no a poco prima. La aprì tutta, indicò una grossa linea tracciata a mati-

269

ta e spiegò:--Questa è la carta della Virginia ai nostri tempi. Il conti-

nente cinese è apparso a circa cinque chilometri a nord di Frederick-

sburg. La linea di demarcazione era costituita dalla foresta di sequoie.

Mentre eravamo nel continente cinese, abbiamo provato di nuovo quel-

lo stordimento e siamo ritornati verso Fredericksburg. Siamo usciti

dalla foresta di sequoie nello stessopunto da cui eravamo entrati. Me ne

ero assicurato. Ma il continente dei nostri tempi non c'era più.

"Ci siamo diretti a est e prima che raggiungessimo il confine della

King George County c'è stato un altro brusco cambiamento della vege-

tazione. Da interminabili pinete a canneti, alberi primitivi, tapiri, uo-

mini scimmia che non sono proprio tipici di questa parte del mondo e

di quest'epoca. Non essendoci apparso il benché minimo segno di ci-

viltà, ci siamo diretti al sud Qui, siamo stati salutati da un terribile

nebbione che celava un'enorme estensione di terra coperta da nevi. E

evidente che in un determinato sentiero del tempo la Virginia si trova

ancora nell'era glaciale."

Blake annuì, ascoltò ancora e disse:--Ho visto che ha segnato sulla

carta i tre lati, in un certo senso, d'una specie di isola del tempo...

--Bravo, Blake!--confermò Minott.--Esattamente! Nel corso del

fenomeno che sovverte il tempo, si sono formate sulla superficie terre-

stre delle zone che potremmo chiamare "fallen. In sostanza, a scivolare

periodicamente dall'uno all'altro cammino nel tempo, sarebbero aree

abbastanza vaste che costituiscono delle unità ben delimitate. Mental-

mente. io le immagino come degli "ascensori" a diversi "piani". Ci tro-

vavamo sul piano Fredericksburg, ovvero in quella determinata sezio-

ne del nostro cammino nel tempo. quando l"'ascensoren si è mosso.

Partiti in osservazione a cavallo siamo capitati in pieno continente ci-

nese. Mentre ci trovavamo lì, il piano dal quale eravamo partiti si è

spostato nuovamente; è finito in un altro settore del tempo: e quando

abbiamo fatto ritorno nel luogo in cui avevamo lasciato alla partenza

la città di Fredericksburg, essa era finita in un altro piano di tempo.

--Ascolti!--gridò Blake all'improvviso.

Di lontano, all'estremo nord, veniva un sordo brontolio. Dopo qual-

che istante, si spense. Improvvisamente, preceduto da un fracasso di

rami spezzati, dalla vicina boscaglia spuntò un animale mostruoso che

venne a fermarsi, sul chi vive, nel riverbero delle fiamme del fuoco. Si

trattava di un alce di proporzoni mai viste. Alla vista di quella bestia

colossale, gigantesca, una delle ragazze lanciò un urlo di terrore e l'a-

nimale fece un brusco voltafaccia scomparendo tra un rumore di rami

infranti nel vicino sottobosco.

--Mai visto un alce in Virginia!--commentò gelido Minott.

--Ascolti!--gridò ancora Blake.

Si udì nuovamente il sordo ruggito provenire da nord. A mano a mano

che si avvicinava, lo si riconobbe per il rombo di un aereo. Presto quel

rombo crebbe di volume e diventò un boato possente. L'aeroplano pas-

sò basso sul capo degli otto esploratori mostrando chiare, sfavillanti,

le luci di posizione alle estremità delle ali e della coda. Tornò a sorvola-

re l'accampamento dopo aver compiuto una virata assai stretta. Poi

tracciò una serie di cerchi sopra Minott e i suoi compagni, lasciando in

chi l'osservava una strana sensazione di impotenza. Infine, si tuffò ver-

sO terra...

--E un aviatore dei nostri tempi--disse Blake con gli occhi fissi al-

la sorgente del suono.--Avvistato il nostro fuoco, tenta un atterraggio

di fortuna... Al buio!

Il motore si spense e per un istante all'accampamento non s'udì che

lo scoppiettio della fiamma, il sibilo del vento tra le asperità lontane.

Poi, uno spaventoso scricchiolare di legno infranto e un'esplosione

Balenò vivissima la fiammata. Un soffio ruggente, e l'incendio della

benzina illuminò l'oscurità.

--Fermi!--Tuonò Blake, balzando in piedi.--Harris! Minott! Re-

state a guardia delle ragazze! Andrò in aiuto del pilota con Hunter!

E scomparve nell'oscurità chiamando il compagno a gran voce. I

due ragazzi s'aprirono laboriosamente la via nel sottobosco. Minott

schizzò in piedi e tirò fuori le pistole. Di corsa, irato, andò a occupare

I'osservatorio che Hunter aveva appena abbandonato.

Lontano nella notte, si udì esplodere anche il serbatoio di riserva

dell'aereo. La vampa della fiammata si fece intollerabilmente vivida.

Presto indebolito dalla distanza il rumore dei due ragazzi partiti in

3 aiuto dello sventurato pilota tra la boscaglia venne a cessare del tutto.

Trascorse molto tempo. Moltissimo tempo. Poi, remoto, s'udì di nuo-

vo uno scalpiccio nel sottobosco. La fiammata di benzina diminuì d'in-

tensità. Indistinte sagome umane avanzarono lentamente nel buio. Si

trascinavano come se stessero trasportando qualcosa di molto pesan-

te. Si fermarono nella zona immediatamente al di là del riverbero ros-

seggiante del fuoco del campo. Poco dopo, Blake e Hunter erano di ri-

torno. Soli.

L --E morto--disse laconico Blake.--Per fortuna è stato scaraven-

tato lontano dall'apparecchio, prima che la benzina prendesse fuoco.

Ha ripreso coscienza pochi istanti prima di morire. Ha detto che il no-

Stro fuoco è stato il solo segno di vita umana che gli è riuscito di vedere

in molte ore di volo. L'abbiamo lasciato qui vicino. Gli daremo sepol-

tura domattina.

Minott tornò a prendere posto accanto al fuoco accigliato in volto,

vivamente incollerito. Ruppe il silenzio Maida Haynes che volle sape-

re:--Che cosa t'ha detto, ancora, il pilota?

L --Era partito da Washington, circondato da una realtà simile se

non identica a quella dei nostri tempi, verso le cinque del pomeriggio.

Infatti alle quattro e mezzo tutta la Virginia che si stende al di là del

Potomac era scomparsa per lasciare il posto a una immensa foresta

primitiva e quel poveraccio era uscito in volo di esplorazione. Tornato

su Washington dopo un'ora, il pilota constatava la scomparsa della

città. L'area che aveva ospitato la capitale gli era apparsa avvolta da

un immenso banco di nebbia sotto il quale si vedevano biancheggiare

nevi eterne. Deciso a seguire il corso del Potomac, a un certo punto ha

scoperto numerosi villaggi costruiti su palafitte. A riva, lunghe imbar-

cazioni dalla prua alta, arcuata.

--Vichinghi!--escalmò Minott soddisfatto.--Scandinavi!

--Non volendo atterrare, I'aviatore continuò a scendere lungo il

corso del fiume, costeggiando poi la baia. Cercava di raggiungere Bal-

timora, ma non poté che verificarne la scomparsa. Svanita. A un deter-

minato momento gli è sembrato di aver avvistato una città: ma rimes-

sosi da un malore, non la vide più. Il pilota avvistava il nostro fuoco

mentre procedeva sempre a nord, preoccupato perché vedeva esaurirsi

il carburante. Ha tentato l'atterraggio di fortuna: privo di luci, I'aereo

è cappottato e il pilota è morto.

--Poveretto!--esclamò Lucy angosciata.

--Comunque--fece notare il giovane Blake--Washington si tro-

vava ancora nel nostro presente alle quattro e trenta, circa, di oggi.

C'è, per quanto vaga, una speranza di poter far ritorno ai nostri giomi,

forse... A mio awiso, dobbiamo piantarci ai margini di una di quelle

zone che continuano a oscillare nel tempo. Dobbiamo montare la guar-

dia ai limiti di una di quelle sottili strisce di terreno, lungo le quali si

verificano quelle che il professore definisce "falle" del tempo! Appena

avvertiamo un'oscillazione si parte in fretta e si dà un'occhiata in giro.

Può darsi che sia molto improbabile capitare proprio nella nostra era,

nella realtà dalla quale siamo venuti. Ma potremmo avere la fortuna di

riuscire a infilarci in una realtà più vicina a noi di quanto non sia que-

sta! Minott sostiene che da qualche parte continua a esistere la Confe-

derazione degli Stati d'America. Saluterei con gioia la possibilità di

continuare a vivere tra la nostra gente. Con individui che parlano la

nostra lingua! Comunque vada, sarà sempre meglio che trascinarci tra

Indiani primitivi, cinesi e scandinavi sino alla fine dei nostri giorni.

--Meglio mettere le cose in chiaro sin da principio, Blake!--pro-

ruppe Minott con violenza.--Gli ordini, qui, li impartisco soltanto io!

Non m'è sfuggito il tuo atteggiamento quando è caduto l'aereo. Ti sei

spinto al punto da permetterti di dare degli ordini a me! Per questa

volta, passi! Ma ti renderai conto che qui non ci possono essere due ca-

pi! Qui comando io! E farai bene a non dimenticartene!

Blake accennò a slanciarsi, ma si trovò puntate contro il petto le pi-

stole del suo ex-professore.

--Come osi proporci il ritorno ai nostri giorni?--continuava Mi-

nott frattanto.--Io non ci penso neppure lontanamente! Prima di tut-

to, è molto probabile che si finisca annientati tutti quanti! Ma se ciò

non fosse, se riusciremo a scampare a questo disastro, sono decisissi-

mo a trarne profitto! Non ho nessuna intenzione di ricominciare a dar

lezioni di matematica a quattro studentelli del Robinson College!

--E con questo?--indagò gelido Blake.--Che cosa si propone di

fare?

--Niente! E quando ti avrò tolto le pistole obbedirai ancora meglio

ai miei ordini. Partiremo alla ricerca d'un periodo di tempo in cui l'A-

merica è colonia vichinga. Non ci sarà difficile imbatterci in quella zo-

na di tempo, perché il fenomeno che turba la nostra terra continuerà

ancora per qualche settimana. Trovato quanto cerchiamo, ci aggreghe-

remo a una di quelle comunità vichinghe e, ristabilizzatosi nuovamen-

te il tempo, procederò alla fondazione del mio impero! E se non farai

quel che ti imporrò di fare, sarai abbandonato al tuo destino, mentre

noi tutti continueremo il nostro cammino senza di te!

--Magnifico--sibilò Blake con calma offensiva.--E se invece noi

tutti preferissimo venire abbandonati al nostro destino piuttosto che

diventare gli strumenti mediante i quali si propone di costruire il suo?

Minott sbarrò gli occhi per qualche istante sul ribelle. Tese le labbra

e disse gelido:--Peccato, Blake! Con quel cervello m'avresti fatto co-

modo. Purtroppo, non posso tollerare degli ammutinati nelle mie file.

Mi vedrò costretto a ucciderti.

E gli puntò spietatamente una pistola contro.

All'Accademia Britannica delle Scienze si stava svolgendo una seduta

straordinaria, indetta allo scopo di determinare con esattezza le cause

dei recenti, deprecabili awenimenti. Stanchissimi, tutti i membri del

famoso consesso avevano gli occhi rossi e gonfi per il gran sonno. Ciò

non bastava, tuttavia, a privarli del loro atteggiamento dignitoso, con-

sci com'erano, soprattutto, dell'importanza dell'incarico loro affidato.

In quel momento, aveva la parola un vecchio professore di fisica, ador-

no d'un bel paio di candidi baffoni. Con appropriata solennità, diceva

dogmatico:--... Impossibile, signori, giungere a conclusioni diverse.

Gli eventi straordinari di queste ultime ore non possono trarre origine

che da certi fenomeni verificatisi a carico di quello che deve essere il

nostro spazio chiuso. Il campo gravitazionale di I079 particelle di ma-

teria chiude lo spazio intorno a um simile aggregato. Nessun cosmo

può essere più grande. Nessun cosmo può essere più piccolo. E se pro-

vassimo a raffigurarci la creazione di un simile cosmo, vedremmo le

sue galassie svanire nell'istante in cui la massa della 1079 particella si

somma a quelle che erano già presenti in precedenza.

"Comunque, il fatto che lo spazio si sia chiuso intorno a un simile co-

smo non significa l'annichilimento di tale cosmo. Significa soltanto

che esso si separa dal proprio spazio d'origine, si isola nello spazio-

tempo a causa della curvatura dello spazio prodotta dal suo campo

gravitazionale. E se ammettiamo l'esistenza di più aree di spazio chiu-

so, ammettiamo come corollario l'esistenza di un iperspazio che sepa-

ra gli spazi chiusi; di coordinate iperspaziali che determinano le loro

posizioni iperspaziali reciproche; di..."

A voce alta, vibrante, un gentiluomo ancor più baffuto e canuto di

quello che parlava interruppe dicendo:--Perdiana! Non ho mai udito

tante buffonate!

--Signore! --I'oratore fece una pausa e sgranò gli occhi.--Allude

forse...

--Alludo, caro mio! Sta pronunciando la più pazzesca congerie di

idiozie che abbia mai udito. Di questo passo, verrà a dirci che nel suo

iperspazio gli spazi chiusi sono soggetti a iperleggi, ruotano l'uno in-

torno all'altro in iperorbite che obbediscono a ipergravitazione! Natu-

ralmente, arriverà persino a parlare di periodiche oscillazioni iperter-

restri, nonché di ipercollisioni e, perché no? di ipercatastrofi!

--Proprio così!-- replicò l'oratore dall'alto della sua tribuna.

--Esattamente, caro mio!

--Ah, sì?--disse l'altro.--Sappia allora che le sue elucubrazioni

mi provocano la nausea!

E a conferma che quanto aveva dettQ corrispondeva a verità, si piegò

su se stesso. E non era il solo: tutta quanta la venerabile assemblea si

torceva per un attacco di nausea accompagnata da spiccata vertigine.

Dopo di che l'Accademia Britannica delle Scienze sciolse la seduta in

preda a vero e proprio panico. Si diede a vergognosa fuga. Scomparsa

improvvisamente la tribuna destinata agli oratori, nell'immensa aula

che accoglieva il nobile consesso non ne era rimasta traccia. Al posto

del seggio presidenziale c'era uno spazio vuoto. E in questo spazio ar-

deva altissimo un falò. E intorno al fuoco di quel falò stavano ritti e mi-

nacciosi certi individui primitivi, un branco di bruti veri e propri che

somigliavano in modo strano ai vecchi uomini di scienza che fuggiva-

no precipitosamente da loro. I cavernicoli levarono alte urla alla vista

di tanta veneranda canizie in fuga. Grufolando, agitando minacciosa-

mente nodose clave, i bruti si precipitarono nella sala dell'Accademia

Britannica di Scienze. Si è saputo, poi, che riuscirono a mettere le ma-

ni su una sola persona: un biologo assai noto per le sue eccentriche teo-

rie. A quanto sembra, se lo mangiarono.

Non c'è da stupirsi se si ricorda che da tempo è ammesso che le spe-

cie estinte degli uomini di Neanderthal fossero dedite al cannibalismo.

Se lungo determinate strade del tempo queste specie riuscirono a ster-

minare i loro rivali più intelligenti, se da qualche parte, cioè, il Pithe-

canthropus erectus ha avuto la meglio sull'Homo sapiens, ebbene... Iun-

go quel settore di tempo il cannibalismo fa parte delle regole della

buona società.

274

Con un grido, Maida Haynes si lanciò davanti a Blake. Harris, tuttavia,

era stato ancora più svelto. Aveva appena terminato di tagliare una

grossa porzione di cacciagione fumante e, senza abbandonare la sua

solita aria timida di ragazzino che domanda scusa, la lanciò. Arrivò

sulla mano di Minott che impugnava la pistola, colpendola con forza.

L'arma cadde dalle dita ustionate del professore e Blake gli si piantò

davanti, con una rivoltella in pugno.

--Non faccia nemmeno il gesto di raccogliere quella pistola, profes-

sore!--sibilò il giovane con il fiato mozzo, ma con estrema decisione.

--Altrimenti, le sparo al braccio!

Minott imprecb. Afferrò il revolver con la sinistra e se lo ficcò in tasca.

--Pezzo di somaro!--gridò.--Credevi davvero che avessi inten-

zione di ucciderti? Volevo farti paura. Mettertene in corpo tanta che ti

bastasse per un pezzo! Quanto a te, Harris, sei proprio un asino! E con

Maida... faremo i conti in un altro momento! Ma la miglior punizione

sarebbe che vi piantassi in asso, che vi lasciassi in balìa di voi stessi!

Nel vedere Minott allontanarsi e scomparire nell'oscurità, i ragazZi

provarono un profondo senso di costernazione. Nel punto in cui era ca-

duto l'aereo, si vedevano brillare sinistre le ultime fiammelle violacee

dell'incendio.

--Questo è il guaio--brontolò Hunter angosciato.--Minott è al

corrente di tutto, mentre noi non ne sappiamo niente. Se ci pianta, sia-

mo fritti, ragazzi miei!

--Già--concesse Blake.--E se rimane, magari è peggio!

--Lasciate che gli parli io!--propose Lucy Blair.--A scuola, con

me, è sempre stato molto carino. E poi, devi avergli ustionato la mano,

Hunter!

Preceduta da una lunga ombra angolosa, la ragazza abbandonò a

sua volta il falò. Dopo qualche istante i compagni udirono Minott dire

con voce aspra:--Torna indietro! C'è qualcosa che si muove tra quegli

arbusti!

Non aveva ancora finito di lanciare il suo avvertimento e già aveva

fatto fuoco. Alla prima esplosione rispose un grido inumano di dolore e

poi la pistola abbaiò ancora: tre, quattro volte. Tra un secco schiantarsi

di rami, il vicino sottobosco si popolò improvvisamente d'ombre in fu-

ga. Al suo ritorno all'accampamento, Minott sogghignava, sarcastico.

--Che razza di capitano sei, caro Blake, che dimentichi i turni di

guardia?--indagò sardonico.--Non avevi detto che t'era sembrato

di udire delle voci? Stai tranquillo, ora! Gli Indiani sono fuggiti, natu-

ralmente.

--Vuole che mi occupi della sua mano?--propose con voce esitante

~ Lucy Blair.

--Che cosa pensi di fare?--ribatté Minott collerico.

_ Ungerla con un po' di grasso--rispose la ragazza.--Gli Indiani

` 275

curano le scottature con quello d'orso. In mancanza di plantigradi,

adopererò il grasso del capriolo che ha ucciso per cena.

L'ustione riportata da Minott era di lieve entità. Il professore, tutta-

via, permise alla ragazza di fare la crocerossina. Per far le cose per be-

ne, Lucy chiese in prestito ai compagni qualche fazzoletto. Intorno al

fuoco regnava un'atmosfera di profondo disagio. Non era un gruppo

preparato alle avventure, addestrato ad affrontare ogni evenienza: tut-

to era cominciato come una scampagnata di studenti. Mentre Lucy gli

medicava la mano, il professore aveva uno sguardo truce. Harris aveva

più che mai l'aria di domandare scusa, sapendosi colpevole dell'ustio-

ne inflitta a Minott. Bertha Ketterling continuava a piagnucolare sul

suo giaciglio di foglie. Un po' meno di prima, forse, perché nessuno si

curava di lei. Blake fissava il fuoco con aria meditabonda.

I cavalli cominciarono a dar segni di inquietudine. Tra i lamenti,

Bertha Ketterling starnutì un paio di volte. Lucy si sentì bruciare gli

occhi. E fu la prima ad accorgersi che l'esplosione dei serbatoi del-

I'aereo aveva finito per appiccare l'incendio alla foresta. Mise in al-

larme i compagni con un grido.

Il velivolo era andato a fracassarsi al suolo a un buon miglio di di-

stanza dall'accampamento. Violentissimo, I'incendio del carburante

era però stato assai breve. E non c'era voluto molto perché il fuoco tra-

sformasse le ali e la fusoliera dell'apparecchio in un ammasso di rotta-

mi carbonizzati. Il fuoco si era ridotto soltanto a pochi tizzoni rosseg-

gianti. Quei tizzoni, ora, sembravano aver preso nuova vita.

Infatti, le fiamme s'erano illanguidite soltanto per diffondersi a poco

a poco nel fitto sottobosco. Prima di slanciarsi ad accendere i rami del-

le conifere, avevano serpeggiato a lungo al suolo. Spirava una brezza

sottile, ma costante. E quando Lucy aveva alzato la testa per scoprire

la provenienza del fumo che le faceva bruciare gli occhi, un tronco al-

tissimo era già tutto un crepitio di fiamme. Si vide il fuoco avventarsi

famelico al suolo e in un baleno due, tre, dodici nuovi focolai si al-

zarono ruggendo verso il cielo.

Soffiando inquieti, i cavalli scalpitavano, agitando la testa.

--Harris!--comandò Minott sferzante.--Sella quelle bestie! Fai

montare immediatamente le ragazze, Hunter!

Deliberatamente, non degnò Blake del minimo comando. Tra l'ac-

cresciuto rombo delle fiamme della foresta, il professore spiegò la

mappa e la studiò calmo, a lungo. Non appena vide Minott infilarsi la

carta in tasca, Blake, che nel frattempo aveva raccolto la cacciagione

che era rimasta, balzò rapidamente in sella, spingendo poi la sua ca-

valcatura accanto a quella di Maida Haynes.

--Procederemo a coppie--disse Minott.--Ognuno di noi si assu-

merà la responsabilità d'una ragazza. Aprirò la cavalcata illuminando

il terreno con la mia torcia elettrica. Se riusciremo a mantenere l'in-

cendio alle nostre spalle, se si potrà evitare l'accerchiamento, dovrem-

mo raggiungere il fiume Rappahannock prima o poi.

Raggiunta la cima d'un piccolo colle, la spedizione si rese conto ap-

pieno del pericolo che la minacciava: un chilometro in lunghezza al

primo divampare, I'incendio non aveva tardato a stendersi tre volte

tanto in larghezza. Al sopraggiungere dei cavalieri sulla sommità della

collina, la fiamma stava scagliandosi rabbiosa nel più fitto d'una giun-

gla inestricabile. Ruggiva guadagnando terreno con rapidità assai

preoccupante. A sinistra degli otto avventurosi, la boscaglia scoppiet-

tava paurosamente, avvolta da vampe sempre più elevate.

Quasi a prendersi gioco di coloro che già versavano in una situazione

assai precaria, si levò improvviso e forte il vento. Tra i cavalieri comin-

ciò a cadere, fitta, una pioggia di foglie ardenti, di ceneri calde e minu-

scoli carboni rossi. Colpita su di una guancia da uno di quei lapilli,

Bertha Ketterling lanciò un acuto grido di dolore. E il cavallo di Harris

nitrì e scalciò sentendosi scottare all'improvviso da qualcosa. La ca-

valcata dei fuggiaschi riprese subito, ventre a terra, fra i tronchi im-

mensi della foresta ancora buia. Ridicolo era il povero lume della tor-

cia elettrica di Minott a confronto dell'immenso incendio alle sue spal-

le. Ma almeno illuminava loro la strada.

Una "cosa" enorme, scura, goffa, colmava di sé lo spazio compreso tra

il monumento a Grady e il Palazzo delle Poste. Le lampade ad arco ri-

velavano l'oggetto per qualcosa che non avrebbe avuto il minimo dirit-

to di presentarsi, sia di giorno, sia di notte, per le strade di Atlanta, in

Georgia. L'autista di un taxi poco mancò di rimetterci una ruota, così

brusca fu la sua inversione, nel tentativo di fuggire. Il poliziotto che

per primo la vide, diventò pallido come un lenzuolo e si precipitò al

più vicino telefono per avvertire la centrale. Ma erano successe troppe

cose strane quel giorno per dubitare della sua salute mentale, e troppe

notizie incredibili da tutto il mondo erano state pubblicate dal Journal

perché potesse non credere ai suoi occhi; e se non ne avesse già viste ca-

pitare di ben peggiori quel giorno, se i giornali non fossero stati pieni

delle ultime di cronaca più mirabolanti che si fossero mai pubblicate,

il povero tutore dell'ordine, in quell'occasione, avrebbe avuto tutte le

ragioni del mondo per metter in dubbio la sua sanità mentale.

La "cosa" era un rettile mostruoso, repellente. Lungo venticinque

metri, almeno una quindicina erano di collo e coda: il resto era corpac-

cio flaccido e grinzoso. Non poteva pesar meno di venticinque o trenta

tonnellate, ma non aveva la testa molto più grande di quella d'un ca-

vallo. E quella strana testina si muoveva tutt'intorno con espressione

stolida. Non c'era dubbio: la "cosa" era in preda a vivo stupore. Era

sbalordita. Appena mosse una delle zampe enormi si vide uno zampil-

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lo schizzare al cielo nel punto in cui la bestia aveva infranto pavimen-

tazione stradale e tubatura dell'acqua. Ma la NcosaN non s'accorse del

danno. Si muoveva indecisa, instupidita. Ed emanava un tanfo selvati-

co e disgustoso.

Immediatamente l'aria fu piena del gemito lamentoso delle sirene

della polizia e del clangore intermittente delle campanelle delle auto-

pompe. Come sboccò nel piazzale, un'autoambulanza fu colpita in pie-

no dalla possente coda del rettile. Finì contro un muro, fracassandosi.

Ancora ignara del disastro del quale era stata la causa, la "cosan lan-

ciò un grido di protesta. Un belato elevato all'ennesima potenza. E co-

minciò a guardarsi intomo angosciata, come se si sentisse presa in

trappola tra le altissime case in mezzo alle quali era finita. Ma era

troppo stupida per tornare sui propri passi.

Di lontano, si alzò un grido, proprio mentre numerose auto della po-

lizia, seguite da innumerevoli autopompe, si avvicinavano alla prima

delle "cose". Vigili del fuoco e forze di polizia circondarono l'enorme

animale che continuava a dondolare incerto, incapace di fuggire. Gof-

fe, due "cose" più piccole della prima si affacciarono con espressione

bovina sulla piazza. Avevano anche loro teste minuscole e corpi masto-

dontici. Una, muovendosi lenta e impacciata, posò un'estremità su un

autocarro dei pompieri. Animale e autocarro si rovesciarono e la "co-

sa" lanciò un belato terribile, identico a quello dell'altra.

E poi, un pazzo aprì il fuoco. Altri pazzi furono pronti a imitare il

primo. Pallottole rivestite d'acciaio penetrarono a fondo nelle carni

dei rettili. La polizia copriva di raffiche di mitra i mostri. A sparare

erano uomini di grande coraggio, uomini che non potevano non aver

notato l'immensa stupidità delle bestiacce uscite dall'enorme palude

apparsa all'improvviso dove sino a poche ore prima si stendeva l'In-

man Park di Atlanta.

La mitraglia pungeva, feriva le carni delle tre creature primordiali

che, sbalordite, lanciavano al cielo i loro raccapriccianti belati, cer-

cando, goffamente, una via di scampo. La prima, la più mastodontica,

tentò la scalata d'una casa di cinque piani con il risultato di farla crol-

lare quasi per intero, sventrata.

Prima che che fossero tutte morte - o meglio, prima che cessassero

di muovere le enormi membra, visto che le code continuarono a dime-

narsi a lungo e il cuore ancora batteva spasmodicamente quando furo-

no caricate sui tre camion della nettezza urbana il giorno dopo - pri-

ma, dicevamo, che fossero tutte morte, avevano raso al suolo tre isolati

nel centro di Atlanta e ucciso diciassette persone.

I mostri non avevano mai dimostrato il minimo atteggiamento ag-

gressivo. Il loro unico pensiero era la fuga. Le distruzioni e i lutti di cui

erano stati causa si dovevano ascrivere unicamente alla loro incom-

mensurabile goffaggine, alla loro abissale mancanza d'intelligenza.

Nell'affondare improvvisamente sino ai garretti in un terreno soffice

spugnoso, i cavalli che si trovavano alla testa del drappello barcollaro-

no. Quanto bastò perché Bertha Ketterling lanciasse un gridolino di

terrore. Poi, nell'oscurità che li circondava, si udì Blake dire secca-

mente:--Riaccenda la lampada, professore! Credo che siamo finiti in

mezzo a un campo arato!

Alle spalle dei fuggiaschi, il cielo rosseggiava vivido. L'incendio della

foresta li tallonava ancora. Esteso lungo un fronte di parecchie miglia,

lanciava scintille e vampe a tinger di rosso nugoli di fumo.

Il fascio di luce della torcia illuminò il terreno. Era terra arata; terra

resa soffice dalla mano dell'uomo. Ma quasi in risposta alle esclama-

zioni di sollievo dei suoi compagni, Minott illuminò ancora quel terre-

no per far notare, sarcastico:--Sapete che cosa sono queste? Coltiva-

zioni di lenticchie! Avete mai sentito che se ne coltivassero, in Virgi-

nia? Sarà molto interessante stabilire con chi abbiamo a che fare.

E fece compiere un brusco scarto al cavallo per procedere seguendo

la direzione dei solchi. Con accento assai triste, Tom Hunter, commen-

tò:--Andiamo male, ragazzi! Queste sono coltivazioni primitive: un

aratro tirato da un solo cavallo farebbe solchi assai più profondi di

questi!

Da lontano brillava fioca una luce. I compagni di Minott l'avvistaro-

no contemporaneamente. Obbedendo all'istinto, le cavalcature vi si

diressero.

--Andiamo piano!--ammonì Blake.--Non vorrei che fossimo ca-

pitati addosso a dei cinesi un'altra volta!

La luce splendeva a un paio di chilometri di distanza. Avanzarono

cautamente.

All'improvviso, i ferri del cavallo di Lucy Blair colpirono una pietra,

e il rumore parve fortissimo. Subito dopo lo stesso accadde agli altri

cavalli. Una strada di pietre. Pietre squadrate. Uno dei cavalli soffiò

impaurito, scalpitando. S'impennò agitando il collo, per non calpesta-

re qualcosa che giaceva al suolo. La torcia elettrica del professore cer-

- cava affannosa nel buio.

--Soltanto i Romani--disse Minott--sapevano costruire strade

di questo genere. Soprattutto le strade cosiddette strategiche, militari.

Tuttavia, non sapevo che Roma aveva scoperto l'America...

·t In quell'istante il raggio della torcia elettrica si posò su una massa

j~ scura. L'accarezzò, allontanandosene; tornò per soffermarvisi. A lun-

~t go. Una delle ragazze lanciò un grido soffocato, di spavento. Al suolo

'' c'eranO due cadaveri. Uno vestiva l'elmo e la corazza delle fanterie di

Roma antica. Un colpo d'arma da fuoco gli aveva squarciato orribil-

mente una metà del viso. Gli giaceva sopra, ucciso da un terribile col-

P° di spada, un uomo che indossava una strana uniforme di color gri-

gio. Il fascio di luce frugò il suolo tutt'intorno. Altri corpi. Molti cada-

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veri con la tenuta dei legionari romani. Tre o quattro cadaveri con una

divisa molto simile a quella dei soldati dell'esercito confederato.

--Qui c'è stata una battaglia--commentò obiettivo Minott.--Gli

uomini che popolano ancora il sentiero di tempo cui appartiene la

Confederazione debbono essere usciti in esplorazione per rendersi con-

to della natura di fenomeni che a loro apparivano molto strani. I Ro-

mani, dato e concesso che di Romani si tratti, li hanno assaliti.

Si vide qualcosa strisciare nell'oscurità. Il raggio della lampada

prontamente spostato da Minott lo illuminò. Era un uomo, sì. Ma era

seminudo, e portava le catene, e aveva i segni di tremende percosse, so-

pra altri segni di percosse più antiche. Era scheletrito ed emaciato. Ed

era marcato dalla ferocia insensata della disperazione. Era stato bru-

talizzato dalle sue sofferenze fino al punto di essere soltanto un uomo,

e nient'altro.

Troppo stordito per provare paura, il raggio della torcia elettrica gli

fece soltanto socchiudere le palpebre.

E Minott gli rivolse la parola. Come sentì il suono di una voce, il me-

schino si gettò tra la polvere. Minott si rivolse a lui aspramente. La

creatura, a capo chino, mormorò parole d'un latino barbarico che gli

uscivano ancor più mutilate dal labbro screpolato e tumefatto.

--E uno schiavo--annunciò Minott gelido.--Dice che improvvi-

samente hanno visto degli stranieri venire dal nord. Allude probabil-

mente ai Confederati che avrebbero aggredito e ucciso alcuni dei suoi

guardiani. Lo schiavo lo nega, ma con tutta probabilità cercava di fug-

gire dalla fattoria presso la quale lavora. Come vedete, tuttavia, noi

non siamo stati i soli, in questi giomi, a farci sorprendere fuori dal no-

stro tempo da una delle oscillazioni.

La cavalcata riprese il cammino verso la luce che brillava ancora

lontana.

--Che si fa, ora?--chiese Maida debolmente.

--Si va alla fattoria e ci si informa!--rispose Minott laconico.

--Se la villa è in mano ai Confederati, potremo contare senz'altro su

di una buona accoglienza. Se invece ciò non è, vedremo di cavarcela

come meglio potremo. Comunque, è mia intenzione andarmi ad ac-

campare ai margini di una "fallan di tempo e varcame i confini non ap-

pena un'oscillazione fortunata ci porterà a tiro di una realtà di origine

scandinava. Mi sarà molto utile accertare in qual luogo e quando si

siano visti degli scandinavi, se riuscirò a trovare qualcuno che sia in

grado di dirmelo.

Maida Haynes si strinse accanto a Blake. Il giovane le pose una ma-

no sul braccio nell'intento di tranquillizzarla, mentre continuavano a

cavalcare in direzione della luce lontana. Alle spalle della piccola spe-

dizione, il fuoco dell'incendio illuminava vivamente la notte. A inter-

valli qualche conifera resinosa levava al cielo fiamme altissime, abba-

glianti, che bagnavano di luce rossastra i cavalli e i cavalieri in fuga.

Gradualmente, tuttavia, la vampa si fece più continua, più stabile e in-

tensa. Illuminò le mura bianche d'una grande villa, le sagome di qual-

che fienile, un granaio. Infine, una costruzione enorme che ricordava

stranamente una caserma.

Ci si trovava nei pressi di una fattoria. Un latifondo romano con la

villa del proprietario trasportata da chissà dove, proprio sul limitare

di un territorio selvaggio. Sembrava, ricordò improwisamente Blake,

una illustrazione che aveva visto molto tempo prima su una rivista set-

timanale. Quella d'una villa inglese d'origine romana restaurata in

modo che somigliasse il più possibile a quella antichissima che i Ro-

mani s'erano lasciati alle spalle quando avevano abbandonato i Bri-

tanni a vita selvaggia, e incolta. Nel passare accanto a certi cumuli di

fieno messi a seccare, Blake annusò, sospettoso.

Maida gli venne vicino. Pronunciò qualche parola. Lucy Blair caval-

cava accanto a Minott e ogni tanto lo guardava. Nel suo caratteristico

atteggiamento di persona che domanda scusa, Harris s'era messo vici-

no a Bertha Ketterling. La ragazza stava in sella denunciando con

chiari segni la sua stanchezza. Tom Hunter cavalcava a lato di Minott,

quasi a farsene proteggere, e aveva abbandonato a se stessa la povera

Janet Thompson.

--Jerry--sussurrò Maida.--Che ne pensi? Che cosa ci capiterà

adesso?

--Non so. Ma non mi piace!--rispose Blake a bassa voce.--Co-

munque--aggiunse--non ci rimane che andare avanti. Strano! Mi

sembra di sentire un puzzo di...

Un nugolo d'uomini improwisamente usciti dal buio si gettò pazza-

mente sui cavalieri. Sembravano nudi selvaggi dai corpi unti di sudore

ed emanavano un tanfo ferino. Nell'aggredire il gruppo a cavallo fece-

ro tintinnare le catene. Li spronava da lontano una voce autoritaria

che faceva seguire le parole da un sinistro schioccar di staffile.

Prima che la zuffa fosse terminata si udirono unicamente due spari.

Li aveva sparati Blake, che poi aveva voltato il cavallo. Come sentì il

cavallo abbattersi sotto di lei, Bertha Ketterling lanciò un debole gri-

do di spavento. Si sentiva Tom Hunter parlare affannosamente, quasi

fosse in preda a un attacco isterico. Harris, prodigiosamente liberato

dall'etemo complesso di timidezza che lo inceppava, pronunciava una

sequela di imprecazioni orrende.

Blake, soffocato da una quantità di corpi nudi che tentava invano di

allontanare da sé, non trovò di meglio, a un certo punto, che rivolger la

parola agli aggressori. Bastò il suono risentito di quella voce perché gli

assalitori si allontanassero, tremanti, quasi istintivamente. E alla luce

di numerose torce apparse all'improvviso a illuminare il teatro della

lotta, i prigionieri si videro attorniati da un gran numero di schiavi in

catene. Orrido miscuglio di tutte le razze della terra, in ogni stadio di

degradazione, serbavano nei confronti di coloro che reggevano le torce

e impartivano gli ordini un atteggiamento succube, frutto della più di-

sperata abiezione.

Il padrone era basso di statura, obeso. Si drappeggiava in una specie

di toga e la stringeva maldestramente a sé. La luce delle fiaccole illu-

minò i prigionieri, ma illuminb anche i lineamenti debosciati, superbi

e crudeli dell'uomo che possedeva gli schiavi e la villa. Dal suo atteg-

giamento e dagli ordini che pronunciò in un latino stranamente cor-

rotto, si capì che si considerava proprietario anche dei prigionieri.

Il deputato di Aisne-le-Sur si convinse di aver fatto proprio bene. Quat-

tro passi all'aria aperta, di notte, a Parigi, è quel che ci vuole per "tirar-

si un po' su di cordan. Macché vertigini e nausea! Doveva essere stato

lo champagne. Il fresco della notte gli aveva già fatto passsare quello

strano malessere. L'unica cosa che non andava era che il deputato non

riusciva a capire dove fosse finito. Eppure, lui, Parigi la conosceva co-

me le sue tasche, perbacco! Quelle strade erano strane. E le case... An-

che quelle gli sembravano inusitate. Eh, sì! Inusitate come le lampade

dell'illuminazione che ne facevano emergere dall'ombra le stranissi-

me sagome architettoniche. Stupito e un po' inquieto egli si sforzò di

identificare il particolare sapore dell'atmosfera di quelle case.

C'era proprio da andare in bestia! A un certo momento doveva pur

tornare a casa da sua moglie! Il deputato scrollò le spalle e non appena

vide delle luci davanti a sé, vi si diresse di buon passo. Si trovò allora

vicino a uno stupendo palazzo gentilizio, sfarzosamente illuminato.

Preceduta da un fragoroso risuonare di zoccoli, ecco una scorta a ca-

vallo che viene a disporsi ai due lati del portone. Si vede uscirne un

giovane pallido accompagnato da un omuncolo grassottello che gli ba-

cia le mani come rapito da un'estasi. I cavalieri fanno ala al passaggio

dei due che si dirigono a passo regale verso il cocchio. I due giovani uf-

ficiali che li seguono hanno il petto che sembra un medagliere. E il de-

putato, inconsciamente, comincia a notare che lui, quelle uniformi

non ricorda di averle vedute se non... Anche il cocchio gli sembra una

stranezza, ma...

Un marziale sbatacchiare di tacchi, un balenare di sciabole sguaina-

te nel saluto. Il giovanotto esangue si degna di lasciarsi baciare le mani

ancora una volta dall'uomo grasso e finalmente sale in carrozza, segui-

to dai due ufficiali. Non appena il cocchio si muove, la scorta a cavallo

dà di sprone, e i cavalieri appiedati balzano in sella. In breve si dispon-

gono tutt'intorno alla carrozza che si allontana.

L'uomo grasso rimane un poco sul marciapiede davanti al suo palaz-

zo e si stropiccia le mani, tutto soddisfatto. Il deputato di Aisne-le-Sur

sbarra gli occhi, sbalordito. Vede un passante che s'è fermato come lui

a godersi lo spettacolo. E vestito in modo inconsueto e ostenta panni

che si addicono stranamente alle case di quella via, alla scena che ha

appena visto.

--Pardon, m'sieur--balbetta il deputato.--Temo di non riuscire a

riconoscere questo luogo... Potrebbe...

--La casa--risponde il passante sarcastico--è quella di Monsieur

le Duc de Montigny. Possibile che una persona non conosca il nome di

Monsieur le Duc? E soprattutto di Madame la Duchesse, di chi ella sia,

e di dove abiti?

Il deputato deglutisce con fatica e sbatte le palpebre allibito.

--Montigny?--dice.--Montigny?!--ripete angosciato.--No!--

confessa.--E non so nemmeno chi sia quel giovanotto che si faceva fa-

re il baciamano da...

--Da Monsieur le Duc?--si sbalordisce il passante.--Mon Dieu!

Ma di dove viene lei, da non conoscere neppure Luigi XX?! Quello che

ha veduto uscire da quel portone era il Re che aveva appena terminato

di far visita a madame, la sua amante.

--Luigi... Ventesimo?-- balbetta il deputato di Aisne-le-Sur.

--Io... non capisco!

--Sciocco!--fa il passante, indignato.--Quello era il re di Fran-

cia, che è succeduto a suo padre all'età di dieci anni, e che da soli sei

mesi regna senza aiuto del reggente... e che ha cominciato già a man-

dare in rovina la Francia!

La centralinista inserì la spina e recitò con voce malferma:--Dica il

numero, prego!... Spiacenti, ma non possiamo darvi Camden... Sono

cadute tutte le linee... Mi spiace, signore!...--Ripeté la manovra sotto

un altro segnale luminoso e disse ancora:--Dica, signore!... Non pos-

so darle Jenkinstown, signore. Le linee sono tutte abbattute!

Sul quadro brillò un'altra luce.

--Mi spiace, signore... Non posso darle Dover! Non posso darle New

York! Ho tutte le linee gua... No, signore non posso nemmeno inoltrar-

gliela attraverso Atlantic City! Mi spiace! Lo so! Anche le compagnie

telegrafiche non garantiscono più la consegna dei dispacci!

"...No! Signora, prego di non insistere! Non è colpa mia, ma non sia-

mo più in grado di comunicare con Pittsburgh! ... Interrotte le comuni-

cazioni con Scranton signorina... No! Nemmeno Harrisburgh!" strillò

la centralinista rabbrividendo.

--Neanche Filadelfia, signore! Non abbiamo più ricevuto da Fila-

delfia.... Non abbiamo più ricevuto da nessuna parte!... Abbiamo tenta-

to di stabitire un ponte radio, ma non ci siamo riusciti!

Per qualche istante la povera capoturno si coprì il volto con le mani.

Poi si concesse una chiamata personale.

282 ~ 283

--Ciao Minnie, sono io! Sì! Saputo niente. ancora?... Hanno mobili-

tato tutte le forze di polizia? Ci sono dei combattimenti in corso?

...Sparatorie?!... Ma con chi ce l'hanno, Minnie!? Per l'amor di Dio!

Non lo sai?! ...Che?! Han tirato fuori persino le autoblindo delle ban-

che?! ...Ma perché? Che cosa succede?! Ho i genitori laggiù, Minnie!

Le porte del capannone degli schiavi furono chiuse con fragore. Dall'e-

sterno vennero calate in sede le sbarre trasversali di legno. Intorno ai

prigionieri s'addensò un'atmosfera densa e irrespirabile. Poi scoppiò

un pandemonio di voci, punteggiato dal tintinnare delle catene. Ovun-

que si sentiva scricchiolare la paglia sulla quale stavano sdraiati, co-

me bestie, gli schiavi. Una voce stridula superò la gazzarra delle altre

voci; s'impose. Tra un più sommesso mormorio, tutti sembravano pre-

starle ascolto.

Maida, atterrita, disse:--Ho capito quello che sta dicendo quello lì.

Parla una specie di latino, e sta raccontando agli altri schiavi della no-

stra cattura.

Bertha Ketterling lanciò un urlo raccapricciante nel buio assoluto.

--M'hanno toccata!--balbettò.--Un uomo!

Da vicino, qualcuno parlò divertito. Scoppiarono alcune risate fra-

gorose. Gli schiavi erano animali, secondo il concetto romano. Tra un

distinto scalpicciar di piedi e uno squillante tinnire di catene, gli

schiavi stavano awicinandosi agli studenti del Robinson College. Ci si

poteva divertire, con della gente non ancora degradata come loro!

Si udì Lucy Blair mandare un grido soffocato. Un brusco, secco crac.

Qualcuno che cadeva e poi altre risate.

--L'ho sbattuto giù--disse Blake.--Harris! Hunter! Cercate intor-

no a voi pietre, pezzi di legno. Qualunque cosa possa servirci come ar-

ma. Gli schiavi tenteranno di malmenarci, e qui dentro, nella loro stes-

sa tana, non c'è modo di indurli alla ragione! Qui comandano loro. An-

che se ci accoppano, nel peggiore dei casi subiranno l'ennesima

bastonatura. E poi ci sono le ragazze che...

Dalle tenebre uno schiavo gli si buttò addosso grugnendo. Blake lo

strapazzò urlando pieno d'odio. Ci furono dei sommessi brontolii. Al-

tre sagome indistinte s'avvicinarono ancor più ai prigionieri. Ridotti

allo stato di animali, gli schiavi si comportavano né più né meno come

belve feroci nel loro covo. Provavano odio per i nuovi venuti, non fos-

s'altro perché erano stati liberi sino a poco prima, e non schiavi. Le ra-

gazze, inoltre, erano pulite, atterrite... Preda, quindi! Tutto intorno a

Blake e ai suoi compagni era un sinistro clangore di catene. L'aria era

pestilenziale. Ed era buio come in fondo a un pozzo.

Bertha Ketterling cominciò a gemere sommessamente. Si udì un

colpo sordo calato con la forza su qualcuno. Allora si scatenò il fini-

mondo di una zuffa accanita mentre Lucy Blair gridava aiuto ripetuta-

mente... Ansando, gli studenti si battevano come leoni tra tonfi di corpi

che cadevano riversi e rumore di colpi terribili.

Bang. Bang. Bang. Spari da fuori, un'autentica scarica di fucileria.

Passi di corsa, in fuga. Altri colpi di pistola e le sbarre di legno che

chiudevano il portone dall'esterno caddero al suolo. Sulla soglia si af-

facciarono molti uomini reggendo fiaccole: con urla di comando e fa-

cendo schioccare gli staffili ordinavano agli schiavi di venire a com-

battere un aggressore tuttora sconosciuto. Venivano chiamati fuori

dalla loro tana, come cani dal canile. A smuovere il branco riluttante

entrarono quattro aguzzini che cominciarono a sferzare a dovere

quanti capitavano loro a tiro. Fuori continuavano le esplosioni. Men-

tre un gruppo di schiavi si gettava nell'angolo estremo del baraccone

gli altri si precipitarono fuori in cerca di scampo. Ma al suolo ne giace-

vano tre che non avrebbero mai più potuto levare un lamento.

Blake e Harris stavano appoggiati a una parete del covo: armati di

due lunghe pertiche erano pronti a vendere cara la pelle. Quando la lu-

ce delle fiaccole illuminò uno schiavo ucciso, ai suoi piedi, Harris rias-

sunse la sua aria di chi chiede scusa ma non mollò per questo il nodoso

bastone. Hunter contendeva a due ragazze la protezione offerta da

Harris. Lucy Blair, pallida come una morta, stringeva in pungo un os-

so scheggiato brandendolo come se fosse stato un pugnale.

Li raggiunsero gli staffili degli aguzzini. Blake ruotò ferocemente la

clava; aveva il viso sfigurato da una sferzata. Poi una rivoltella abbaiò

più volte dalla soglia. Gli studenti videro Minott con gli occhi iniettati

di sangue, sparare con mortale precisione, le due mani armate di pisto-

la. Uno dei portatori di fiaccola cadde fulminato e la sua torcia si spen-

se sfrigolando nel sangue.

--Venite fuori!--urlò Minott.--Che cosa aspettate?

Balbettando e lamentandosi come un ragazzino, Hunter fu il primo

a raggiungerlo. Tutto intorno era un pandemonio di urla e di grida

scomposte. Un enorme granaio si sfasciava tra le fiamme di un incen-

dio. S'udirono nuove nutrite scariche di fucileria e schiavi e aguzzini

cominciarono a correre qua e là come impazziti. Altre e più tremende

detonazioni squarciarono la notte.

--I cavalli sono ancora lì, nelle stalle--sibilò Minott, esangue in

volto, ma deciso alla strage.--Non hanno ancora capito come si fa a

dissellarli. Prima di dar fuoco al granaio, ho sparso tra la paglia alcune

manciate di pallottole. Le sentirete esplodere a intervalli più o meno

regolari.

Un uomo armato di staffile e di una corta daga si lanciò sul gruppo

dei prigionieri evasi e Minott lo abbatté.

--Mi dia una pistola!--urlò Blake.--Voglio...

--Prima i cavalli!--gridò Minott.

285

Corsero verso un ampio cortile. Due revolverate e gli schiavi fuggiro-

no. Appena fuori dal chiuso, i fuggitivi si piegarono sulle selle, passan-

do al galoppo davanti alla villa romana. In cima alla scalinata c'era un

ometto in toga, che strepitava paonazzo di collera! Mostrò i pugni ai

fuggiaschi, abbattendo a pedate uno schiavo che si rotolava gemendo

ai suoi piedi, e urlò ordini con una voce piena di furia. A causa di quella

rabbia bestiale, non provava nemmeno paura.

Minott lo uccise a revolverate. Balzò di sella per strappargli la toga e

la lanciò a Lucy.

--Indossala!--impose feroce.--Potrei uccidere...

Inutile mettere in dubbio le qualità di capo di Minott. Fu lui a guida-

re abilmente la ritirata dalla villa. I cavalieri fuggirono al nord, verso

la foresta che faceva rosseggiare sinistramente il cielo~

Fermarono il galoppo al fiammeggiare altissimo di un secondo gra-

naio cui il primo aveva appiccato il fuoco. Alla fattoria regnava il di-

sordine: morto il padrone, la confusione era divenuta completa. Prese

fuoco il tetto dell'immenso capanno che serviva da covile agli schiavi.

Le grida di terrore di chi vi si trovava ancora raggiunsero persino i fug-

giaschi ormai lontani. Tra il bagliore delle fiamme si vedeva una fuga

generale di gente impazzita... Nacque una zuffa. Ci fu un pandemonio

di urla belluine...

Minott strappava ferocemente le vesti ai caduti della stranissima

battaglia tra militi romani e Confederati, venuti a conflitto lungo un

impensato cammino del tempo. Blake si guardava alle spalle, e Minott

raccomandò di far bottino d'armi e munizioni confederate. Ammesso

che fossero Confederati.

Mentre Hunter, ancora tremante e in preda a terrore isterico, carica-

va il suo cavallo dell'inusitato peso delle armi, gli otto provarono una

volta di più un indescrivibile senso di nausea accompagnata da verti-

gini. Davanti ai loro sguardi attoniti, la foresta in fiamme disparve co-

me inghiottita dal nulla. Dalla profonda oscurità venuta a prendeme il

posto, il vento portò un lezzo di decomposizione, commisto all'umido

acutissimo profumo di corolle mostruose. Un essere enorme, mortife-

ro, latrò orrendamente dal profondo di una palude primeva. Emanava

un puzzo insopportabile.

Il City of Baltimore filava veloce sul mare illuminato dalle prime luci

dell'alba. Il capitano, in plancia, aveva la fronte corrugata per la

preoccupazione. Gli si avvicinò il marconista con un fascio di radio-

grammi in una mano. Aveva gli occhi rossi per la grande stanchezza.

--Forse, capitano--esordì con voce incerta--è stata tutta colpa

dello strano malessere che m'ha colto a metà della notte. Non m'è riu-

scito, per ore e ore, di captare il minimo segnale. A un certo punto ho

persino pensato che si fosse guastato l'apparecchio e ho controllato

tutto. Poi mi ha ripreso di nuovo la strana vertigine di poco prima e i

segnali sono arrivati a frotte! Io non capisco proprio... Comunque, qui

c'è un po' del materiale che ho captato. E darei un milione per capire

com'è possibile che un attimo di malessere mi abbia reso incapace di

captare segnali per più di un'ora!

--Mi sono sentito male anch'io!--disse il capitano.--Stai tran-

quillo! Stordimento e vertigine. Ecco che cosa ho provato. E la stessa

cosa è successa al timoniere e a tutti gli altri.. Fammi vedere i messag-

--...notizie in breve... Metà Londra è scomparsa alle due antimeridiane

di oggi... dalla motonave Manzanillo: il serpente marino che questa notte

aveva attaccato la nostra nave causando la morte di quattro marinai è ri-

comparso e l'abbiamo speronato cinque minuti fa. Pare che stia morendo.

Abbiamo la prua mal ridotta e due paratie invase dalle acque...

--... A tutti i naviganti! Attenzione! Awistati banchi di ghiaccio a cin-

quanta miglia al largo del porto di New York!

--...notizie in breve. In Spagna, Madrid ha subito un inesplicabile

cambiamento. Tutti gli edifici sino a poco fa riconoscibili dau'aereo sono

scomparsi. Svaniti tutti gli aeroporti. A chiese e cattedrali paiono essersi

sostituite moschee. f n cima a un campanile sventola una band iera con la

mezzaluna... La popolazione europea di Calcutta sembra essere stata mas-

sacrata. La motonave Carib comunica che il porto appare deserto. Svani-

to ogni segno di presenza europea. Sulle rive si accalca una gran folla di

indigeni in atteggiamento ostile...

Il capitano della City of Baltimore si passò una mano tremante sulla

fronte e guardò imbarazzatissimo il suo marconista.

--Sparks!--esortò poi con voce gentile.--Fatti dare un'occhiata

dal medico, per favore. Ti faccio accompagnare da qualcuno, vuoi?

--Lo sapevo--brontolò amaramente Sparks.--Devo essere im-

pazzito improvvisamente! Eppure... io non sono riuscito a captare al-

tro!

Sorretto da un marinaio, il marconista si allontanò dal ponte di co-

mando a capo chino. Dritto a prua apparve una nuvoletta di fumo ne-

ro. La si vide ingrandire rapidamente. Sommandosi la velocità delle

due navi, l'altra imbarcazione fu ben visibile nel giro di mezz'ora. Lun-

ga, bassa, era tutta dipinta di nero. Ma quel che stupì tutti quanti fu il

vedere che si muoveva a ruote! Ne aveva due serie: oltre alle solite ruo-

te a pale in centro, ne aveva un altro paio più a prua. E ruotavano più

velocemente delle altre.

Quando il capitano volle osservare quella nave più da vicino, poco

mancò che si lasciasse cadere di mano il cannocchiale. A poppa del va-

scello che si avvicinava, sventolava una bandiera bianca e nera. Quan-

do il vento la distese per intero si vide al centro un teschio con le tibie

incrociate... La bandiera della pirateria di tutti i tempi!

Tra il sartiame della nave pirata si levò una fila di bandierine da se-

gnalazione. E il capitano della City of Baltimore le osservò attentamen-

te.

--Accidenti!--mormorò.--Non capisco nulla! Non si serve del co-

dice internazionale, quella gente! Chi ne capisce niente?!

Tuonò un cannone. La prua della nave nemica si avvolse in una fitta

nube di fumo nero. Una grossa palla affondò alta nelle sovrastrutture

di dritta della City of Baltimore. Un attimo dopo esplose.

--Sono impazzito anch'io!--strillò il timoniere.

Un altro colpo di cannone. E poi un secondo e un altro ancora. La

strana vaporiera nera aprì il fuoco di bordata nell'evidente tentativo

di colare a picco l'avversaria. Si rovesciò in mare metà del castello di

prua della City of Bakimore, tra un uragano di sorde esplosioni.

A quella vista, il capitano tornò prontamente in sé. Lanciò rapidi or-

dini. Nel far manovra, la nave si inclinò paurosamente su se stessa. Poi

si lanciò in avanti a una velocità assai superiore a quella di crociera.

Le batterie della nave corsara raddoppiarono e triplicarono il fuoco.

Tentò di sottrarsi all'urto quando era troppo tardi.

La City of Baltimore la speronò in pieno. E fino all'ultimo istante il

suo capitano si credette improvvisamente impazzito. Troppo tardi, co-

munque, per salvare la nave corsara! La City of Baltimore la tagliò in

due.

Il pallido grigiore delle prime luci dell'alba filtrava tenue tra l'incredi-

bile intrico del fogliame. A terra, accanto al punto in cui bruciava un

povero fuocherello, non era più di un vago chiarore crepuscolare. La

legna che bruciava, levava un'alta colonna di fumo. Hunter badava al

fuoco, vestito d'un abito composto di male assortiti brandelli d'unifor-

mi grigie. Harris si dava da fare pazientemente con un fucile nell'in-

tento di comprenderne il funzionamento. Ma era un fucile diverso da

quelli che conosceva. L'otturatore non era affatto un otturatore, e inol-

tre la canna non era rigata. Cercò invano di capire cosa mettesse in ro-

tazione la pallottola. Anche Harris aveva sostituito con il grigio dei

Confederati il gonnellino che gli avevano dato prima di scaraventarlo

insieme ai suoi compagni tra gli altri schiavi. Minott sedeva sorreg-

gendosi il capo tra le mani, e guardava l'altra sponda del fiume.

Lucy Blair adocchiava Minott di tanto in tanto, lanciandogli sguardi

carichi di preoccupazione. A un certo punto non seppe più resistere al-

la tentazione, gli si andò a sedere vicino e lo tempestò di domande. Le

altre ragazze sedevano accanto al fuoco. Bertha Ketterling s'era ap-

poggiata al tronco d'un albero. A capo riverso, spalancava la bocca a

un sonoro russare. Tutti, tranne Blake, erano scalzi.

Tornato accanto al fuoco, Blake accennò con il capo al ruscello che

scorreva poco lontano.

--A quanto sembra, professore--fece osservare speranzoso--sia-

mo finiti ai margini d'una "falla di tempo". Mentre da questa parte del

corso d'acqua siamo in pieno Carbonifero, di là ci si trova in un'era as-

sai meno primitiva, per quanto arretrata rispetto a quella dalla quale

proveniamo... Professore!

Minott sollevò il capo e chiese:--Cosa c'è?

--Siamo qui da ore--disse Blake--e non si è verificato il minimo

cambiamento della realtà che ci circonda. Che il fenomeno dell'oscilla-

zione sia terminato? Se così è avvenuto, e le "zone" di tempo rimango-

no in queto stato di confusione, ci converrebbe andare in cerca di colo-

nie o città abitate da nostri simili!

--E se lo facessimo--rispose Minott con amarezza--quanto dure-

remmo? Siamo praticamente disarmati... mi rendo conto di essere un

povero illuso - o di esserlo stato. Pensavo che dei giovani, perfino dei

giovani del Robinson College, avrebbero voluto conquistare ciò che

ancora non avevano. Invece sono già pietrificati nell'ideale del cittadi-

no modello. Gente simile è inutile al cento per cento. L'incidente della

villa romana l'ha dimostrato a sufficienza. Attaccati, cos'hanno fatto?

Si sono battuti a mani nude, ecco cos'hanno fatto. Bel modo di ragio-

nare da bravi cittadini, da animali bene ammaestrati! Ma a me non

servono degli animali ammaestrati. Sono stato l'unico ad avere il buon

senso di usare le pistole. Non avevano il tempo di pensarci su, di pren-

dere appunti, i signori studenti. E allora cos'hanno fatto? Si sono com-

portati come dei mocciosi.

Lucy mormorò di nuovo qualcosa. Minott si accigliò.

--Faccio parte del corpo docente del Robinson College--proclamò

con palese sarcasmo.--Si suppone che debba prendermi cura dei

miei studenti. E sa il Cielo se me ne sarei preso cura! Li avrei trasfor-

mati in principi e principesse, in duchi e marchesi, avrei messo nelle

loro mani intere nazioni. Ma cosa possono valere simili bazzecole, di

fronte alla prospettiva di tornare a casa, laurearsi e andare di porta in

porta a proporre polizze d'assicurazione? Ebbene, che ci tornino!

Quasi senza accorgersene Blake aveva recuperato in parte il rispetto

che nutriva per Minott. La cattura e la sprezzante riduzione alla condi-

zione di schiavo avevano scosso tutta la sua sicurezza di sé. In prece-

denza, si era sentito non soltanto un membro di una razza superiore,

ma anche un individuo superiore di quella razza. Nel venire ridotto in

schiavitù era stato degradato e insieme disprezzato. La dignità offesa

gli rodeva ancora, e la sua sicurezza si spezzava al pensiero di non es-

sere stato capace di fare altro che uccidere due miserabili compagni di

schiavitù~ senza peraltro riuscire a contribuire minimamente alla pro-

pria libertà. Ora, per la prima volta, la sua voce riprese in parte il tono

precedente.

--Sappiamo--diceva Minott--che la forza di gravità incurva lo

spazio. A furia di osservazioni, siamo riusciti a calcolare con esattezza

quale curvatura è prodotta da una determinata massa. Siamo quindi

in grado di sapere quanta massa occorre a far sì che lo spazio si curvi

in modo da chiudersi completamente, determinando un universo chiu-

so, impossibile a scoprirsi nelle dimensioni a noi conosciute. Sappia-

mo, per esempio, che se due masse gigantesche, due stelle gigantesche,

dovessero scontrarsi, I'istante della loro collisione non condurrebbe a

un immane cataclisma. Quelle due stelle si limiterebbero a svanire.

Non cesserebbero però di esistere. Cesserebbero di esistere unicamen-

te per quel che concerne il nostro spazio-tempo. La collisione delle due

stelle creerebbe un suo proprio spazio-tempo.

--Sarebbe un po' come infilarsi in una buca, tirandosela poi appres-

so--mormorò con aria di scusa Harris.--Ho letto qualcosa del gene-

re su di una rivista, una volta.

Fatto un breve cenno di assenso, Minott continuò in tono cattedrati-

co:--Immagino ora che si siano formati due universi di questo tipo.

L'uno e l'altro saranno invisibili dallo spazio e dal tempo nei quali si

sono determinati. Ognuno d'essi continuerà a esistere in un proprio

spazio-tempo, proprio come succede al nostro universo. Nondimeno,

quei due universi debbono, necessariamente, continuare a esistere an-

che in una specie... diciamo... di iperspazio: perché se ammettiamo che

due spazi chiusi siano separati l'uno dall'altro, dobbiamo anche am-

mettere che ci sia qualcosa tra l'uno e l'altro; qualcosa che li separi. Al-

trimenti coesisterebbero, sarebbero uniti.

--Comunque--obbiettò Blake--lei ci sta parlando di concetti teo-

rici, che non potremmo mai controllare con l'osservazione.

--Sì--rispose Minott.--Se ti riferisci alle osservazioni che sono

state pubblicate, comunque, se il nostro è uno spazio chiuso, dovremo

ammettere anche l'esistenza di altri spazi chiusi come il nostro. E non

bisogna dimenticare che questi altri spazi dovrebbero essere, sono an-

zi, altrettanto reali come lo è il nostro.

--E con ciò?--volle sapere Blake.

--Se esistono altri spazi chiusi simili al nostro, se questi altri e il no-

stro esistono in un mezzo comune, I'iperspazio, cioè, che li tiene sepa-

rati, dovremmo poterli paragonare... che so?... alle stelle e ai pianeti

che conosciamo, che pur essendo separati l'uno dall'altro si inauenza-

no a vicenda. Poiché questi spazi chiusi sono separati da un iperspazio

logicamente necessario, si dovrebbe poter concludere che siano capaci

di influenzarsi a vicenda tramite l'iperspazio.

--Si dovrebbe quindi ritenere--mormorò Blake a bassa voce

--che il fenomeno dell'oscillazione dei "tempi" sia stato indotto da

qualcosa di simile all'attrazione che produce le nostre maree... se al

nostro sole si avvicinasse improvvisamente un'altra stella, basterebbe

l'attrazione esercitata da quelle due stelle per fare andare a pezzi il no-

stro pianeta! Lei dice che un altro spazio chiuso è awicinato al nostro

nell'iperspazio... Beh... Ho le idee molto confuse, professore...

--Ebbene, io questo fenomeno l'avevo previsto e avevo calcolato a

tre contro una le probabilità che spazio, tempo e universo compren-

dente tutte le stelle e le galassie dei cieli andassero cancellati in una so-

la volta a opera di un fenomeno distruttivo capace di annientare per

sempre persino il passato come se questo passato non fosse mai esisti-

to. Ma rimaneva ancora una probabilità, e io avevo cercato di sfruttar-

la nel modo migliore. Avevo progettato...

Alzatosi improvvisamente in piedi, Minott disse:--Per Giove! Si

potrebbe ancora tentare! se voi non foste dei vermi. Abbiamo le armi, i

libri, le formule... rl meglio di quanto è stato scoperto dall'uomo l'ab-

biamo lì, nell'interno delle nostre bisacce! Ascoltatemi. Noi, adesso,

attraversiamo quel torrente. Non appena si determina un cambiamen-

to della realtà attuale, qualunque sia quella nuova che verrà a pren-

derne il posto, noi ci dirigiamo verso il Potomac! Andiamo là dove

quell'aviatore aveva visto delle imbarcazioni scandinave sulla riva. Mi

sono portato vocabolari inglese-sassone antico e viceversa. Ne ho an-

che un paio di inglese-scandinavo antico e viceversa. A quei primitivi

ci presenteremo in atteggiamento pacifico. Diventeremo loro amici.

Gli insegneremo quanto basta. Li guideremo, e attraverso di loro di-

venteremo padroni del mondo.

--Mi spiace, professore--mormorò Harris con il tono di scusa.

--Ma ho promesso a Bertha che l avrei portata a casa non appena se

ne fosse presentata l'occasione, e debbo mantenere la parola! Forse ha

ragione, ma io non ho la minima voglia di fare l'imperatore!

Minott indirizzò al ragazzo un'occhiata carica d'ira e di disprezzo.

--E tu, Hunter?--indagò.

--Be'. . Io... Farò quel che fanno gli altri... Certo... preferirei tomare

a casa mla...

--Che somaro!--ringhiò Minott.

--Io invece...--disse con decisione Lucy Blair.--A me piacerebbe

fare l'imperatrice, professor Minott!

Maida Haynes sbarrò gli occhi sulla compagna. Sbalordita, stava

per parlare, ma preferì non intervenire. Con aria distratta, Blake tirò

fuori dalla tasca una pistola e si mise a osservarla con aria meditabon-

da, mentre Minott apriva e chiudeva i pugni in preda a ira profonda.

Gli si erano inturgidite le vene della fronte e respirava forte, con affan-

no.

--Imbecilli!--strepitò.--Idioti! Non riuscirete a diventare niente

più che assistenti in qualche università di terz'ordine, e per questo sie-

te disposti a buttare via...

Improvvisa e violentissima una vertigine li colse di sorpresa. Blake

si sentì cadere la pistola di mano. Si guardò intorno e si trovò davanti

una distesa di pini e di campi che gli sembrarono familiari. E c'erano

anche molte case... Edifici da sempre conosciuti. Cadde un silenzio di

morte. Gli otto non osavano respirare. Poi Blake gridò:--Ma quella...

quella è... Ia King George Court House! Siamo nella King George

County, in Virginia! Il nostro tempo è tornato! Accidenti, attraversia-

mo di corsa il ruscello!

Il giovane afferrò rapidamente Maida. La portò di peso, tra le brac-

cia, attraverso il minuscolo corso d'acqua. Minott gridò disperatamen-

te:--Aspettate!

Li guardò con una sorta di amara speranza.--Per l'ultima volta! Vi

offro ricchezza, potere, signoria. Tutto quanto un uomo può desidera-

re.

Blake, raggiunta la riva opposta, depose Maida tra l'erba del greto.

Hunter sguazzava pazzamente tra le acque basse. Blake tornò a guar-

dare il fiumiciattolo. Tremante, temendo di non fare in tempo, riunì in

un sol nodo le redini dei cavalli e caricò le armi tolte ai Confederati ca-

duti sulle selle. Condusse le tre ragazze alla riva opposta. Hunter non

si vedeva già più. Correva a precipizio verso il villaggio. Blake fece at-

traversare il letto del torrente ai cavalli. Minott guardava i fuggiaschi

con l'occhio acceso di furibondo disprezzo.

--Venga con noi, professore!--I'esortò Blake.--E meglio!

--Dovrei tornare a fare l'assistente di matematica?--ruggì colleri-

co Minott.--Mai! Rimango!

Blake si soffermò a meditare. Minott era un uomo strano, per certi

aspetti insopportabile. Era stracciato. Era disperato. Blake provò per-

sino pietà, per lui, nel vederlo stagliarsi contro lo sfondo d'una giungla

del Carbonifero: senza scarpe, con la barba lunga, eppure ancora in at-

teggiamento di sfida!

--Un momento, professore!--esclamò Blake.

Strappò le selle a sei cavalli e ne caricò gli altri due. Li prese per le

redini e li ricondusse dall'altra parte. Accanto a Minott. Il professore

continuava a osservarlo con odio sprezzante.

--Ti laurerai--disse scandendo ogni parola.--Troverai un lavoro,

e passerai la vita a pagare bollette quando avresti potuto imbarcarti su

un transatlantico di lusso. Sarai una pedina quando avresti potuto es-

sere il re. Ma io non ci sto. Nossignore. Preferisco morire...

Con un'alzata di spalle, Blake riattraversò il corso del torrente. Lucy

Blair rimase a guardare la solitaria figura di Minott, con un'ammira-

zione che probabilmente nessun altro aveva mai provato per lui.

--Ha del coraggio, però...--disse, imbarazzata.

Un senso appena percettibile di stordimento li colse tutti per un atti-

mo. Come il fenomeno fu passato, guardarono tutti all'altra riva, quasi

istintivamente. La giungla era sempre lì. Immutata. Minott li fissava.

Amaramente.

--Debbo ancora dirgli una cosa!--ansimò Lucy tremante.--An-

date pure. Non aspettatemi!

La ragazza si buttò nel fiume. Tornò di nuovo a farsi sentire l'imper-

cettibile stordimento di poco prima. Lucy frustò il cavallo. Maida urlò:

--Torna indietro, Lucy! Torna indietro! Sta per cambiare di nuovo!

--E quello che voglio!--le rispose Lucy.--Ho deciso di rimanere...

Lucy aveva già oltrepassato la metà del ruscello, quando li sconvolse

ancora una volta la tremenda, improvvisa vertigine.

Il resto è noto. Per due settimane, si verificarono qua e là sporadiche

oscillazioni del tempo. Ma non si tardò a notare che le "falle", per dirla

con il termine trovato da Minott, stavano gradualmente diminuendo

di numero. Si è potuto calcolare che al culmine del fenomeno il cento

per cento della superficie terrestre finì per trovarsi lungo un sentiero

di tempo che non era il suo. Non si conosce un solo settore del globo

che a un determinato momento non soggiacesse alle conseguenze delle

oscillazioni.

I nostri scienziati, ormai, non si dimostrano più tanto dogmatici,

nelle loro asserzioni. Tutti i sistemi filosofici sono usciti scossi sino alle

fondamenta dalle straordinarie esperienze causate dalla perturbazio-

ne spaziale. Quelli che si consideravano sino a poco fa i concetti basila-

ri della botanica, della zoologia, della filologia, si sono dovuti adegua-

re alle nuovissime cognizioni provocate dalle escursioni laterali nel

tempo.

Naturalmente, per nostra fortuna, fu l'unica probabilità su quattro,

quella che si verificò alla fine: la terra sopravvisse. Continua a vivere

nel nostro tempo, quanto meno. I sei superstiti della spedizione Minott

raggiunsero la King George Court House appena un quarto d'ora dopo

che una delle ultime oscillazioni aveva portato via Minott e Lucy Blair

dal nostro spazio-tempo. Per sempre. Blake e Harris si affannarono su-

bito a trovare il modo di comunicare a tutto il mondo le notizie che

avevano appreso. E la teoria di Minott varcò gli spazi a cavallo delle

onde corte della trasmittente radio di un dilettante. Sfrondata delle

osservazioni pessimistiche di Minott, la teoria venne raccolta ed elabo-

rata da competenti. Servì soprattutto a impedire certe esplorazioni in

forze, disposte in determinati settori della terra. Impedì, tra l'altro,

che una spedizione punitiva si addentrasse in una "falla" di tempo si-

tuata in Georgia, al di là della quale s'erano rifugiate alcune tribù di

Indiani allo stato selvaggio, colpevoli di aver scotennato i prigionieri.

~ece sì che non s'inviasse gran numero di incrociatori a bombardare

Leifsholm dalla quale era partito un attacco di Vichinghi contro North

Centerville nel Massachusetts. Una squadriglia di aerei da ricognizio-

ne fu fatta tornare tempestivamente alla base, prima che sorvolando

una zona di giungle e paludi primeve nella Virginia occidentale rima-

nesse isolata in un'altra èra per sempre.

Accaddero però anche certi episodi che nessuno poteva prevedere. Si

calcola che non siano meno di cinquemila i cittadini degli Stati Uniti

rimasti isolati per sempre in tempi che non erano i loro per aver obbe-

dito al desiderio d'esplorare meravigliosi paesaggi improvvisamente

apparsi davanti ai loro occhi. Molti debbono considerarsi perduti. Al-

tri, ne siamo certi, debbono essere venuti a contatto con altre civiltà in

seno alle quali, forse, continuano a esistere. Per contro, c'era da aspet-

tarselo, abbiamo fatto degli acquisti. Abbiamo con noi gli abitanti di

altre strade del tempo. Nei pressi di Ithaca, New York, stazionano un

paio di coorti della Ventiduesima Legione Romana. Quattro famiglie

di contadini cinesi, uscite a raccogliere quella che sembrava una mes-

se straordinaria di bacche, sono rimaste in Virginia quando quella zo-

na tornò definitivamente a far parte del proprio ambiente. Nel Colora-

do abbiamo un intero villaggio di Russi. E se c'è qualcuno che la vuol

vedere, c'è una colonia di francesi in fondo al Middle West. Le nostre

pianure si sono arricchite nuovamente di fitti branchi di bufali allo

stato selvaggio. Ce ne sono non meno di duecentomila accanto a un bel

villaggio di Cheyenne che non avevano mai veduto un cavallo o un'ar-

ma da fuoco. Un miliardo e mezzo di colombi di passo hanno fatto ri-

torno da chissà dove al Nord America.

Ma le nostre perdite sono state sensibili. Oltre a coloro che si videro

trasportati in altri tempi dopo essersi avventurati su terreni a loro sco-

nosciuti e nuovi, non possiamo dimenticare la catastrofe di cui sono

state vittime Detroit, Tokyo e Rio de Janeiro. Quel che è successo alle

due ultime città riusciamo a capirlo. Cessato il fenomeno che aveva

causato le oscillazioni laterali nel tempo del nostro globo, quasi tutte

le sezioni terrestri tornarono a occupare il loro posto nello spazio e nel

tempo dei nostri giorni.

Non tutte, purtroppo. Nel Tennessee orientale ci è rimasto un pezzo

di giungla del Carbonifero. E del villaggio russo del Colorado, nonché

della colonia francese del Middle U7est abbiamo già parlato. In qual-

che caso, comunque è successo che sezioni intere di sentieri oscillanti

nel tempo sono andate a stabilizzarsi assai lontano dal loro punto di

partenza.

Così possiamo spiegarci la scomparsa totale di Tokyo e di Rio de Ja-

neiro. Là dove sorgeva Rio, oggi si vede una giungla vergine. Appartie-

ne è vero, alla nostra era geologica, ma risale ai tempi in cui Rio de Ja-

neiro non era ancora stata fondata. Il posto già occupato da Tokyo è

stato preso da una foresta di tipo assai primitivo. Botanici e paleonto-

logi avranno da sudare quattro camicie a studiarla! Da qualche parte,

tuttavia, non si sa dove nel tempo e nello spazio, Tokyo e Rio de Janei-

ro continuano a esistere con i loro abitanti. Ma quel che è successo a

Detroit...

Non siamo ancora riusciti a capire che cosa è accaduto a Detroit. Ve-

nuta a trovarsi su di una sezione di globo in oscillazione-nel tempo

svanì dalla nostra epoca per poi farvi ritorno, ma... Gli abitanti di De-

troit non sono tomati a noi con la loro città. L'abbiamo trovata deser-

ta; priva delle centinaia di migliaia di individui che la popolavano e

che dobbiamo ritenere dissolti, svaporati nell'aria. Si sono trovati, è

vero, segni di lotta: ma a quanto sembra, devono attribuirsi semplice-

mente al panico. In complesso, si può dire che la grande città di De-

troit è tornata indenne, intatta al suo tempo e al suo spazio. Non è sta-

ta messa a ferro e fuoco. Non è stata sottoposta a un immane saccheg-

gio. Al suo ritorno, tuttavia, non vi si è più trovato un solo essere

vivente: neppure un gatto o un uccellino in gabbia. Questo, purtroppo,

non riusciamo a capirlo assolutamente.

Forse, se fosse tornato a noi, Minott sarebbe riuscito a spiegarci que-

sto fantastico mistero. Quanto ci rimane delle sue annotazioni è stato

di enorme aiuto per noi, quando abbiamo cercato di chiarirci il feno-

meno della perturbazione di cui è stato vittima il tempo Se siamo sta-

ti in grado di abbozzare una teoria capace di spiegare quei fenomeni

dobbiamo esserne grati agli incompleti appunti di Minott nonché alle

spiegazioni che ci hanno fornito Blake e Harris scampati alla spedizio-

ne di quell'audace. Tom Hunter, purtroppo, non ricorda quasi nulla

delle lezioni impartite ai ragazzi dal professore e i dati che ci ha forni-

to Maida Haynes, quantunque importantissimi, si riferiscono a osser-

vazioni che anche altri sono stati in grado di fare.

Siamo tuttora incapaci di rispondere a una miriade di quesiti: ne sa-

premmo di più se Blake non avesse consegnato a Minott le bisacce, po-

co prima che partisse per la sua disperata spedizione senza ritorno. I

nostri scienziati si affaticano con somma diligenza intorno ai dati nu-

merici cne Minott riteneva poco importanti e che noi invece ci sforzia-

mo di comprendere e integrare. E sono innumerevoli i pensatori di tut-

to il mondo che rivolgono un nostalgico pensiero alle bisacce di cui è

carico un certo cavalluccio che accompagna il viaggio di Minott e Lucy

Blair, partiti alla conquista d'un mondo armati solo di qualche pistola

e di pochi libri di testo .

Titolo originale: Sidewise in ~ime

~raduzione di Riccardo Valla. su licenza di E~itrice N(lr~l

>q4 295

Harry Bates

AHIME, TUTTO QUESTO PENSARE

Ahimè, tutto questo pensare! Strettamente confidenziale. (Questa è di-

namite! Fare molta attenzione a chi lo legge.)

Da: Charles Wayland.

A: Harold C. Pendleton, Presidente della Sezione per la Salvezza

Umana della Commissione Nazionale sulle Malattie Mentali.

Soggetto: Relazione sulla conversazione e sulle azioni di Harlan T.

Frick nella notte del 7 giugno 1963.

Metodo: Ho usato il dittografo da tasca che tu mi hai dato; e il mio

rapporto è la trascrizione letterale della registrazione avvenuta, con la

sola aggiunta di qualcosa di mio per renderla più comprensibile.

Note speciali: (a) Il rapporto, avallato da quello che è stato inciso

sul dittografo, deve essere considerato solo come un terzo della prova

che il tuo "investigatore dilettante di nevrosi" Wayland non è da consi-

derare egli stesso oggetto di interesse psichiatrico, dal momento che

questo incredibile rapporto può essere confermato in tutti i dettagli

da Miles Mateson, che era con noi quella notte, così, come credo, dallo

stesso Frick.

(b) Fino a quando non deciderai sul da farsi, ho convinto sia Mate-

son che Frick a mantenere un assoluto silenzio sui fatti e sulle conver-

sazioni avvenute. Essi sono d'accordo e penso che ci si possa fidare.

(c) Mi sento in dovere di dirti, fin d'ora, affinché tu possa seguire in

modo più approfondito il rapporto, che Frick sarà trovato sicuramen-

te sano di mente, ma che mai più il suo incredibile talento scientifico

potrà essere utilizzato per il progresso delle scienze. Come suo amico,

ti consiglio di abbandonare ogni speranza di poterlo salvare, e di la-

sciarlo invece proseguire per la strada che ha scelto, alla ricerca del

piacere e della dissolutezza. Potrai sempre ricordarlo come un grande

scienziato morto. Lui è un uomo logico, ma è pur sempre umano, e io

considero lo spreco della sua vita come giustificabile sul piano umano.

~_ tP nf~ rf~n ~ r~li r~ntr~ ~n~he tu.

Rapporto. Gli strabilianti eventi della serata cominciarono in un

modo assolutamente normale al Lotus Garden, dove io avevo fissato

una cena con Frick e il nostro comune amico Miles Mateson, chimico e

autore di una recente, e quanto mai divertente, teoria matematica sul-

le variabili invertite applicate alle curve femminili, teoria che Frick

aveva espresso l'ardente desiderio di ascoltare.

Avrei preferito osservare Frick da solo, ma non ero sicuro di riuscire

a tenere vivo l'interesse della sua mente irrequieta e vigorosa per la

terza volta nel giro di due settimane. Dieci minuti di noia e le mie os-

servazioni psicologiche sarebbero arrivate a una fine improvvisa e tu

avresti dovuto trovarti qualcun altro per portare avanti le tue indagi-

ni psicologiche.

Arrivai al tavolo che avevo riservato con quasi un quarto d'ora di

anticipo per sistemare tutto, mettere il dittografo nella tasca, e rivede-

re per l'ultima volta i miei piani. Avevo tre indizi. Avevo scoperto (ve-

di i miei rapporti del 26 e del 30 maggio) che quando venivano pro-

nunciate parole come ''cervellon, aprogresso dell'uomo" e "amore" lui

manifestava delle reazioni emotive notevoli, insolite e costanti. Eró si-

curo che tutto questo era sintomo di qualcosa. E ho sperato di av-

vicinarmi alle radici del suo comportamento anomalo con il solito me-

todo di usare una lista memorizzata di parole, osservazioni e doman-

de che io gli avrei fatto di tanto in tanto.

Potevo solo sperare che Frick non avesse molta familiarità con la

psicoanalisi, così non avrebbe notato quello che stavo facendo.

Confesso che per un momento, mentre aspettavo gli altri, ebbi la

spiacevole sensazione che tutto questo non avrebbe portato a nulla,

ma mi ricredetti subito. Uno non può fare altro che provare, e io vole-

vo fare del mio meglio. Con chiunque altro, avrei potuto tirarmi indie-

tro, ma mai con Frick. Era il mio vecchio amico dai tempi dell'univer-

sità, e valeva veramente la pena salvare una personalità di tale spicco!

Ed era ancora così giovane, aveva ancora tanto da offrire all'umanità!

Ancora una volta pensai a cosa avesse potuto alterare la sua mente

in quel modo. Un fisico, forse il più brillante e certamente il più pro-

mettente nel mondo, entra nel suo laboratorio dopo la laurea, e per

undicj anni a mala pena mette il naso fuori dalla porta. Nel frattempo,

però, trova il modo di produrre una quantità di scoperte, nuove teorie

e integraZioni di vecchie leggi fisiche, che prima non erano mai state

uguagliate e ora, improvvisamente, lo stesso fisico esce dal laborato-

rio, chiude la porta, dimentica tutte le sue responsabilità e per due an-

ni si dedica completamente, e con entusiasmo, a sciocchezze della vita

mondana~ come il golf, i vestiti, i viaggi, la pesca, i night club e via di

seguito. Sconvolgente è una parola troppo debole per descrivere lo

Spettacolo. Non riesco a pensare a niente che possa lontanamente ren-

dere meglio l'idea.

Miles Mateson arrivò con un minuto di anticipo, cosa che per lui era

praticamente un avvenimento, e dimostrava quanto l'occasione di ce-

nare con Frick lo avesse interessato. Miles ha quarantacinque anni, è

basso, massiccio, pelato... ma non ho bisogno di descriverlo.

--Verrà?--furono le sue prime parole, prima di sedersi dall'altra

parte del tavolo.

--Credo di sì--lo rassicurai con un sorriso notando la sua ansia.

Sembrò rilassarsi un po', e tirò fuori dalla giacca da sera quell'abomi-

nevole pipa che fumava dovunque e con chiunque, quando più gli fa-

ceva comodo, con disperazione del maitre che lo guardava accigliato.

L'accese, tirò un paio di boccate, si appoggiò alla sedia sorridendo e

ammise con franchezza:--Charles, mi sento come un ragazzo che sta

per andare a cena con il preside della sua scuola.

Lo potevo capire, in quanto molti scienziati si sentivano allo stesso

modo quando c'era di mezzo Frick. Sorrisi e lo presi un po' in giro.

--Non sarà mica che tu e la tua pipa vi farete intimorire da un sem-

plice playboy?

--No... non da lui, ma da quello di misterioso che c'è dietro il play-

boy--fu il suo commento serioso.--Secondo te che cosa succederà?

Dai, svelto prima che arrivi.

Alzai le spalle. Naturalmente non ero molto in confidenza con Miles.

--Potrebbe essere una donna?--continuò.--Ma non ho sentito

niente riguardo una donna. Un problema di lavoro? Una reazione da

bambino viziato? Che sia diventato matto? Che cosa lo ha fatto cam-

biare?

Se solo lo avessi saputo!

--Frick, più di qualsiasi altro uomo al mondo, ha toccato i limiti

dello scibile umano--continuò quasi con tono lamentoso--e voglio

sapere come può un uomo di quel genere scambiare un futuro così

brillante con un vestito da sera!

--Forse sta solo rilassandosi un po'--risposi con un sorriso.

--Ah, sicuramente, si sta rilassando--mi rispose in tono sarcastico

--da ben due anni!

Mi resi conto che Frick aveva sentito tutta la conversazione, quando

alzando lo sguardo lo vidi, molto elegante nel suo vestito scuro, sorri-

dere divertito piegando la bocca da una parte, mentre si trovava die-

tro il cameriere che gli mostrava il suo posto a sedere. Miles e io ci al-

zammo, e dovevamo sembrare un po' confusi. Non eravamo sicuri, in-

fatti che Frick avesse sentito. Ma lui non si mostrò offeso, anzi tutto il

cont;ario, sembrava di ottimo umore, dal momento che rispose gentil-

mente ai nostri saluti, fece segno di riaccomodarci ai nostri posti e, do-

po essersi seduto, si unì al dialogo.

--Sì, per due anni. E lo farò per altri quarantadue.

L'inizio così brusco della conversazione mi buttò fuori strada, ma

mi ricordai di accendere il dittografo, e questo mi diede l'opportunità

di chiedere qualcosa che in altre circostanze non avrei mai osato chie-

dere.

--Perché?

Ancora una volta non si mostrò seccato alla mia domanda, ma inve-

ce, sorprendentemente, si abbandonò a una lunga e soffocata risata

che sembrava nascere dal profondo con inesauribile dolcezza. Rispose

in modo enigmatico, divertito dall'imbarazzo che mostravamo a ogni

sua parola.--Perché l'uomo in questione è caduto in disgrazia. Per-

ché il pensiero è arido e le emozioni sono dolci. Perché finalmente ho

recuperato il mio senso dell'umorismo. Perché la parola "perchén, è

molto pericolosa e rende la gente infelice. Perché ho avuto il piacere di

vedere la futura degenerazione del cervello umano. Ecco perché!--

Rise, smise per un momento di parlare, quindi aggiunse con voce bas-

sa e con un tono che aveva un che di drammatico:--Ci credereste? Ho

posto fine al genere Homo Sapiens!

Non era ubriaco, e come ti renderai conto in seguito, neanche pazzo,

anche se io, al momento, non ci avrei scommesso neanche un soldo. Il

suo comportamento era estremamente allegro. Era molto divertito

dalle nostre reazioni alle sue parole, si divertiva a impressionarci, e lo

faceva in continuazione. Ora potrei dire che, secondo me, tutte le rive-

lazioni di quella notte furono essenzialmente il risultato dell'improv-

visa decisione da parte di Frick di metterci in difficoltà, e non alla mia

presenza o alla mia intenzione di attaccarlo psicologicamente.

L'espressione di Miles era costernata. Frick smise di ridere sommes-

samente e, con i suoi occhi grigi luminosi, si divertiva alle nostre spal-

le in silenzio. Poi aggiunse:--No. A rigor di termini c'è ancora del la-

voro da fare. E questione di un solo omicidio. Mi sono trastullato per

un po' all'idea di commetterlo stanotte, e di terminare così l'opera. A

voi due piacerebbe esserne coinvolti?

Miles sembrava fosse sul punto di scusarsi. Cominciò a tossire, a

sorridere a mala pena, lanciandomi delle occhiate incerte. Per quanto

mi riguarda, avevo deciso di essere pronto a prevenirlo nel caso in cui

Veramente Frick avesse deciso di commettere un omicidio. Credo che

questa determinazione disperata fosse molto visibile sulla mia faccia

in quanto Frick, che mi stava guardando, cominciò a ridere. In quei

momento Miles rinvenne quel tanto che bastava per sorridere a sua

volta e dire che in realtà stava scherzando. Disse:--Sono sorpreso dal

299

fatto che gente con un cervello come il tuo possa fare scherzi così fiac-

chi.

Alla parola Ucervello" per poco Frick non esplose.

--Cervello!--esclamò.--Non io! Io sono stupido. Stupido come

quel sassofonista dai capelli impomatati laggiù! Lo so che in passato

avevo del cervello, ma tutto questo ora è finito; è orribile, non pensia-

mo più a queste cose. Vi dico che sono diventato stupido, felice, con-

tento, e stupido!

Miles non riusciva a capire Frick più di quanto non riuscissi io. E co-

sì gli ricordò:--Tu avevi un quoziente intellettuale di 248...

--Sono cambiato!--lo interruppe Frick. Era ancora eccitato, ma si

capiva che, dentro di sé, si stava divertendo parecchio.

--L'intelligenza di una persona normale non può degradarsi così

tanto nel giro di pochi anni--obiettò Miles vivamente.

--Te l'ho detto... sono diventato scemo!--ripeté con insistenza

Frick.

Le mie probabilità di successo dipendevano dalla possibilità di non

abbandonare questo argomento. Gli chiesi:--Come mai sei arrivato a

considerare una cosa così orribile il fatto di avere del cervello?

--Per aver visto ciò che ho visto e saputo ciò che so--citò.

Miles cominciava a irritarsi.--Va bene allora... Io chiamiamo sce-

mo?--disse guardandomi.--Visto che insiste in questo stupido gio-

co?

Ora era il mio turno per farlo parlare un po'.--Naturalmente, tu

stai parlando riguardo certi concetti abbastanza enigmatici che esi-

stono solo nella tua mente, ma qualsiasi concetto sia, be', è assurdo.

Le grandi capacità del cervello umano sono l'unica proprietà dell'uo-

mo. Hanno ispirato il nostro progresso, ci hanno dato la possibilità di

essere quello che siamo oggi, padroni di tutto il regno animale, signori

della creazione. Solo altre due cose lo hanno aiutato: il lavoro umano

e l'amore; ma anche queste fanno parte della nostra mente. Ti rendi

soltanto ridicolo quando deridi questi valori.

--Oh, I'amore e il progresso umano!--esclamò Frick ridendo.

--Charles, ti dico che la mente sarà la rovina dell'uomo.--Continuò

con gran divertimento.

--La mente sarà la salvezza della razza umana!--lo contraddisse

con impeto Miles.

--Tu commetti un errore molto comune, Miles--Frick rispose in

modo ora molto più serio.--Sicuramente Charles ha ragione nel col-

locare l'uomo all'apice della creazione, ma ha torto nell'affermare che

ci rimarrà per sempre. Rifletti. La Natura ha creato la cellula, e dopo

un po' di tempo la cellula è diventata un pesce; e in quel momento

quel pesce diventò il signore della creazione. Il vero primo padrone.

Per un po'. Solo pochi milioni di anni. Perché un giomo, un pesce usa

300

dal suo ambiente naturale, I'acqua, e si mise a strisciare e diventò un

rettile. Un magnifico rettile. Il Tyrannosauros Rex era lungo quindici

metri, e alto venti; aveva denti lunghi quasi trenta centimetri e ai pie-

di aveva artigli terribili. Nessun'altra creatura poteva resistergli: era

veloce, enorme, potente e feroce, tui divenne il signore del creato. Che

cosa successe al pesce? Era stato il signore del creato per un po', ma

non è andato oltre. Che ne è stato invece del Tyrannosauros Rex? An-

che lui è stato il signore del creato, ma lui, ahimè, si è estinto.

"La Natura ha provato a dare al pesce la velocità, poi le dimensioni

al dm
d+`¯6+ÇÓÇbc; le sue esperienze con l'amore, o con quello che lei credeva fosse amore.

"Durante i primi tre giorni non pronunziò mai quella parola e, con

quello che ora so di lei, posso dire con sicurezza che era molto frenata

nel farlo. In quei tre giorni, aveva visto solo un'interpretazione di Ro-

t 7neo e Giulietta, letto due romanzi che contenevano appassionanti temi

amorosi, e aveva osservato da ogni parte l'istinto che hanno i giovani

di cercarsi l'un l'altro; aveva visto due coppie che si baciavano mentre

ballavano, aveva visto la flotta arrivare in porto, i marinai che si diri-

gevano verso Riverside Drive e aveva ascoltato non so per quante ore

canzoni d'amore alla radio.

aUn giorno, mentre ero nel mio studio, improvvisamente mi chiese:

«Ma che cos'è questo amore di cui tutti parlano?«.

"Non sognandomi minimamente che il ruolo di amanti toccasse

proprio a noi due, le risposi semplicemente che era una trovata della

Natura per rendere attraenti gli esseri umani adulti gli uni agli altri, e

assicurare così l'arrivo dei nuovi nati e il proseguimento della razza

umana.

aQuesto sembrò coincidere con quello che anche lei pensava, ma

quello che non riusciva a capire era la ragione per cui tutti si davano

ianto da fare. Prendete il bacio, per esempio. Questo succede quando

un uomo e una donna si spingono l'uno verso l'altro toccandosi le lab-

bra. Era piacevole? Le assicurai di sì. Poteva trattarsi di un tipo di

meditazione, dal momento che il bacio durava tanto tempo? Be', no,

non esattamente. Potevo provare con lei?

"Non sorridete ancora voi due... questo è niente! Aspettate! In ogni

caso non avreste voluto che io sciupassi le mie possibilità di andarla a

trovare nella sua civiltà, vero?

aBene, così ci baciammo. Lei era in punta di piedi, con la sua faccia

L altera volta verso di me, con le braccia rigide lungo i fianchi, quando

E,p~ io mi chinai verso di lei, con il mio viso tranquillo che guardava verso

il suo, con le braccia rigide lungo i fianchi. Ci avvicinammo l'uno ver-

so I'altro, le nostre labbra si incontrarono, e rimanemmo così per un

1~ Po'. Poi, Pearl mi chiese quasi parlando con le sua labbra attaccate al-

le mie: aNon è per caso tutto un imbroglio?«. Le assicurai che era

;~ qualcosa del genere. Dopo un attimo disse: «Allora c'è un grande mi-

stero qui, da qualche parte«. E accidenti se in quel momento non si

rannicchiò sul pavimento e cadde in meditazione! Non potevo tratte-

nermi dal ridere, quindi me ne andai nell'altra stanza, e quando ritor-

nai, poco dopo, lei era ancora lì a meditare sul nostro bacio. O tempo-

ra!

aQuel bacio capitò il terzo giorno, e lei ne rimase in tutto sei, e per

tutto il tempo della sua visita nel nostro tempo, non disse una parola

di più su questa cosa chiamata amore... che poi io capii essere un mi-

stero per la sua mente, in quanto mi faceva un gran numero di doman-

de su qualsiasi cosa immaginabile.

"Ma lo avevo capito anche da un'altra cosa. Durante i tre giorni che

seguirono quel bacio, moltissime volte si avvicinò alla mia radio e la

sintonizzò su trasmissioni di canzoni d'amore. Si saturò abbastanza

bene di amori, stelle e amor mio, blu e tu, di giugno e di luna. Che orri-

bile amalgama di logori clichés deve aver aleggiato nella sua mente...

troppo mentale! Che strana concezione devono averle dato sull'amore!

Ma adesso basta per quanto riguarda questo periodo. Ora avete un'i-

dea. Avete visto Pearl a New York alle prese con l'amore. Per sei notti,

da quando mi apparve per la prima volta, restai vicino alla base ro-

tonda della sua macchina del tempo, e questa volta decisi di accompa-

gnarla. Non so dire quanto tempo avanti nel futuro, ma credo all'in-

circa tre milioni di anni."

Frick fece una pausa, si alzò e, senza chiederci se ne volevamo ancora,

versò del tè freddo dal thermos che era vicino alla sua sedia. Questa

volta ne aYevamo davvero bisogno.

In quel momento ero sul punto di credere a tutto e così penso anche

Miles. Non impiegammo molto tempo a bere e, rinfrescati ed estrema-

mente desiderosi di sapere che cosa avrebbe detto dopo, ci piegammo

in avanti e ci perdemmo di nuovo nella straordinaria storia che Frick

stava raccontando.

--Il viaggio nel futuro durò un lasso di tempo che a me sembrò non

più lungo di trenta secondi, e credo che debba essere stato istantaneo

per il tempo necessario a fermare la macchina esattamente al giorno

prestabilito. Come prima, il passaggio fu un periodo di ineffabile si-

lenzio; ma ero certo che per tutto il tempo Pearl aveva mantenuto sal-

di i controlli. All'improvviso vidi che eravamo in una stanza poco illu-

minata, con uguale velocità il velo dorato scomparve e ritornò la luce

del giorno. Eravamo arrivati.

"Scesi dalla macchina e mi guardai con curiosità in giro. Eravamo

in un'enorme stanza i Cui muri erano divisori che si protendevano for-

se per trenta metri verso un soffitto altissimo. Tutto quello che potevo

vedere era fatto da un'orribile sostanza tipo melma, color giallo me-

tallico e tutto sembrava essere costruito in maniera approssimativa.

3 "La luce entrava da grandi finestre che erano su tutti i lati. La parte

della stanza in cui eravamo arrivati era vuota, conteneva solo la mac-

china del tempo. Questa volta notai che era saldamente appoggiata al

pavimento... un pavimento molto sporco.

"Credo che sia superfluo descrivere il tremendo stato di eccitazione

e di curiosità in cui mi trovavo. Essere l'unico uomo del nostro tempo

ad aver viaggiato nel futuro ! Essere I unico uomo ad aver avuto la pos-

sibilità di vedere la razza umana nella sua splendente maturità! Quale

onore, fortuna e gloria erano cadute su di me! Ogni atomo del mio cor-

po stava vibrando e fremendo in quel momento! Stavo per assaporare

I'atmosfera di quel luogo e ricordare ogni cosa che colpiva la mia men-

te.

"Sentivo di avere molte domande da fare, ma Pearl mi aveva proibi-

to di parlare. Mi disse che lì intorno c'erano delle persone molto atten-

te alle quali dovevo rimanere nascosto; e ora la prima cosa che fece fu

quella di mettersi un dito sulle labbra scrutando nel corridoio che por-

tava all'esterno. Si fermò ad ascoltare per un minuto, poi uscì e mi or-

dinò di seguirla. E così feci... ma rimasi stupefatto nel vedere che il

corridoio era ricoperto da uno strato di polvere spesso tre centimetri!

"Come era possibile che un palazzo così imponente e situato in una

fase così avanzata del tempo fosse così malridotto?

"E sicuramente quel palazzo era importante, per ospitare un'inven-

zione meravigliosa come la macchina del tempo!

"Ma non c'era tempo per porsi delle domande, in quanto Pearl mi

portò rapidamente verso la parte più lontana della grande sala. Ogni

nostro passo smuoveva nuvole di polvere che fluttuavano da ogni par-

te. I~na rapida occhiata dietro di noi mostrò quanta ce ne fosse e come

tutto fosse nascosto sotto questa coltre. Il corridoio era abbastanza

ampiO, e correva per tutta la lunghezza del palazzo da una parte fino

al centro. A varie distanze c'erano delle porte, tutte chiuse, e alla fine

- del corridoio girammo a sinistra, trovandoci subito di fronte una por-

~`_ ta alta e ampia. Era aperta e invasa dalla luce del sole. Per un secondo

S~ Pearl mi trattenne mentre scrutava tutt'intorno, poi, prendendomi

,e, per mano, mi portò nel nostro nuovo mondo del futuro.

"Che cosa ti saresti aspettato di vedere, Charles? E tu, Miles? Forse

palazzi a forma di torre, attraversati ai piani più alti da autostrade ae-

ree? E folle di persone dagli strani comportamenti e vestite in modo

'i Curioso? E misteriosi, potenti mezzi aerei? E parchi? E fiori? E un uso

í.r~ sfrenato di marmo sintetico? Be', niente di tutto questo. I miei occhi

311

vedevano un comune, mediocre, piatto, enorrne campo. In lontananza

si intravedevano macchie di alberi, dell'erba selvatica, cespugli, e una

quantità di margherite. E questo era tutto!

"Il mio primo pensiero fu che Pearl avesse fatto qualche errore con il

periodo di tempo, e quando cercai il suo viso e mi resi conto che que-

sto era proprio quello che lei si aspettava che io le chiedessi, mi al-

larmai. Tuttavia interpretò male i miei pensieri e mi disse: ~<Non avere

paura~. Mi portò verso un angolo del palazzo da dove guardò furtiva-

mente in giro e, apparentemente soddisfatta da quello che aveva visto,

cominciò ad avviarsi e mi fece segno di seguirla. Poi parlò: ~Ci siamo«.

"Davanti a me si stendeva lo stesso paesaggio che avevo visto nel-

l'altro posto, tranne che qui il campo era occupato da un blocco qua-

drato di scatole metalliche, sei per ogni parte, distanti l'una dall'altra

circa cento metri.

"Credo di essere stato lì a bocca aperta per un po'. Non riuscivo a ca-

pire e lo dissi a Pearl. Il tono della sua risposta mi giunse come una

sorpresa nel momento stesso in cui la sentivo: «Non capisci?« mi chie-

se. «Che cosa vuoi dire? Che non era questo che ti aspettavi?«

"In qualche modo riuscii a parlare. «Ma dov'è la tua città?«

"«Lì~ rispose con un ampio gesto del braccio in direzione delle sca-

tole metalliche.

"«Ma le persone dove sono?« esclamai.

"«Sono lì dentro.«

"«Ma io... io... deve esserci qualcosa di sbagliato!« balbettai. Quelle

cose non sono una città, e non possono contenere dieci persone ciascu-

na!

"«Ne contengono solo una ciascuna« mi informò con tono dignitoso.

"Ero completamente sbalordito. «Quindi tutta la tua gente ammon-

ta a...«

"«Solo a trentasei persone, o meglio trentacinque in quanto uno di

noi è appena morto.«

"Credetti di vedere un tranello in questo. «Quanti ce ne sono di voi

che non sono qui?«

"«Solo noi giovani... quattro contando anche me« mi rispose con

semplicità. E poi aggiunse: «E naturalmente i due che non sono anco-

ra nati«.

"Tutto quello che aveva detto prima mi aveva fatto girare la testa.

Ora quello che avevo appena sentito mi aveva fatto venire un attacco

di nausea violenta. Attaccandomi all'ultima speranza scoppiai: «Ma

questa è solo una piccola comunità, il nucleo della città è per caso da

un'altra parte?«.

U«No« mi corresse subito «questo è l'unico centro della nostra civil-

tà. Tutti gli esseri umani sono raggruppati qui.« Mi guardò con quel

suo sguardo impenetrabile. «Come sei primitivo« mi disse come pro-

babilmente direbbe uno zoologo guardando un verme.

"«Capisco che ti aspettavi dei numeri più grandi, molto più grandi.

Ma credo che da un selvaggio come te non ci si possa aspettare altro,

una preferenza per la quantità piuttosto che per la qualità. Noi qui ab-

3 biamo la qualità« continuò in tono di superiorità «la migliore che esi-

3 ste, da diecimila generazioni. La Natura privilegia la quantità ai livel-

li di evoluzione più bassi, concedendo la perfezione a superuomini co-

me sono i miei compagni qui, e ci ha concesso il dono più ricco che è la

qualità. E non è tutto. Con la qualità siamo riusciti flnalmente a otte-

nere la semplicità, e nell'apoteosi dell'umanità sono questi i risultati

massimi . «

"Tutto quello che potevo fare era pensare che questa semplicità va-

leva troppo poco."

Frick si fermò qui, si mise a ridere, e si alzò.--Mi aveva veramente

messo a posto. E da quel momento... vi assicuro amici miei... che la co-

sa cominciò a divertirmi--Fece due passi nella stanza, ridendo silen-

ziosamente, poi appoggiandosi con una spalla contro il muro ricomin-

ciò di nuovo il racconto.

--Pearl si sentiva terribilmente in cattedra, in quel momento, ma

subito si calmò e prese in considerazione che cosa poteva propormi co-

me passatempo. Molto educatamente si scusò con me se la sua civiltà

non poteva offrire un gran che ai miei occhi. Per lei era evidente che la

gran mole di attività intellettuali di quel posto sarebbero sfuggite alla

mia comprensione.

"Le chiesi allora se c'era la possibilità di dare un'occhiata al suo

gruppo mentre era in azione, e alla mia domanda rispose che i suoi

compagni non si riunivano mai in gruppo, né perdevano tempo facen-

do qualcosa, ma che comunque non sarebbe stato difficile mostrarmi

uno o due di questi onorevoli cittadini.

t "Naturalmente le dissi che non volevo che lei corresse dei rischi e si

mettesse nei guai, ma lei mi assicurò che non c'era nessun pericolo. I

guardiani del posto... che erano i tre giovani che aveva appena nomi-

nato, erano tranquilli da qualche parte, e per quanto riguardava gli

adulti disse: «Non saranno comunque in grado né di sentirti né di ve-

derti«. Allora me ne mostrò due, e... apriti cielo!"

=~ Frick si mise a ridere e non poté continuare.

`~ Miles, al contrario, stava riflettendo sui cambiamenti di umore di

Frick e sorrideva in anticipo quando questi rideva. Credo che anch'io

facessi la stessa cosa. Eravamo entrambi sotto l'incantesimo di Frick.

--Mi scortò attraverso un campo aperto fino alla scatola più vicina,

e mi ricordo che mentre camminavo mi si attaccò alla caviglia un ric-

|~ ~ cio di castagna che mi fermai subito a togliere. Da una distanza rav-

~i Vicinata mi resi conto che le scatole erano quadrate e misuravano qua-

I si tre metri ed erano fatte dello stesso orribile materiale giallo usato

I nel palazzo. La parte più alta da ogni lato aveva una doppia fila di fes-

312 ~ 313

sure orizzontali, e nel mezzo di ogni lato frontale c'era una porta mol-

to ben strutturata.

"Mi ricordavo di quello che Pearl mi aveva appena raccontato, e

cioè che non sarebbero stati in grado né di vedermi né di sentirmi, e

quindi mi spaventai quando seo{a dIsl¦#̦ḑ¦#Ï`2 `4|Ó`##ôÀ-ç¦---øÿ $ÝÝÝÝÝÝÝýmÝ+--ÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝÝ)iÝÝÝÝÝÝ--ÝÝýÕ-ÝÝÝÝÝÝÝõõõõ¶ýÕß  rvÍ· äÇ bµ¾y<BÉ É Ç+ìï{|Ö`
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mente in giro e, apparentemente soddisfatta da quello che aveva visto,

cominciò ad avviarsi e mi fece segno di seguirla. Poi parlò: ~Ci siamo«.

"Davanti a me si stendeva lo stesso paesaggio che avevo visto nel-

l'altro posto, tranne che qui il campo era occupato da un blocco qua-

drato di scatole metalliche, sei per ogni parte, distanti l'una dall'altra

circa cento metri.

"Credo di essere stato lì a bocca aperta per un po'. Non riuscivo a ca-

pire e lo dissi a Pearl. Il tono della sua risposta mi giunse come una

sorpresa nel momento stesso in cui la sentivo: «Non capisci?« mi chie-

se. «Che cosa vuoi dire? Che non era questo che ti aspettavi?«

"In qualche modo riuscii a parlare. «Ma dov'è la tua città?«

"«Lì~ rispose con un ampio gesto del braccio in direzione delle sca-

tole metalliche.

"«Ma le persone dove sono?« esclamai.

"«Sono lì dentro.«

"«Ma io... io... deve esserci qualcosa di sbagliato!« balbettai. Quelle

cose non sono una città, e non possono contenere dieci persone ciascu-

na!

"«Ne contengono solo una ciascuna« mi informò con tono dignitoso.

"Ero completamente sbalordito. «Quindi tutta la tua gente ammon-

ta a...«

"«Solo a trentasei persone, o meglio trentacinque in quanto uno di

noi è appena morto.«

"Credetti di vedere un tranello in questo. «Quanti ce ne sono di voi

che non sono qui?«

"«Solo noi giovani... quattro contando anche me« mi rispose con

semplicità. E poi aggiunse: «E naturalmente i due che non sono anco-

ra nati«.

"Tutto quello che aveva detto prima mi aveva fatto girare la testa.

Ora quello che avevo appena sentito mi aveva fatto venire un attacco

di nausea violenta. Attaccandomi all'ultima speranza scoppiai: «Ma

questa è solo una piccola comunità, il nucleo della città è per caso da

un'altra parte?«.

U«No« mi corresse subito «questo è l'unico centro della nostra civil-

tà. Tutti gli esseri umani sono raggruppati qui.« Mi guardò con quel

suo sguardo impenetrabile. «Come sei primitivo« mi disse come pro-

babilmente direbbe uno zoologo guardando un verme.

"«Capisco che ti aspettavi dei numeri più grandi, molto più grandi.

Ma credo che da un selvaggio come te non ci si possa aspettare altro,

una preferenza per la quantità piuttosto che per la qualità. Noi qui ab-

3 biamo la qualità« continuò in tono di superiorità «la migliore che esi-

3 ste, da diecimila generazioni. La Natura privilegia la quantità ai livel-

li di evoluzione più bassi, concedendo la perfezione a superuomini co-

me sono i miei compagni qui, e ci ha concesso il dono più ricco che è la

qualità. E non è tutto. Con la qualità siamo riusciti flnalmente a otte-

nere la semplicità, e nell'apoteosi dell'umanità sono questi i risultati

massimi . «

"Tutto quello che potevo fare era pensare che questa semplicità va-

leva troppo poco."

Frick si fermò qui, si mise a ridere, e si alzò.--Mi aveva veramente

messo a posto. E da quel momento... vi assicuro amici miei... che la co-

sa cominciò a divertirmi--Fece due passi nella stanza, ridendo silen-

ziosamente, poi appoggiandosi con una spalla contro il muro ricomin-

ciò di nuovo il racconto.

--Pearl si sentiva terribilmente in cattedra, in quel momento, ma

subito si calmò e prese in considerazione che cosa poteva propormi co-

me passatempo. Molto educatamente si scusò con me se la sua civiltà

non poteva offrire un gran che ai miei occhi. Per lei era evidente che la

gran mole di attività intellettuali di quel posto sarebbero sfuggite alla

mia comprensione.

"Le chiesi allora se c'era la possibilità di dare un'occhiata al suo

gruppo mentre era in azione, e alla mia domanda rispose che i suoi

compagni non si riunivano mai in gruppo, né perdevano tempo facen-

do qualcosa, ma che comunque non sarebbe stato difficile mostrarmi

uno o due di questi onorevoli cittadini.

t "Naturalmente le dissi che non volevo che lei corresse dei rischi e si

mettesse nei guai, ma lei mi assicurò che non c'era nessun pericolo. I

guardiani del posto... che erano i tre giovani che aveva appena nomi-

nato, erano tranquilli da qualche parte, e per quanto riguardava gli

adulti disse: «Non saranno comunque in grado né di sentirti né di ve-

derti«. Allora me ne mostrò due, e... apriti cielo!"

=~ Frick si mise a ridere e non poté continuare.

`~ Miles, al contrario, stava riflettendo sui cambiamenti di umore di

Frick e sorrideva in anticipo quando questi rideva. Credo che anch'io

facessi la stessa cosa. Eravamo entrambi sotto l'incantesimo dprimitivO-

315

"«Posso ascoltare i suoi pensieri, naturalmente« fu la risposta.

"Questa sorprendente affermazione mi portò a un'altra serie di do-

mande e quando le ebbi terminate arrivai alle seguenti conclusioni: il

tizio e i suoi simili non potevano sentirmi perché la lunghezza d'onda

del mio pensiero era troppo corta per i loro ricevitori; che Pearl quan-

do parlava e pensava come me si situava, per la stessa ragione, a un li-

vello inferiore a loro; e che Pearl condivideva con i suoi simili il potere

di sintonizzarsi quando voleva su meditazioni o conversazioni priva-

te.

U«Noi utilizziamo questo potere telepatico« aggiunse lei «nell'edu-

cazione dei nostri giovani. Specialmente i bambini piccoli, quando

non sono ancora nati. Gli adulti fanno a turno nell'insegnamento dalle

loro celle. Io sono stata una bambina prematura... di solo 11 mesi...

quindi ho perso la maggior parte dell'insegnamento prenatale. Ecco

perché io sono diversa dagli altri che sono qui, e anche inferiore. Tut-

tavia dicono che ero incompleta fin dal momento del concepimento.«

~Le sue parole mi fecero andare lo stomaco sottosopra, e la visione

di quel cadavere informe non mi aiutò per niente. Comunque resistet-

ti, e feci del mio meglio per assorbire ogni dettaglio.

UMentre ero così preso da tutto questo, vidi una cosa fantastica.

«L'orrida piccola fessura che era una bocca sotto la testa del padrone

di casa lentamente si apri, mostrando una cavità scura e senza denti; e

non appena si aprì del tutto, sentii un rumore secco dietro le mie spal-

le e saltai da una parte, in tempo per vedere un piccolo oggetto grigio

lanciato da una scatola attaccata al muro, che dopo aver descritto un

arco molto ampio nell'aria si andò a depositare nella bocca aperta del

nostro gentiluomol .i

U«Ha bisogno anche lui di sostentamento« mi spiegò Pearl. aQuelle

pallottoline contengono il suo cibo e la sua acqua. Naturalmente non

ha bisogno di molto. Sono lanciati da un meccanismo sensibile alla

forza delle sue onde mentali.«

"«Fammi uscire« dissi.

"Uscimmo nella calda e chiara luce del sole. Come sembrava dolce e

familiare quel campo! Mi sedetti sull'erba e presi una margherita.

Non era per niente diversa da quella del mio tempo, a casa mia.

UPearl si sedette vicino a me.

U«Ora abbiamo una cella vuota« mi disse «ma uno dei nostri giovani

è pronto a riempirla. Ha dovuto aspettare fino a quando abbiamo in-

stallato un contenitore nuovo più grande per il cibo... uno che potesse

durare settantacinque anni senza dover essere riempito. Lo abbiamo

appena finito. Naturalmente, è il più giovane della nostra comunità

che si prende cura dei più anziani preparando per loro le pallottoline

di cibo e facendo qualche altro lavoro di routine. Fanno questo fino a

quando le forze glielo consentono, e quando non possono più andare in

giro... allora hanno l'onore della maturità e possono prendere posto in

una delle celle.«

"«Ma come diavolo è possibile che creature come... come quelle lì

dentro possano avere dei bambini?«

"aOh~ SO che cosa vuoi dire, ma hai un'idea sbagliata« fu la sua ri-

sposta immediata. «Questo compito li riguarda quando sono ancora

relativamente giovani. Dall inizio i giovani sono allevati in incubatri-

ci.«

"Ho sempre avuto lo stomaco delicato... e lei insisteva nel metterlo

alla prova!

"«Da noi ci vogliono quindici mesi, al momento ne abbiamo due che

stanno per nascere. Li vuoi vedere?« Le dissi che li avrei visti, ma che

non mi sarebbe piaciuto.

"«Ma prima« le chiesi <~se non ti dispiace fammi vedere un altro dei

vostri adulti. Io... io... non posso ancora crederci.«

"Disse che lo avrebbe fatto. Questa volta una donna. Ci alzammo e

mi condusse a un'altra cella.

"Non entrai. Rimasi fuori e diedi un'occhiata all'ospite attraverso la

porta. Assolutamente orribile! Se quella era una donna, fu in quel mo-

mento che pensai che bella cosa sarebbe stata e quanto piacevole...

prendere nelle mani il collo di quelle due imitazioni umane per un mi-

nuto...

UMa dato che ero un visitatore fidato, non dovevo incoraggiare tali

pensieri. Così chiesi a Pearl di portarmi alle incubatrici. Avevamo ap-

pena lasciato il blocco di celle e stavamo girando l'angolo del palazzo,

quando Pearl mi prese per un braccio e mi tirò indietro. Apparente-

mente aveva avuto una premonizione proprio in tempo, in quanto tre

tipi bizzarri uscirono dalla porta principale del palazzo dove noi ci

stavamo dirigendo. Tutti e tre vestivano dei camicioni neri scintillanti

come Pearl ed erano, naturalmente, i boccioli del genere umano in pie-

na perfezione.

"Il primo mi colpì per la sua imponenza, non aveva l'aspetto ema-

ciato del vecchio esteta, con la sua grossa testa pelata che oscillava

precariamente sul suo collo orrendo mentre si muoveva. Il secondo...

credo fosse una ragazza, era più piccola, più giovane, forte, ma segui-

L va il più anziano a rispettosa distanza nello stesso modo orripilante. Il

E` terzo della serie era un uomo, poco più di un bambino, che per poco

non cadeva seguendo gli altri nella sua interpretazione personale di

quellO che doveva essere l'atto del camminare.

"Si avviarono direttamente verso il campo, ma dovete sapere che

quel piccolino, decisamente un mostriciattolo, brutto come il peccato,

fece una cosa che mi fece venire le lacrime agli occhi. Non appena arri-

vO al limite del campo, e mise i piedi sull'erba, si chinò penosamente e

L prese una margherita... e cominciò a guardarla con fare preoccupato

mentre trotterellava al seguito degli altri!

3~6 ~ 317

"Ero molto sollevato dal fatto che non ci avessero scoperto e così an-

che Pearl. Non appena furono a una distanza di sicurezza, lei mi sus-

surrò: « Dovevo essere prudente. Possono vedere e i due più giovani an-

che sentire~.

"«Che cosa ci fanno qua fuori?« chiesi io. «Fanno una lezione di me-

tafisica« e quasi contemporaneamente alle sue parole il primo si se-

dette pensieroso in mezzo al campo... seguito dal secondo e persino

dal più piccolo! aII più alto« mi spiegò Pearl «è quello che prenderà il

posto nella cella vuota. E meglio che lo faccia al più presto. Sta diven-

tando pericoloso per lui camminare ora. Il suo collo è troppo debole.«

UCon attenzione riprendemmo il cammino verso il palazzo, ma que-

sta volta Pearl mi portò dall'altra parte del corridoio. Qui la polvere

era spessa come nel primo, tranne nel centro della stanza, dove molte

impronte di piedi testimoniavano un gran passaggio. Arrivammo alle

incubatrici.

NE lì vidi. Li vidi. Mi costrinsi a guardarli, ma vi assicuro che fu uno

sforzo! lo... io credo che sia meglio non descriverli. Sapete, è una mia

stranezza. Erano meravigliosi. Vetro e tubi contorti. Ce n'erano due in

ciascuna. In stadi differenti. Me ne andai subito. Ritornai alla porta, e

in pochi minuti mi sentii meglio.

"Naturalmente Pearl aveva dovuto seguirmi e aveva cercato di por-

tarmi indietro, e notai una cosa divertente. La vista di quei bambini

che dovevano nascere aveva avuto su di lei uno strano effetto materno

lo giuro! Lei partava di loro... e prima di questo aveva timidamente

suggerito, nel suo solito modo secco, se potevamo baciarci, solo che si

era dimenticata la parola e lo chiamò strofinio. Mio Dio! Be' ci siamo

strofinati... esattamente come prima... e questo cari amici, fu l'inci-

dente che portò direttamente alla distruzione dell'esemplare dell'Ho-

mo Sapiens!

"Non potreste mai immaginare quello che successe dopo! Era come

fare uno, due e tre, e il gioco è fatto. Pearl e io ci toccammo le labbra.

Sentii un grido labile e strano dietro di me e mi girai di scatto. Vidi al-

I'entrata uno accanto all'altro le tre creature che io credevo placida-

mente fuori nei campi dediti all'insegnamento vidi la faccia del più

vecchio contorcersi, la sua testa vacillare. Sentii un colpo secco, e poi

in un batter d'occhio si accasciò sugli altri due e, quando la polvere si

riassestò di nuovo, vidi i due giovani fiori della perfetta umanità in

una pila orribile, perfettamente immobili, ognuno di loro con il collo

rotto! Erano gli ultimi rappresentanti della loro razza e ora erano

morti, e io ne ero stato la causa involontaria!

"Ero terrorizzato, ma pensate che la loro morte abbia avuto un

qualche effetto su Pearl? Che abbia mostrato la benché minima emo-

zione? Niente affatto. Lei cercava di razionalizzare tutto. Natural-

mente, era dispiaciuta... così almeno aveva detto... il ragazzo più alto

era un essere così perfetto e magnifico!... un filosofo nato... ma era suc-

cesso, e non c'era nient'altro da fare se non rimuovere i corpi, ora era

solo compito suo avere cura delle incubatrici e di quel cimitero di dot-

"«Ma prima« mi disse «sarà meglio che io ti riporti indietro alla tua

civiltà. «

"aNo!« risposi e inventai un mucchio di scuse per cui sarebbe stato

meglio per me rimanere ancora un po'. Ora che non c'era più nessuno

che potesse scoprirmi, ora più che mai non me ne volevo andare. C'e-

rano per lo meno un centinaio di cose che volevo studiare... il vecchio

esteta, come funzionava, le condizioni del mondo al di fuori e così

3 via... ma in particolar modo, lo confesso, volevo esaminare quello che

conteneva quel palazzo. Se lì si poteva costruire una macchina del

tempo, doveva contenere altre meraviglie, segreti che io avrei potuto

imparare e riportare indietro con me.

"Uscimmo fuori alla luce del sole, e discutemmo, e la mia guida si

produsse in molti accovacciamenti e conseguenti meditazioni, e alla

fine vinsi io. Sarei rimasto altri tre giorni.

"Nel pomeriggio del primo giorno, qualcosa andò storto con le incu-

batrici a Pearl venne da me di corsa per dirmi nel suo modo molto

3 particólare che i due occupanti, ovvero le ultime speranze della razza

umana, erano morti. Lei non lo sapeva, ma io avevo manomesso i mec-

canismi dell'incubatrice.

"Avevo ucciso quei mostri non ancora nati... Charles, Miles beviamo

un'altra tazza di tè..."

Frick si diresse verso il thermos che conteneva il tè, lo versò per noi, lo

ripose sul pavimento e si rimise a sedere. Rimanemmo tranquilli per

un po' e il mio dittografo prova che, ancora una volta, non fu proferita

alcuná parola. Non cercherò di descrivere i miei pensieri, tranne che

questa interruzione nella tensione mi stimolò ancora di più ad ascol-

tare il seguito del FacConto.

Quando Frick ricominciò improvvisamente a parlare, lo fece con

molta più asprezza e rabbia.

--L'Homo Sapiens era diventato una caricatura ridicola e disgusto-

sa!--esclamò.--Non ho deciso di uccidere quei mostri impulsiva-

mente né prima, né tantomeno dopo.con gli ultimi omicidi. Le mie

~t azioni erano responsabili, le mie decisioni prese dopo ore di conside-

3 razioni estremamente chiare e serene, decisi di accettare ogni respon-

I sabilità~ e ancora oggi le accetto!

318 ~ 319

"Ora voglio fare un'affermazione alla quale prima di tutto voglio

che voi crediate. Nel momento in cui decisi di uccidere quei piccoli

mostri, e così di porre fine al genere umano, mi aspettavo di portare

Pearl con me nel mio tempo, per stare insieme. Questa era la decisione

che avevo preso per lei. Ma il suo futuro non prevedeva questo. Così

Madre Natura decise di farmi fare la figura del più grande idiota di

tutti i tempi. Ma ricordate, per essere giusti con me, che il corso degli

eventi cambiò dopo la mia decisione.

aVi ho detto prima che Pearl aveva reagito nel suo solito modo cioè

impenetrabile, alla morte dei giovani della sua razza. E sicuramente

fu così. Quando ripenso a quei giorni, mi sembra che mostrò molto po-

co delle sue emozioni, una dose davvero infinitesimale. Tutta la sua

emotività era orientata verso di me. Voi potreste chiedermi come mai

lei differisse sia nei comportamenti... sia fisicamente dai suoi simili.

Posso solo dedurre che l'enigma della sua struttura personale fosse

racchiusa nelle condizioni della sua nascita. Come lei stessa aveva det-

to, era 'incompleta'. Qualcosa era andato storto con l'incubatrice

- era nata dopo solo undici mesi - era perciò prematura di quattro,

aveva ricevuto l'insegnamento prenatale per un tempo minore rispet-

to agli aldrm¿0e¦afepq¦BNM=N+I¦©1¥! Øì JH@`@· Ä+8© $×l×M¥²_Ìn\-n^+# ,¦É 0 .IüÇù2 -¶\B ¦ñÚÊ1õ`X  &Þ ×¯éêÄO
éê ä0I­rã@ ÄOÇ
OéëéêëêÇÄA¤êOééé
éÄOî êOü+
êÄÇOçÇ üÄÄOÄOüäÇÄ êppüÄOÇ


éÄOëê¤üprima di questo aveva timidamente

suggerito, nel suo solito modo secco, se potevamo baciarci, solo che si

era dimenticata la parola e lo chiamò strofinio. Mio Dio! Be' ci siamo

strofinati... esattamente come prima... e questo cari amici, fu l'inci-

dente che portò direttamente alla distruzione dell'esemplare dell'Ho-

mo Sapiens!

"Non potreste mai immaginare quello che successe dopo! Era come

fare uno, due e tre, e il gioco è fatto. Pearl e io ci toccammo le labbra.

Sentii un grido labile e strano dietro di me e mi girai di scatto. Vidi al-

I'entrata uno accanto all'altro le tre creature che io credevo placida-

mente fuori nei campi dediti all'insegnamento vidi la faccia del più

vecchio contorcersi, la sua testa vacillare. Sentii un colpo secco, e poi

in un batter d'occhio si accasciò sugli altri due e, quando la polvere si

riassestò di nuovo, vidi i due giovani fiori della perfetta umanità in

una pila orribile, perfettamente immobili, ognuno di loro con il collo

rotto! Erano gli ultimi rappresentanti della loro razza e ora erano

morti, e io ne ero stato la causa involontaria!

"Ero terrorizzato, ma pensate che la loro morte abbia avuto un

qualche effetto su Pearl? Che abbia mostrato la benché minima emo-

zione? Niente affatto. Lei cercava di razionalizzare tutto. Natural-

mente, era dispiaciuta... così almeno aveva detto... il ragazzo più alto

era un essere così perfetto e magnifico!... un filosofo nato... ma era suc-

cesso, e non c'era nient'altro da fare se non rimuovere i corpi, ora era

solo compito suo avere cura delle incubatrici e di quel cimitero di dot-

"«Ma prima« mi disse «sarà meglio che io ti riporti indietro alla tua

civiltà. «

"aNo!« risposi e inventai un mucchio di scuse per cui sarebbe stato

meglio per me rimanere ancora un po'. Ora che non c'era più nessuno

che potesse scoprirmi, ora più che mai non me ne volevo andare. C'e-

rano per lo meno un centinaio di cose che volevo studiare... il vecchio

esteta, come funzionava, le condizioni del mondo al di fuori e così

3 via... ma in particolar modo, lo confesso, volevo esaminare quello che

conteneva quel palazzo. Se lì si poteva costruire una macchina del

tempo, doveva contenere altre meraviglie, segreti che io avrei potuto

imparare e riportare indietro con me.

"Uscimmo fuori alla luce del sole, e discutemmo, e la mia guida si

produsse in molti accovacciamenti e conseguenti meditazioni, e alla

fine vinsi io. Sarei rimasto altri tre giorni.

"Nel pomeriggio del primo giorno, qualcosa andò storto con le incu-

batrici a Pearl venne da me di corsa per dirmi nel suo modo molto

3 particólare che i due occupanti, ovvero le ultime speranze della razza

umana, erano morti. Lei non lo sapeva, ma io avevo manomesso i mec-

canismi dell'incubatrice.

"Avevo ucciso quei mostri non ancora nati... Charles, Miles beviamo

un'altra tazza di tè..."

Frick si diresse verso il thermos che conteneva il tè, lo versò per noi, lo

ripose sul pavimento e si rimise a sedere. Rimanemmo tranquilli per

un po' e il mio dittografo prova che, ancora una volta, non fu proferita

alcuná parola. Non cercherò di descrivere i miei pensieri, tranne che

questa interruzione nella tensione mi stimolò ancora di più ad ascol-

tare il seguito del FacConto.

Quando Frick ricominciò improvvisamente a parlare, lo fece con

molta più asprezza e rabbia.

--L'Homo Sapiens era diventato una caricatura ridicola e disgusto-

sa!--esclamò.--Non ho deciso di uccidere quei mostri impulsiva-

mente né prima, né tantomeno dopo.con gli ultimi omicidi. Le mie

~t azioni erano responsabili, le mie decisioni prese dopo ore di conside-

3 razioni estremamente chiare e serene, decisi di accettare ogni respon-

I sabilità~ e ancora oggi le accetto!

318 ~ 319

i occhi. Non appena arri-

vO al limite del campo, e mise i piedi sull'erba, si chinò penosamente e

L prese una margherita... e cominciò a guardarla con fare preoccupato

mentre trotterellava al seguito degli altri!

ano modelli di

bellezza soggettiva, e quindi modelli di utilità. Mi persi in tutto quel

ragionare. La informai, comunque, che anch'io potevo essere conside-

ratO come una specie di esteta, e che avevo provato a me stesso che

avano e che erano intollerabili; e come sarebbe stato facile ster-

minarli... come era sottile il loro legame alla vita!

«Niente da fare. Una volta provai anche a usare il mio umorismo più

triviale. Qui c'era la soluzione a tutto il problema. Se solo fossi stato in

grado di farla sorridere! Mi fece spiegare quello che avevo detto. Que-

sto sembrò darle più materiale su cui pensare e il risultato fu che si

accoccolava così frequentemente che quasi diventavo matto. Credo

che ci debba essere una lealtà nascosta negli esseri umani, in quanto

anche in quel breve periodo di tempo, Pearl, priva di sentimenti come

era normalmente, ribadì ostinatamente la sua idea che ai vecchi fosse

permesso di vivere la loro esistenza innaturale.

"Non cercai di persuaderla. La forzai. Che lo avessero voluto o no.

Quella notte lei mi diede il suo permesso. Il quarto giorno mi svegliai

di ottimo umore. Questo era il giorno in cui sarei diventato il signore

del creato! Non ero per niente disturbato che la mia prima eredità fos-

se quella di assumere l'ufficio di alto esecutore. Mi recai gioiosamente

da Pearl e le chiesi se anche lei avesse fatto dei piani per la giornata. E

la risposta fu affermativa. Mentre facevamo colazione su un dannato

prato che sembrava segatura, parlammo dei vari metodi di sterminio.

"Oh, ero veramente in uno stato d'animo meraviglioso! Per provare

a Pearl che ero un giusto esecutore, mi offrii di considerare i casi di

ogni filostatico separatamente, per risparmiare quelli per i quali si sa-

rebbero trovate circostanze attenuanti.

"Cominciammo con il mostro maschile del primo giorno. Davanti a

lui nella cella chiesi a Pearl: «Che cosa puoi dire di buono su questo

presunto esteta?«.

"«Ha un'anima meravigliosa.«

"«Ma guarda il suo corpo!~>

"«Tu non sei in grado di giudicare!« esclamò. aE anche se il suo cor-

po fosse in decomposizione? La sua mente è eterna.

"«A che cosa sta pensando?«

Pearl cominciò a pensare. Dopo un minuto disse: «A un buco nel ter-

reno«.

a«Puoi interpretare i suoi pensieri per me?« le chiesi.

"«E difficile, ma ci proverò.« Dopo poco cominciò a parlare con tono

inespressivo. «E un buco. E c'è qualcosa che riguarda questo buco...

una volta sono rimasta con una gamba in un buco... mi sono tirata fuo-

ri. Sì, c'è qualcosa... di ineffabile... così... chiamato... aria... nei... bu-

chi... profondità... Sì, questa è l'idea di un buco... buco inverso infini-

to...«

"«Così va bene!« dissi e spinsi il ricettacolo di tanta sapienza im-

provvisamente in avanti. Ci fu un rumore secco, come un ramo che si

spezza, e il ricettacolo cominciò a dondolare da una parte all'altra

contro le costole.

"«Giustizia è fatta!« gridai.

"La prossima era la vecchia donna. «Che cos'ha di buono questa?«

"«E una madre« mi rispose Pearl.

"«Più che sufficiente!« esclamai e il colpo della mia mano fu subito

seguito da un altro rumore secco. «Giustizia alla donna che diede i na-

tali all Homo Sapiens ! « Quello che seguì era un rottame orrendo, peg-

gio di quelli visti precedentemente. «Che cosa di positivo puoi dirmi

di lui?«

"«E un grande scienziato.«

"«Puoi interpretare i suoi pensieri?«

UPearl si accasciò come al solito e poco dopo cominciò a parlare:

«Forza della mente... come è potente... sì, potente... Ia base di ogni co-

sa vivente... è davvero tutto... non il vivere... ma il pensare... in diretta

proporzione... non c'è niente... mmm, tutto è relativo, ma tutte le cose

messe insieme fanno l'unità... perciò abbiamo un'unità relativa... o

meglio dal momento che è l'altra metà dell'inverso... i due messi insie-

me fanno un'altra unità e così abbiamo l'equazione; un'unità relativa

è uguale a un'unità di relatività... sembra avere un senso, Einstein era

un primitivo. Sono d'accordo con Wlyxzso. Era più intelligente di

Yutwxly. E con questo si dimostra che la mente vince sempre sopra la

t materia...«.

« Dimostrato! « esclamai urlando, mentre con un crac partiva un al-

tro collo. «Giustizia è fatta. Avanti il prossimo."

t "Questo, come mi disse Pearl, era un metafisico «Oh Dio« gridai

«non mi dire che in mezzo a tutti questi super metafisici c'è uno spe-

cialista e anche di più. A che cosa sta pensando?«

"Ma questa volta la povera Pearl era dubbiosa. «A dire la verità non

siamo molto sicuri se lui pensi o no, o se è vivo o morto. Qualche volta

riceviamo dei pensieri così deboli che non siamo sicuri di averli vera-

mente sentiti, secondo alcuni c'è il vuoto più assoluto.~

"«Prova« le ordinai. «Prova con tutte le tue forze. Ogni uomo morto

deve avere la sua possibilità di essere ucciso.«

«E così provò. In qualche modo, disse lei: «Credo dawero che sia vi-

vo... la verità... aria... la verità saldamente radicata nell'aria... ah, di-

ramaZioni lussureggianti che vanno in profondità nella terra... ma non

li tocco, quindi posso solo attaccarmi alle radici... D. Il suo collo fece

crac.

4Spezzai il collo a un'altra dozzina. Ogni volta era più facile. Poi

Pearl mi presentò quello che era il tesoro della collezione. La sua testa

aVeva la circonferenza di un cesto da pallacanestro.

"«Che cosa mi puoi dire di buono di lui?«

"«E il più grande di tutti noi, e ti prego di risparmiarlo. Non so qua-

le Sia la sua specialità, ma tutti qui lo considerano così eminente!«

«A che cosa sta pensando?«

4«Questo è il problema« mi rispose «nessuno lo sa. Sin da quando è

natO, non ha mai parlato. Sbava e basta. Nessuno è mai stato in grado

di trovare dei segni di attività cerebrale. Lo abbiamo messo in una cel-

la molto presto. Uno di noi ha suggerito che fosse un idiota idrocefalo

fin dalla nascita, ma è stato un errore di giudizio, perché il resto di noi

è sempre stato certo che la sua mancanza di vita è solo apparente. Le

sue meditazioni sono semplicemente al di sopra della nostra sensibili-

tà grossolana. Senza dubbio lui riflette sui problemi più importanti

dell'infinito.~>

"«Prova, anche lui ha diritto alla sua possibilità.«

~Pearl provò, ma invano e così, con un crac, si ruppe anche questo

collo.

"E così continuai. Uno per uno, in rapida successione, e con un gu-

sto che ancora ora mi sorprende quando ci ripenso, liberai la terra da

questi nemici pubblici. In quel momento il sole era alto nel cielo, il la-

voro era completo ed ero diventato il prossimo signore del creato!"

''L'effetto del lavoro mattutino si fece sentire su Pearl che cadde in pro-

fonda meditazione per parecchie ore. Quando emerse dai suoi pensie-

ri, sembrava sempre la stessa, ma dentro qualcosa era cambiato, come

ora mi rendo conto, o forse qualcosa si era accelerato, e quando questa

accelerazione ebbe raggiunto un certo picco, la mia sciocca ambizione

fu vergognosamente sconfitta. Ah, si prese una bella bruciatura! E che

scottatura! Altro che allegro e serio... ero ben cotto su tutti e due i lati.

"Ma la consapevolezza della mia umiliazione finale venne più tardi

e all'improvviso. I miei pensieri non erano assolutamente concentrati

su un simile pericolo, ma sul milione di cari discendenti nei cui salotti

ci sarebbe stato appeso un mio ritratto, quando Pearl uscì dalla sua

meditazione prolungata.

"Avevo deciso di essere estremamente gentile con lei. un padre mo-

dello anche se non un amante perfetto... così, quasi come un cortigia-

no, la scortai nel campo vicino a una grossa pietra, sulla quale pronta-

mente si sedette e in modo molto efficente mi chiese che cosa volevo.

Credo che rimase contrariata quando le dissi che volevo solo parlare

con lei di alcuni preparativi relativi alla nostra futura civilizzazione,

ma non fece nessun commento, mi fece dipingere un quadro suggesti-

vo delle nostre possibilità, e fu concorde con me sulla linea da tenere

con i vari piani che avevo formulato.

"Avevo fretta. Le chiesi se voleva tornare indietro nella mia civiltà

per avere una cerimonia come si deve.

aPensavo che questa offerta fosse un gesto delicato da parte mia. Lei

rispose con quello che equivaleva a un diritto sacrosanto del cuore. Mi-

rispose severamente: «Sì, Frick, ti sposerò, ma prima devi farmi la

corte ~, .

"Osservate ora, Miles, e anche tu, Charles, la mia rapida ascesa alla

più alta vetta della stupidità umana. lnnumerevoli altri uomini avreb-

bero speso la loro vita cercando di arrivare a questa altezza vertigino-

sa, pochi avevano quasi raggiunta la cima. Ma io, signore della crea-

zione, ancora non c'ero arrivato. E... dato che non c'era niente altro da

fare, cominciai a corteggiarla!

"«Tieni la mia mano« mi disse... e io le tenni la mano. Intanto lei

pensava. «Dimmi che mi ami« mi chiese. E io le dissi che l'amavo.

«Ma guardami in faccia quando lo dici« pretese... e io guardai quella

faccia priva di espressione, con quelle labbra sottili che mi ricordava-

no sempre una pietra simile al vetro, e le dissi ancora che l'amavo. Mi

resi conto che era ancora persa nei suoi pensieri, ed ebbi l'impressione

che stesse cercando di capire le sue sensazioni. «Baciami« mi ordinò, e

quando lo feci scivolò sul terreno in trance!

"«C'è del mistero in questo, da qualche parte« mi disse quando la

sollevai da terra. «Devo pensarci su molto profondamente.«

"Ma io continuavo ad avere molta fretta! Così le dissi... che Dio mi

perdoni... che lei si stava chiaramente innamorando di me! E che den-

tro di lei c'era qualcosa... non potevo immaginare cosa... che incorag-

giava questa idea. Stavo battendo il ferro fino a quando era... non

completamente freddo!

"«Oh, su« le dissi facendole fretta. «Vedi benissimo che ci amiamo.

Sposiamoci e facciamola finita.«

« No, devi prima corteggiarmi« lei mi rispose, e io le feci notare che

stava diventando troppo civettuola.

t "«E anche per molto tempo« aggiunse. «L'ho scoperto nel tuo tem-

po. Ci vogliono mesi.«

aTutto questo era terribile! «Ma perché aspettare? Perché? Noi ci

amiamo. Guarda Romeo e Giulietta. Non ti ricordi?«

"«Mi piaceva di più quel giovanotto di nome Rudy« mi rispose di-

retta.

"«Vuoi dire l'uomo che era al night-club?«

"<~Sì« mi rispose. «Sembrava che cantasse solo per me.«

««No, non cantava, canticchiava!« la corressi irritato.

- "«Va bene, canticchiava« disse «e ora tu canticchierai per me,

Frick.«

Potete immaginare! Io e lei unici esseri tra tutti in un campo aperto

e in piena luce del giorno!

«Ma pensate che io canticchiai? Sì. Non mi avete ancora visto ai

miei massimi livelli!

', "«Di più« mi disse in tono astratto. «Credo di sentire qualcosa.« Co-

~ sì canticchiai ancora per un po'.

U«Canta qualcosa che fa rima con cuore e amore.« Cantai qualcosa

in cui cuore faceva rima con amore.

"«E adesso canta qualcosa con cui vero fa rima con sincero.« L'ac-

contentai.

U«Ora baciami ancora.« L'accontentai di nuovo!

"Grazie a Dio si accasciò di nuovo in un altro pensiero! Scappai nel-

la foresta mentre lei era incosciente, e non la rividi se non il mattino

seguente.

"Cari amici, questo è il vergognoso esempio di comportamento che

caratterizzò le mie due settimane successive!"

"Io soffrivo. E quanto soffrivo! Eccomi lì,tutto concentrato all'idea di

essere l'autore di una nuova civiltà, compiaciuto al pensiero dei miei

titanici progetti completati, e eccola lì, sicuramente l'essere più

straordinario cui desiderio umano potesse ambire, che gelava la mia

passione, e che spietatamente voleva essere corteggiata!

"Le tenni le mani per tutto quel tempo, diedi un'occhiata ai suoi oc-

chi mentre eravamo sulla tomba del vecchio idrocefalo, canticchiavo

delle canzoni per lei a mezzanotte, e potrei scommettere che tutto il

vicinato era sotterrato proprio lì da anni, proprio negli stessi posti do-

ve lei si accasciava a pensare nel bel mezzo di un bacio!

"Lei aveva osservato molto da vicino... troppo da vicino, le tecniche

dei preliminari dell'innamoramento come vengono attuate qui, nel

nostro tempo, e in particolare gli effetti che ciò aveva sulle donne, e

aveva bisogno ogni volta di concentrarsi profondamente per stabilire

se stava reagendo nella maniera corretta!

UAh, ce n'era di cervello! Come sono felice di essere stupido!

"Cominciai a perdere peso e a essere sempre più stanco. Mi resi con-

to che il nostro corteggiamento poteva andare avanti per anni. Ma lei

mi salvò proponendomi un'idea che le era stata suggerita da un ro-

manzo che aveva letto. Me la comunicò una mattina piovosa, dicendo-

mi che sarebbe stato meglio che io e lei non ci fossimo più visti per un

paio di mesi. Aveva tante cose su cui riflettere, e tra l'altro era davvero

molto dispiaciuta per i suoi compagni che erano morti senza neanche

immaginare che la vita potesse contemplare una così gran quantità di

quelle sane emozioni, che aveva imparato da me.

"A quel punto avevo più fretta che mai di togliere la mia razza dal

loro stesso potere, ma ero fisicamente così esausto che le mie proteste

furono molto lievi, e così dovetti arrendermi. Facemmo tutti i prepa-

rativi possibili e parlammo per l'ultima volta. Era chiaro a entrambi

che sarei ritornato dopo due mesi e che l'avrei presa come moglie. Lei

mi mostrò come far funzionare la macchina. Assestai i controlli e in un

minuto ero di nuovo in questa stanza.

"Ma la ingannai. E fu proprio così, in un certo senso. Non aspettai

due mesi. L'idea che mi venne fu quella di annullare quel periodo nella

macchina... così in un altro minuto stavo materializzandomi nei due

mesi seguenti quando avrei dovuto sposarla! Ero molto riconoscente

alla macchina, in quanto quella prova mi aveva debilitato e aveva la-

sciato la mia mente esaurita, e proprio non avevo idea di come avrei

potuto sopportare un periodo così lungo! Capite, avevo fretta!

"Ah se solo lo avessi saputo! La catastrofe incombeva su di me! No-

tate lá sua breve e veloce rapidità.

"Quando arrivai, tutto era esattamente come prima. Il grande pa-

lazzo era polveroso come prima, la comunità deserta, il blocco di quel-

le morbose celle come le avevo lasciate. Solo i campi erano cambiati,

trovai Pearl seduta in meditazione sulla tomba del grande idrocefalo.

"«Sono sorpresa di vederti così presto« furono le sue parole di ben-

venuto «sembra che sia passata solo una settimana.«

"«Sei stata bene, mia Perla inestimabile?« le chiesi teneramente.

~Aveva cominciato a insistere perché la chiamassi così. Una volta,

prossimo alla disperazione, lo avevo usato con un significato diverso,

e da allora mi aveva detto di usarlo tutte le volte che mi rivolgevo a

lei...)

L "«E stato un periodo di grande integrazione« mi rispose. «Infatti è

stata un'esperienza molto preziosa. E sono giunta alla conclusione che

siamo stati troppo frettolosi nell'uccidere i miei prestigiosi compa-

gni . «

"(2uesto era dawero inquietante! Le dissi di venire a fare una pas-

seggiata con me nei campi. Per ben tre volte lei si accasciò al suolo in

meditazione per delle cose a cui avevo soltanto accennato.

"Capii che era sopraggiunta la crisi, e lo era davvero. Feci uso di tut-

te le mie risorse nell'ultimo tentativo di ottenere una vittoria imme-

diata. Le presi le mani in una delle mie, le gettai il braccio attorno alla

vita, misi le mie labbra sulle sue, e le dissi in tono cantilenante: «Spo-

sami adesso, cara! Non posso più aspettare! Ti amo, ti adoro, sono

pazzo di te...« e accidenti, alla parola pazzo, lei si accasciò al suolo!

ULa sollevai e ci provai di nuovo, ma, come un orologio, alla parola

'pazzo' cadde al suolo di nuovo!

L "Ero furibondo! Capite, dovevo fare in fretta! Lei stava cambiando

F; proprio davanti al mio naso!

"Mi avvicinai alla macchina del tempo. Avevo intenzione di sapere

~`~ una volta per tutte quale sarebbe stato il mio futuro in rapporto a una

potenziale razza umana. Preparai i comandi per l'anno successivo.

, Questa volta trovai Pearl nella cella vuota. Era chiaramente più

vecchia~ più avvizzita e più magra, e la sua testa era diventata più

grande. Sedeva sotto il baldacchino come avevano fatto gli altri, e c'e-

Sl ra un po' di polvere sui suoi vestiti

"«E strano che tu venga in questo momento« mi disse con una voce

rauca. «Stavo pensando a te.«

"All'ultima parola lei chiuse gli occhi... così non poteva vedermi, ma

solo pensarmi. Vidi che la scatoletta del cibo era piena. Con la dispera-

zione nel cuore, tornai alla macchina.

"Per qualche tempo esitai di fronte alla macchina. Ero così vicino

alla fine. Il cambiamento era stato così veloce! A Pearl ci voleva un an-

no, a me un'ora; e ancora le sue azioni erano così statiche, il suo carat-

tere immutato, come se fossero stati pietrificati sotto il peso di millen-

ni! Mi feci coraggio per quello che stavo per fare. Improvvisamente

senza pensarci, saltai sulla macchina, impostai i comandi avanti di

settanta anni, e fui scaraventato nel futuro.

"Vidi Pearl ancora una volta. A fatica la riconobbi nel mostro che se-

deva sotto il baldacchino nella sua cella. Il suo corpo si era raggrinzi-

to. La sua testa era diventata enorme. Il suo naso era scomparso. La

sua bocca era un'orribile, sottile crepa. Sedeva su uno strato di polve-

re spesso, che ricopriva il suo stesso corpo. E puzzava di rancido da

morire!

"Era tomata a comportarsi come prima. Aveva superato le differen-

ze che l'avevano caratterizzata all'inizio, ed era al principio di quella

strada nauseabonda che avrebbe dominato l'umanità nel futuro.

NMentre stavo lì davanti a lei, le sue palpebre tremarono un pochi-

no, e io capii che lei sapeva della mia presenza. Era orribile. Ma il peg-

gio doveva ancora arrivare. Anche la bocca si mosse. Si aprì e ne uscì

un suono terribile. ~Dimmi che mi ami!«

"Volai velocemente indietro al mio tempo!"

11 lungo racconto di Frick era terminato, ma le sue immediate conse-

guenze furono di un orrore così improvviso che sia io che Miles non

fummo in grado di muoverci dalle sedie. Nel silenzio che ci circonda-

va sembrava che la voce di Frick continuasse ancora, esuberante, ri-

dente. aspra, flessibile come i suoi cambiamenti d'umore. Lui stesso

crollò all'indietro nella sua sedia, a testa bassa, ormai senza energie.

Rimanemmo così per dei lunghi minuti, ognuno con i propri pensie-

ri, e ognuno con la certezza di quello che Frick avrebbe avuto intenzio-

ne di fare e che noi non gli avremmo impedito. Frick sollevò la testa e

parlò. Tremavo all'idea di quello che avrebbe detto.

--L'ultima volta le hanno lasciato cibo solo per cinque anni.

Dalle mie più remote profondità venne una voce che rispondeva:

--Sarebbe un atto di pietà.

ii --Per te--mi rispose Frick.--Io lo faccio perché lei è rimasta l'ul-

timo disgustoso esemplare.

Si alzò, ci fissò a turno con sguardo severo.

--Volete venire anche voi?

Nessuno dei due rispose. Lesse il consenso nei nostri occhi. Sorrise

sardonicamente.

Si diresse verso la porta che aveva indicato, la aprì con una chiave

che aveva nella tasca, la tirò faticosamente verso di sé, entrò e accese

una luce. Anch'io mi alzai e lo seguii, tremando, con Miles dietro di

me.

_ Ho murato la macchina, non l'ho più usata da allora.

Vidi la macchina. Era esattamente come lui l'aveva descritta. Rima-

neva sospesa nel vuoto, alzata da terra di mezzo metro! Per un mo-

, mento mi mancò il coraggio di salirci sopra, e Frick mi spinse in qual-

che maniera. Stava cominciando a mostrare l'eccitamento che ci acco-

munava per questo avvenimento eccezionale.

Miles salì velocemente e anche Frick salì, con le mani direttamente

sui controlli.

--Non muovetevi!--urlò... Ia stanza si offuscò di luce dorata, poi

più niente, e mi sentii pervaso da un silenzio incommensurabile.

Improvvisamente ci fu ancora la luce dorata, e altrettanto veloce-

mente se ne andò. Eravamo in una piccola stanza scura. Era notte.

Mi chiesi se lei sapesse che stavamo arrivando.

Ci avvicinammo a lei silenziosamente, predatori nell'infinito, il no-

stro tappeto, nella polvere dci millcnni. 1,'na svolta, una porta... e tro-

vammo i campi addormentati sotto una pallida e gobbosa luna. Un

angolo, una svolta... e vedemmo i trentasei sepolcri dei mostri. Uno

non ancora morto del tutto. Mi sembrava di essere in un sogno.

Ci addentravamo furtivamente attraverso l'erba alta.

Frick in avanscoperta era come un animale veloce e rapido.

Ci faceva da guida, attraverso l'erba umida che si attaccava alle no-

stre gambe come per impedirci di raggiungere il nostro scopo Cam-

minavamo silenziosamente attraverso quei sepolcri. La Natura appro-

vava; il suo cuore era esteso dappertutto, inconsapevole; e agli anni

seguenti, non avrebbe importato nulla. Né avrebbe importato nulla

alle mummie che erano nelle tombe intorno a noi. Non ora, con le loro

teste appoggiate sulle costole. Solo a Frick importava e anche tanto.

~ ~ Era il giovane agente dell'umanità prima della grande degenerazione.

Fpx~,~ In maniera superba lui era giudice ed esecutore.

Rallentò vicino a un sepolcro dove c'era ancora uno di loro che non

~, era ancora morto. Si fermò, e io pregai. Fece un respiro profondo,

pinSe la porta ed entrò. Spaventati, prima Miles poi io, lo seguimmo.

La porta si chiuse dietro di noi.

La tomba era come un pozzo d'inchiostro. Della polvere invisibile

mi saliva alla gola. C'era un terribile puzzo di stantio! Trattenni il fia-

to, ma il mio cuore batteva furiosamente. Anche se in maniera leggera

sentivo nel silenzio il battito degli altri due.

Era possibile che un quarto cuore stesse battendo debolmente lì

dentro?

Rumori leggeri provenivano dalla mia sinistra. Un braccio mi sfiorò

da un lato, a tastoni. Udii un grido soffocato, credo fosse Miles. Al più

presto dovevo prendere una boccata d'aria fresca, trattenevo il respi-

ro. Aspettai, sforzando i miei occhi e cercando di guardare più avanti

dove poteva essere un'oscurità più profonda attraverso quel buio

Silenzio. Forse Frick stava prendendo coraggio? Potevo sentirlo

mentre osservava al di là di me, atterrito da quello che avrebbe visto.

A un certo punto, la paura divenne intollerabile e in quel momento

tutto finì. Ci fu un movimento, un rumore, un fiammifero acceso nel

buio; per un secondo che sembrò durare un'eternità, guardai attraver-

so un alone dorato di polvere, che si posava su una mostruosità mum-

mificata... ma che muoveva le palpebre! Poi il buio ci riavvolse di nuo-

vo, si sentì un rumore secco, come un ramo spezzato, e mi trovai a cor-

rere con la Morte in persona alle calcagna attraverso il cimitero, in

una corsa selvaggia verso il palazzo dove c'era la nostra macchina

In pochi minuti eravamo di ritorno nel nostro tempo; qualche atti-

mo dopo Frick aveva distrutto la macchina e io ero fuori dal laborato-

rio con l'immagine indimenticabile, mentre correvo, di Miles che die-

tro di me urlava: aHa mosso le palpebre! Ha mosso le palpebre!~ e

l'altro, che camminava più indietro come un dio, al momento un po'

stordito, allargando le braccia su quel cimitero ormai completato

mentre diceva: asic /ransit gtona m~dt«.

Titolo originale: Alas, All Thinking.

Traduzione di Micaela Acocella.

E.F. Russell e Leslie T. Johnson

L'UOMO IN CERCA DEL FIJTURO

La città venusiana di Kar risplendeva sotto la boccia capovolta di un

alone azzurro. Era un giorno perfetto per una manifestazione cittadi-

na sulla Terra dopo molti secoli. I cittadini apprezzavano la collabora-

zione del tempo; Liberty Square traboccava di una folla vociante e

multicolore che turbinava dando luogo a disegni caleidoscopici. Qual-

cosa stridette nella volta spaziale; il caleidoscopio si fece uniforme-

mente rosa quando mezzo milione di facce si levarono al cielo.

In alto nella stratosfera apparvero un paio di matite metalliche che

dall'estremità vomitavano fiamme rosso cremisi. Dagli ugelli dei mo-

tori si irraggiavano verso il basso onde sonore che rimbalzavano sui

timpani degli astanti. Le matite divennero più grandi; il cremisi si dif-

fuse sulla superficie inferiore mentre i razzi frenanti spingevano al

massimo. In breve gli oggetti si erano manifestati come lunghe navi

spaziali affusolate.

Si profilarono all'improvviso, enormi, e sprofondarono dietro la

massa possente degli edifici dell'università. Per un attimo sembrarono

indugiare, mentre gli oblò sui lati fissavano da sopra il bordo dei tetti

la folla sottostante. Subito dopo erano svaniti. Ci fu uno schianto tre-

mendo che riecheggiò seguito da un attimo di perfetto silenzio. La

gran folla ritrovò la parola, ruppe in un brusio mentre, simultanea-

mente, si allungava in un flusso di individui che si precipitavano lun-

go University Avenue, verso l'aeroporto di Kar.

La pista di atterraggio dell'aeroporto presentava una scena di totale

confusiOne~ Da un lato sostavano le navi spaziali circondate da una

folla che urlava e si agitava. Il clamore era al massimo, al punto che le

guardie della città si erano disposte a cuneo e stavano disperatamente

facendosi largo attraverso una barriera di corpi.

11 gran vociare si fece più forte quando si capì che la nave più vicina

StaVa per aprire il portello anteriore. 11 pezzo circolare di metallo ruo-

tò decisamente attorno al suo ingranaggio arretrando sempre più al-

I'interno, nell'ombra. Ancora una mezza rotazione ed era scomparso

nella nave, mentre la forma di un uomo appariva nel cerchio di oscuri-

tà.

Dalla folla, i volti accesi, si levò un grido:--Umas Karin! Urnas Ka-

rin ~

Karin rispose alle ovazioni e alzò una mano per chiedere silenzio

Metà della folla fischiò per chiedere silenzio, mentre l'altra metà con

tinuava a schiamazzare. Quelli che fischiavano biasimavano quelli

che schiamazzavano e questi a loro volta rispondevano schiamazzan-

do. Ci fu chi spintonò qualcuno e qualcun altro che si irritò. Una don-

na svenne e crollò a terra mentre, dieci metri più in là, un uomo di pic-

cola statura veniva colpito alla testa per ritorsione. D'un tratto cin-

quanta persone diverse assunsero cinquanta diverse versioni di quello

che per loro era un atteggiamento di minaccia. Un cane nascosto guaì

quando qualcuno lo calpestò e dalle retrovie della folla una voce stri-

dula chiamò:--Woopsey! Woopsey!

Subito la folla scoppiò a ridere; la tensione si era improvvisamente

dissolta e venne, infine, il silenzio.

Karin saltò a terra seguito da una ventina di compagni che emerse-

ro dall'interno della nave. Lì vicino era stata sistemata una piccola

piattaforma alta circa due volte un uomo. Karin vi montò su e coi suoi

occhi penetranti percorse la folla. Una guardia in uniforme gli mise

davanti una scatoletta di ebano montata su un tripode. Karin fece cen-

no alla guardia di andarsene, si piazzò di fronte alla scatola e parlò

--Amici miei--cominciò. La sua voce era piacevolmente amplifi

cata dall'altoparlante.--11 vostro meraviglioso benvenuto è già una

ricompensa. Vi ringrazio, e di nuovo, anche a nome dei miei colleghi

grazie! Ora sono sicuro che voi tutti scoppiate dalla voglia di sapere se

questa spedizione ha fatto qualche sorprendente scoperta sul nostro ì~

Pianeta Madre.--Fece una pausa e sorrise mentre la folla gli comuni- 1

cava con un fremito che sì, scoppiava dalla voglia.

--Ebbene, temo che la nostra storia sia davvero troppo lunga per

essere raccontata nei dettagli. Basti dire che non abbiamo trovato al-

cuna traccia della civiltà di quelli che erano i nostri antenati. Le gran-

di città e le potenti macchine di un tempo si sono sgretolate nella pol- ;

vere e sono state completamente cancellate dall'orma del tempo. La

vecchia Madre Terra è del tutto, e completamente, priva d'aria, d'ac-

qua, di vita.

"Tuttavia una grande scoperta l'abbiamo fatta.--E qui si fermò per

un interminabile minuto.--Abbiamo ritrovato il corpo di un uomo

preistorico! E stata davvero una scoperta sensazionale. Là, in un mon-

do tanto antico che ogni traccia dell'opera dell'uomo è stata spazzata

via, dove l'atmosfera si è disciolta nello spazio e persino la rotazione

assiale è cessata, giaceva il corpo di quest'uomo.

"Da un esame del cadavere è risultato il fatto apparentemente im-

possibile che aveva cessato di vivere da non più di cinquanta ore. For-

tunatamente avevamo con noi, come parte del nostro equipaggiamen-

to standard di pronto soccorso, una camera di normalizzazione. Vi ab-

biamo fluidificato il sangue e siamo riusciti a riportarlo indietro in

condizioni tali da autorizzarci a sperare che gli esperti del nostro Isti-

tuto di Medicina e Chirurgia siano in grado di resuscitarlo.

"Il corpo di quest'uomo è in perfette condizioni. La causa della mor-

te è stata, letteralmente, la mancanza di respiro. Sembra appartenere

a un periodo risalente a diverse migliaia di anni prima che i nostri an-

tenati abbandonassero la terra agonizzante e si stabilissero qui su Ve-

nere, un periodo così remoto che le nostre registrazioni storiche non

ne recano traccia. Pensate, la sua testa è coperta di peli e ha peli anche

sul petto e sulle gambe!

"L'abilità degli scienziati, in questa nostra epoca così evoluta, di far

rivivere i morti nei casi in cui la morte non sia dovuta a vecchiaia e

non sia accompagnata da un serio danneggiamento organico, è una

meraviglia troppo nota perché le si debba dare ancora rilievo. Forse ci

sono qui persone che non sarebbero tra di noi se non fosse per i mira-

coli compiuti dai nostri uomini e donne più abili..."

Venne interrotto da diverse grida di assenso.

"Io credo che qui ci sia un'opportunità unica per l'Istituto di ripor-

tare in vita quest'uomo e permettergli di raccontarci la sua storia con

la sua viva voce. Se le mie speranze dovessero realizzarsi, intendo fare

una richiesta ufficiale a Orca Sanla, presidente della commissione per

la stereo-visione, che a quest'unico abitante di un pianeta da tempo

morto venga concesso il permesso di comparire davanti allo schermo

della stazione stereo di Kar e spiegare al nostro mondo circostanze

che, per essere del tutto sincero, ci appaiono assolutamente inspiega-

bili.--Karin si voltò e fece cenno a un uomo alto e grosso che se ne

stava in prima fila tra le schiere dei suoi seguaci.--A ogni modo, que-

sta sera ci sarà per voi un programma. Olaf Morga, con l'aiuto di suo

fratello Reca che si trovava nell'altra astronave, ha registrato tutte le

immagini dei nostro viaggio dal momento in cui siamo partiti da Kar

fino a quando abbiamo lasciato la Terra. Il filmato sarà inviato alla

stazione S.K. e sarà trasmesso questa sera al tramonto."

Karin si era mosso per scendere quando si scatenò una tempesta di

- applausi. Una donna dal centro della folla gridò:--La cintura!

= ~ Quella parola fu ripresa da mille altre persone. Prima ancora che

. Karin avesse posato il piede sul primo gradino, la folla intera stava

gridando:--La cintura! Vogliamo la cintura!

Morga e Karin si scambiarono un sorriso. Il secondo tornò al centro

della piattaforma, slacciandosi con lentezza deliberata la cintura di

rnetallo flessibile che portava in vita. La tenne penzolante per un'e-

L Stremità, la folla danzava eccitata.

All'improvviso la fece roteare sopra la testa e la scagliò in alto e lon-

tano. La cintura volò, serpeggiando nell'aria dove la calca era ma

giore. Quando cadde scattarono in una cinqúantina. Poi scomparve

sotto un ammasso di esseri umani, che lottavano tutti furiosamente

per impadronirsi del souvenir così ottenuto.

Rapide ad approfittare del diversivo, le guardie sgomberarono un

sentiero che dalle navi spaziali raggiungeva la torre di controllo. Ka-

rin e il suo equipaggio, insieme con quello della nave gemella, si preci-

pitarono lungo il sentiero e dentro la torre. La folla sciamò fuori della

pista dell'aeroporto, si riversò in un torrente variopinto lungo Univer-

sity Avenue e riempì, mettendole a dura prova, le strade semoventi di-

rette ai sobborghi.

L'oscurità discese su Venere. Le stelle fisse su un cielo senza luna pe-

netravano il velo spesso dell'atmosfera, disegnando pallidi bagliori di

furtivo splendore sulle fiancate delle due astronavi interplanetarie che

dormivano fianco a fianco, sulla pista coperta di rifiuti.

Due mesi dopo Bern Hedan, I'uomo che si era aggiudicato la fibbia

della cintura, stava cincischiando coi comandi del suo apparecchio

stereoscopico e imprecava. Il nuovissimo schermo panoramico di sele-

nite mostrava, a colori naturali e con effetto tridimensionale, l'ultimo

stadio di trasformazione nel ciclo vitale di uno stagno venusiano. La

voce dl un annunciatore lasciava intendere che per i tirapiedi di Sanla

un canto funebre suonato con un oboe asmatico era l'accompagna-

mento più adatto per le acrobazie trimestrali di un pesce con il capo

--Per la morte della Terra!--sbottò, ricorrendo all'imprecazione

piU tremenda che la sua immaginazione potesse concepire in quel mo-

mento.--Pago cinquantacinque yogs subito e altri dodici a ogni alta

marea per quest'apparecchio. Pago bollette della luce esorbitanti per

farlo funzionare; verso diciotto yogs all'anno per il diritto di usare

quello che ho comperato, o sto ancora comperando.--Gesticolava e

parlava ad alta voce. Gli piaceva molto parlare da solo

Era attratto dalle opinioni dettate dal buo senso.--E che cosa rice-

viamo in cambio, mi chiede? Dimostrazioni figurate delle abitudini

domestiche di babbuini venusiani col culo rosso con un sottofondo di

lamentosi strumenti a corda. O le avventuare amatorie di una larva

marina che fa la corte alla sinfonia per dieci armoniche del tale dei ta-

h. Mah!

334

Girò rabbiosamente la manopola di selezione dei canali che spunta-

va dall'apparecchio dello stereo. Lo schermo si oscurò, si annerì, poi si

schiarì e mostrò una nuova scena. Era un panorama della sala dei di-

battiti della città di Nuova Londra. Due uomini sedevano su poltron-

cine disposte su di un palco semicircolare di fronte a un enorme audi-

torium pieno di gente dalla platea ai loggioni. Un terzo individuo era

in piedi sul palco di fronte a uno schermo stereoscopico. Bern Hedan

notò che uno specchio appeso al muro dietro il palcoscenico provoca-

va lo strano effetto di riflettere sul suo schermo domestico lo schermo

trasmittente, dandogli un'immagine doppia delle tre figure sul palco.

Il conduttore stereo stava dicendo:--Questa sera avete ascoltato e

assistito a un dibattito estremamente interessante e istruttivo sull'ar-

gomento di un'altra Grande Migrazione. Voi tutti conoscete le ragioni

che hanno costretto il genere umano a mettere in pratica la scoperta

dei mezzi con cui viaggiare nello spazio cosmico dando libero corso al-

la migrazione di massa verso la nostra attuale dimora: Venere. I sinto-

mi di una decadenza senile del pianeta, quali la perdita dell'atmosfe-

ra, la perdita della velocità orbitale e della rotazione assiale, erano di-

ventati così allarmanti che era evidente che le caratteristiche della

Terra si stavano alterando troppo velocemente perché l'umanità po-

tesse adattarvisi. I giorni della Terra erano contati, almeno per quanto

riguardava il genere umano. Venere presentava un habitat adatto per i

nostri predecessori, per noi e per i nostri figli e nipoti. E i mezzi per

andare su Venere erano disponibili.

"11 tema di discussione stasera è stato, per dirlo in breve, 'La storia

si ripeterà?'. Nel corso del tempo, a un certo punto nel lontano futuro

il destino del nostro pianeta sarà lo stesso di quello della Terra. Può

darsi che non ci faccia piacere pensarlo, ma è un fatto, un fatto perfet-

tamente naturale, e inevitabile. Gli abitanti di Venere moriranno su

Venere o ci sarà un'altra Grande Migrazione?n Con una mano indicò

I'uomo seduto alla sua destra.

4I pessimisti pensano che noi siamo condannati per le ragioni che vi

ha spiegato, la più incontestabile delle quali è che il nostro prossimo

approdo nello spazio è il pianeta Mercurio, e Mercurio non è in nessun

modO abitabile dagli essere umani.--Poi indicò il lato opposto.--Gli

ttimisti~ invece, sostengono che l'umanità non scomparirà mai dal

reatO, soprattutto grazie al costante progresso scientifico che, ha det-

~to, ci consentirà di perfezionare l'arte di navigare nello spazio a tal

~punto che potremmo scegliere tra una dozzina di mondi molto prima

~che l'attuale diventi inospitale.

Con ciò si conclude il dibattito tra Leet Horis di Kar e Reca Morga

~della Società dei Dibattiti di Nuova Londra."

|- Rimase immobile a sorridere dentro lo schermo di trasmiss

entre il pubblico applaudiva.

--E ora veniamo all'avvenimento che tutta Venere ha atteso con la

massima curiosità. Da quando l'Istituto di Kar è riuscito a resuscitare

l'uomo preistorico due mesi fa, il mondo intero è in attesa di ascoltare

la sua storia. Ci sono state critiche su questo ritardo che, vi posso dire

ora, era dovuto al fatto che il semplice ritorno in vita di quest'uomo

non bastava a giustificare una sua immediata apparizione sul video.

Aveva bisogno di un periodo di convalescenza, durante il quale ha im-

parato a parlare la nostra lingua. Troverete che si esprime con buona

padronanza, e la ragione è che la sua lingua è risultata essere la radice

della nostra.

Bem Hedan regolò il tasto della luminosità del suo apparecckio in

modo da rendere l'immagine del palcoscenico più nitida. Spostò una

poltrona di fronte allo schermo, vi si accomodò e accese il grattatesta

automatico. Rabbonito dalla comodità dei cuscini e dalla delicata fri-

zione del grattatesta, si dispose di buon grado ad ascoltare.

Dopo essere stati inquadrati dal teleschermo, i due protagonisti del

dibattito lasciarono la scena. L'annunciatore raggiunse allora il retro

del palcoscenico, aprì una porta e, con aria solenne, fece entrare l'uo-

mo preistorico. L'uomo stava direttamente di fronte allo schermo e

studiava duecentomila venusiani. Duecento milioni di venusiani stu-

diavano l'uomo.

I venusiani erano leggermente delusi. L'oggetto della loro attenzione

non aveva l'aspetto di chi vive sugli alberi e si nutre di noci. Il capo era

coperto di peli disgustosi. Ma, a parte questo, sembrava del tutto nor-

male. Era alto un metro e ottanta; gli occhi scuri, vigili, il volto da in-

tellettuale anche per il giudizio dei venusiani. Un silvoid ~carossa rica-

mato gli pendeva dalle spalle; in vita portava l'inevitabile cintura ve-

nusiana. Sembrava sentirsi completamente a proprio agio; era

evidente che non concordava col pubblico nel dare alla sua persona un

valore di puro antiquariato.

--Ho l'onore di presentarvi--cominciò l'annunciatore,--Glyn

Weston, l'uomo del 2007 d.C., un'epoca che si situa circa settantamila

anni prima della Grande Migrazione, ovvero centocinquantamila anni

Un mormorio di sorpresa percorse le file compatte di sedili

--Glyn Weston ha raccontato la sua storia al consiglio dell'Univer-

sità di Kar; ha dato un preziosissimo contributo alle pagine della sto-

ria antica. Ora gli chiederò di ripetere per noi il suo racconto e sono

certo che dopo che avrete sentito quello che ha da dirvi converrete che

questa voce del passato ha narrato la storia più sorprendente che sia

mai stata tra.cm~cczl Cll nllesti schermi. Glvn Weston.

Amici miei--cominciò Weston, parlando con una voce piacevolmen-

te modulata--c'è una cosa che devo dirvi prima di iniziare il mio rac-

conto. Il più grande dono che Dio ha fatto all'uomo è la vita. Non pos-

so dire che voi mi abbiate dato la vita, ma alle notevoli capacità della

vostra meravigliosa civiltà io devo la restituzione di ciò che mi era sta-

to sottratto: la vita! Il debole e fallace potere della parola è del tutto

inadeguato per esprimervi la gratitudine che provo. Desidero che

ognuno di voi sappia quanto io abbia apprezzato ciò che ha fatto per

me la scienza venusiana.

(Un boato di applausi scosse l'auditorium. Il pubblico finì per con-

vincersi che stava per ascoltare un uomo e non un selvaggio.)

--Come vi hanno detto, mi chiamo Glyn Weston. La mia età non la

conosco, e la ragione vi apparirà evidente più avanti dalla mia storia.

All'epoca che viene definita come mia, se mai un periodo storico si può

chiamare così, ero un fisico.

"Ho cominciato il mio lavoro all'età di 28 anni quando fui abbastan-

za fortunato da ereditare una grossa somma di denaro. Allora ero l'as-

sistente del famoso professor Vanderveen astrofisico all'Osservatorio

di Glasgow. Per diversi anni il mio pallino era stato lo studio dell'ope-

ra di McAndrew, noto a tutti come 'l'uomo del raggio mortale'.

"McAndrew era uno scienziato del decennio precedente. Il suo lavo-

ro aveva sopravvanzato quello di certi matematici e fisici del Ventesi-

mo secolo, più in particolare di Einstein, Graham, ~orrest, e Schweil.

Era l'esponente più autorevole al mondo del concetto spazio-tempo e,

come molti altri geni, egli morì dopo aver subito l'incredulità dei suoi

contemporanei, perché aveva sostenuto che sarebbe stato possibile

viaggiare attraverso il tempo, muoversi nel tempo verso il futuro.

"Schweil, che aveva lavorato in coppia con McAndrew, aveva dimo-

Strato che il tempo non era un concetto indipendente, bensì un aspetto

del movimento. Non ci poteva essere tempo senza movimento, né mo-

vimento senza tempo.

"Ciò potrebbe apparire piuttosto oscuro ad alcuni di voi, ma in real-

tà è molto semplice. Provate a immaginarvi il tempo senza il movi-

mentO; pensate ai mezzi coi quali misurate il tempo. I due concetti

non possono essere separati, in quanto sono semplicemente due aspet-

ti diversi della medesima cosa. McAndrew dedicò la propria vita alla

~s Scoperta della vera relazione fra questi due aspetti e, se posso metterla

CoSì, a definirne la 'differenza'.

"Il suo lavoro fu coronato dal successo due anni prima della morte.

Lavorando alla teoria secondo cui la velocità del movimento e il ritmo

!`~ del tempo si mantengono costantemente paralleli, egli sviluppò un

yl

raggio col quale fece svanire una serie di oggetti. Sosteneva che il rag-

gio faceva aumentare la velocità del movimento degli elettroni, in mo-

do che gli atomi vivevano il tempo a una velocità maggiore e gli ogget-

ti venivano proiettati nel futuro. Naturalmente gli risero in faccia.

''La sua scoperta veniva descritta nei termini più assurdi, quali 'il

disintegratore automatico' e 'il raggio della morte'. McAndrew lasciò i

dati della sua scoperta al solo scienziato che gli aveva creduto. Quello

scienziato era Vanderveen, il mio superiore.

"Vanderveen era sui cinquant'anni quando raccolse il testimone che

gli aveva passato il fallito McAndrew. Nel periodo passato con lui mi

diede un costante, quasi paterno, incoraggiamento. Il mio interesse

per il lavoro di McAndrew gli faceva immensamente piacere. Quando

ricevetti la mia eredità gli comunicai il mio desiderio di usarla per

proseguire le ricerche là da dove si era fermato McAndrew

"aWeston« mi disse, posandomi una mano sulla spalla «ho pregato

perché questa fosse la tua ambizione. McAndrew, ahimè, in me ha tro-

vato un segugio troppo vecchio per imparare nuovi trucchi. Ma tu... tu

sei giovane.«

"Così il seme era stato gettato. Ma Vanderveen non visse abbastanza

per vederne il frutto. Ventidue anni dopo divenni la cavia umana di un

esperimento di viaggio nel tempo. Avevo allestito il mio laboratorio

nella regione selvaggia del Peak District nel Derbyshire, in Inghilter-

ra, dove potevo portare avanti il mio lavoro con interferenze minime.

Da questo laboratorio io avevo spedito nell'ignoto, presumibilmente il

futuro, una moltitudine di oggetti, comprese anche diverse creature

viventi come ratti, topolini, piccioni e volatili domestici. In nessun ca-

so ero riuscito a riportare indietro qualcosa che avevo fatto svanire.

Una volta partita, la cavia era sparita per sempre. Non ci fu modo di

scoprire dove esattamente fosse finita. Non rimaneva altro da fare che

rischiare e andarci io stesso.

"A questo scopo progettai una camera a tenuta stagna per viaggiare

nel tempo e la feci costruire immediatamente. La camera era in grado

di contenere il propulsore del raggio di Schweil-McAndrew, in una

versione molto perfezionata, me stesso e una quantità di materiale che

ritenevo necessario portare con me. Avevo allestito il propulsore in

modo tale che l'intera camera, con tutto ciò che conteneva, sarebbe

svanita immediatamente non appena avessi acceso il raggio. Natural-

mente sapevo che se quella camera mi avesse davvero trasportato nel

futuro, sarebbe stato d'obbligo considerare la possibile alterazione dei

contorni del terreno nel corso del tempo da me percorso. Sarebbe sta-

to considerato fare l'esperimento in un punto dove il suolo si sarebbe

sollevato lasciandomi incastrato metri al di sotto della superficie ter-

restre. Pertanto affittai un terreno sulla cima di una collina a una

quindicina di chilometri a nord-ovest di Bakewell, un luogo molto so-

litario ed equipaggiai le travi del tetto con un paracadute di mia pro-

gettazione per cautelarmi da un possibile fenomeno opposto.

"Il 14 di aprile del 1998 d.C. tutto era pronto per il mio esperimento.

I miei affari finanziari erano stati sistemati con più di una attenzione

al futuro. La camera per il viaggio nel tempo, abbondantemente dota-

ta di finestre e rassomigliante a una cabina telefonica molto grande,

stava al centro del campo dell'agricoltore Wright. Avvicinandomi a

essa, ignaro di ciò che il Fato aveva in serbo per me, pensavo a che

aspetto assurdo doveva avere, eretta così in mezzo ai solchi. Senza la

minima esitazione aprii la porta, entrai e la richiusi a chiave, azionai

il dispositivo per purificare l'aria, diedi un'ultima occhiata alla Terra,

immersa in una fresca atmosfera primaverile, e abbassai la leva del

propulsore."

--La sensazione di essere sotto l'influenza dei raggi era stranissima.

La mente sembrava svuotata di tutti i pensieri, tratteneva soltanto ed

esclusivamente le impressioni contrastanti di ruvidità e di levigatez-

za, viscosità e lucentezza, come se la stessa natura della mia materia

cerebrale oscillasse tra una sorta di fibrosità come quella di una cara-

mella tirata e una suadente morbidezza come quella di una palla di

stucco arrotolata di fresco. Un velo di nebbia scese fra me e il mondo

che mi sforzavo di guardare. La nebbia era elusiva, intangibile. Qual-

che momentaneo effetto ottico intervenne per sconfiggere ogni mio

sforzo di decidere se quella nebbia coprisse le finestre della camera o i

miei globi oculari.

"Fui assalito da un panico improvviso e tirai la leva di accensione

alla quale la mia mano destra era ancora aggrappata. Una sensazione

di immensa stanchezza mi tormentb il corpo da capo a piedi, i miei

vasi sanguigni frizzavano come se il loro contenuto fosse stato sosti-

tuito con acqua minerale. La fugace nebbia fu strappata via come il

velo trasparente di una danzatrice orientale. Stavo malissimo.

"La mia chiave scattò nella serratura. Uscii e mi guardai intorno.

Tutto sembrava esattamente come lo avevo lasciato. Il campo era an-

Cora arato; qualche albero e i cespugli mostravano di essere consape-

voli della primavera; il cielo era ancora nuvoloso, l'aria frizzante co-

me prima. Il mio esperimento era fallito.

"Quello che si incamminò verso il suo laboratorio attraverso i sen-

tieri solitari era un uomo distrutto. Ricordo che gli uccelli cinguetta-

VanO, ma io non li udivo, in quel momento; fiorellini precoci aggiunge-

vano la loro dolce bellezza a questo mio mondo orribile, ma io non li

vedevo.

"Maledicendo mentalmente la mia mancanza di previdenza per non

aver parcheggiato l'auto nel campo in affitto, svoltai per un tornante e

cominciai a risalire una collina che stava fra il campo e il laboratorio.

Un bracciante della fattoria emerse da un sentiero alla mia sinistra

avanzando faticosamente dietro di me. Accelerò il passo, mi raggiunsé

e mi chiese l'ora. Era un vecchio e aveva l'aria di essere un tipo loqua-

ce. Pensai che la sua domanda fosse una scusa per attaccare bottone.

Ciò nonostante presi la catena d'oro e guardai l'orologio da poco prez-

zo attaccato alla sua estremità.

"«Mi dispiace, I'orologio si è fermato.«

"«Anche il mio« rispose. «Vuol dire che la sentirò alla radio, quando

arrivo a casa.,> Si accese una sigaretta e camminò su per la collina in

silenzio per un breve tempo. «Che ne pensa del grande volo dei missi-

li?~ domandò all'improvviso.

"Mi era difficile riprendermi e dovetti fare un grosso sforzo mentale

prima di potergli rispondere. In qualche modo riuscii a ricordarmi del

sensazionale volo attraverso la Manica di Robert Calir. Quello era sta-

to salutato come il primo esperimento veramente riuscito di volo

umano con un missile. Se ricordavo bene, il volo aveva avuto luogo al-

meno un mese prima. La scienza dei razzi destava l'interesse di un nu-

mero estremamente ristretto di persone ed era strano che il vecchio

mostrasse ancora dell'interesse per un avvenimento di un mese prima.

Ma la buona creanza imponeva una risposta.

'«Giusto un altro passo avanti nella marcia inevitabile del progres-

so« replicai.

'«Pensa che andranno sulla Luna?«

"«Chi può dirlo« risposi evasivamente.

°«Be', se ne parla; se ne parla« insisteva lui. «Giusto l'altro giorno

ho letto sul giornale che un certo professore ha stabilito quanto ci vor-

rebbe per andare su Venere, come si potrebbe costruire un missile

adatto e quanto costerebbe. Ho sempre pensato che Venere fosse una

donna nuda, non un pianeta. Ciò dimostra quanto la scienza sia pro-

gredita da quando ero giovane io.«

"«Ah, ma è il destino di tutti noi essere considerati ignoranti rispet-

to alle conoscenze più recenti« buttai lì per calmarlo.

"«Dove si andrà a finire?« domandò lui, tirando una furiosa boccata

alla sigaretta. «Prima i motori a vapore, poi le automobili, gli aerei e

quegli auto... come diavolo si chiamano che sembrano mulini a vento

e non hanno ali, aerei stratosferici. E ora i razzi! Ricordo che quando

ero ragazzo fece furore sui giornali Ginger Leacock quando circum...

circum... fece il giro tutt'intorno al mondo senza fermarsi, in uno di

quei pazzi vecchi aerei stratosferici. Da allora hanno fatto il giro altre

sei volte e non ne hanno ancora abbastanza! Per questo hanno inco-

minciato a impicciarsi con i razzi. Per cominciare un pazzo scatenato

finisce sopra una casa e si rompe l'osso del collo. 'Martire della scien-

za' lo hanno chiamato. Poi un altro idiota che vuole diventare un mar-

tire attraversa la Manica su un missile e si spezza entrambe le gambe.

Per non essere da meno un altro scemo parte da Dublino e centra in

pieno un grattacielo di New York spiaccicandosi tutto...«

"«Bastal« lo interruppi «Di che diavolo sta parlando?«

"«Razzi;> rispose, sorpreso. «E ora che possono andare di qui in

Nuova Zelanda in ventiquattr'ore, comprese le soste, o diciotto senza,

L quello che io ho da dire è«

"«Mi vuole ascoltare?« gridai, afferrandolo per le spalle. «Perdio,

cosa sta dicendo?«

"«Senza offesa, capo, senza offesa« disse nervosamente, cercando di

ritrarsi. «Non intendevo offendere nessuno, davvero!«

"«Ma certo che non sono offeso« tuonai. Poi, quando mi accorsi che

il mio comportamento lo stava innervosendo, mi calmai e ripresi in un

tono più basso. « Lei mi deve scusare, ma l'argomento di cui stava par-

lando è di estremo interesse per me, e per una serie di ragioni non ho

più avuto modo di aggiornarmi. Stupidamente mi sono lasciato pren-

dere dall'eccitazione quando lei ha fatto cenno al volo di un razzo su

New York. Mi saprebbe dire quando ha avuto luogo?

" « Be ', mi faccia pensare! « Apparentemente rassicurato, si fermò e si

mise a guardare il cielo mentre scrutava nella sua memoria. «Per

quanto mi pare di ricordare era l'estate del 2004.«

"«Che anno?«

~- "«112004« ripeté.

"«E quando è stato questo grande volo di missili al quale alludeva

b all inizio?« domandai facendo uno sforzo pazzesco per controllarmi.

"«Ieri.«

"«Senta, le potrà sembrare una domanda strana la mia« gli dissi

~ma sto abbastanza bene. Ho solo un lieve disturbo di memoria. Dun-

que mi dica, che giorno era ieri?«

"Sembrava comprensivo, tirò fuori un giornale ripiegato dalla tasca

siniStra, lo aprì apposta e me lo diede. Un titolo a nove colonne alto

Cinque centimetri attraversava in alto la prima pagina. Diceva: NUOVO

IlMITE DEI RAZZI. E il sommario: IN NUOVA ZELANDA IN 18 ORE--Lamson

St schianta nelta Hawkes Bay. Non feci tanto caso a questa notizia, per

quantO fosse entusiasmante. I miei occhi cercavano impazienti in ci-

ma alla pagina. E là si trovava a chiare, inconfutabili lettere: LA VOCE

DEL GIORNO--22 maggio 2007.

"Prima che il poveretto, spaventato a morte, potesse muoversi, lo

avevo abbracciato e lo stavo baciando. Lanciai il giornale per aria e al

7 volo gli sferrai un ~ran calcio mentre stava per ricadere. Gridai a

squarciagola e mi misi a ballare un fandango sulla strada. Il cappello

cadde e rotolò diritto in una pozzanghera; la catena dell'orologio saltò

fuori e danzò al tempo. Il mio esperimento di viaggio nel tempo era

nuscito! Per cinque minuti divenni pazzo da legare, mentre il mio

compagno, dimentico della dignità dell'età e dei reumatismi, raggiun-

geva al galoppo la cima della collina come un cervo inseguito dai cac-

ciatori e scompariva dietro la cresta."

--La notevole impresa di aver compiuto un breve viaggio nel tempo

non ebbe su di me l'effetto che mi ero immaginato qualche anno pri-

ma. Non mi precipitai, rosso in volto e trionfante, a darne l'annuncio a

un mondo esterrefatto. Al contrario, divenni diffidente e riservato co-

me tutti gli avari. Il mio desiderio di fama e il rispetto per il mondo

scientifico svanirono, sostituiti da una curiosità così insaziabile che

l'oggi era ormai solo un momento per speculare sul domani. Il futuro

mi aveva in pugno come una droga malefica.

"Prima ero diffidente perché ero deciso a impedire che il mio lavoro

cadesse in mani indegne. Ora il motivo era che avevo paura che mi ve-

nissero sottratti i mezzi per soddisfare il mio desiderio di esplorare il

futuro il più accuratamente possibile.

"~otto ogni aspetto risultava altamente desiderabile che io intra-

prendessi subito la prossima avventura. La mia sorte personale era

faccenda di poco conto; il mio denaro era al sicuro, ma non abbastan-

za da resistere all'assalto del tempo. Giunsi alla conclusione che mi

potevo permettere di ignorare la sorte delle mie fortune terrene. Non

sembrava probabile che le potessi reclamare in un lontano futuro.

4Nell'atmosfera silenziosa del laboratorio pieno di polvere ci pensai

su. La camera del tempo doveva essere rimossa al più presto. Sapeva

il cielo quale strana storia avrebbe raccontato il mio interlocutore di

prima, quali occhi curiosi e mani indiscrete avrebbero esplorato l'og-

getto sul campo di Wright. E a proposito di quello, non sapevo nean-

che se apparteneva ancora all'agricoltore Wright. Il proprietario,

chiunque £osse, avrebbe potuto cacciar via l'intruso dalla sua proprie-

tà a suo arbitrio. Quella notte stessa dovevo fare la prossima mossa.

"Un'ora dopo il tramonto entrai nella camera del tempo e chiusi a

chiave la porta in previsione della mia seconda avventura. Ero a sto-

maco vuoto; nel laboratorio non c'era niente da mangiare e io non ave-

vo ingerito niente da ore. Mi consolai con una sigaretta che aveva nove

anni ed era ancora fresca! Pallide strisce di luce si allungavano dal cie-

lo in direzione dello Staffordshire; la luna crescente pendeva bassa e

le stelle luccicavano distinte. La sigaretta cedette la sua ultima, fra-

grante boccata. Schiacciandola sotto il piede, mormorai: «Addio

2007 ! « .

"Con una mano sull'interruttore, esitai. L'ultima volta la leva era

stata abbassata tra i sei e i dieci secondi, per quanto avevo potuto sti-

mare, e avevo coperto nove anni. Dunque la distanza percorsa era pro-

porzionale al tempo in cui la leva era abbassata? Sarei rimasto ucciso

quando i raggi mi avessero portato al giorno che la natura aveva fissa-

to come quello della mia morte o, per quanto potesse apparire logico o

no, sarebbe stato possibile oltrepassarlo indenne? Il silenzio rispose

alle mie domande non pronunciate. Non c'era altro da fare che sco-

prirlo. Poteva essere un buon esito o il suicidio. Abbassai completa-

mente la leva con esagerata determinazione. Il dado era tratto!

"Non vi annoierò con un'altra descrizione del malessere che ho defi-

nito nausea del tempo. I raggi entrarono in azione per un periodo dieci

volte superiore a quello della precedente occasione: quasi un minuto.

Poi lasciai la leva. Il corpo venne sottoposto a una potente, ma mo-

mentanea tensione, ed ero già arrivato. La chiave scattò nella serratu-

ra e la porta si spalancò all'interno. Qualcosa mi afferrò per i piedi e

caddi in avanti. Alzatomi scoprii che la camera del tempo era sprofon-

data di circa 15 centimetri nel suolo; avevo incespicato sul gradino di

terra fuori dalla porta. Fu una fortuna non aver dotato la camera del

tempo di una porta con apertura all'esterno: sarei rimasto in trappola.

"Guardandomi attorno, la prima cosa che notai fu che il campo non

` era coltivato. Qualche misero alberello e qualche cespuglio esponeva-

no gli ultimi brandelli di fogliame bruno. Il cielo era grigio, cupo e nu-

~, voloso. Conclusi che si doveva essere nel tardo autunno o già in inver-

no. Non c'era anima viva mentre attraversavo il campo verso il sentie-

ro.

3 aMi imbattei in un muretto di pietra alto poco più di un metro e vi

salii sopra per scrutare il lontano orizzonte e il terreno tutt'intorno.

Non c'era alcun segno di vita o di abitazione umana. Lo sguardo spa-

ziò ansioso tutt'intorno, intravidi una forma inspiegabile a una di-

stanza di circa sette chilometri. Mi tolsi gli occhiali, pulii le lenti e me

Ii aggiustai bene sul naso. L'oggetto era un enorme emisfero di colore

l~ grigiastro.

"L'edificio, se di ciò si trattava, spuntava dalla cima della collina co-

rne una verruca sul naso della terra. Si trovava nella direzione oppo-

Sta a quella dove c'era, o c'era stato una volta, il mio laboratorio. Ero

, affamato e il mio stomaco suggeriva che quell'unica presenza artifi-

ciale nel paesaggio prometteva cibo. Saltai giù dal muretto e mi dires-

si con passo pesante verso il cocuzzolo lontano.

"Camminando speditamente per una buona oretta arrivai ad alcune

centinaia di metri dall'oggetto, che si era rivelato un'enorme gobba di

cemento del diametro di circa trenta metri e alto centocinquanta. Sul-

la cima sembrava esserci un grande buco. Non ebbi il tempo di fer-

marmi a esaminarlo prima di avvicinarmi- rallentai il passo e una vo-

ce si materializzò dall'aria dietro di me. Parlava con un accento curio-

samente biascicato, simile più o meno a quello degli scozzesi, secco e

conciso. Disse:--Continua!

Mi girai di scatto. Di fronte a me c'era un uomo vestito di marrone

scuro, I'abito a metà tra una tuta da ingegnere e un'uniforme militare.

Sul capo portava un elmetto, niente più che una cuffia di metallo scu-

ro; in pugno aveva un oggetto che somigliava solo lontanamente a un

fucile. Il suo abbigliamento era del tutto disadorno e lo faceva assomi-

gliare a una via di mezzo tra un soldato e un idraulico.

"«Da dove sei sbucato?« escalmai.

"«Da sotto un cespuglio d'uva spina« disse lui, sorridendo aperta-

mente. «E tu?«

"«Dall'anno 2007.«

"«Addirittura! Allora il passato si rivolta contro di noi!« C'era una

nota di sarcasmo nella sua voce, ma pareva un tipo intelligente.

a«Mi devi credere« ribattei. «La mia storia è molto lunga, ma quan-

do l'avrai udita, la troverai...«

"«Molto verosimile!« intervenne. «Se sei un bugiardo migliore di

tanti noi, vorrà dire che sei in gamba. Ora cammina. Ci potrai raccon-

tare come hai fatto a salvare il mondo nel 2300 non appena saremo al-

I 'interno. «

4«2300! Hai detto 2300?« Tentai di afferrargli il braccio.

"Mi puntò la bocca dell'arma contro lo stomaco. «Certo che ho detto

2300. Muovi i piedi un po' di più e la lingua un po' meno. E, giusto nel

caso che tu voglia continuare a giocare la parte del Matusalemme,

posso anticipare una tua domanda informandoti che questo è l'anno

di disgrazia 2486?«

"aSanto cielo! « urlai voltandomi e incamminandomi su per la colli-

na. «Ho fatto un salto di quasi quattro secoli!«

"«Dalla padella alla brace« fece il mio compagno.

"«Perché? Cosa intendi dire?«

"«Esattamente quel che ho detto« riprese, mentre il suo volto assu-

meva un'espressione sardonica. «Può darsi che tu sia un bravo saltato-

re, ma come selezionatore non vali proprio niente. Perché non hai fat-

to un salto un po' più corto o un po' più lungo? Il saltatore che viene a

finire in questo anno è pazzo. Diavolo, lo sapevo in ogni caso che tu sei

matto! «

a«Sì, ma..« ``

"«Cammina, saltatore, cammina!« ordinò. «Non voglio usare il mio

fucile economico con un bianco, anche se è pazzo.«

"«Perché chiami la tua arma un 'fucile economico'?« gli domandai.

"Lui emise un sospiro. «E va bene, se vuoi fare conversazione e fin-

gere di ignorare le cose comuni. Si chiama così perché viene caricato

di frecce avvelenate ad aria compressa e così si risparmia la spesa per

I'esplosivo di cui hanno tanto bisogno altrove.«

J "Stavo per chiedergli dove avessero bisogno di esplosivi e per quale

scopo. quando scoprii che eravamo arrivati ai piedi della montagnola

di cemento e ci trovavamo di fronte a una porta laterale di metallo.

"Il mio compagno toccò la porta e fece scorrere una piccola botola

nel mezzo scoprendo uno schermo fluorescente dietro a essa. Si mise

di fronte allo schermo e parlò: «Numero KH. 32851B4, con un signore

dell 'anno 2007 « .

--La porta si spalancò silenziosamente. Entrammo. Di fronte a noi

c'era un lungo corridoio illuminato con luce indiretta proveniente da

fessure sui lati. Con passo sincronizzato, che mi irritava e che cercavo

inutilmente di rompere, marciammo lungo il corridoio. In fondo svol-

tammo a destra, avanzammo con passo militaresco lungo un altro cor-

ridoio di cemento ed entrammo in una grande stanza.

UUn individuo con la pelle come il cuoio e i baffi guardò su dalla sua

scrivania. «Che cosa vuoi?« ringhiò.

"«Cibo« risposi in fretta.

"«Portagli del cibo« disse rivolto al mio custode. E voltandosi verso

di me: «Siedi«.

"Per terra accanto a me c'era un grosso cubo di gomma rossa. Mi ci

sedetti sopra con cautela. Era un cuscino gonfiato ad aria e ci si stava

magnificamente. L'uomo dietro la scrivania si sporse in avanti, accese

uno strumento che aveva una vaga rassomiglianza con i vecchi regi-

stratori Si lisciò i baffi e mi ispezionò.

"«Nome?« domandò.

U«Professor Glyn Weston.«

"«Professore, eh? Di quale istituto di ricerca?«

"«Prima all'Osservatorio di Glasgow. Da allora ho lavorato nel mio

s laboratorio a circa quindici chilometri da qui.«

"«Non ci sono laboratori nel raggio di venti chilometri« disse lui,

acido.

"«Il mio laboratorio si trovava a nove miglia da qui nell'anno 2007«

ribattei ostinato.

"«Nt~l 2nn7! Ouanti anni hai allora?«

"«Da un certo punto di vista ho superato da poco i cinquant'anni, da

un altro ne ho quasi cinquecento.«

"«Assurdo!« esclamò. «E evidente che è assurdo!«

"«C'è una spiegazione a quest'apparente assurdità. Nel 2007 ero il

primo uomo ad aver viaggiato nel tempo, cioè nel futuro. Ero arrivato

in quell'anno dal 1998. L'esperimento è stato ripetuto e questo è il ri-

sultato: sono qua.«

"«Ah!« Con l'indice si grattò il lato del naso mentre mi fissava in

modo strano. «La popolarità dei racconti di fantascienza ci ha reso

I argomento del viaggio nel tempo piuttosto familiare. Ma viaggiare

nel tempo non è possibile.«

~'«E perché?« chiesi io.

"«E illogico.«

' «La vita è illogica; i terremoti sono illogici.«

«E vero« convenne. «Sotto certi aspetti è profondamente vero. Ma

puoi rassegnarti all'idea di stringere la mano di tuoi antenati alcuni

secoli prima di essere nato?«

"«No, quello sarebbe veramente illogico. I miei esperimenti mi han-

no dimostrato che il tempo può essere percorso soltanto in una dire-

zione, e cioè in avanti, nel futuro. Non può esservi ritorno, nessuna re-

trocessione nel passato, neanche per la frazione di un secondo «

"Si alzò in piedi, si allontanò dalla scrivania verso una libreria ad

angolo, cercò a lungo tra le file compatte di volumi e tirò fuori un gros-

so tomo nero. Ne sfogliò rapidamente le pagine. ~oltandosi verso di

me, col libro aperto in mano, cominciò a interrogarmi. «Qual era la

popolazione di Bakewell nel 2007~«

"«Non posso risponderti« replicai. «Ho trascorso pochissimo tempo

nel 2007. Ma nel 1998 era di circa 4500 persone.«

"«Uhm. Chi era il premier della Gran Bretagna?«

~ « Richard Grierson. «

"«Giusto! Clair trasvolò la Manica. Chi progettò il suo razzo?«

"«Il ricercatore aeronautico tedesco Fritz Loeb.«

"«Giusto di nuovo!«

"«Ascolta« lo supplicai «Se quella che hai lì è una specie di enciclo-

pedia cerca sotto la voce 'tempo' e guarda chi scrisse libri sull'argo-

dSi inumidì un dito e cominciò a cercare tra le pagine del suo libro.

Lo appoggiò sulla scrivania e ne afferrò un altro cercando anche tra le

pagine di quello. Ne consultò altri quattro prima di trovare quello che

voleva.

a«Eccoci qui. A proposito, io sono il capitano Henshaw« aggiunse,

come per un ripensamento. «Fammi vedere... Schweil, Herman, filo-

sofo olandese 'Der Vattelapesca'; Schweil di nuovo con un altro libro-

McAndrew, Fergus, 'Le coordinate spazio-tempo'; di nuovo McAn-

drew, 'La relazione tempo-movimento'; Weston Glyn... bene, che mi

venga un colpo! Accelerazione atomica nella corrente del tempo'; di

nuovo: Weston, Glyn, 'La teoria di Schweil-McAndrew semplificata'.

Un altro e un altro ancora; uno, due, tre, quattro, cinque, sei! Glyn We-

ston: sei tu!«

"«E posso provarlo« dissi, estremamente soddisfatto che fosse regi-

strata la mia opera per cinque secoli.

"«Come?« chiese il capitano Henshaw.

"«La mia camera del tempo è in attesa di una tua ispezione in un

luogo che ti posso descrivere come il campo di Wright. Si trova a un'o-

ra di cammino da qui.«

"Una porta alla mia sinistra si aprì all'improvviso. Comparve un uo-

mo in uniforme che spingeva un carrello di scintillanti tubi metallici

montati su rotelle con pneumatici a forma di ciambella. Manovrava il

carrello con destrezza e, girandolo di fronte al mio sedile, sollevò un

vassoio ricolmo dal piano superiore e, con l'aria indifferente di un

esperto prestigiatore, tirò fuori quattro gambe telescopiche dal fondo.

Sistemato il congegno per bene, spiegò una tovaglia e si inchinò con

un sorriso impudente.

"«Devi aver fame dopo cinque secoli di astensione!« disse. E lan-

ciando un ghigno verso Henshaw marciò fuori della stanza.

U«Per essere del tutto sincero con te« disse Henshaw, mentre comin-

ciavo il gradito pasto « la tua storia è troppo ridicola perché le si possa

credere, nonostante le prove che hai da offrire. Adesso non pensare che

io voglia darti del bugiardo, perché non è così. Tutto quello che posso

dire è che intendo sospendere il mio giudizio sulla vicenda finché non

avrò avuto l'opportunità di ispezionare questa tua cabina magica, e

L~ ho intenzione di andare a vederla subito dopo aver finito il mio turno

di servizio, fra due ore."

« Sarai il benvenuto« borbottai con la bocca piena, agitando la for-

chetta nell'aria.

" « Dopo che avrò ispezionato il tuo aggeggio farò un rapporto a Man-

chester. Saranno i miei superiori poi a decidere come trattarti.«

"«Suona come una minaccia« osservai masticando rapidamente.

"«E, giusto nel caso che la tua storia sia vera sotto ogni aspetto, c'è

qualcosa che vorresti sapere?«

"«Sì« risposi trafiggendo una patata. «Dove sono?«

"«Ti trovi all'interno del N. 37 Fortezza di intercettazione.« Si al-

- lontanò dalla scrivania e cominciò a misurare la stanza a passi.

[ "«N. 37 che?« domandai con improvvisa energia.

"«Fortezza di intercettazione« ripeté. «Siamo in guerra.«

"«In guerra« feci eco debolmente.

L "«La guerra più vasta e feroce che il mondo abbia mai conosciuto

C'è da cinque anni ormai, e sembra che durerà per i prossimi cinque

La decima parte della popolazione della terra è sata spazzata via, can-

cellata. Metropolis, che ai tuoi tempi si chiamava 'Londra', non esiste

più se non come un enorme ammasso di mattoni a pezzi, tegole e ce-

mento che custodisce le ossa di quelli che aveva ospitato in vita. Se tu

sei in grado di viaggiare nel tempo come dici vivrai abbastanza da

maledire l'invenzione che ti ha precipitato in quest'epoca.« L'espres-

sione di Henshaw si fece amara, la voce rauca.

"«Contro chi sta combattendo la Gran Bretagna?>~ domandai. Mi ero

ormai quasi dimenticato della cena.

"aNon c'è nessuna Gran Bretagna« rispose Henshaw. «Quel nome fu

abbandonato due secoli fa. E non c'è neppure alcun Impero britanni-

co. Ora ci troviamo in Inghilterra, uno stato indipendente che fa parte

del Mondo Bianco, proprio come la Scozia, I'Irlanda, I'Australia, la

Germania, la Russia e tutti gli altri che £anno parte del Mondo Bianco.

Oggi la Terra si divide solo in tre parti: il Mondo Bianco, il Mondo

Giallo e il Mondo Nero. Il Mondo Nero è il più piccolo e il più insignifi-

cante dei tre. Comprende le cosiddette razze nere ed è neutrale, per il

momento. Il Mondo Bianco e quello Giallo si stanno decimando l'un

l'altro per imporre il proprio diritto a riprodursi senza riguardo per lo

spazio disponibile. Ma sto disturbando il tuo pasto. Per favore, finisci

di mangiare e io ti porterò nella sala del teleriproduttore. Là ti potrò

mostrare qualcosa della guerra.

''Con la mente turbata da un nugolo di pensieri passeggeri, mangia-

vo in silenzio mentre Henshaw si muoveva irrequieto davanti alla li-

breria, tirando fuori volumi e rimettendoli al loro posto. Poi la cena

terminò. Bevvi l'ultimo sorso d'acqua, sgranocchiai l'ultimo fram-

mento di biscotto e mi alzai. 3

"Henshaw fece cenno verso la porta dalla quale eravamo entrati. La

attraversammo, percorremmo un lungo corridoio, oltrepassammo

un'altra porta su per una scala a chiocciola e un altro corridoio al ter-

mine del quale ci ritrovammo in una lunga stanza rettangolare pro-

prio sotto il tetto della fortezza.

U~Questa è la stanza del teleriproduttore« disse Henshaw."

--I muri e il pavimento della stanza erano ingombri di una massa di

strumenti e apparecchiature. Quattro uomini si davano da fare in quel

guazzabuglio, occupati in varie attività, mentre nel lato più distante

altri due erano seduti a quello che mi parve un quadro dei comandi di

qualche genere. L'oggetto principale era un grande disco di vetro fissa-

to in una cornice di metallo al centro del pavimento. Il disco era leg-

germente inclinato rispetto all'asse orizzontale, aveva una superficie a

specchio e somigliava moltissimo ai riflettori astronomici dei miei

tempi.

"Henshaw tirò fuori una sedia da qualche parte. Dopo averla siste-

mata vicino allo specchio, mi invitò a sedere e poi raggiunse gli uomi-

ni al quadro di comando e tenne con loro una breve conversazione.

Tornò indietro e si fermò accanto alla mia sedia.

"«Il teleriproduttore risulta dall'aver permesso agli sperimentatori

dilettanti sulle onde corte di giocare con la televisione. E dawero

troppo complicato spiegarlo qui ora. Diciamo che viene diretto un

raggio al cielo che trapassa gli strati di Heaviside e Appleton e rimbal-

za sulla strato di Grocott, a un'altitudine di circa milleduecento chilo-

metri. Il raggio poi torna alla terra e cattura la scena nel punto di im-

patto. Rimbalza tutto intorno alla terra, registrando la scena ovunque

vada il raggio a colpire; la prima impressione è la più forte e quando

raccogliamo di nuovo il raggio non abbiamo grosse difflcoltà a sinto-

nizzarci fuori dalla confusione delle scene sottostanti, lasciando le pri-

me chiare e nitide. In questo momento gli operatori stanno cercando

di angolare il raggio in modo da darci una visuale di Metropolis. I ri-

sultati doYrebbero arrivare da un momento all'altro.«

"Mentre stava ancora parlando il disco a specchio si animò tutto di

un colpo. Non fu preceduto da alcun offuscamento. Un momento pri-

ma la superficie era completamente vuota tranne che per il luccichio,

un momento dopo mostrava una scena con sorprendente chiarezza.

Mi sporsi in avanti e guardai dentro il disco.

"Una strada devastata, butterata di crateri frastagliati, attraversava

un'area piena di cumuli di macerie. Per quanto guardassi attentamen-

te, non riuscii a cogliere un solo posto dove due mattoni fossero ancora

attaccati, né potei vedere un solo mattone intatto. La scena conserva-

va un'atroce uniformità, un miglio quadrato di patetica evidenza.

,~ "Niente si muoveva in quella lugubre scena, non un solo passo dove

dieci milioni di persone avevano camminato; nessuna voce si levava

dove un tempo i bambini gridavano durante i loro giochi. Mi venne un

F groppo alla gola, quando mi resi conto che Metropolis, la vecchia cara

Londra, non esisteva più. Era ormai solo uma grossa cicatrice grigia

Sopra quella che io mi immaginavo ancora come la verde dolce faccia

L della terra; una cicatrice sull'anima dell'umanità.

"L'immagine sullo specchio mutava quando gli uomini nel fondo

della stanza toccavano i comandi. Il lato più vicino della strada sem-

brava sollevarsi verso di me quasi per mostrarsi in maggior dettaglio.

Scorsi delle ossa che sporgevano da un ammasso di sudiciume a circa

cinquanta metri da un enorme cratere. Vicino alle gambe c'era lo

scheletro appiattito di un cane. Henshaw chinò il capo in avanti, si

t strOfinò il mento con un rumore aspro e stridulo e parlò.

a«Hai di fronte uno degli incidenti più strazianti della guerra. Il ca-

ne si è rifiutato di abbandonare il padrone colpito. Gli è rimasto vicino

fino a lasciarsi morire di fame. Migliaia di persone hanno assistito al

suo lungo atto di devozione protrattosi nel tempo attraverso il teleri-

produttore, imprecando e versando lacrime impotenti. Il tenente d'a-

viazione O'Rourke, disubbidendo agli ordini, ha fatto un estremo ten-

tativo di salvare il cane quando ormai il ventre gli era scomparso sotto

le costole. Ma è stato abbattuto da una squadriglia dei Gialli. Il suo ae-

roplano a reazione è nella polvere dell'Arco di Marmo. Sia resa grazia

a un prode gentiluomo!«

"«I Gialli stanno vincendo?« domandai col cuore a pezzi.

"~<No, non direi. La macchina da guerra ha ormai raggiunto uno sta-

dio di perfezione tale che nessuno vince e tutti perdono. Metropolis, o

ciò che ne rimane, non è in condizioni peggiori di Kobe o Tokio. La

campagna consiste in una serie di assalti distruttivi seguiti da rappre-

saglie altrettanto distruttive. Non ci sono state battaglie prolungate

come nel passato, ma solo un assestamento di rapidi colpi da parte

dell'uno e dell'altro schieramento. La fine di questa grande città è il ri-

sultato di uno di quegli attacchi. La fine di Tokio è stata la nostra ri-

sposta. Vieni, andiamo a dare un'occhiata a questa tua camera del

tempo.«

NMi alzai, lasciammo la stanza del teleriproduttore, tornammo in-

dietro lungo i corridoi e giungemmo alla porta di metallo. Questa si

aprì silenziosamente quando ci avvicinammo, rivelando un piccolo

veicolo aerodinamico che attendeva sulla strada. Henshaw faticò a si-

stemare le sue lunghe gambe sotto il volante, mentre io mi sedevo al

suo fianco. Dopo aver sbattuto la portiera al suo fianco, Henshaw pi-

giò un bottone che spuntava dal mozzo del volante. Dal cofano fuoriu-

scì un ronzio regolare e partimmo.

"«Non prendere le immagini della televisione troppo a cuore« disse

Henshaw manovrando il volante con destrezza. «Eravamo stati av-

visati di quell'incursione dal nostro servizio di spionaggio e siamo riu-

sciti a evacuare in tempo i nove decimi della popolazione. Il decimo ri-

manente è stato cancellato, ma i bollettini di morte non sono stati così

catastrofici come le immagini farebbero pensare.«

a«Che cosa ha causato la distruzione?« chiesi.

a«Bombe. Bombe altamente esplosive sganciate da aerei nella stra-

tosfera e anche da missili che volano a grande altezza. Le prossime in-

cursioni saranno su Manchester o Sheffield, poiché queste sono ormai

le città meridionali più importanti e sono anche centri dell'industria

degli armamenti. La nostra fortezza fa parte della linea di fortificazio-

ni posta sulle colline del Derbyshire per proteggere Manchester. Non

posslamo impedire un'incursione, ma possiamo infliggere una dura

lezione con le nostre bombe a razzo e i nostri aerosiluranti, che volano

altissimi, rifornendosi alla Stazione Nord di Radiazione.«

"«Il continente intero deve aver cercato di eliminarla!« azzardai.

|~ a«Non tanto quanto penseresti« ribatté lui. «Le forze opposte hanno

diretto le loro azioni di ritorsione contro quelli che considerano centri

nevralgici del nemico; così Inghilterra e Giappone sono i bersagli pre-

feriti. Nessuno dei due contendenti mantiene una flotta aerea per sco-

pi difensivi, ma per le rappresaglie. Ecco perché queste fortezze sono

molto importanti: si tratta di una delle poche concessioni alla difesa

strappate alle autorità costituite, che invece adorano la politica del-

l'attacco, attacco e ancora attacco.«

"Sterzò, evitò un muro di pietra nella curva e continuò con voce

sempre più amara: «Non voglio pensare alla prossima incursione. Da

varie fonti ci è giunta notizia che i Gialli hanno messo a punto una

bomba disintegrante, il bel risultato di qualche scienziato ficcanaso

che impegna il proprio tempo studiando il problema di come mante-

nere la radiazione solare. A quanto pare la bomba cade, scoppia, scon-

volge la stabilità della materia circostante e ne causa l'estinzione.

Questo processo non si prolunga indefinitamente, ma solo finché nella

bomba dura l'energia originaria. Il processo mi è stato ~lescritto come

un 'riassestamento dell'equilibrio elettronico' e credo che avvenga a

una tale velocità che soltanto i migliori velocisti potranno scampar-

la«.

aL'auto salì sulla cresta della collina. Un campo apparve in vista.

Contemporaneamente scorgemmo la camera del tempo. Sfrecciammo

verso di essa lungo un leggero pendio in discesa, imboccammo una sa-

litina altrettanto leggera e ci fermammo accanto al muretto dal quale

avevo avvistato in lontananza la fortezza. Henshaw si contorse sul se-

,~ dile, tirò fuori un orologio e portò lo sguardo al quadrante.

"«Quattro minuti. Non male considerato lo stato della strada.«

"«Hai tenuto una media di quasi cento chilometri all'ora« gli dissi.

«Che razza di motore è questo?«

"«Elettrico. Funziona con pile Freimeyer ad alta potenza che utiliz-

~Z zano placche in lega d'argento e tantalio.« Con un balzo oltrepassò il

murettO e fissò l'oggetto in mezzo al campo. «Allora quella è la cabina

magica, eh? Andiamo a metterci una monetina.«

"Scavalcai anch'io il muretto, montandoci sopra. Insieme ci av-

viammO verso la camera. Henshaw si lisciava i baffi, sul volto aveva

un~espressione di intenso interesse. Le zolle erano umide e scivolose

sottO i nostri piedi. Avevamo percorso metà strada verso la camera

t quandO un aspro fischio percorse le colline e riecheggiò nelle valli.

' Henshaw si fermò di colpo. Il fischio cessò, poi seguirono sei brevi col-

pi di sirena.

L "Henshaw si voltò, mi agguantò per un braccio e mi tirò verso l'au-

to. «Per il bottone di mandarino« ruggì, il volto paonazzo dall'agita-

t Zione. « Un'incursione! Hai sentito la sirena? Dalla fortezza ci segnala-

350 ~ 351

no un'incursione. Dobbiamo tornare immediatamente! Muoviti, per-

dio! Non c'è un minuto da perdere.«

"Corremmo verso il muro. A una ventina di metri da esso scivolai,

barcollai in avanti con le braccia che roteavano impazzite, scivolai di

nuovo e caddi sulla schiena, picchiando talmente forte che rimasi sen-

za respiro. Henshaw, che si trovava una mezza dozzina di passi più

avanti, tornò indietro e mi afferrò per le mani pronto a tirarmi su.

"~Guarda!« ansai debolmente, gli occhi che guardavano sbarrati

verso il cielo. <~Guarda!«

"A circa un miglio di distanza, diretta ad alta velocità verso di noi,

avanzava una macchina aerea color oro a forma di proiettile, piccola,

con ali tozze che spuntavano ai lati, una lunga coda di fuoco che fuo-

riusciva dal retro. Aveva un aspetto sinistro, terrificante. Mi si raggelò

il sangue.

U«Per l'Ade! Un aereo da ricognizione dei Gialli~ gridò Henshaw.

«Ci ha individuato e vuole divertirsi un po'. Corri come il diavolo. Sia-

mo già morti.«

UCosì dicendo, mi sollevò con un colpo solo e mi rimise in piedi. Mi

aggrappai alla sua spalla. Ondeggiammo come una coppia di ballerini

di lento, scivolammo e finimmo di nuovo a terra. Sembrava che qual-

cuno scuotesse un pezzo di roccia in un colossale barattolo. Si alzò al

cielo un boato; un'ondata di aria calda investì i nostri corpi supini. Ci

rimettemmo in piedi. Il ricognitore ci aveva oltrepassati di un miglio e

stava discendendo in picchiata con un grande cerchio della morte. Il

nostro veicolo era un rottame fumante.

"«Sta tornando verso di noi« strillò Henshaw. «Siamo perduti. Non

abbiamo scampo.«

"«Cielo, aiutami« cominciai, poi mi bloccai: un pensiero mi aveva

colpito. «La camera del tempo! Vieni. Ce la possiamo fare, con un po'

di fortuna. Là saremo al sicuro.«

--Mi voltai, puntai verso il centro del campo, le braccia che spingeva-

no come pistoni, attento a non cadere. Henshaw correva accanto a me,

ansimando, la faccia livida.

Nonostante il ritmo elevato, trovò il fiato per farmi una domanda.

«A che ci serve entrare in quella roba là? La farà solo saltare per aria!

«Aspetta e vedrai!«

«Dietro di noi un rumore sempre più assordante ci riempiva di ter-

rore e ci faceva aumentare il passo. D'un colpo il ricognitore rombò so-

pra le nostre teste seguito dalla sua scia di aria rovente. Il fragore di

un'esplosione ci raggiunse da qualche parte dietro a noi. Henshaw si

guardò alle spalle.

"«Una bomba disintegrante!« gridò. «L'onda si sta avvicinando a

noi rapidissimamente. Corri! Corri! Come non hai mai fatto prima!«

L "Le gambe indolenzite aumentarono ancora la cadenza. La distanza

totale dal muretto alla cabina era di soli cinquecento metri. Ma non

avrei mai creduto che una tale distanza potesse essere così penalizzan-

te. Trenta metri ci separavano dalla camera del tempo; sembravano

3 trenta chilometri. In quest'ultimo tratto la distanza già percorsa si fa-

3 ceva sentire; la coprimmo non di corsa, ma sbilanciati in avanti.

"Henshaw, davanti a me, raggiunse la cabina e si mise a tirare di-

3 speratamente la porta, mentre una sensazione di calore mi penetrava

le gambe da dietro. Henshaw si agitava eccitato tirando invano. Gli

ansimai: «Spingi! Spingi!« e lui cadde a testa in giù all'interno. Una

frazione di secondo più tardi entravo anch'io, vacillando, dalla porta

spalancata, mi girai e vidi la terra che letteralmente si fondeva e anda-

va in ebollizione fino a un metro dal solco. Avevamo fatto appena in

tempo.

"Senza ulteriore indugio, chiusi la porta con un colpo e azionai l'in-

terruttore del congegno del raggio. Lingue di fuoco si levarono in alto

e ci apparvero dalla finestra; un velo di nebbia le cancellò. Il corpo fre-

mette con la sensazione che mi era ormai familiare, e mentre mormo-

ravo una preghiera di ringraziamento, l'intera cabina si accasciò su

un fianco. Picchiai la testa contro una sporgenza del muro. Strinsi di-

speratamente la leva dell'interruttore e persi i sensi.

"Non rimasi incosciente a lungo, o almeno così mi sembrò. Ripresi i

sensi, allungai una mano in cerca dell'interruttore, lo trovai e lo chiu-

t Si.

UQualcuno disse: «Ahi! «.

aMi misi a sedere di scatto. Ero in un letto!

UPotete immaginarvi il mio stupore. Ero in un letto; non c'era il mi-

nimo dubbio. Mi lisciai i vestiti e ne saggiai la consistenza, ne studiai

E la tessitura e mi diedi un pizzicotto. Non c'era dubbio: ero seduto in

Un letto con addosso una camicia da notte di cremisi.

"Un movimento al mio fianco mi indusse a girarmi da quella parte.

Stropicciandomi gli occhi guardai di nuovo. In piedi accanto al letto,

E con un'espressione di cortese premura, c'era un uomo completamente

=- calvo che indossava un pagliaccetto color blu elettrico. Aveva la fronte

Spaziosa, grandi occhi marroni, bocca e mento piccoli, quasi femmini-

li. Da una catenina che portava al collo pendeva uno strumento plac-

Cato che, pensai, doveva essere quello che avevo tirato io e che aveva

E~ cauSatO l"ahi!'.

ULo fissai attentamente. Lui mi osservava placido e silenzioso.

352 ~ 353

"«Dove mi trovo?« chiesi debolmente, ricorrendo alla solita frase

convenzionale.

"«Sei a casa mia nella città di Leamore« rispose l'uomo con una vo-

ce piacevolmente modulata «e l'anno è il 772 per il nuovo calendario

oppure il 34656 per il vecchio. Hai fatto un salto nel vuoto di almenó

32000 anni!«

"«Come fai a sapere che ho viaggiato nel tempo?« domandai.

"«Perché il tuo strumento per viaggiare nel tempo si è materializza-

to dall'aria pura di fronte agli occhi di una cinquantina di cittadini.

Hai scelto il centro di una strada molto trafficata come punto d'arrivo.

Dozzine di persone sono state testimoni del fenomeno che, nel lontano

passato, sicuramente sarebbe stato spiegato come soprannaturale. La

nostra conclusione è stata che tu avevi viaggiato nel tempo: una con-

clusione semplice, dal momento che la vostra impresa è già la seconda

negli ultimi cinquecento anni. E poi il tuo compagno ce I ha conferma-

to...«

a«Henshaw!« lo interruppi, rendendomi conto che non avevo fatto il

viaggio da solo. «Henshaw dov'è?«

"«Si sta facendo asportare i peli« fu la sorprendente risposta.

"«Asportare i peli! I peli! Perché? Che diavolo? Ricaddi in uno stato

confusionale quando la conversazione prese questa piega assurda. Mi

diedi un altro pizzicotto per assicurarmi di essere sveglio. L'uomo con

la tuta blu sorrise, notando l'effetto che avevano avuto le sue parole.

Sedendosi sul bordo del letto, si abbracciò un ginocchio e continuò:

«Il tuo amico sembra essere una persona abituata a prendere decisioni

veloci. Non erano passati trenta minuti da quando il tuo congegno per

conquistare il tempo aveva fatto la sua teatrale comparsa che lui ave-

va già scoperto che, secondo le convenzioni di adesso, i peli vengono

considerati antiestetici. Sembra che sia deciso a tutti i costi ad appari-

re gradevole, e quindi se li sta facendo estrarre con un metodo indolo-

re. Gli stiamo togliendo i baffi e i capelli. La barba dovrà crescere an-

cora un po' prima che possiamo intervenire anche su quella«.

"«Bene, al diavolo!« esplosi. «Henshaw, quel deficiente! Lo sparo

molti secoli più in là e che cosa gli viene in mente? Corre in un salone

di bellezza lasciandomi in un letto a morire.~, Per l'indignazione mi al-

zai dal letto. «E per di più in una camicia da notte rossa!«

"11 mio interlocutore scoppiò a ridere forte. «Non c'è timore che tu

possa morire per ora« mi rassicurò. «Ti sei preso un brutto colpo, ma

ti riprenderai molto presto. Quanto alla camicia da notte, come tu la

chiami, te l'abbiamo messa dopo averti fatto un bagno, di cui avevi

molto bisogno; nel frattempo ti abbiamo cercato dei vestiti adatti...«

"«Cosa c'è che non va nei miei vestiti?«

"«Sono stati bruciati. Anche quelli del tuo amico sono stati bruciati.

Il contenuto delle tue tasche è stato disinfettato; lo stesso per la tua ca-

mera del tempo. Questo in cui sei approdato è un mondo molto igieni-

co. Non abbiamo obiezioni al fatto che tu venga qui, ma non ammet-

tiamo nel modo più assoluto le enormi quantità di germi di tutte le

specie che vi portate appresso e che noi abbiamo faticato tanto a eli-

minare. Ci piaci, ci piace anche il tuo amico, ma non ci piacciono i vo-

stri passeggeri.«

a«Spiacente« dissi mortificato.

a«Di nulla« rispose lui, rilasciando il ginocchio e alzandosi in piedi.

«Forse sono stato troppo brusco. Sono io che mi devo scusare.« Attra-

versò la stanza e pigiò un bottone. Un pannello del muro scorse silen-

ziosamente verso il basso. Dietro, in un vano, c'era un guardaroba.

Dall'interno trasse fuori un completo confezionato con una stoffa che

rassomigliava alla seta e lo buttò sul letto.

"Togliendomi con segreta soddisfazione la camicia da notte rossa,

cominciai a indossare il completo. La stoffa morbida, quasi delicata,

mi avviluppò piacevolmente il corpo lavato e rinfrescato. Non c'erano

bottoni, nel vestito. Tutto si chiudeva con una specie di chiusura a

lampo perfezionata. Mi infilai un indumento dietro l'altro, li chiusi

bene e alla fine mi piazzai di fronte a uno specchio a rimirarmi accon-

ciato con quella tuta verde smeraldo, calze verdi e sandali dello stesso

colore, un copricapo a tricorno messo di sghembo sulla testa. Fissai lo

specchio e pensai che stesse riflettendo il più grande idiota vivente.

a«Ti piace?« mi chiese lui.

a«Non c'è male. Ora mi manca solo il gatto.«

a«ll gatto?« ripeté perplesso.

"«Sì. Assomiglio al garzone Dick Whittington.l«

"«Dick Whittington« balbettò.

"«Non puoi conoscerlo; lascia perdere.« Provai il tricorno con un an-

golo diverso; il risultato fu abominevole. Alla fine mi rassegnai. Se tut-

ti si vestivano in quel modo, un idiota in più non sarebbe stato notato.

"«Bene, sono pronto, signor... signor...«

a«Mi chiamo Ken Melsona« rispose.

"«E io Glyn Weston.« Ci stringemmo la mano. Melsona aprì una

porta, mi fece strada lungo un corridoio fino a un'altra porta, che

sprofondò quando pigiò un bottone. Fuori c'era una strada. Conscia

del mio abbigliamento, esitai. Melsona, vestito come un Piccolo Bam-

bino Azzurro, uscì arditamente. E io dietro di lui."

' Dick Whittington (morto a Londra nel 1423), ricco mercante di Londra e sin-

daco della città per tre mandati, è anche il personaggio di una popolare leggen-

da inglese. Di lui si racconta che era un semplice garzone e che fece un'enorme

fortuna mettendo in vendita l'unica cosa che possedeva: un gatto, che fu acqui-

stato da un sultano il cui regno eta infestato di topi.

--Di fronte a me si aprì una scena talmente inaspettata che mi fermai

di colpo a bocca aperta. Tra i marciapiedi scorreva una strada semo-

vente, piana, morbida in superficie, che fluiva regolarmente da ovest

verso est. Era divisa in tre sezioni, che andavano tutte nella medesima

direzione, quelle esterne a circa dieci chilometri all'ora, quella di mez-

zo a circa venti. Centinaia di persone abbigliate con colori vistosi sta-

vano in piedi sulla strada e chiacchieravano o passavano da una corsia

all'altra, tutti trasportati uno dietro l'altro come una batteria di ber-

sagli mobili in un tiro a segno. L'ampiezza totale della strada era di

circa tre chilometri; la fiancheggiavano marciapiedi fissi con disegni a

mosaico.

"In entrambi i lati sorgevano ville in mezzo a lussureggianti giardi-

ni ben coltivati. Ogni trenta metri, dai marciapiedi spuntavano piante

ornamentali di ogni dimensione e colore, potate con cura per dar loro

le forme più disparate. Era veramente uno spettacolo grandioso, il mi-

gliore che avessi mai visto. La strada si meritava il nome del viale del

Paradiso.

aMelsona si diresse verso la corsia più vicina della strada semovente

e mi avvertì di guardare nella direzione del movimento, mentre vi

montavo sopra. Ci trasferimmo sulla corsia centrale e, stando in piedi,

I'uno a fianco all'altro, scorremmo in direzione est. Ero contento come

un bambino alla fiera.

UaFacciamo un paio di fermate« suggerì la mia guida. «Poi possia-

mo andare a prendere il tuo compagno, ehm... Henshaw hai detto che

si chiama, non è vero?«

"Borbottai di si, mentre lo sguardo vagava indaffarato sulla scena e

accompagnava la folla di passeggeri della strada, con la mente sedotta

da tutte le novità.

"Scorremmo per un buon chilometro e mezzo prima che Melsona,

dopo aver richiamato la mia attenzione dandomi di gomito, trasbordò

con destrezza sulla corsia lenta a destra, la attraversò e approdò al

marciapiedi. Con me dietro, tagliò dritto verso un centro commerciale

di una mezza dozzina di negozi, ed entrò in uno che esponeva un am-

masso di merce che non ebbi il tempo di esaminare. Un uomo e una

donna, tutti e due vestiti con colori sgargianti e tutti e due calvi, si fe-

cero avanti premurosi quando noi entrammo.

"aPer cortesia, servite questo signore~ disse Melsona indicando me

con aria protettiva.

a«Ma certamente, è un piacere« disse con affettazione il commesso

uomo strofinandosi le mani con un sapone invisibile. c<Che cosa desi-

dera il signore?«

" « Soldi ! « dissi in fretta.

"«Soldi!« pappagallò. «Che strana richiesta! Si può avere, natural-

mente, ma deve fare domanda a un collezionista.

"«E allora come diavolo posso...«

J "«E tutto regolare« intervenne Melsona. «Tutto quel che devi fare è

chiedere quello che vuoi. Se il negozio ce l'ha sarai accontentato. Se

non ce l'ha, sicuramente qualche altro negozio ne è fornito.«

"«Chiedete e vi sarà dato« recitai. L'idea mi sembrava folle, ma chi

ero io per contestare il sistema economico di quell'epoca? 4Sigarette«

dissi fiduciosamente.

UNon avevo ancora finito di parlare che la commessa schizzò verso

uno scaffale, battendo di un passo il suo collega, acchiappò una dozzi-

na di pacchetti di misura e forma assortite e li mise sul banco. Io assi-

stevo stupefatto e deliziato. Erano pacchetti di sigarette. Ne presi uno

dei più grossi. La donna desiderava sapere se poteva servirmi qualco-

s'altro. Chiesi un portasigarette e lo ebbi. Le chiesi allora un accendi-

no elettrico. Mi portò una copia dell'oggetto appeso al collo di Melso-

na e che io avevo scambiato per un interruttore. Dopo mezz'ora, in

quel negozio uscii fuori convinto di essere finito a Utopia.

"Ci fermammo sul marciapiedi. Aprii il pacchetto di sigarette, mi

misi il tanto sospirato rotolino cilindrico tra le labbra e Melsona mi

mostrò come usare l'accendino. Aveva la forma di una pigna allunga-

ta, di metallo e con la solita catenina. Bastava premerlo leggermente e

nella parte più larga si apriva un coperchietto scoprendo di sotto un fi-

lamento incandescente. Mi accesi la sigaretta e inalai il fumo fragran-

te con una soddisfazione indescrivibile.

"«Quanto dura questo qui?~ domandai osservando incuriosito la li-

nea fluida dell'accendino.

"«Tutta la vita« rispose Melsona. «E...« D'un tratto guardò in alto

L mentre un immenso frastuono rimbombò nell'aria dalle nuvole.

t aGuarda, sta passando un aeroplano di linea transglobale.«

"Sopra di noi veleggiava una sorta di titanico sigaro, color argento,

avviluppato dalle fiamme, imponente. Le circostanze rendevano diffi-

cile valutarne la giusta prospettiva. Stimai che il mostro dovesse esse-

ir re lungo quasi un chilometro e mezzo, con un diametro di circa cento-

cinquanta metri. Lassù in alto sopra le nuvole sottili, quasi trasparen-

ti, era veramente uno spettacolo maestoso, con quel suo naso conico

puntatO contro il sole che tramontava a occidente, mentre la coda vo-

- mitava dardi di fuoco che si allargavano, impallidendo fino a dissol-

verSi in un enorme ventaglio di vapore.

"Viaggiava a un'altezza di almeno dieci chilometri, ma le sue di-

mensioni e la straordinaria limpidezza dell'aria rendevano chiara-

L mente visibili le file degli oblò sui suoi due lati. Travolgendo tutta la

~ Città di Leamore con un bombardamento sonoro, sfrecciò rapido verso

ovest, facendo apparire, con la sua mole immane, come formiche gli

uomini che lo avevano progettato.

"«Che te ne pare?« chiese Melsona con orgoglio.

N«E stupendo... Meraviglioso!«

"Un grido richiamò i nostri sguardi alla strada. Un uomo sulla cor-

sia più lontana da dieci chilometri all'ora ci faceva disperatamente se-

gno, si precipitò verso di noi, saltò sul bordo della strada di mezzo

quella da venti chilometri, ed eseguì una mezza piroetta. Con la stradá

che sfrecciava in avanti sotto di lui cominciò a rotolarsi in tutta la sua

altezza nell'opposta direzione, falciando dozzine di passeggeri. Sem-

pre rotolandosi, uscì fuori da una mischia di corpi supini, attraversò

la corsia e tentò di rimettersi in piedi proprio sul bordo.

USi tirò su giusto per la frazione di un secondo, con un piede sulla

corsia di mezzo e l'altro su quella da dieci chilometri; poi la differenza

di velocità lo sopraffece. Scelse quella da dieci chilometri e rovinò pe-

santemente su di essa. Con gambe e pancia all'aria ci oltrepassò men-

tre noi lo osservavamo esterrefatti. Quando fu a circa cinquanta metri

riguadagnò la stabilità del marciapiede con una repentina mossa

acrobatica, si voltò e corse verso di noi.

"Quando si avvicinò un po' di più mi accorsi che aveva la carnagio-

ne più scura della maggior parte delle persone che avevo visto. La sua

tuta era di un orribile color giallo fino alla vita e nero dalla vita in giù;

le calze nere, le scarpe nere con bordini gialli. Calcato bene in testa

aveva un cappello giallo a cupola bassa e con l'ala rialzata dal quale

pendeva una nappina gialla che gli ciondolava sull'orecchio sinistro.

"Ci raggiunse col volto raggiante di piacere e mi diede una bella

pacca sulla schiena. Lo osservai attentamente. Aveva tanti capelli

quanti un uovo.

U«Non ci posso credere« dissi io arcigno.

"«SLento a crederci quando ti guardo« ribatté. '

U«E allora come hai fatto a riconoscermi?«

"«Perché sei l'unico damerino di tutto il vasto mondo« Fece un pas-

so indietro e mi ispezionò da capo a piedi. «L'unico autentico Robin

Hood, come è vero che sono qui e respiro. Ti piace la mia tenuta?« Al-

largò le braccia e davanti a noi fece una piroetta.

U«Preferirei non dovermi esprimere« dissi, volgendo lo sguardo da

quel giallo biliare. «Le si può rendere giustizia solo con parole volga- i

"«Invidioso!« commentò, ridendo. «Personalmente ritengo che un

simile abbigliamento dia colore all'esistenza. Se dovessi trovarci un

difetto direi solo che rende difficile distinguere le dame dai cavalieri.

Dunque sei andato a fare acquisti, eh?« Mi piantò un dito sull'accendi-

no appeso al collo. «Che ne dici di questo mondo senza denaro?«

U«Visto che sei al corrente del denaro, o della mancanza di esso, è

evidente che anche tu sei andato a fare sPese« fu il mio commento.

U<~Per niente« ci rassicurò. «Ho fatto il gesto di pagare il parrucchie-

re e quello è rimasto come fulminato. Allora ho saputo del denaro. Mi

ha confidato che avrebbe desiderato ardentemente possedere una mo-

neta che avevo sgraffignato quando mi hanno preso i vestiti per bru-

ciar;i. Quando ha visto che cosa avevo ha fatto tanto d'occhi: diciotto

dollari e quarantasette centesimi di buon vecchio denaro Bianco.«

" « Denaro Bianco? « domandai io.

U«Certo. Pensavi che non avessi denaro della mia epoca? Ebbene,

quel tipo ha cominciato a rovistare nel gruzzolo e ne ha tirato fuori

una moneta da mezzo dollaro che era la più vecchia tra quelle che ave-

vo là. Era contento come un cane con due code. Gli ho chiesto che cosa

avesse intenzione di fare con la moneta. Non indovineresti mai che co-

sa mi ha risposto.«

U«Che cosa?« lo incoraggiai.

"~<Non sono riuscito a decidermi se sono io a essere mentalmente de-

~iciente o se tutti quanti sono matti, all'infuori di me. Che tu ci creda o

no, mi ha detto che voleva scambiare quel mezzo dollaro con un pesce

di ~etro.«

U«Un pesce di vetro!« gli feci eco, incredulo.

U«Ora che diavolo ci fa uno con quello?« continuò Henshaw. «Un pe-

sce vivo sarebbe già stato abbastanza insensato, un pesce morto sareb-

be stato meglio, ma un pesce di vetro...«

"«C'è una spiegazione« s'intromise Melsona. «Vedete, questo mondo

ha raggiunto un tale progresso che uno dei problemi più grossi è come

occupare la gente. Non c'è sistema monetario; si può ottenere tutto,

basta chiederlo. Tutto il lavoro, nell'industria e simili, vien fatto da

volontari, ma i nostri sistemi sono talmente efficienti che non c'è mai

abbastanza lavoro per tutti quelli che lo vorrebbero. Gli abitanti di

questo mondo devono riempire una grande quantità di tempo libero

in un modo o in un altro; di conseguenza il lavoro, un tempo una male-

dizione, ora è un dono del cielo.

"«Come trascorrono il tempo i nostri cittadini? Ve lo dico io. Un po'

menO della metà si dedica alla scienza, un po' più della metà alle arti.

La gente inventa o crea cose, e ognuno cerca di personalizzare la pro-

L pria opera o di renderla superiore a quella degli altri.

"«La gente mette a disposizione di coloro che li dovessero richiedere

i prodotti non necessari della sua attività artigianale, esponendoli nei

negozi~ La vergogna più grande per ogni cittadino è quando un suo

prodotto rimane in attesa per mesi in un negozio. Il trionfo maggiore

| ~ quando ci sono talmente tante persone che richiedono una sua opera

che deve essere ceduta con un'estrazione a sorte.

"«La gente che colleziona le opere di qualche artista particolare o

che desidera a tutti i costi acquisire uno dei suoi lavori ha tre modi per

i~ farlo: olo ottiene da un ne~ozio chiedendolo, o, se l'artista è così famo-

so che le sue opere non arrivano neppure al negozio, può iscriversi di-

rettamente presso l'artista all'estrazione a sorte dei suoi la~rori, o, se

anche l'artista è una collezionista, può barattarlo. Ciò spiega l'inten-

zione del vostro uomo di scambiare una moneta con un pesce di vetro.

Le monete nella nostra era non sono rare, sono assolutamente scono-

sciute e, pertanto, per un collezionista, di incalcolabile soddisfazione.

Uno dei più importanti collezionisti di questi vecchi gettoni per il

commercio è Torquilea, che è anche il migliore artista del vetro sulla

Terra. Mi piacerebbe mostrarvi un esempio della sua opera. Venite con

me.«n

--Lasciandoci guidare da Melsona procedemmo lungo il marciapiede

nella direzione opposta del movimento della strada. Mantenemmo

una vivace conversazione consistente essemialmente di domande di

Henshaw e mie e delle risposte di Melsona. Apprendemmo che un si-

stema di strade semoventi si irradiava come i raggi di una ruota dal

centro di Leamore verso la periferia, che le strade andavano una fuori

e una dentro la città altemativamente. Così chi voleva spostarsi nella

direzione opposta della strada o camminava sui marciapiedi, o taglia-

va attraverso una strada laterale verso la strada successiva. Questa

strada va verso il centro; se, per esempio, Melsona sta tomando a casa

dal centro e non gli va di camminare, non deve far altro che prendere

la strada accanto diretta fuori città. Vuol dire che entrerà in casa dalla

porta sul retro. Tutte le strade larghe più di trenta metri erano semo-

venti, le strade più strette erano fisse. L'intero sistema di trasporti era

assurdamente semplice.

"Melsona ci spiegava che velivoli e auto private esistevano in gran ~

numero, ma non era concesso loro di entrare o sorvolare le città. Il lo-,

ro raggio d'azione era limitato ai collegamenti tra città. Avevamo ap-

pena oltrepassato un caffè all'aperto. Non andammo molto oltre, di

comune accordo ritomammo sui nostri passi, entrammo e chiedemm°

un tavolo.

"«...e quindi soltanto ai grandi aeroplani di linea diretti agli aerO- ~

porti delle città è concesso di sorvolare le aree abitate« disse Melsona .

concludendo la spiegazione.

"«Cosa prendete?«

"«Bistecca« disse Henshaw.

"«Bistecca? Che roba è?«

N«Came« disse Henshaw. Ieccandosi le labbra. e allentando la cint

,~ ra della tuta. Sul volto di Melsona apparve un'espressione di ineffabile

~ disgusto.

F "«Stavo solo scherzando« lo rassicurò Henshaw prontamente.

Prenderò qualsiasi cosa tu mi suggerisca.«

"L'espressione di Melsona dava a vedere che non pensava che lo

scherzo fosse dei migliori. Scarabocchiò qualcosa sul taccuino incor-

niciat° al centro del tavolo, schiacciò il pedale che sporgeva dal pavi-

mento- Il tavolo sprofondò di sotto lasciandoci a bocca aperta a con-

templare il vuoto apertosi ai nostri piedi. Dopo una breve attesa il ta-

volo salì di nuovo e si fissò di fronte a noi con i cibi che avevamo

ordinato sul piano. Cominciammo. Il gusto era strano, ma soddisfa-

cente.

"Alla fine, sentendomi rinato, lasciai il tavolo e, coi miei due compa-

gni, continuai lungo il marciapiede. Mi incantai a pensare quanto fos-

E~ se strano che il mio pasto precedente fosse stato solo poche ore prima

,~ (o era stato mille anni prima?). Avevamo camminato per circa dieci

minuti quando Melsona si fermò così di colpo che, ancora immerso

nei miei pensieri, andai a sbattergli contro. Ci indicò il giardino di una

F~ bella villa.

E~ ~«Qui si trova un bell'esemplare dell'opera di Troquilea« ci informò.

«Venite dentro a vederlo«.

"Senza la minima esitazione spalancò il cancello ed entrò dentro il

E giardino rassicurandoci che la nostra visita interessata veniva consi-

E~ derata assai lusinghiera sia dall'artista, sia dal proprietario. Ci con-

E~ dusse verso un oggetto che si levava nel mezzo del prato. Lo osservam-

mo in silenzio. Era divino; non c'era altro termine per descriverlo.

| "Una massa di marmo colorato, onice, agata e lapislazzuli ingegno-

samente combinati si levava fino a tre o quattro metri di altezza. Su di

essa cadeva una cascata di vetro così realistica che si rimaneva colpiti

dall'assenza di rumore. L'ingegno dell'artista era stato così superbo

che persino le venature della pietra sottostante erano state utilizzate

,~ per creare l'impressione di gorghi appena sotto alla superficie. Ferma-

te nel vetro con una tecnica che non riuscii a capire, erano bolle, om-

bre e vaghi tremolii di luce che simulavano perfettamente i balletti

' dell'acqua.

ULa cascata al fondo si riempiva in mulinelli e spruzzi sulle rocce co-

orate, mentre qua e là gocciolone luccicanti pendevano da fessure e

.~cavità Un paio di salmoni di vetro spiccavano un salto sopra la casca-

~ta. Guardando più da vicino vidi che erano sospesi a mezz'aria da una

~ete di fili. Ma erano stati modellati così accuratamente dalle dita del

~eniO che si stentava a credere che la bacchetta magica di qualche mo-

,~ernO Merlino non li avesse fissati per sempre così quando erano guiz-

~anti di vita.

E Henshaw si levò il suo cappelletto arrotondato e disse: «Di fronte a

UUesto mi levo il carlrello!~.

"«E stato indubbiamente un gran trionfo per Torquilea~ ci raccontò

Mensona. «Non meno di ventisettemila persone hanno partecipato al-

I'estrazione a sorte per aggiudicarsi questo particolare capolavoro.«

"Guardò Henshaw con ardore. «Torquilea va matto per le monete

antiche. Proprio l'altro giomo ho visto uno dei suoi lavori che presto

verrà ceduto a qualcuno. Era una semplice boccia contenente un fon-

do marino in vetro. Alla base c'erano sabbia e ciottoli, mentre sul fon-

do in bella mostra stavano due gamberetti semitrasparenti; da una

piccola roccia cresceva una selva di alghe marine verdi mentre su di

essa si apriva un bell'anemone di mare con i tentacoli distesi. E una ri-

produzione della natura talmente verosimile, talmente meravigliosa

che ci si aspetterebbe di vedere la superficie del vetro incresparsi co-

me un'onda. Torquilea è la persona più felice del mondo a sapere che il

suo lavoro è così ansiosamente richiesto. Sono sicuro che prenderebbe

in considerazione uno scambio.~

"Henshaw intese al volo. Pescò una moneta e l'allungò a Melsona

raccomandandogli di ricavarne il massimo per conto di noi tre. L'aver

costituito una società sembrò fare un immenso piacere a Melsona. Ac-

cettò il regalo con gioia annunciando che avrebbe parlato con Torqui-

lea alla prima occasione.

"Quando facemmo ritomo alla casa di Melsona per rinfrescarci e

dormire, l'oscurità era scesa ormai da diverse ore. Avevamo viaggiato

su metà delle strade di Leamore, esplorato edifici e negozi, visto una

quantità di meraviglie ed eravamo stati presentati a così tante perso-

ne che ce ne ricordavamo soltanto un paio. Melsona, persistendo nel

compito che si era assunto volontariamente di farci da guida alla cit-

tà, ci aveva condotti in giro, dichiarando di essere l'uomo più fortuna-

to della terra perché il nostro arrivo gli aveva dato motivo di spendere

un po' delle sue ore d'ozio. Conversando con noi che lo sollecitavamo

con continue domande, ci mise al corrente di parecchi fatti notevoli.

"Innanzitutto scoprimmo che il giomo era molto più lungo che ai

miei tempi, e che la rotazione assiale della Terra stava rallentando a

un tale ritmo che gli scienziati avevano calcolato che dopo ventimila,

trentamila anni si sarebbe fermata del tutto. Il fenomeno datava dal-

I'arrivo dell'lnvasore, evento che inaugurava il nuovo calendario, se-

condo il quale eravamo nel 772 n. c., dove le lettere n. c. stanno per

'nuovo computo'.

"L'Invasore, apprendemmo, era un pianeta grande circa due volte

Giove, che era venuto dallo spazio interstellare, si era aperto un'orbita

nel sistema solare ed era poi svanito nel cosmo. Era passato tra le or-

bite di Marte e quella della cintura di asteroidi, sconvolgendo con la

sua influenza l'equilibrio del sistema, rendendo le orbite degli asteroi-

di, di Marte e della Terra molto più eccentriche, catturando e tratte-

nendo presso di sé due membri del gruppo di asteroidi troiani.

"Disse che Venere era stata raggiunta da astronavi circa cinquan-

t~anni dopo il passaggio dell'Invasore, che i viaggi interplanetari era-

no ancora così difficoltosi e rischiosi che la popolazione su Venere non

Contava più di ventimila anime e che per ogni individuo che aveva

raggiuntO il pianeta sano e salvo tre erano morti nel tentativo.

"La popolazione della Terra era rimasta immutata negli ultimi dieci-

mila anni; tutta la Terra riconosceva un govemo centrale che aveva se-

de a Osmia, e il sistema sociale era il Pallarismo. Scoprimmo che Osmia

sorgeva nel luogo di quella che io avevo conosciuto come Costantinopo-

~ li, e che l"'ismon cui al momento si dava credito si basava sulle teorie di

L un filosofo di nome Palla, che era vissuto circa nel 22800 v. c.

r "Con lo stomaco riscaldato dalla cena recente, la mente piena di ri-

cordi delle esplorazioni del giomo appena trascorso, andammo a let-

to. Condiscendendo tacitamente ai miei gusti, il nostro ospite aveva

lasciato sul mio letto quello che rassomigliava a un costume da bagno

nero. La camicia da notte rossa era stata trasferita sul letto di Hen-

shaw. Henshaw venne nella mia stanza per sapere come stava, così ab-

bigliato per il riposo. Mi addormentai mentre mormoravo un com-

mento che non poté udire."

--I quattro giorni seguenti li annovero come i più piacevoli mai tra-

Scorsi. Insieme con il nostro ospite viaggiammo molto fino a sentirci

completamente a nostro agio in quello strano mondo nuovo. La matti-

na del quinto giorno stavamo viaggiando sulla corsia centrale della

Derb Highway verso la periferia della città, quando Melsona fischiò a

un uomo anziano che stava camminando sul marciapiede nella dire-

zione opposta. L'anziano si fermò, Melsona trasbordò sulla corsia len-

ta e poi sul marciapiede. E noi dietro.

"«Il senior Glen Molcho~ ci presentò. aSenior è un titolo che noi at-

tribuiamO alle persone di grande cultura« aggiunse come spiegazione.

| «Come professore« suggerii io.

" « Esattamente . Il senior Glynn Weston e il capitano Henshaw. « Sor-

~ rise e noi a tumo ci stringemmo la mano. « Il senior è il nostro maggio-

,k re StoriCo. Pensavo che potesse essere particolarmente interessato a fa-

re la vostra Conoscenza-«

Henshaw fu rapido a cogliere l'occasione. Gli domandò «Chi ha

into la guerra tra Bianchi e Gialli del 2481-2486?«.

t '«Le donne,> rispose prontamente il Senior.

"«Le donne!« Henshaw sembrava sbigottito.

U«La guerra durò nove anni, non cinque« continuò il senior. «Fu

portata alla conclusione da un'organizzazione militante di donne che,

innanzitutto, si rifiutarono di mettere al mondo altri bambini, poi

smisero di lavorare nelle fabbriche di munizioni costringendo entram-

bi i contendenti a ritirare un gran numero di soldati per rimpiazzarle,

e, alla fine, presero loro stesse le armi e assassinarono coloro che esse

consideravano gli uomini-chiave del conflitto. Fu quella guerra la cau-

sa diretta del matriarcato su scala mondiale che per i tremila anni se-

guenti esercitò il potere.«

U«Be', sono uno sporco soldato!« esclamò Henshaw.

"«Dunque lei è il famoso viaggiatore attraverso il tempo~j disse il se-

nior, rivolto verso di me. «Ho sentito parlare molto di lei nei notiziari.

Ho saputo che lei sarà invitato al Convegno annuale degli scienziati

che si terrà tra una settimana a Metro. Sarebbe molto interessante se

lei potesse portare con sé il suo apparato da viaggio.«

"«Ora questa sì che è curiosa!« dissi. «Sono qui da diversi giorni e

non mi è mai venuto in mente di chiedere che cosa ne è stato del con-

gegno.«

a«E al sicuro« rispose Melsona. «Mentre ti portavano a casa mia,

quello l'hanno tolto dalla strada. E stato poi recuperato e messo nel

Museo della Scienza fino a quando non vorrai riaverlo.«

"«Bene« proposi io. «Vi piacerebbe andare a vederlo?« Tanto senior

Molcho quanto Melsona furono entusiasti di poter visitare la camera

del tempo. Tagliammo attraverso una strada laterale per andare a

prendere una strada semovente diretta verso il centro, ci imbarcam-

mo sulla corsia esterna da otto chilometri e filammo verso la città.

" « La cosa più curiosa dei viaggi nel tempo « dissi al senior « è come al-

tera le idee. Per esempio, si potrebbe pensare che io abbia sconvolto le

leggi della natura vivendo migliaia di anni. Tuttavia, in quanto viaggia-

tore nel tempo, io so che non è così. In realtà sono più vecchio di una set-

timana circa di quando ho dato inizio al mio esperimento. Ora so che la

natura ha fissato la data della mia fine non in termini di anni secondo il

computo degli uomini, ma in termini di anni della mia vita. Morirò a un

certo numero di miei anni dalla mia nascita, indipendentemente da co-

me quel numero possa venire diviso o distribuito nel futuro.«

U«C'è un punto che, a mio parere, è ancora più curioso« rispose il se-

nior. «Com'è possibile che noi, con la nostra grande civiltà, il nostr°

enorme interesse per ogni ramo della scienza, non siamo stati capaci

di risolvere il problema che già fu risolto da due uomini che ci prece-

dono di migliaia di anni?«

U«Henshaw non l'ha affatto risolto« gli feci notare.

"«Non mi riferivo a Henshaw, ma al suo predecessore.«

"«Il mio predecessore?« non capivo a chi si riferisse.

"«Ti ho detto che la possibilità di viaggiare nel tempo non ci era sco-

osciuta« intervenne Melsona. «Ti ho anche detto, quando ci incon-

trammolaprimavolta,cheeragiàstatoeffettuatoconsuccessoprima.«

UFrugai nella mia memoria e mi ricordai vagamente che lui mi ave-

va detto qualcosa di simile- Allora mi era sfuggito perché mi trovavo

in uno stato confusionale.

U«Quando spuntò fuori Schweil affermando che...«

U< Schweil!« gridai con tutto il fiato che avevo in gola. «Ha detto

Schweil?«

U«Sì« rispose il senior, spaventato. «Quando Schweil è comparso af-

fermando che proveniva in origine dalla sua epoca, più o meno, tutti

risero di lui e fu...«

U«Mi dica« lo interruppi. «Da che anno diceva di venire?«

U«Mi faccia pensare...« Studiò il pavimento e si mise a riflettere.

Non la finiva più. «Era il 1949, mi sembra.«

U«E proprio così« urlai, tremando letteralmente dall'eccitazione. «E

così!« La gente intorno mi fissava come se fossi matto. Stavo dando

spettacolo e non me ne importava niente.

U«Lo conosceva?« chiese il senior, con un tono tranquillizzante.

U«No. Morì alcuni anni prima che nascessi. O per lo meno fu creduto

morto. Partì con il suo aeroplano privato con la manifesta intenzione

di partecipare a un congresso scientifico a New York. Scomparve. I

rottami del suo aereo raggiunsero la costa della Nuova Scozia un mese

dopo. Era un tipo piuttosto eccentrico, non molto ben visto e alcuni

suggerirono che si trattasse di un evidente caso di suicidio. Le sue teo-

rie, e quelle dei suoi successori, furono utilizzate da me. Che ne è stato

L~ di lui? Dove si trova? Mi dica, per favore, tutto quello che sa.«

"Il senior pareva sopraffatto, trasse un lungo respiro e disse: «Nel

'~ 312 n. c., 460 anni fa, questo Schweil comparve nella periferia di Me-

tro, la nostra grande città sul Tamigi, e sostenne di aver viaggiato at-

traversO il tempo dal passato. Il suo congegno aveva la forma di una

sfera di metallo scuro di circa tre metri di diametro. Nonostante le sue

caratteristiche antiche, non venne creduto. La sua macchina fu esami-

nata e dichiarata una burla. Si trovava nella sfortunata posizione di

non essere in grado di provare le sue asserzioni, se non dando una di-

mostrazione pratica. E così si sarebbe allontanato dalle stesse persone

L~ che doveva convincere, poiché ci disse che, sebbene fosse possibile

E~ Viaggiare nel futuro, non si poteva tornare indietro nel passato«.

U~Giusto« dissi io, pendendo dalle sue labbra.

«Era molto amareggiato. A sentire lui la nostra era l'ottava epoca

s che aveva visitato, e in nessuna era stato creduto. Alla fine emigrò su

Venere portando con sé la sfera. Visse là per circa un anno e poi gli riu-

~Scì di convincerci che le sue affermazioni erano fondate. Lo fece en-

ando nella sua sfera e scomparendo di fronte agli occhi di un mi-

gliaio di coloni. Non è mai più tornato. Da allora non abbiamo più sa-

uto nulla di lui.«

"«E andato ancora avanti« dissi saltellando intorno come un gatto

sui mattoni ardenti. «E andato ancora avanti. Oh, se solo potessi in-

contrarlo! Un uomo del mio tempo, un compagno adatto per i miei

viaggi... Lo devo incontrare! Lo deve assolutamente trovare! Mi sta

aspettando da qualche parte nel futuro. Devo andare a cercarlo! La

mia camera del tempo deve essere trasportata immediatamente su Ve-

nere!« Così dicendo, preso da un'agitazione folle, saltai sulla corsia

centrale più veloce e corsi su di essa con un unico pensiero in testa: ar-

rivare al Museo della Scienza il più presto possibile e disporre per il

trasporto della camera.

"Lo sforzo della corsa doveva avermi placato la mente. Dopo mezzo

chilometro mi trasferii sul marciapiede e attesi che gli altri mi rag-

giungessero. Arrivarono uno dietro l'altro, senza fiato. Prima Hen-

shaw, poi Melsona e il senior buon ultimo a gran fatica.

"Insieme entrammo nel Museo e Melsona domandò dov'era stata si-

stemata la mia camera del tempo. Lasciandoci guidare da lui la rag-

giungemmo all'ultimo piano. A questo punto mi ero calmato abba-

stanza da ricordarmi che i miei compagni desideravano esaminarla.

Aprii la porta e cominciai a spiegare loro il funzionamento dell'appa-

rato a raggio e le teorie su cui si basava.

"La cabina sembrava aver subito danni leggeri. Gli angoli esterni

erano fortemente rigati e ammaccati. Una delle finestre era rotta. Tirai

fuori le valvole e il tubo del raggio e li esaminai alla luce, rimettendoli

a posto dopo aver constatato che erano ancora in condizioni eccellenti.

"Ispezionai l'intero apparato, aggiustando un cavo qui e stringendo

un morsetto là. Per diverso tempo girellai là attorno come una mam-

ma intorno al suo bambino. Stavo per chinarmi a esaminare un con-

tatto del vibratore McAndrews quando mi prese un senso di nausea e

il contatto cominciò a vibrare sotto i miei occhi.n

--Mi raddrizzai, vidi le finestre inquadrare una semitrasparenza in

cui una vaga ombra danzava, ondeggiava e poi scompariva come

quando si estingue la fiammella di una candela. Fui preso dal panicO

quando una nebbia ormai familiare mi appannò la vista. Capii che co-

sa era avvenuto. In qualche modo il propulsore si era messo in azione

"Presi a frugare affannosamente nella nebbia che mi avvolgeva in

cerca dell'interruttore. Le sensazioni che si alternavano rapidamente~

di levigatezza e di fibrosità, mi annebbiavano il cervello. Frugavo co-

me un uhriaco in cerca di chissà cosa. Tiravo tutto aue!l~ rh~ l~ mia

mano toccava. Spingevo oggetti invisibili che si rifiutavano di spo-

starsi. Montavo su cose che apparivano e subito scomparivano.

- "Per quanto tempo durò tutto ciò non saprei. Mi angosciai al pensie-

- ro che il mio ultimo dolce mondo recedeva rapidamente nell'irrevoca-

bile passato. Cominciai a scalciare all'impazzata in ogni direzione. Il

frantumarsi di vetri seguito da una sensazione di fatica mi appagaro-

no dei miei sforzi. La nebbia si diradò, lasciandomi intento a osserva-

re una valvola rotta. La camera del tempo si era fermata.

"Un pesante strato di vapore copriva l'interno delle superfici dei ve-

tri. La mia attenzione fu attratta da un forte sibilo. Rimasi sbigottito

nel vedere l'aria che usciva fuori attraverso l'apertura della porta soc-

chiusa. Sbarrai immediatamente la porta, aprii il rubinetto della bom-

boletta di ossigeno di scorta, pulii il vetro dal vapore e guardai fuori.

!~ "La scena che si presentò ai miei occhi era assai deprimente: una li-

scia e piatta distesa di sporcizia e polvere si estendeva senza interru-

zione fino all'orizzonte. Il cielo da una parte risplendeva di luce bian-

ca, dall'altra tesseva una trama violacea scura e sinistra. Al primo

sguardo capii che il mondo di quell'epoca era privo di aria, deserto,

morto. Caddi preda dell'orrore al pensiero che le mie ore erano conta-

te. La morte mi attendeva fuori. E dentro!

"Dopo qualche ora, con la preziosa bottiglia di ossigeno che ancora

gocciolava, stavo guardando sconsolato fuori della finestra della mia

stanza, notando che il cielo non era mutato minimamente e che evi-

dentemente ero bloccato in una zona di eterno crepuscolo. Proprio

mentre stavo così alla finestra un istinto attrasse la mia attenzione sul

lontano orizzonte. Là, con una curva maestosa, stava planando una

colossale nave spaziale, la fusoliera liscia e scintillante, la coda ornata

di piume di fuoco. Sentii un tuffo al cuore mentre seguivo la sua traiet-

toria di volo fino a che s'immerse in un luogo d'atterraggio a me invi-

sibile proprio oltre il bordo della terra.

"Non mi venne da chiedermi perché una nave spaziale dovesse vola-

re su un mondo senz'aria. L'idea che io potessi essere la vittima della

mia stessa visione non mi venne mai in mente. Ripiegai un fazzoletto

in modo da farne un tampone, lo compressi sul collo della bottiglia di

Ossigeno ormai quasi vuota e aprii la porta. Tenendo il tampone

schiacciato sul naso, corsi verso l'orizzonte...

. "Mi sembrò di correre per interminabili chilometri col petto ansante,

il cuore che batteva e la testa che mi girava. La lingua mi si era gonfiata

in bocca, gli occhi mi sporgevano dolorosamente in fuori e non vedevo

' più. Non sapevo né mi importava se stavo correndo in linea retta o in

ircolo. La cosa principale era continuare a correre. Caddi in preda al

delirio- mi muovevo, mi muovevo, mi muovevo come un automa.

'Devo aver perso la bottiglia dell'ossigeno; devo essere caduto e

i morto. Ma non me lo ricordo. Il mio ullimr~ rirr~r~ lell~ TPrr:~ e Ch~

stavo fuggendo con piedi di piombo come chi è inseguito da fantasmi

in un incubo. Voi conoscete il seguito della mia storia. Ripresi i sensi

disteso nella sala di resuscitazione dell'Istituto di Kar col corpo dolo-

rante e il polso che batteva in sintonia col battito di un cuore meccani-

co sospeso sopra il mio torace.

"Che cosa avverrà ora? E giusto che lo sappiate. E mia intenzione tra-

scorrere un po' di tempo a visitare il vostro bel mondo. Desidero visi-

tare i monumenti, studiare i vostri costumi. Con grande interesse ho

appreso che l'enorme quantità di lavoro che è risultata dalla Grande

Migrazione ha causato molti mutamenti radicali rispetto al mondo

che ho conosciuto per ultimo. Voglio leggere della Grande Migrazione

per imparare tutto quello che c'è da imparare su questa straordinaria

avventura epica della storia umana, per comprendere la natura dei

cambiamenti che ha comportato come, per esempio, il vostro ritorno a

un sistema monetario.

"Poi mi metterò al lavoro e mi costruirò un'altra camera del tempo.

Lo voglio fare perché ho intenzione di ritrovare il mio contemporaneo

Schweil. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro. Vi piacerebbe sapere come

penso di riuscirci? Lasciate che ve lo dica.

"Farò una serie di brevi salti nel futuro e da quelli deriverò i dati ne-

cessari per fare certi calcoli che, quando li avrò completati, mi consen-

tiranno di partire per una data predeterminata. Se Schweil non sarà

ancora ricomparso, gli lascerò un messaggio con un appuntamento

più in là nel futuro, e poi partirò per quella data. Quando Schweil arri-

verà e troverà il mio messaggio si metterà in viaggio anche lui per

quella stessa data. E così ci daremo convegno in un futuro.

"Non ho dubbi che il piano funzionerà, solo che a Schweil venga re-

capitato il mio messaggio. Dovreste cercarlo. Sono sicuro che dall'ul-

tima volta che si è saputo di lui è già ricomparso una dozzina di volte.

Date le accoglienze che ha ricevuto in passato, e conoscendone il ca-

rattere, vi posso dire che è probabile che egli faccia ritorno in segreto,

senza pubblicità.

"Voi potete essermi di aiuto. Tutto quel che vi chiedo è che mante-

niate la mia storia e il mio messaggio per sempre vivi!"

L'annunciatore si avvicinò con passi felpati allo schermo di trasmiS-

sione. Il pubblico era una massa di occhi che fissavano intenti una sola

rlgura centrale. Con un movimento improvviso Glyn Weston, "l'uomo

in cerca del Futuro«, lasciò la scena.

Titolo originale: Seeker of Tomorrow

Traduzione di Paola Rambaldi

Stanley G. Weznbaum

L'ARRIVO DELLA FIAMMA

Il mondo

Hull Tarvish si voltò indietro una volta sola, quando fu giunto alla cur-

va a gomito della strada. Il piccolo, basso cottage di pietra che era stato

la sua casa era come l'aveva visto mille volte, incomicia-to dai cedri.

Sua madre lo seguiva ancora con lo sguardo, e due dei fratelli minori lo

stavano guardando dai fianchi della montagna. Alzò la mano in un ge-

sto d'addio, poi la lasciò cadere, quando si rese conto che ormai nessu-

no di loro lo vedeva più: sua madre si era girata con indifferenza verso

la porta, e i due ragazzini avevano avvistato un coniglio. Tornò a vol-

tarsi e riprese a camminare a grandi passi, scendendo il pendio che

portava fuori dall'Ozarky.

Passò davanti al luogo dove un tempo stava la grande strada d'ac-

ciaio degli Antichi, ormai ridotta a due lunghe strisce arrugginite ad

una fila di tronchi putrefatti. Accanto c'era un mucchio di pietre coper-

te di muschio che era stato un edificio nei tempi antecedenti ai Secoli

Bui, quando l'Ozarky faceva parte del vecchio stato del M'souri. I mon-

tanari andavano ancora a frugarvi, in cerca delle pietre squadrate, da

usare nelle costruzioni, ma il duro metallo della strada d'acciaio era

troppO resistente e ostinato perché fosse possibile utilizzarlo, e in quei

trecento anni le rotaie si erano arrugginite in silenzio.

Tutto questo Hull Tarvish lo sapeva, perché se ne parlava ancora, la

notte~ intorno ai camini. Gli Antichi erano stati potentissimi maghi- le

loro strade d'acciaio andavano dovunque, e dovunque c'erano le rovine

delle loro città, erette - a quanto si diceva- per mezzo di una magia che

evava i pesi. Giù nella valle - sapeva anche questo--gli uomini sta-

Vano tuttora cercando quella magia: una volta un cavaliere si era fer-

ato a passare la notte in casa Tarvish, e aveva raccontato che lontano

ntano~ a Sud, il segreto era stato scoperto, ma nessuno ne aveva mai

~più sentito parlare.

~ischiettando tra sé, Hull si assestò sulla spalla la borsa di pezza, si-

stemò più comodamente I arco, e continuò il suo cammino. Era per

questo che anche lui voleva raggiungere la valle; voleva vedere com'era

fatto il mondo. Era sempre stato un tipo irrequieto, diverso dai sei figli

maschi Tarvish e dalle sei femmine. Quelli erano veri montanari: i figli

erano grandi cacciatori, le figlie stolide e industriose. Ma Hull no: non

era pigro come i fratelli, né stolido come le sorelle. Era irrequieto, cu-

rioso, sognatore. Perciò si avventurava fischiettando nel mondo, ed era

felice.

La sera si fermò al cottage degli Hobel, al limitare della montagna.

Lontano, davanti a lui, si stendeva la pianura, e nella lontananza, men-

tre scendeva l'oscurità, si scorgeva il campanile della chiesa di Norse.

Era un villaggio: Hull non aveva mai visto un villaggio, o meglio non ne

aveva mai visto altro che un campanile lontano, simile nella forma a

un pino bianco e diritto. Ma aveva sentito parlare di Norse, perché

qualche volta i montanari vi scendevano a comprare polvere e pallotto-

le per i fucili... quelli che avevano i fucili, naturalmente.

Hull aveva solo un arco. Non capiva a cosa servissero i fucili: le pal-

lottole e la polvere costavano denaro, e una freccia faceva gratis lo stes-

so lavoro, e senza bisogno di far fuggire la selvaggina per un raggio di

un chilometro.

La mattina dopo si congedò dagli Hobel che, come sempre, lo giudi-

carono un po' matto, e si avviò. Le gambe poderose, brune e nude si

muovevano svelte sotto i calzoni laceri, i piedi scalzi facevano un pia-

cevole suush nella polvere della strada, il Sole di giugno batteva caldo

sulla sua guancia destra. Hull era felice: non c'era mai stato un mondo

più piacevole, e perciò sorrideva e fischiettava, e sputava meticolosa-

mente nella polvere, ricordando che portava sfortuna sputare verso il

Sole. Era avviato verso l'avventura.

E l'avventura arrivò. Hull era giunto ormai nella pianura, dove gli,

alberi erano più alti degli arbusti del territorio collinoso, e dove le rare

fattorie erano grandi e prospere, con i campi ben coltivati. Il sentiero

era divenuto una strada carraia, tagliata e angolata in mezzo alla fore-

sta. E inaspettatamente un uomo... no, due uomini si alzarono da un

tronco sul bordo della via e si avvicinarono a Hull. Li scrutò: uno era al-

to e aveva i capelli chiari come lui, ma non aveva la sua struttura robu-

sta; I'altro era più basso di tutta la testa, e bruno. Abitanti della valle,

sicuramente, perché il bruno aveva una tozza pistola alla cintura con il

calcio di legno come quelle degli Antichi, e l'arco dell'uomo più alto era

fatto di lucente acciaio elastico.

--Salve, montanaro,--disse il bruno.--Dove vai?

--A Norse--rispose laconico Hull.

--Cosa c'è nel sacco?

--La mia lingual--ribatté il giovane.

I Frase idiomatica del secondo secolo dell'Illuminismo. Avere ~la lingua nel

saccon significava rifiutarsi di rispondere alle domande (N.d.A.).

_ Calma, calma--grugnì il biondo.--Non offenderti, montanaro.

Siamo soltanto curiosi. Hai un gran bel coltello. Voglio fare un baratto.

Con che cosa?

Con un po' di piombo nel tuo gozzo--ringhiò il bruno. All'im-

provviSo, la pistola tozza apparve nel suo pugno.--Passalo qui, e an-

che la borsa.

Hull guardò con una smorfia prima l'uno, poi l'altro. Alla fine scrollò

le spalle, e si mosse come per scaricare il sacco. E poi, rapido come il

guizzo di un serpente velenoso, il suo piede sinistro sfrecciò avanti, col-

pendo il bruno esattamente alla bocca dello stomaco, con tutta la po-

tenza dei muscoli e del peso di Hull.

L'uomo riuscì a emettere solo un grugnito soffocato; si piegò su se

stesso e cadde, mentre l'arma volava nella polvere, a cinque o sei metri

di distanza. Il biondo si lanciò per recuperarla, ma Hull lo bloccò pas-

sandogli un braccio poderoso intorno alla gola, e lo strattonò due volte:

la breve lotta finì. Si avviò placidamente verso Norse con una tozza pi-

stola carica al fianco, un lucente arco d'acciaio elastico sulla spalla, e

ventidue frecce tubolari d'acciaio nella faretra.

Arrivò in cima a un dosso: il villaggio si stendeva davanti a lui. Spa-

lancò gli occhi. Cento case almeno. Dovevano esservi cinquecento abi-

E tanti, più di quanti ne avesse visti tutti insieme in vita sua. Proseguì,

impaziente, guardando meravigliato la chiesa che torreggiava come

un albero altissimo, le finestre di pezzi di vetro recuperati dalle antiche

rovine e meticolosamente rimessi insieme, la taverna con l'insegna

L dondolante: un uomo grasso in modo incredibile che impugnava un gi-

gantesco boccale. Fissò le case, alcune delle quali avevano sul davanti i

negozi, e gli abitanti, quasi tutti calzati di cuoio.

Hull non attirava molta attenzione. Norse era abituata ai montanari,

e solo una o due ragazze volsero lo sguardo attento sulla sua figura po-

derosa Ma questo lo mise a disagio; le ragazze delle montagne ridac-

chiavano e arrossivano, ma non fissavano apertamente gli uomini. Per-

ciò ricambiò le occhiate con aria di sfida, facendo scorrere lo sguardo

dalle cuffie alle corte gonnelle ondeggianti e ai sandali di cuoio, e le ra-

gazze risero e passarono oltre.

` Norse non gli piaceva, decise. Mentre il Sole tramontava, le case in-

combevano troppo vicine, come se volessero soffocarlo, e perciò si di-

resse verso l'aperta campagna, per trovare un posto dove dormire. Al

limitare del villaggio c'erano i resti di un'antica città, con le spettrali

' Inura sgretolate, verso occidente. C'erano fantasmi, lì, era naturale,

erciO Hull passò oltre, trovò una zona boscosa e si sdraiò, chiudendo

. l arcO e le frecce d'acciaio nel sacco, per proteggerli dalla rugiada not-

L~turna che li avrebbe arrugginiti. Poi si legò il sacco intomo ai piedi e al-

~le gambe, si sdraiò comodamente, e si addormentò con la mano sul cal-

io della pistola. Non c'erano animali pericolosi, nei boschi, eccettuati

i lupi che non attaccavano mai gli esseri umani nei mesi caldi dell'an-

no; ma c'erano gli uomini, e loro non si ritenevano vincolati da quelle

leggi stagionali.

Si svegliò bagnato fradicio di rugiada. Il Sole lanciava frecce dorate

attraverso le fronde, e Hull aveva una fame tremenda. Mangiò I ultimo

pezzo di pane scuro preparato da sua madre, togliendolo dal sacco, e

poi raggiunse la strada. C'era un carro che avanzava cigolando pesan-

temente, diretto verso il Nord; I'uomo barbuto dall'aria mite fu lieto di

dargli un passaggio, per avere un po' di compagnia.

--Montanaro?--chiese.

--Sì.

--Diretto dove?

--Nel mondo--rispose Hull.

--Be'--osservò l'altro--è un posto molto grande, e quello che ho

visto io somiglia molto a quel che c'è qui. Tutto, tranne Selui. Quella è

una città. Sì, quella è una città. Ci sei mai stato?

--No.

--Ci sono--disse il contadino, con tono d'importanza--ventimila

persone. Forse anche di più. E ci sono le rovine più grandi che si siano

mai ~riste. Ponti. Palazzi... alti quattro o cinque volte di più della Chiesa

di Norse, anche se sono crollati. Il Diavolo solo sa quant'erano alti nei

tempi antichi.

--E chi ci viveva?--chiese Hull.

--Non lo so. Chi poteva desiderare di vivere così in alto che sarebbe

occorsa una mattina intera per salirci a meno che usassero la magia? Io

non me la faccio molto con la magia, ma dicono che gli Antichi sapeva-

no volare.

Hull cercò d'immaginarlo. Per qualche istante vi fu silenzio, rotto

soltanto dai tonfi lenti degli zoccoli dei cavalli.--Non ci credo--disse

finalmente.

--Neppure io. Ma hai sentito quello che stanno dicendo a Norse?

--Non ho sentito niente.

--Dicono--fece il contadino--che Joaquin Smith ha intenzione di

rimettersi in marcia.

--Joaquin Smith!

--Già. Lo conoscono anche i montanari, eh?

--E chi non lo conosce?--ribatté Hull.--Allora ci saranno com-

battimenti nel Sud, immagino. Ho idea di andare a Sud.

--Perché?

--Mi piace combattere--rispose semplicemente Hull.

--Ottima risposta--fece il contadino--ma a sentire quel che dice

la gente, non ci sono molti combattimenti quando il Maestro si mette

in marcia. Ha un incantesimo: c'è una grande stregoneria a N~orleans~

dal più umile incantatore fino a Martin Sair, che è figlio del Diavolo in

persona, o almeno così dicono.

_ Mi piacerebbe vedere la sua stregoneria contro le frecce e le pal-

lottole dei montanari--rispose Hull con aria truce.--Non c'è uno solo

di noi che non riesca a centrare un occhio a mille passi, con il fucile. E a

duecento con l'arco.

--Senza dubbio: ma... e se la polvere s'infiamma, e i fucili sparano

da soli prima ancora che lui abbia superato l'orizzonte? Dicono che ab-

bia un incantesimo per questo... o lUi, o Margot la Nera.

--Margot la Nera?

--La Principessa, la sua sorellastra. La strega bruna che cavalca al

suo fianco, la Principessa Margaret.

--Oh... ma perché? Margot la Nera?

Il contadino si strinse nelle spalle.--E chi lo sa? Così la chiamano i

suoi nemici.

--Allora la chiamerò così anch'io--fece Hull.

--Be', non saprei--disse l'altro.--Per me conta poco dover pagare

le tasse a N Orleans o al vecchio, burbero Marcus Ormiston, I'Anziano

del villaggio di Ormiston.--Puntò la frusta davanti a sé, e Hull scorse

in distanza un gruppo di case, e il balenio di un fiumicello.--Ho ven-

duto i miei prodotti in villaggi dell'Impero, e gli abitanti sembravano

felici quanto noi, né più né meno.

--Però c'è una differenza. La libertà.

--E soltanto una parola, amico mio. Arano, seminano, mietono, pro-

prio come noi. Vanno a caccia e a pesca e si azzuffano. E in quanto alla

libertà, sono meno liberi loro sotto il dominio di uno stregone, o io sotto

quello di un vecchio rimbambito?

--I montanari non pagano le tasse a nessuno.

--E nessuno costruisce loro strade, o scava pozzi pubblici. Dove pa-

ghi poco ottieni meno, e io direi che le strade dell'Impero sono migliori

delle nostre.

--Migliori di questa?--chiese Hull, guardando l'ampiezza polvero-

sa della strada.

--E di molto. Presso la città di Memphis c'è una strada di pietra soli-

da: la spandono morbida, non so con quale magia, e poi la lasciano in-

durire~ e cosi non c'è mai né fango né polvere.

Hull rifletté.--Il Maestro--sbottò all'improvviso--è dawero im-

rnortale?

Il contadino si strinse ancora nelle spalle.--E come posso saperlo?

~i sono grandi stregoni, nei territori meridionali, e il più grande di tut-

ti è Martin Sair. Ma so questo: ho vissuto sessantadue anni, e a quanto

1~ 1 icordo c'è sempre stato Joaquin Smith a Sud, e c'è sempre stato un Im-

b~_ pero che inghiotte le città come una lepre inghiotte le carote. Quand'e-

~,rO gioVane era lontano, adesso è arrivato vicino: la differenza è tutta lì.

~li uomini parlavano allora della bellezza di Margot la Nera come ne

Jparlano adesso, e anche della magia di Martin Sair.

~72

373

Hull non rispose, perché Ormiston era ormai vicina. Il villaggio era

molto simile a Norse, ma stava accovacciato fra basse colline: sulla

cresta di alcune alture incombevano antiche rovine. Il suo compagnO

fermò il carro, e Hull lo ringraziò, balzando a terra.

--Dove andrai?--chiese il contadino.

Hull rifletté un momento.--Selui--disse poi.

--Be', è a centosessanta chilometri da qui, ma ci saranno molti che

potranno darti un passaggio.

--Ho i miei piedi--fece il giovane. Si voltò di scatto nel sentire una

voce dall'altra parte della strada:--Ehi! Montanaro!

Era una ragazza. Una ragazza molto graziosa, dalla vita sottile, i ca-

pelli color rame, gli occhi azzurri, ritta sulla porta di una grande casa

di pietra. ~ Ehi!--esclamò.--Sei disposto a lavorare un po', in cam-

bio della cena?

Hull aveva di nuovo una fame da lupo.--Con piacere!--rispose.

Alle sue spalle risuonò la voce del contadino.--E Vail Ormiston, la

figlia dell'Anziano rimbambito. Fatti servire un pasto abbondante,

montanaro. L'ho pagato anche con le mie tasse.

Ma Vail Ormiston non era disposta a chiacchierare troppo con un

montanaro vagabondo. Scrutò con aria d'approvazione la sua figura

poderosa, gli mostrò i tronchi da fare a pezzi, e poi rientrò in casa. E se

anche sbirciò attraverso il più trasparente dei frammenti di vetro che

formavano la finestra, e osservò il flettersi dei muscoli delle grandi

braccia nude mentre Hull lavorava d'ascia... be', lui non se ne accorse.

E così fu che quel pomeriggio si avviò verso Selui con lo stomaco sa-

zio di un pasto abbondante e tre monetine d'argento in tasca, e il ricor-

do della giovane donna era già sbiadito. Era più ricco di quando era

partito: adesso aveva in più le monete, la tozza pistola al fianco, I 'arco e

le frecce d'acciaio lucente, e il ricordo dei capelli cuprei e degli occhi

azzurri di Vail Ormiston.

Il vecchio Einar

Tre settimane passate a Selui erano state utili per farla conoscere Ull

po' a Hull Tarvish. Adesso non guardava più a bocca spalancata le rovi-;

ne dell'antica città, protese verso il cielo, o gli enormi ponti crollati, e si

sentiva a suo agio. Aveva trovato lavoro abbastanza facilmente in uD

forno, dove i suoi muscoli erano utili; I'orario era lungo, ma la paga

munifica... cinque quarti d'argento la settimana. Ne pagava due pe

l'allo~io, e il cibo- quel po' che gli occorreva, a parte le Daanotte brU

ciacchiate che riceveva gratis sul posto di lavoro - gli costava un altro

j~ quartO; e così gliene restavano due da mettere via. Talvolta scommette-

va sulla sua abilità di tiratore, e questo gli permetteva quasi sempre di

guadagnare qualche altra cosa.

t Normalmente, Hull faceva amicizia in fretta: ma il lungo orario glie-

L lo impediva. Aveva soltanto un amico, un uomo incredibilmente vec-

chio che la sera si metteva sopra i gradini accanto al suo alloggio: il

Vecchio Einar. Così, quella sera Hull uscì come al solito per raggiun-

k gerlo, guardando le torri semidiroccate degli Antichi che splendevano

nel tramonto. Su molte di esse erano cresciuti gli alberi, e tutte erano

rivestite del verde dei rampicanti e dei muschi e delle piante spuntate

dai semi portati dal vento. Nessuno osava costruire fra le rovine, per-

ché nessuno era in grado di prevedere quando sarebbe crollata una di

quelle vecchie torri.

--Chissà com'erano gli Antichi--disse Hull al Vecchio Einar.

--Erano uomini come noi? E allora, come potevano volare?

--Erano uomini come noi, Hull. In quanto al fatto che volassero...

be', sono convinto che sia una leggenda. Senti: c'era un uomo che

avrebbe volato sulle terre fredde al Nord e su quelle al Sud, e anche at-

traverso il grande mare. Ma in alcune versioni quell'uomo è chiamato

Lindbird, e in altre Bird, e quindi è facile capire l'origine della leggen-

da. Le migrazioni degli uccelli, che ogni anno attraversano la terra e i

mari... ecco di che si tratta.

--O forse era magia--suggerì Hull.

--Non esiste, la magia. Lo dicevano gli stessi Antichi, e io ho frugato

in molti dei libri ammuffiti scritti in quella loro lingua bizzarra e arcai-

ca.

Il Vecchio Einar era il primo studioso che Hull avesse mai incontra-

,~ to. Sebbene ve ne fossero molti, agli albori di quell'epoca brillante

chiamata Secondo Illuminismo, quasi tutti erano nell'Impero. John

,~ Holland era morto, ma Olin era ancora vivo, e Kohlmar, e Jorgensen, e

Teran, e Martin Sair, e Joaquin Smith, il Maestro. Grandi nomi... nomi

di semidei.

Ma Hull ne sapeva ben poco.--Tu sai leggere !--esclamò.--Questa

è già una sorta di magia. E sei stato nell'Impero, addirittura a N'Or-

leans. Dimmi, com'è la Grande Città? Hanno scoperto dawero i segreti

degli Antichi? Gli Immortali sono veramente Immortali? Come impa-

rano ciò che sanno?

-~ Il Vecchio Einar si assestò sul gradino, traendo sbuffi di fumo azzur-

ro dalla pipa carica dell'aspro tabacco della zona.--Troppe domande

non trovano risposte--osservò.--Debbo raccontarti la vera storia del

, rnondo~ Hull... Ia storia chiamata Storia?

--Sì. Nell'Ozarky parlavamo pochissimo di queste cose.

--Bene--dissse tranquillamente il vecchio.--Allora comincerò

da quello che per noi è il principio, ma che per gli Antichi fu la fine. Non

so quali fattori, quali guerre, quali conflitti portarono al mondo pos.

sente che morì durante i Secoli Bui: ma so che trecento anni fa il mon

do raggiunse il suo culmine. Tu non puoi immaginare com'era, Hull

Era un'epoca di città immense... cinquanta volte più grandi di N'Or

leans, con i suoi cinquantamila abitanti.

Sbuffò di nuovo, lentamente.--Grandi carri d'acciaio CorrevanO

rombando sulle strade di ferro degli Antichi. Gli uomini attraversava-

no gli oceani, verso l'Est e l'Ovest. Le città erano piene di ruote ronzan-

ti e, invece delle tante, piccole città-Stato del nostro tempo, c erano na-

zioni gigantesche, con migliaia di città e cento milioni... centocinquan_

ta milioni di persone.

Hull spalancò gli occhi.--Non credo che vi sia tanta gente al mon-

do--disse:

Il Vecchio Einar si strinse nelle spalle.--Chissà?--ribatté.--I libri

antichi, e sono troppo pochi... ci dicono che il mondo è sferico, e che al

di là dei mari vi sono diversi continenti: ma neppure Joaquin Smith

può dire quante razze esistano oggi.--Un altro sbuffo di fumo.--Be-

ne, il mondo antico era così. Erano nazioni bellicose, così amanti delle

battaglie che dovevano scrivere molti libri sugli orrori della guerra per

rimanere in pace, ma non ci riuscivano mai. Nell'epoca che chiamava-

no Ventesimo secolo vi fu tutta una serie di guerre, non piccoli conflitti

come quelli che avvengono spesso tra le nostre città-Stato, e neppure

come quella che scoppiò tra la Lega di Memphis e l'Impero cinque anni

fa. Le loro guerre si diffondevano sul mondo come nubi temporalesche,

e venivano combattute fra milioni di uomini, con armi inimmaginabil i

che scagliavano la distruzione a centinaia di chilometri di distanza, e

con le navi sui mari, e con i gas.

--Cosa sono i gas?--chiese Hull.

Il vecchio Einar agitò la mano, e l'aria smossa sfiorò la guancia bru-

na del giovane.--L'aria è un gas--disse.--Loro sapevano avvelenare

l'aria in modo che chiunque la respirava moriva. E combattevano ser-

vendosi delle malattie, e la leggenda dice che combattevano anche nel-

I'aria, con le ali: ma questa è solo una leggenda, appunto.

--Le malattie!--esclamò Hull.--Le malattie sono l'alito dei

Diavoli: e se dominavano i Diavoli, allora usavano la stregoneria, e

quindi conoscevano la magia.

--La magia non esiste--ripeté il vecchio.--Io non so come si

combattessero per mezzo delle malattie, ma lo sa Martin Sair di N'Or-

leans. Quello è il suo campo, non il mio: ma so che non è magia.--P°i

riprese il racconto.--Perciò quelle grandi nazioni bellicose si scaglia

rono l'una contro l'altra, perché la guerra, per loro, era più importante

che per noi. Per noi è un po' un gioco rozzo, gioioso, pericoloso: ma per_

loro era una passione. La combattevano per una ragione qualunque~ q

anche senza altro motivo che l'amore per la battavlia.

A me piace combattere--disse Hull.

~ Sì, ma ti piacerebbe se significasse semplicemente l'annienta-

nlento di migliaia di uomini al di là dell'orizzonte? Uomini che non ve-

dresti mai?

--No. La guerra deve essere combattuta corpo a corpo, o almeno a

distanze non superiori a quelle che può coprire una palla di fucile.

~ E vero. Bene, verso la fine di quello che loro chiamavano il Vente-

simo secolo, la guerra scoppiò come un corno di polvere gettato nel fuo-

co. Dicono che ogni nazione combatté, e che le battaglie si svolsero su

mari e continenti. Non era solo una nazione contro l'altra, ma una raz-

u contro l'altra, neri e bianchi e gialli e rossi, tutti impegnati in una

lotta titanica.

_ Gialli e rossi?--gli fece eco Hull.--Nell'Ozarky vi sono alcuni

uomini neri chiamati Neg, ma non ho mai sentito parlare di uomini

rossi e gialli.

_ Io i gialli li ho visti--disse il Vecchio Einar.--Vi sono alcune cit-

tadine di uomini gialli sulle rive dell'oceano occidentale, in una regio-

ne chiamata Friscia. La razza rossa, dicono, è scomparsa, spazzata via

dal morbo chiamato Morte Grigia, di cui i suoi membri cadevano vitti-

me più facilmente delle altre razze.

--Ho sentito parlare della Morte Grigia--disse Hull.--Quand'ero

ragazzino, c'era un uomo vecchissimo, il quale raccontava che suo non-

no era vissuto ai tempi della Morte Grigia.

Il Vecchio Einar sorrise.--Ne dubito, Hull. E accaduto più di due-

centoCinquant~anni fa. Comunque--riprese--le grandi nazioni anti-

che erano in guerra, e come dico, combattevano con le malattie. Forse

qualche nazione scoprì il segreto della Morte Grigia, o forse si produsse

me una sorta d'incrocio tra altre malattie, non so. Martin Sair dice

che le malattie sono cose vive, quindi può darsi che sia avvenuto que-

sto. Comunque, la Morte Grigia si scatenò all'improvviso nel mondo,

colpendo tutti indiscriminatamente. Dovunque decimò gli eserciti, le

~`~ Città~ le campagne: di quelli che venivano colpiti, sei su dieci moriva-

~= no. Doveva esservi un grande caos nel mondo; non esiste un solo libro

5Shrnpato durante quel periodo, e solamente le leggende raccontano co-

i~e andò

| ~ Ma la guerra si estinse. Gli eserciti si trovarono all'improvviso sen-

|-~ avversari~ e poi furono annientati prima di potersi muovere. Venne-

colpite le navi in mezzo agli oceani, e andarono alla deriva, senza

~ipaggio~ naufragarono o entrarono in collisione con altre. Nelle cit-

i morti venivano ammucchiati per le strade, e i superstiti divennero

~de di ladroni vagabondi, e al terzo anno dell'epidemia, al mondo

_llo rimaSti solo pochissimi governi stabili."

E cosa pose fine all'epidemia?--chiese Hull.

~Ion so. Le pestilenze finiscono. Coloro che ne sono colpiti e non

muoiono non possono ammalarsi una seconda volta, e coloro che ne so-

no immuni non la prendono; gli altri... muoiono. La Morte Grigia spaz_

zò il mondo per tre anni; quando finì, secondo Martin Sair, era peritO

un essere umano su quattro. Ma per molti anni l'epidemia ritornò, in

ondate sempre meno forti; sembra che soltanto una pestilenza del seco-

lo decimoquarto degli Antichi, chiamata Morte Nera, l'abbia eguaglia-

ta in tutta la storia.

--I suoi effetti, però, erano solo all inizio. Lantico sistema di tra-

sporti era crollato, e le città soffrivano la fame. Bande fameliche co-

minciarono a scorrere le campagne; e al posto di un'unica guerra enor-

me c'era un milione di piccole báttaglie. Le armi degli Antichi erano

dovunque, e le battaglie erano furiose, in verità, sebbene non si potes-

sero paragonare agli scontri colossali del grande conflitto. Un anno do-

po l'altro le città decaddero, fino a quando, il quinto anno dopo la Mor-

te Grigia, la popolazione mondiale si era ridotta di tre quarti, e la civil-

tà era finita. La barbarie ormai regnava nel mondo: ma erano soltanto

barbari, non selvaggi. La gente ricordava ancora la possente civiltà an-

tica, e dovunque si tentava di ricostruire le vecchie nazioni. L'impresa

non riuscì, perché mancavano i grandi capi.

--E così doveva essere--disse Hull.--Adesso abbiamo la libertà.

--Può darsi. Nel primo secolo dopo l'Epidemia, degli Antichi era ri-

masto ben poco, tranne le città in rovina, dove si annidavano bande di

predoni che infestavano le campagne durante la notte. Costoro s'inte-

ressavano soltanto ai viveri e alle monete coniate delle vecchie nazioni

e causavano danni incalcolabili. Pochissimi sapevano leggere e nelle

notti fredde c'era l'usanza di fare incursioni nelle antiche biblioteche

in cerca di libri da bruciare: e per aggravare le cose, il fuoco devastò le

rovine di tutte le città, senza incontrare un ostacolo organizzato. Le

fiamme si estinguevano spontaneamente, dopo aver distrutto libri di

valore inestimabile.

--Eppure a N'Orleans studiano, vero?--chiese Hull.

--Sì, ci sto arrivando. Circa due secoli dopo l'Epidemia, cento anni

fa, quindi, il mondo si era stabilizzato. Era molto simile a quello di og-

gi, con minuscole cittadine agricole e vaste distese di campagna deser-

ta. Era stata riscoperta la polvere da sparo venivano usati i fucili. e

quasi tutte le bande di predoni erano state distrutte. E poi, nella citta-

dina di N'Orleans, costruita alla periferia della vecchia città, arrivò il

giovane John Holland.

--Holland era un tipo eccezionale, avido di sapere. Trovò i resti di

un'antica biblioteca e cominciò lentamente a decifrare le parole arcai-

che dei pochi libri sopravvissuti. A poco a poco altri si unirono a lui, e

via via che lentamente la voce si spargeva, arrivarono uomini da altre

regioni, portando i loro libri, e nacque l'Accademia. Non c'era nessun°

che insegnava, naturalmente: era soltanto un gruppo di studiosi che vi-

378

Vevano un'esistenza da comunità monastica. Non vi furono tentativi di

S~ruttare in modo pratico l'antica sapienza, fino a quando um giovane

chiamato Teran fece un sogno.-. sognò di riattivare le macchine cente-

narie di N'Orleans, e di ridare alla città l'energia che corre nei fili!

E che cos'è?--chiese Hull.--Che cos'è, Vecchio Einar?

~ Non lo capiresti, Hull. Teran era un entusiasta; non si fermò ben-

ché sapesse che non c'era carbone né petrolio per far fimzionare le sue

macchine- Credeva che, quando l'energia fosse divenuta necessaria, sa-

rebbe venuta; perciò lui e i suoi seguaci lucidarono e limarono e salda-

rono. E aveva avuto ragione lui. Quando ebbe bisogno dell'energia, la

trovò.

"Fu il dono di un uomo chiamato Olin, che aveva scoperto l'ultimo,

supremo segreto degli Antichi, I'energia chiamata atomica. La diede a

Teran, e N'Orleans divenne una città del miracolo, dove splendevano le

luci e giravano gli ingranaggi. Gli uomini accorrevano da ogni parte

del continente per ammirare; e tra costoro c'erano Martin Sair e Joa-

quin Smith, giunti dal Messico con la sorellastra di Joaquin, satanica-

mente bella, chiamata talvolta Margot la Nera.

"Martin Sair era un genio. Trovò il suo campo nello studio della me-

dicina, e passarono meno di dieci anni, prima che scoprisse il segreto

delle radiazioni dure. Stava studiando la sterilità, ma trovò invece...

I'immortalità! "

--Allora gli Immortali sono veramente immortali--mormorò Hull.

--Può darsi, Hull. Almeno, sembra che non invecchino, ma... Bene,

anche Joaquin Smith era un genio, ma di un tipo diverso. Sognava di

riunificare i popoli del paese. Credo che il suo sogno sia ancora più

grande Hull, la gente dice che si fermerà quando regnerà su cento cit-

tà, ma io credo che sogni un Impero americano, oppure...--Il Vecchio

Einar abbassò la voce.--Un Impero mondiale. Almeno, si servì del-

l'immortalità di Martin Sair e la barattò con il potere. Il Secondo Illu-

minismo stava spuntando, e a N'Orleans il genio non scarseggiava.

Joaquin Smith diede l'immortalità a Kohlmar in cambio di un'arma,

I offri a Olin per la potenza atomica; ma Olin non era più giovane, e la

rifiutò~ un po' perché non la voleva, e un po' perché non aveva molta

simpatia per Smith. E così il Maestro s'impadronì del segreto dell'ato-

o a dispetto di Olin, e incominciò la Conquista.

"N'Orleans, esposta direttamente all'influenza della personalità ma-

gnetica del Maestro, era pronta a cedere, e lo fece con gioia. Lui radunò

un esercitO e marciò verso Nord, e dovunque le città caddero o si arre-

sero. Joaquin Smith è magnifico e gli uomini corrono a lui, le città l'ac-

manO, e persino le mogli e i figli degli uccisi gli giurano fedeltà,

~uandO egli concede loro il perdono con quel suo modo generoso. Solo

~,ua e là vi sono uomini che lo odiano rabbiosamente, e lo chiamano ti-

~no, e parlano di libertà.N

379

--Come i montanari--disse Hull.

--Neppure i montanari possono resistere ai raggi ionici che Kohl

mar riscoprì nei libri antichi, né al risonatore di Erden che fa esplodere

la polvere da sparo a chilometri di distanza. Credo che Joaquin Smil

riuscirà nel suo intento, Hull. Inoltre, non ritengo sia un gran mal_

perhé è un grande sovrano, un portatore di civiltà.

--E come sono gli lmmortali?

--Ecco, Martin Sair è freddo come la roccia delle montagne, e 1..

Principessa Margaret è simile a un fuoco nero. Persino le mie vecchie

ossa ringiovaniscono quando la guardo; ed è meglio che i giovani non

la guardino affatto, perché è senza cuore, implacabile, spietata. In

quanto a Joaquin Smith, il maestro... non conosco parole capaci di de-

scrivere um personaggio tanto complesso, eppure lo conosco bene. E

mite, forse, ma enormemente forte, buono o crudele a seconda di quel

che conviene ai suoi scopi, intelligentissimo, e pericolosamente affasci-

nante.

--Lo conosci!--esclamò Hull. E aggiunse, incuriosito:--Qual è

il tuo cognome, Vecchio Einar che conosci gli Immortali?

Il vecchio sorrise.--Quando nacqui--rispose--i miei genitori mi

chiamarono Einar Olin.

Il maestro in marcia

Joaquin Smith era in marcia. Hull Tarvish era appoggiato alla porta

dell'officina di File Ormson a Ormiston, e guardava oltre i campi e i bo-

schi in direzione delle azzurre montagne dell'Ozarky, a meridione. Era

là che avrebbe dovuto essere, là con i montanari ma quando lo stancO

messaggero a cavallo ebbe portato l'annuncio a Selui, e Hull ebbe rag-

giunto Ormiston, ormai era troppo tardi, e Ozarky era solo una provin-

cia periferica dell'Impero in continua espansione, mentre il MaestrO

era accampato lassù, sopra Norse, e mandava ambasciatori a Selui.

Selui non intendeva cedere. Già le città della Confederazione di Se-

lui, nata solo tre mesi prima, inviavano i loro uomini, da Bloom'tom,

da Cairo, persino dalla lontana Ch'cago, sulle rive del mare d'acqua

dolce, Mitchin. Gli uomini della Confederazione odiavano i piccoli

snelli, bruni ch'caghiani, perché non avevano ancora dimenticato la di-

sastrosa battaglia di Starved Rock; ma qualunque alleato contro Joa-

quin Smith era il benvenuto. I ch'caghiani erano per giunta buoni com-

battenti, e s'impegnavano sul serio, perché se il Maestro avesse pres°

Selui, il suo Impero, si sarebbe esteso Dericolosamente vicino ai mari

d'acqua dolce, dall'oceano a Est fino alle montagne all'Ovest, e a Nord

fino alla confluenza tra M sippi e M'souri.

Hull sapeva che ci sarebbe stato da menar le mani, e se ne rallegrava.

~ra un peccato non aver potuto combattere nell'Ozarky per la sua gen-

te, ma Ormiston sarebbe andata bene. Quella era la sua patria, per il

momento~ poiché aveva trovato lavoro presso File Ormson, il robusto

fabbro, che aveva le spalle ampie quanto lui ed era più basso di tutta la

testa. Era un lavoro piacevole per i suoi muscoli poderosi, sebbene al

momento non vi fosse nulla da fare.

lq~,q lq c~mn ivna. tranquilla. Joaquin Smith era in marcia

e oltre il villaggio i contadini lavoravano ancora nei campi. Hull ascol-

tò il lento Canto della Semina:

Ecco che cosa occorre al buon terreno:

prima l'aratro, quindi i semi in seno;

poi con la zappa lavori indefessi,

e pioggia per far crescere le messi.

Ecco che cosa occorre all'uomo buono:

delle promesse e dell'azione il dono;

e poi la freccia, poi la lama vera,

e il badile con la pala nera.

Ecco che cosa occorre per la sposa:

un'ortaglia curata e prosperosa;

e poi la figlia e un figlio da curare,

e il caminetto dove riposare.

l~rr~ ch~ co ~ ~r~rro ~l hr ~ fj~l j~

Hull smise di ascoltare. I contadini cantavano, ma Joaquin Smith

era in marcia, con gli uomini di cento città, con la sua bandiera nera e il

serpente dorato svolazzante. Quello, aveva detto il Vecchio Einar, era il

Serpente di Midgard, che secondo la vecchia leggenda cingeva la Ter-

ral. Era il simbolo del sogno del Maestro, e per un attimo Hull provò un

fremito di simpatia per quel sogno.

--No!--si disse.--La libertà è meglio, e tocca noi schiacciare la

testa del Serpente di Midgard!

Una voce suonò al suo fianco.--Hull! Hull Tarvish! Sei troppo orgo-

glioso per notare l'umile gente comune?

Era Vail Ormiston, con gli occhi viola che brillavano capricciosi sot-

to i lisci capelli color rame. Hull arrossì: non era abituato ai modi delle

ragazze della valle, che flirtavano apertamente come non avrebbero

mai fatt~ le timide fanciulle montanare. Eopure lui... be', in un certo

I Nell~antica mitologia nordica, I'immane Serpente di Midgard era immerso

nelle acque dell'Oceano e stringeva il mondo nelle sue spire. Simboleggiava il

CaoS e l'ignoto che assediano la realta. Il serpente è di per sé simbolo della totali-

tà, SpeCie nella nota figurazione in cui si morde la coda (N.d.T).

senso gli faceva piacere, e Vail Ormiston gli piaceva, e ricordava con

gioia quando, due sere prima, era rimasto seduto a parlare con lei per

tre ore buone, sulla panca accanto all'albero che ombreggiava il pozzo

di Ormiston. E ricordava la passeggiata per i campi, quando lei gli ave-

va mostrato l'imboccatura di una grande fogna antica, che si estendeva

ancora, semisgretolata, per chilometri e chilometri sottoterra, in dire-

zione delle colline, e ricordava che Vail gli aveva raccontato di quando

da bambina, vi si era persa, e suo padre aveva piantato gli arbusti di

mirtilli che nascondevano tuttora l'apertura.

Hull sorrise.--La figlia dell'Anziano parla di umile gente comune?

Tuo padre mi raddoppierà le tasse, se viene a saperlo.

Vail scosse il casco di capelli metallici.--Lo farà di sicuro, se ti vede

con questo bell'abito di Selui.--Le brillavano gli occhi.--Per chi

l'hai comprato, Hull? Perché faresti meglio a risparmiare il tuo danaro.

--Chi risparmia l'argento perde la fortuna--ribatté Hull. Dopotut-

to, non era tanto difficile parlare con lei.--Del resto, meglio un tuo

sorriso dello scintillio del danaro.

Vail rise.--Ma come impari presto, montanaro! Comunque, se ti di-

cessi che ti preferisco vestito di stracci, con i muscoli possenti che guiz-

zano tra gli strappi?

--Lo dici davvero, Vail?

--Sicuro!

Ridacchiando, Hull si portò alle spalle le grandi mani. Vi fu il suono

della stoffa lacerata, e un lungo strappo si aprì sul dorso della camicia

acquistata a Selui.--Ecco fatto, Vail!

--Oh!--gemette lei.--Hull, sprecone! Ma è soltanto una cucitura

che ha ceduto!--Si frugò nella borsa che portava alla cintura--La-

scia che l'aggiusti io.

Vail si chinò dietro Hull, ed egli ne sentì il respiro sulla pelle, caldo

come il Sole di primavera. Strinse i denti, fece una smorfia, poi si buttò

deciso su ciò che aveva da dire.--Mi piacerbbe parlare di nuovo con te

stasera, Vail.

Percepì il sorriso di lei, dietro le sue spalle.--Davvero?--mormorò

pudicamente la ragazza.

--Sì, se Enoch Ormiston non ti ha già chiesto un appuntamento.

--Me l'ha chiesto Hull.

Il giovane sapeva che lo punzecchiava di proposito.--Mi dispiace,

disse, laconico.

--Ma... gli ho detto che aveva da fare--concluse Vail.

--Hai da fare davvero?

La voce risuonò come un bisbiglio.--No, a meno che non me lo dica

tu.

Hull proruppe in una grande risata.--E allora te lo dico, Vail.

La sentì tirare la cucitura, poi chinarglisi sul collo, ma soltanto per

tranciare i fili con i denti candidi.--Ecco fatto!--esclamò gaiamente

la ragazza.--La camicia è rimessa a nuovo.

~; Prima che Hull potesse rispondere, si udì il clangore del maglio di Fi-

le Ormson, e il tuono misurato del suo Canto della Forgia. Ascoltarono,

mentre i colpi risonanti battevano il tempo.

Oh-oh... oh-oh... oh!

Io canto al risuonare

d'ogni colpo... colpo... colpo!

E il metallo già diventa tenero,

mentre sonoramente soffia il mantice

come l'orgia dei diavoli laggiù... giù giù!

Come l'orgia dei diavoli laggiù!

--Devo andare--disse Hull, sorridendo riluttante.--Ho del lavoro

da fare.

--Cosa sta fabbricando File?--chiese Vail.

Subito il sorriso di Hull svanì.--Sta forgiando... una spada!

Anche Vail non era gaia come un momento prima. Su entrambi era

~, calata un'ombra, I'ombra dell'Impero. Là fuori, tra le colline azzurre

dell'Ozarky, stava marciando Joaquin Smith.

Era sera. Hull contemplava il riflesso d'una Luna color rame nei ca-

pelli cuprei di Vail, appoggiandosi alla spalliera della panchina. Non

era quella vicina alla pompa del pozzo: era già occupata da due coppie

ridenti, e sebbene loro fossero stati accolti di buon garbo, Hull aveva

preferito la solitudine. Non era più timidezza di montanaro, la sua,

perché il suo carattere bonario gli aveva procurato molti amici nel vil-

laggio di Ormiston: era la proiezione del malumore che aveva preso en-

trambi al momento del commiato, e perciò adesso sedevano sulla pan-

china accanto al cancello di Vail, alla periferia del villaggio. Dietro di

loro grandeggiava buia la casa di pietra: il padre di lei era in giro per la

,~ Città, a occuparsi degli affari della Confederazione, e i servitori aveva-

no approfittato della serata libera per raggiungere la gente radunata

sulla piazza del villaggio. Ma dall'altra parte della strada brillava la

luce gialla della lampada a olio, in casa di Hue Helm, il contadino che

aveva portato Hull da Norse a Ormiston. Hull fissava pensoso quella

luce~ Mi piaCe combattere--ripeté.--Ma non so perché, non è più

~-~ entusiasmante~ E come attendere l'avvicinarsi di un temporale.

--E come si può combattere la magia?--chiese Vail, timidamente,

con un fil di voce.

--La magia non esiste--disse il giovane, ripetendo le parole del

, Vecchio Einar.--Non esiste.

i --Hull! Ma come puoi dire una simile stupidaggine?

--Dico ciò che mi ha detto uno che sa.

--Non esiste la magia!--esclamò Vail.--E allora dimmi che cosa

dà il potere agli stregoni del Sud. Perché Joaquin Smith non ha mai

perduto una battaglia? Che cosa ha sottratto il coraggio agli uomini

della Lega di Memphis, che sono buoni combattenti? E cosa... perché

l'ho visto con i miei occhi... che cosa spinge per le strade i carri senza

cavalli di N'Orleans, e cosa illumina quella città, la notte? Se non è ma-

gia, che cos'è?

--La sapienza--disse Hull.--La sapienza degli Antichi.

--La sapienza degli Antichi era magia--fece la ragazza.--Tutti

sanno che erano maghi, stregoni e incantatori. Se Holland, Olin e Mar-

tin Sair non sono stregoni, allora cosa sono? Se Margot la Nera non è

una strega, allora i miei occhi non ne hanno mai vista una.

--Tu li hai visti?--chiese Hull.

--Certo. Tutti, tranne Holland, che è morto. Tre anni fa, durante la

Pace di Memphis, mio padre mi portò con sé in viaggio per l'Impero. Li

ho visti tutti, a N'Orleans.

--E lei... cosa dicono di lei?

--La Principessa?--Vail abbassò gli occhi.--Gli uomini dicono

che è bella.

--Ma tu non la pensi così?

--E anche se lo è ?--scattò la ragazza, in tono di sfida.--La sua bel-

lezza è come la sua gioventù, come la sua vita... artificiale, conservata

oltre il suo limite normale, congelata. Ecco... congelata per sortilegio.

E in quanto al resto...--Vail abbassò la voce, esitante, perché neppure

le franche ragazze della valle parlavano di certe cose con gli uomini.

--Dicono che abbia consumato una dozzina di amanti--disse piano.

Hull rimase sbalordito, scandalizzato.--Vail!--mormorò.

Lei tornò su un argomento meno pericoloso, ma il giovane la vide av-

vampare.--Non dire proprio a me che la magia non esiste!--dichiarò

brusca.

--Almeno--ribatté Hull--non esiste una magia capace di arresta-

re un proiettile. Sì, e lo stregone che ne arresta uno con il cranio muore

esattamente come un uomo onesto.

--Spero che tu abbia ragione-- mormorò timidamente Vail.

--Hull, bisogna fermarlo! Bisogna!

--Ma perché ti scaldi tanto, Vail? Mi piace combattere... ma molti

dicono che la vita nell'lmpero è molto simile a quella che si vive altro-

ve, e che poco importa a chi si pagano le tasse se...--All'improvviso

s'interruppe, ricordando.--Tuo padre!--esclamò.--L'Anziano!

--Sì, mio padre, Hull. Se Joaquin Smith prenderà Ormiston, miO

padre ne soffrirà più di tutti. Non incasserà più le tasse, le sue terre ver-

ranno divise, e lui è vecchio, Hull... vecchio. Che ne sarà di lui, allora-

?So che molti la pensano come te... come hai detto tu, voglio dire, e s°

che si battono senza troppo impegno, e che il Maestro s~impadronisce

di una città dopo l'altra senza colpo ferire. E poi pensano che vi sia una

magia nel nome stesso di Joacquin Smith, e lui passa attraverso eserci-

ti dieci volte superiori al suo.--Vail s'interruppe.--Ma non Ormi-

ston!--esclamò, decisa.--No, a costo che siano le donne a impugnare

le armi!

_ Non Ormiston--ammise Hull, gentilmente.

Tu combatterai, Hull, vero? Anche se non sei nato qui?

_ Certo. Ho arco e spada, e una buona pistola. Combatterò.

Ma non hai fucile? Aspetta, Hull.--Vail si alzò e sgattaiolò via.

3 nell'oscurità.

Dopo un momento ritornò.--Ecco. Ecco il fucile, e il como della pol-

vere, e i proiettili. Sai come si usa?

Hull sorrise fieramente.--So colpire tutto quello che vedo,--disse.

_ Come tutti i montanari.

_ Allora--mormorò Vail, con il fuoco nella voce--pianta un

proiettile nel cranio del Maestro. E anche uno tra gli occhi di Margot la

Nera... per me!

L --Io non combatto le donne--rispose lui.

E --Non è una donna: è una strega!

--Comunque, Vail, dovranno esserci due pallottole per il Maestro, e

soltanto le catene della prigionia per la Principessa Margaret, almeno

per quanto riguarda Hull Tarvish. Ma non ti basterebbe vederla attin-

gere acqua alla tua pompa, o lucidare le pentole della tua cucina?--

Cercava di assecondarla, di prospettarle immagini fantastiche per ri-

sollevarle il morale.

F Ma lei l'interpretò diversamente.--Sì--esclamò.--Oh, sì, Hull, è

meglio così. Se potessi sperare di vedere una cosa simile...--Si alzò al-

I'improvviso, e lui la seguì fino al cancello.--Devi andare--mormo-

rò.--Ma prima, se vuoi, Hull... prima, puoi baciarmi.

Di colpo, Hull tornò ad essere un montanaro timido. Appoggiò il fuci-

f le alla staccionata con il corno appeso alla guardia del grilletto. Si girò

,I verSo Vail, arrossendo con violenza, ma solo in parte d'imbarazzo: il re-

Sto era felicità. La cinse con le braccia robuste e, frettolosamente, le

sfiorò le labbra tenere.

~- --Adesso--disse, esultante--adesso combatterò, a costo di dover

`~ caricare da solo l'esercito dell'Impero.

La battaglia di Eaglefoot Flow

Gli uomjnj della Confederazione continuarono a riversarsi a Ormiston

er tutta la notte. ~li ometti bruni di Ch'cago e Selui, quelli alti e bion-

di delle regioni dello Iowa, dove sopravviveva ancora il sangue olande_

se, mescolato all'immissione scandinava delle alte valli dei fiumi. Per

tutta la notte vi fu lo sferragliare dei carri che portavano polvere da

sparo e proiettili da Selui, e viveri, perché Ormiston non era in grado di

sfamare tante bocche. Era un magnifico esercito, forte di diecimila uo-

mini, tutti combattenti esperti, addestrati in una dozzina di piccoli

conflitti e nella sanguinosa Guerra dei Laghi e dei Fiumi, quando

Ch'cago s'era portata via una grossa fetta dei territori di Selui.

La resistenza doveva essere organizzata a Ormiston, e Norse, I unico

abitato che si trovava ormai tra Joaquin Smith e la Confederazione

venne abbandonata al suo destino. I comandanti avevano esaminato ií

territorio, e avevano concordato un piano. Cinque chilometri più a sud

del villaggio, la strada costeggiava un antico tratto della ferrovia, in-

cassato nel terreno, fiancheggiato da banchine alte quindici metri, e

coperto da fitti boschi per un chilometro a nord e a sud del ponte su Ea-

glefoot Flow.

Lì i comandanti avrebbero distribuito i loro uomini in fila per uno

dove le alture erano scoscese ed elevate, ammassati in forza dove lo

permetteva il terreno. Joaquin Smith doveva percorrere la strada: non

ce n'erano altre. Era una posizione ideale per un'imboscata, e il piano

era d'una semplicità magnifica. Tanta semplicità e tanta magnificenza

non potevano fallire, dicevano, dimenticando di avere a che fare con il

massimo genio militare di tutta l'Età dell'Illuminismo.

Era metà mattina quando gli esploratori inviati nell'Ozarky tornaro-

no con notizie da togliere il fiato. Joaquin Smith aveva ricevuto la sfida

lanciata da Selui ai suoi ambasciatori, ed era in marcia. Il Maestro era

in marcia, e sebbene gli esploratori avessero viaggiato in fretta, a ca-

vallo, da Norse, non poteva essere ormai molto lontano. Le sue forze?

Gli esploratori calcolavano che fossero quattromila uomini, tutti a ca-

vallo, con gli altri mille ausiliari. Erano in condizioni d'inferiorità nu-

merica uno contro due! Ma Hull Tarvish ricordava di aver sentito par-

Iare di altri scontri in cui Joaquin Smith aveva sopraffatto avversari

anche più forti.

rl momento era vicino. Nella stanzetta accanto all'officina di File

Ormson, Hull stava esaminando le sue armi, mentre Vail Ormiston,

pallida, nervosa e adorabile, I'osservava attenta. Hull passò uno strac-

cio oliato attraverso la canna del fucile che lei gli aveva consegnato, eli-

minò una chiazza di ruggine dal cane, soffiò via un granello di polvere-

Accanto a lui, sul tavolo, c'erano il corno della polvere da sparo e le pal-

lottole, e contro la sedia stava appoggiato l'arco d'acciaio.

--Un'arma magnifica!--esclamò in tono d'ammirazione, prenden-

do la mira lungo la canna.

--Spero... spero che ti sia utile,--mormorò Vail con voce tremula

--Hull, bisogna fermarlo. Bisogna!

Tenteremo, Vail.--Hull si alzò.--E ora che vada.

Lei gli si mise davanti.--Allora, prima di andare, vuoi... baciarmi,

Il giovane le si avvicinò, poi arretrò, allarmato, perché in quell'istan-

te, accadde. Vi fu una serie di schiocchi debolissimi, e Hull ebbe per un

istante la sensazione di scorgere un brillìo di scintille azzurre sui can-

delieri e sugli oggetti metallici nella stanza, e di avvertire un bizzarro

formicolio. Poi dimenticò tutte quelle cose strane e banali, quando il

corno della polvere da sparo posato sul tavolo s'incendiò ruggendo, e

schizzi fiammeggianti esplosero intorno a lui come meteore.

Per un istante restò immobile, impietrito. Vail urlava: il suo abito

stava bruciando. Hull si mosse di scatto, sollevandola, gettandola di

traverso sul pavimento, e cominciò a spegnere le fiamme emanate. Poi

L fece altrettanto con il fuoco che si era appiccicato al tavolo e al pavi-

mento; pestò con i piedi le fiamme, e finalmente le spense.

si girò, tossendo, semisoffocato dal fumo nero, e si piegò su Vail, che

ansimava, quasi svenuta. La gonna s'era bruciata quasi del tutto e per

il momento era troppo sconvolta per nascondersi le lunghe gambe, seb-

~ bene a quei tempi non vi fossero al mondo donne più pudiche di quelle

t delle medie regioni del fiume. Ma quando Hull si chinò verso di lei, si

raggomitolò.

--Come stai?--gridò lui.--Vail, ti sei bruciata?

--No... no!--ansimò la ragazza.

~' --E allora, fuori!--scattò Hull, tendendo le braccia per sollevarla.

--No... non così!

Hull comprese. Staccò dal muro il grembiule di cuoio da fabbro, glie-

lo drappeggiò addosso, e la portò fuori, nell'aria più pura della strada.

Fuori c'era il caos. Hull depose delicatamente Vail sui gradini e guar-

dò quella scena tumultuosa. Gli uomini correvano gridando, e dalle fi-

nestre lungo la strada usciva fumo nero. A una dozzina di metri di di-

,~ Stanza, un carro zeppo di polvere era esploso in un enorme fungo di fu-

mo incenerendo cavalli e guidatore. Sulla veranda, dall'altra parte

r delia strada, un uomo si contorceva, straziato dallo scoppio del fucile

che aveva tenuto fra le mani.

Hull comprese di colpo.--Gli scintillatori ! '--ruggì .--Gli scintilla-

Eí tori di Joaquin Smith! Il Vecchio Einar me ne aveva parlato.--Si la-

SCiò sfuggire un gemito.--Le nostre munizioni non esistono più.

La ragazza si controllò con grande fatica.--La stregoneria di Joa-

| quin Smith--disse con voce spenta.--E così finiscono anche le nostre

" Speranze.

risonatOri Erden". Congegno, ora antiquato, che proiettava un campo d'in-

uzione~ sufficiente a produrre minuscole scariche elettriche negli oggetti me-

tallici~ entro um raggio di molti chilometri. In questo modo accendeva le sostan-

ze infiammabili~ come la polvere da sparo (N.d.A.).

Hull trasalì.--Le nostre speranze? No! Aspetta, Vail.

Si preclpitò verso il gruppo che circondava il vecchio Marcus Ormi-

ston e i comandanti della Confederazione. Si fece largo energiCamente

e afferrò il vegliardo atterrito.--E adesso?--ruggì.--Cos'ha inten-

zione di fare?

--Fare? Fare?--Il vecchio non capiva.

--Sì, fare! Glielo dirò io.--Guardò rabbiosamente i cinque. Andre_

mo fino in fondo. Capisce? Anziché polvere da sparo e fucili, useremo

archi e spade; andranno benissimo, per la portata che ci serve. Raduni i

suoi uomini! Raduni i suoi uomini e mettiamoci in marcia!

E così fu. Hull marciò alla testa degli uomini di Ormiston, portando

con sé il ricordo del commiato di Vail. Lo imbarazzava venire baciato

così, in pubblico, ma gli aveva dato una grossa soddisfazione veder

l'espressione acida di Enoch Ormiston.

Gli uomini di Ormiston erano i primi, sulla linea di marcia del Mae-

stro, e s'infiltrarono nelle postazioni nascoste dalla foresta, silenziosi

come volpi. Hull si voltò a osservare lo stretto passaggio, e si sentì com-

piaciuto, perché nessuno avrebbe potuto accorgersi che lungo la strada

deserta erano disposti diecimila combattenti. E per giunta conosceva-

no bene i boschi e sapevano come muoversi, venuti com'erano dalle al-

te valli dei fiumi e dai mari d'acqua dolce.

Dalla via di Norse arrivò al galoppo un cavaliere. Il vecchio Marcus

Ormiston lo riconobbe, si alzò e lo chiamò. I due conferirono: Hull poté

udire le parole. Il Maestro aveva attraversato Norse fermandosi solo il

tempo sufficiente per far sapere all'Anziano che d'óra innanzi le tasse

dovevano venire inoltrate a N'Orleans; poi aveva proseguito, senza

fretta. No, non s'erano viste stregonerie, e il messaggero non aveva ve- ~1

duto neppure la strega Margot la Nera: ma del resto si era allontanato

prima che il Maestro arrivasse.

L'informatore proseguì verso Ormiston, e gli uomini ripresero ad at-

tendere in silenzio. Passò mezz'ora e poi, lieve e fioca nell'aria silenzio-

sa, giunse una musica. Era un canto di voci maschili. Hull ascoltò at-

tento, e si sentì accapponare la pelle e rizzare i capelli, quando distinse

le parole dell'Inno di Battaglia di N'Orleans:

Regina delle città, splendida imperatrice

dalle vesti di stelle imperlate

guarda le nostre braccia che sorreggono

le bandiere di guerra spiegate!

Ascolta il nostro canto farsi forte,

ardente come il fuoco della lotta:

il nostro solo desiderio è morte,

oppure

llmpero del Mondo!

Hull impugnò saldamente l'arco e incoccò la freccia. Sapeva che il

loro piano era di lasciar passare indisturbato il nemico, fino a che l'in-

tera colonna forse all'interno del tratto lungo il quale era spiegata l'im-

boscata~ ma il rombo di quel canto lontano l'infiammò, come una scin-

tilla accende la polvere. E lontano, lontano, oltre il varco tra le due

sCarpate, vide sollevarsi un polverone. Joaquin Smith si stava avvici-

nando.

Poi... I'inaspettato. In seguito, Hull si disse che avrebbe dovuto essere

prevedibile, che la reputazione del Maestro avrebbe dovuto far loro

comprendere che un piano tanto semplice era destinato al fallimento.

Ma in quell'attimo non vi fu tempo per pensieri tanto vani, perché al-

I'improvviso, attraverso gli alberi alla sua destra, uomini agili, piccoli,

vestiti di marrone, guizzarono come ombre lanciate alla carica, mentre

i comi squillavano, i fischietti sibilavano.

Gli esploratori del Maestro! Joaquin Smith aveva esattamente previ-

sto l'imboscata.

Immediatamente, Hull si accorse della debolezza della Lega. Erano

diecimila, certamente, ma erano sparsi su un tratto di oltre tre chilo-

metri, e gli esploratori di Joaquin Smith avevano un vantaggio nume-

rico enorme, mentre il grosso dell'esercito si andava avvicinando. C'e-

ra un'unica possibilità: combattere, respingere gli esploratori, e riti-

rarsi nei boschi. Finché esisteva l'esercito, anche se Ormiston fosse

caduta, la speranza non sarebbe morta.

Lanciò un grido, scagliò la freccia, mandandola balenante tra le fron-

de. Non era il posto più adatto per combattere con le frecce: il loro volo

arcuato veniva sempre deviato dal groviglio dei rami. Hull s'infilò l'ar-

i. co sulle spalle e impugnò la spada: bisognava combattere corpo a cor-

po il tipo di combattimento che faceva formicolare il sangue e faceva

apparire gioiosa la vita.

Poi la seconda sorpresa. Gli esploratori avevano estratto le armi,

piCCoíe pistole tozzel . Ma non sparavano proiettili: raggi pallidi saetta-

I vano tra foglie e rami, come lampi di fioca luce azzurra. Stregoneria? E

;- a che scopo?

Hull lo scoprì subito. La spada divenne improvvisamente rovente, e

dopo un istante la sofferenza più strana che avesse mai conosciuta stra-

~ Ziò il suo corpo. Un formicolio interno, violento e pungente, che gli tor-

L Ceva i muscoli e gli paralizzava i movimenti. Un secondo, e il trauma

essò ma la sua spada giaceva fumigante tra le foglie, e l'arco dfacciaio

gli avev,a ustionato la spalla. Intorno a lui gli uomini urlavano di dolo-

re, contorcendosi al suolo, o correvano a ritugiarsi nel profondo della

foresta. Hull maledisse quei raggi: guizzavano come la luce del Sole nel

|~ grovigliO di fronde e di rami, dove non riuscivano a passare le frecce.

t I raggi ionici di Kohlmar" . Due raggi paralleli di luce fortemente attinica io-

iZzano un tratto d'aria, e lungo questi percorsi di gas conduttore può passare

~ Una corrente elettrica, abbastanza potente da uccidere, o solo abbastanza inten-

; sa da infliggere so~ferenza (N d.A.).

Eppure, a quanto pareva, nessuno degli uomini era rimasto ucciso

Le mani erano ustionate dalle armi divenute roventi sotto i raggi az-

zurri, i corpi erano straziati dalla tortura che, Hull non poteva saperlo

altro non era che una scossa elettrica: ma nessuno era morto. La spe-

ranza si riaccese, e il giovane si precipitò a trattenere un gruppo che

fugglva.

--Alla strada!--ruggì.--Allo scoperto, dove le nostre frecce pos-

sono volare libere! Carichiamo la colonna!

Per un momento, il gruppo si fermò. Hull strappò dalle mani di un

uomo una spada che non si era ancora surricaldata, e si voltò.--Segui-

temi!--urlò.--Andiamo! Possiamo combattere!

Udì, alle sue spalle, uno scalpiccio. I raggi saettarono di nuovo: ma

Hull tenne la spada all'ombra del proprio corpo, strinse i denti, e sop-

portò la sofferenza che lo torceva. Si avventò: udì il suo nome gridato

dalla voce tonante di File Ormson, ma egli rispose solo con un urlo d'in-

coraggiamento e si lanciò sulla strada, in pieno sole.

La testa della colonna era giunta nella gola, e avanzava tranquilla-

mente. Scorse un uomo dai capelli neri e dall'elmo d'argento su di una

grande cavalla bianca, alla testa delle truppe, e accanto a lui una figura

più snella, su uno stallone nero. Joaquin Smith! Ruggendo, Hull si lan-

ciò giù per la scarpata.

Quattro uomini spronarono immediatamente i cavalli, mettendosi

tra lui e l'uomo dall'elmo d'argento. Saettò un raggio: la spada gli scot-

tò la pelle, ed egli la scagliò via.--Fatevi sotto!--gridò.--Battetevi !

Stranamente, con una chiarezza bizzarra, vide gli occhi degli uomini

dell'lmpero: erano sorridenti, misteriosamente divertiti. Non c'era col-

lera, né paura... solo divertimento. Hull provò un'improvvisa trepida-

zione, si voltò indietro, fulmineo, e comprese la causa di quel diverti-

mento. Nessuno l'aveva seguito: aveva caricato da solo l'esercito del

Maestro!

Hull fu preso dalla collera più ardente che mai l'avesse invaso. Ab-

bandonato! Abbandonato da coloro per cui combatteva. Urlò la sua

rabbia alle alture echeggianti, e si avventò sul cavaliere più vicino.

Il cavallo s'impennò, raspando l'aria con le zampe. Hull tese le brac-

cia poderose sotto il ventre dell'animale e spinse, con una convulsione

dei grandi muscoli. Cavallo e cavaliere si rovesciarono all'indietro, e

intorno al Maestro vi fu un turbinio confuso, mentre un uomo Correva

disperatamente, per sottrarsi agli zoccoli scalpitanti. Ma Hull intravi-

de Joaquin Smith, immobile e sorridente in sella alla grande giUmenta

bianca.

Strappò dalla sella un altro cavaliere, e poi, con la coda dell'occhio,

vide il giovane snello a fianco del Maestro alzare un'arma freddamen-

te, metodicamente. Per un istante. Hull guardò nei gelid; occhi verdi,

carichi di una spassionata minaccia di morte. Si gettò a lato, mentre un

raggio sibilava fumando sulla polvere della strada.

--No!--scattò Joaquin Smith, con una voce bassa che tuttavia ri-

suonò chiara nella confusione.--Quel giovane è splendido!--

Ma Hull non aveva intenzione di morire invano. Si chinò, con un uni-

co balzo poderoso si avventò su, a metà della scarpata, si afferrò a un

ramo basso e si lanciò nella foresta. Si trovò di fronte un esploratore

sbalordito: lo scagliò dietro di sé, giù per il pendio, e s'insinuò al riparo

delle fronde.--Un guerriero saggio sa combattere l'orgoglio--bor-

bottò tra sé.--Non è un disonore, per un uomo solo, fuggire davanti a

un esercito.

Hull era un montanaro. Fece silenziosamente il giro della foresta,

evitando gli esploratori che spingevano l'esercito della Confederazione

verso Ormiston. Sorrise cupamente, ricordando le parole che aveva

detto a Vail. Le aveva tradotte in realtà; aveva veramente caricato da

solo l'esercito del Maestro.

Margot la nera

Hull fece un ampio giro nella foresta, e dovette ricorrere a tutte le sue

astuzie di montanaro per passare tra le file degli esploratori. Finalmen-

te arrivò nei campi a oriente di Ormiston, e raggiunse la strada, entran-

do dalla direzione di Selui.

Dovunque c'erano i segni della rotta. C'erano carri rovesciati: senza

dubbio i conducenti avevano staccato i cavalli per fuggire. Pistole e fu-

cili, quasi tutti scoppiati, erano sparsi lungo la via, e di tanto in tanto

Hull superava neri mucchi fumanti e carbonizzati che erano stati carri

di munizioni.

Ormiston, comunque, aveva subito pochi danni. Vide i resti di un

paio di baracche sventrate che erano servite come magazzini per la

polvere da sparo, e in fondo alla strada il tetto di una casa fumava an-

cora. Ma non c'era segno di carneficina, soltanto la strada affollata in-

dicava qualcosa d'insolito.

Trovò File Ormson nel gruppo che stava guardando verso l'altra par-

te del villaggio, dove la strada di Norse svoltava verso est. Hull aveva

battuto in velocità la tranquilla marcia del Maestro, perché proprio al-

la curva c'era l'esercito risplendente: adesso si era fermato. Neppure

gli esploratori erano entrati a Ormiston, perché anch'essi erano lì, al-

lineati in una schiera brunovestita, al limitare dei boschi, oltre i campi

più vicini. A quanto pareva, non si erano preoccupati di fare prigionie-

ri limitandosi a sospingere nel villaggio i difensori atterriti. Joaquin

Sínith l'aveva avuta vinta una volta di più; aveva preso un centro abi-

tato senza causare morti, o almeno con le sole perdite causate dall'e-

splosione dei fucili e della polvere da sparo.

All'improvviso, Hull notò qualcosa.--Dove sono gli uomini della

Confederazione?--chiese bruscamente.

File Ormson volse su di lui un paio d'occhi cupi.--Andati. Sono fug-

giti a Selui, come topi spaventati nelle loro tane.--Fece una smorfia

poi sorrise.--E stato un gesto sciocco il tuo a Eaglefoot Flow, Hull. Ur;

gesto sciocco, ma coraggioso.

Il giovane fece una smorfia sarcastica.--Credevo che gli altri mi se-

guissero.

--Sarebbe stato giusto, ma quei raggi infernali ci hanno tolto il co-

raggio. E possono uccidere, non solo fare il solletico: quando è stato ne-

cessario, davanti a Memphis, hanno ucciso.

Hull pensò al giovane dagli occhi verdi.--Questo credo di averlo

quasi imparato a mie spese--rispose sorridendo.

In fondo alla strada vi fu un movimento. Hull socchiuse gli occhi per

vedere meglio, e scorse l'elmo argenteo del Maestro. Era smontato, e si

rivolgeva a qualcuno: era... sì, il vecchio Marcus Ormiston. Hull lasciò

File Ormson, e si fece largo sino al limitare della folla che circondava i

due uomini.

Stava parlando Joaquin Smith.--E tutte le tasse verranno inviate a

N'Orleans, incluse quelle sulle tue terre. Ne userò metà per mantenere

il mio governo, ma l'altra metà ritornerà al tuo distretto, affidato a un

governatore che io nominerò a Selui, quando avrò preso anche quella

città. Non sei più l'Anziano, ma per il momento potrai raccogliere le

tasse, nella misura che io prescriverò.

Il vecchio Marcus era terrorizzato; Hull vedeva la sua barba oscillare

come un nido di pendolino nella brezza. Eppure il vecchio cercò astuta-

mente di contattare.--Sei molto duro--gemette.--Hai lasciato Pace

Helm come Anziano a Norse. Perché mi punisci? Perché ho combattuto

per conservare ciò che era mio? Perché questo t'incollerisce tanto?

--No sono in collera--disse passivamente il maestro.--Non biasi-

mo mai chi combatte contro di me; ma è mia abitudine favorire gli An-

ziani che cedono pacificamente.--Tacque un istante.--Queste sono

le mie condizioni, e sono abbastanza generose.

Erano generose davvero, pensò Hull, soprattutto per la popolazione

di Ormiston, che riceveva dall'Anziano meno della metà del valore del-

le tasse sotto forma di strade, ponti o pozzi.

--Le mie... Ie mie terre?--balbettò il vecchio.

--Conserva quelle che puoi coltivare--rispose Joaquin Smith in to-

no indifferente.--Le altre andranno ai fittavoli.--Girò le spalle al

vecchio, mise il piede sulla staffa, e balzò in sella alla grande cavalla

bianca.

Hull poté vedere bene il conquistatore, per la prima volta. Capelli ne-

ri tagliati sotto le orecchie, freddi occhi grigio verdastri; e la bocca ave-

va una vaga espressione ilare. Era alto quanto Hull, più snello, ma ave-

va spalle possenti, e non dimostrava più di trent'anni, anche se questo

era merito della magia di Martin Sair, poiché erano trascorsi più di ot-

tant'anni da quando era nato fra i monti del Messico. Era vestito come

~m guerriero delle terre meridionali: un usbergo di argentee scaglie

metalliche, corti calzoni di stoffa serica e lucida e coturni. 11 corpo

bronzeo era simile a quello delle antiche statue che Hull aveva visto a

Selui- non sembrava il demonio che molta gente diceva. Era un uomo

dall'aspetto simpatico, a parte un'espressione vagamente arrogante...

no, non esattamente arrogante, ma fiera e sicura, come se fosse convin-

to di essere guidato dal fato; e forse era davvero così.

Joaquin Smith riprese a parlare, rivolgendosi questa volta ai suoi uo-

mini.--Accampatevi qui--ordinò, indicando la piazza di Ormiston.

--E là--indicando un campo lasciato a riposo.--Non danneggiate le

colture.--Spinse avanti il cavallo, seguito da una dozzina di ufficiali.

--La chiesa--disse.

Una voce tesa e stridula risuonò alle spalle di Hull.--Tu! Sei tu,

Hull! Sei tu!--Era Vail, pallida, con gli occhi pieni di lacrime.--Dice-

vano che eri...--Scoppiò in singhiozzi, aggrappandosi a lui, mentre

Enoch Ormiston li guardava torvo.

Hull l'abbracciò.--A quanto pare ti ho delusa--disse, tristemente.

--Ma ho fatto del mio meglio, Vail.

--Delusa? Non m'importa.--La ragazza si calmò.--Non m'im-

porta, Hull, perché adesso sei qui.

--E non è poi terribile come credevamo--la consolò lui.--Non è

stato feroce come temevo.

--Feroce!--gli fece eco Vail.--Tu credi alle sue parole melliflue,

Hull? Prima le nostre tasse, poi le nostre terre, e infine saranno le no-

stre vite... o almeno la vita di mio padre. Non capisci? Non è l'Anziano

di un villaggio nemico, Hull... quello è Joaquin Smith. ~oaquin Smith!

Ti fidi di lui?

--Vail, lo credi davvero?

--Certo che lo credo!--La ragazza riprese a singhiozzare.--Hai vi-

Sto come ha già conquistato metà della cittadinanza con... la storia del-

L le tasse. Tu non ti lascerai conquistare, vero, Hull? Io... non lo sopporte-

~- --Non mi lascerò conquistare--promise Hull.

--Lui e Margot la Nera e la loro astuzia! Li odio, Hull. Io... guarda!

; Guarda!

Il giovane si girò di scatto. Per un momento vide soltanto il giovane

che aveva rivolto verso di lui gli occhi carichi d'una minaccia di morte

a Eaglefoot Flow, in sella al poderoso stallone nero. Non era un giova-

ne! All'improvviso vide che era una donna... o meglio una ragazza. Di-

ciotto anni... venticinque? Non sapeva. Teneva il volto girato dall altra

parte, per scrutare la folla allineata sul lato opposto della strada, ma la

luce del tramonto cadeva sulla fiammeggiante chioma nera, così nera

che aveva riflessi azzurri... un nero intenso, incredibile. Indossava solo

una corta giacca di pelle aperta sul davanti, e cortissimi calzoncini, ma

una gualdrappa proteggeva la snella eleganza delle gambe dal contatto

con le costole della cavalcatura. C'era una strana grazia nel mondo in

cui stava in sella, con una mano sul fianco, lasciando pendere le briglie.

Il sangue della madre spagnola appariva soltanto nella carnagione lie-

vemente olivastra, trasparente, e nello stupefacente color ebano dei ca-

pelli.

--Margot la Nera!--bisbigliò Hull.--Spudorata! Mezzo nuda!

Che cos'ha di tanto bello, quella?

Come se avesse udito il suo bisbiglio, lei si voltò improvvisamente

passando gli occhi di smeraldo sulla folla intorno a lui e Hull trovò la

risposta alla sua domanda. La bellezza di Margot era incredibile... au-

dace, scandalosa. Non era solamente l'assenza di difetti: era una bel-

lezza ardente, fiammeggiante, positiva, con una sfumatura imbroncia-

ta. L'ilarità della bocca del Maestro in lei era beffa; le labbra perfette

sembravano sempre sul punto di sorridere, ma d'un sorriso crudele e

sardonico.

La sua perfezione era spietata, ma era perfezione, persino nell'aria

vagamente orientale conferitale dai capelli neri e dagli occhi verde-

mare.

E gli occhi incontrarono quelli di Hull; per lui, fu come se avesse udi-

to uno scatto. Capì che l'aveva riconosciuto, mentre passava distratta-

mente lo sguardo sulla sua figura poderosa. Hull s'irrigidì, ricambiò lo

sguardo con aria di sfida, scrutando con insolenza il corpo di lei, dalla

chioma notturna ai piedini chiusi nei coturni. Lei, se pure fece caso a

quell'occhiata, ne diede segno soltanto con il lieve sorriso ironico, men-

tre avviava il cavallo verso Joaquin Smith.

Vail, stretta a Hull, stava tremando e fu un sollievo guardare i suoi

occhi azzurri, profondi ma non misteriosi, la comprensibile bellezza

del visetto pallido. Che importava, se non aveva lo splendore insolente

della mncipessa, pensò Hull. Era dolce e sincera e leale, e lui l'amava.

Eppure non poté evitare che il suo sguardo seguisse ancora una volta la

figura sullo stallone nero.

--Ti... ti ha sorriso, Hull!--ansimò Vail.--Ho paura. Ho terribil-

mente paura.

Nella mente di Hull, I'incanto stava lasciando posto a un'ondata d'o-

dio per Joaquin Smith, per la Principessa, per tutto l'Impero. Un'idea

prese forma, lentamente, mentre guardava in fondo alla strada, dove il

Maestro era sceso di sella e stava entrando nella chiesetta. Udì un mor-

morio d'approvazione diffondersi tra la folla, già parzialmente conqui-

Stata dalla promessa di distribuire le terre. Era solo politica, il fatto

cbe il Maestro entrasse nella Chiesa di Ormiston: un gesto compiuto

per la folla.

Hull si tolse dalle spalle l'arco d'acciaio e lo piegò. Era ancora elasti-

co si era scaldato abbastanza per scottargli la pelle, non tanto da per-

dere la tempra. «Aspetta qui ! « fece a Vail, e si avviò a grandi passi lun-

go la strada, in direzione della chiesa.

Davanti all'edificio c'era una dozzina di uomini dell'Impero, e la

Principessa attendeva, in ozio, sul grande cavallo nero. Hull attraver-

sò furtivamente il camposanto, girò intomo, raggiunse il punto dove

un groviglio di rampicanti saliva verso il tetto. Avrebbe retto il suo pe-

Lo resse, e Hull si arrampicò fino alle gronde, poi sul colmo del tetto.

Il campanile lo nascondeva alla vista degli uomini del Maestro, e nes-

suno degli abitanti di Ormiston guardava da quella parte.

Strisciò verso la base del campanile. Dovette lasciare il colmo e tra-

scinarsi precariamente sulla ripida pendenza. Quando fu sul bordo,

~erso la strada, si sporse a guardare, cauto.

Strisciò verso la base del campanile. Dovette lasciare il colmo e tra-

scinare precariamente sulla ripida pendenza. Quando fu sul bordo,

verso la strada, si sporse a guardare, cauto.

Il Maestro era ancora dentro. Involontariamente, Hull lancio un oc-

chiata a Margot la Nera, incoccò la freccia e mirò alla sua gola eburnea.

Ma non ne fu capace. Non se la sentì di scagliare quel dardo.

Sotto di lui ci fu un movimento. Joaquin uscì e balzò sulla cavalla

bianca. Era il momento.

Hull si sollevò sulle ginocchia, sperando di restare in equilibrio, no-

nostante la forte I?endenza del tetto. Meticolosamente, tirò indietro la

freccia d'acciaio.

Vi fu un grido. L'avevano visto. Un raggio azzurro gli straziò il corpo.

Per un istante sopportò il dolore, poi lasciò andare la freccia, sdruccio-

lò verso l'orlo del tetto e cadde.

Cadde sul terriccio molle, una dozzina di mani l'afferrarono, lo ri-

rnisero in piedi, lo spinsero fuori, sulla strada. Vide Joaquin Smith

ancora in sella: la freccia scintillante era piantata ritta come una

piuma sull'elmo argenteo, e sulla guancia scorreva un sottile filo di

Ma non era morto, Joaquin Smith si tolse l'elmo, accennò agli uffi-

ciali di scostarsi, e con le proprie mani si legò una striscia di stoffa

bianca intorno alla fronte. Poi volse su Hull i freddi occhi grigi.

--Sai tirare con forza--disse. Poi un lampo gli passò negli occhi.

--Qualche ora fa ti ho risparmiato la vita, no?

Hull non disse nulla.

--Perché--riprese il Maestro--cerchi di uccidermi dopo che il tuo

Anziano ha fatto pace con me? Adesso fai parte dell'Impero, e questo è

tradimento.

--~o non ho fatto pace~--ringhiò Hull.

--Ma l'ha fatta il tuo capo, vincolando anche te.

Hull non riuscì a distogliere lo sguardo dagli occhi smeraldini della

Principessa, che l'osservava con una vaga espressione d'ironia.

--Non hai nulla da dire?--chiese Joaquin Smith

--Nulla.

Il Maestro lo scrutò.--Sei nato a Ormiston?--chiese.--Come ti

chiami ?

Era inutile causare guai ai suoi amici--No--rispose Hull.--Mi

chiamo Hull Tarvish.

Il conquistatore volse la testa dall'altra parte.--Rinchiudetelo--

ordinò freddamente.--Lasciate che si prepari come richiede la sua re-

ligione e poi... giustiziatelo.

Più forte del mormorio della folla, Hull udì il grido d'angoscia di Vail

Ormiston. Si voltò per soddiderle, vide che era trattenuta da due uomi-

ni dell'Impero e si dibatteva per raggiungerlo.--Mi dispiace,--le gri-

dò, gentilmente.--Ti amo, Vail.--Poi lo trascinarono via, lungo la

strada.

Lo spinsero nel capanno degli attrezzi di Hue Helm, che aveva le mu-

ra di pietra. Era stato svuotato, probabilmente per servire d'alloggio a

qualche ufficiale. Hull si rialzò e restò ritto, passivamente, nell'adden-

sarsi dell'oscurità, dove un unico raggio di Sole rosseggiante s'insinua-

va attraverso la porta vigilata da due soldati dell'Impero.

Uno dei due parlò.--Stattene buono, Erbaccial--disse con l'accen-

to strascicato di N'Orleans.--Prega, o fai quello che devi fare.

--lo non faccio niente--rispose Hull.--I montanari credono che

una vita da giusto sia meglio di una fine da giusto, e comunque, uno

spettro è sempre uno spettro.

La sentinella rise.--E tu diventerai uno spettro.

--Se lo diventerò--ribatté Hull, volgendosi lentamente verso l'uo-

mo--preferisco diventarlo... combattendol

Balzò, all'improwiso, sparò un pugno poderoso contro il braccio che

reggeva l'arma, spinse uno degli uomini addosso all'altro, li scavalcò

con un salto, e si lanciò ~iori, nel crepuscolo. Mentre si voltava per gira-

re intorno alla baracca, qualcosa di duro lo colpì violentemente alla

nuca, mandandolo a sbattere semistordito contro il muro.

' Erbaccia: termine con cui i Doministi (partigiani del Maestro) indicavano i

ìoro oppositori. Aveva avuto origine da un commento di Joaquin Smith prlma

della Battaglia di Memphis: «Anche le erbacce dei campi hanno preso le armi

contro di me«. (N.dA.).

Gli irriducibili

Per un breve istante, Hull restò così, intontito, poi i muscoli si ripresero

dalla paralisi: si alzò in piedi, voltandosi di scatto per affrontare l'av-

versario. Sulla soglia le due guardie si dibattevano ancora, ma proprio

davanti a lui torreggiava un cavaliere in sella a uno stallone nero, fian-

cheggiato da due fanti. Era la Principessa: gli splendidi occhi verdi era-

no luminosi come quelli di un gatto, nel crepuscolo, mentre lei ripone-

va nel fodero una corta spada. Hull era stato abbattuto da una piatto-

nata di quella lama.

Adesso, lei impugnava la tozza pistola lanciaraggi. Hull ricordò che

non l'aveva mai sentita parlare, prima; ora la sentì, una voce bassa e li-

quida, eppure fredda, fredda come le acque di un torrente invernale in-

t crostato di ghiaccio.--Stai fermo, Hull Tarvish--disse.--Bastereb-

be un lampo di questa per tormentarti il cuore.

Hull rimase zitto e immobile, con la schiena appoggiata al muro del-

la baracca. Era certo che la Principessa l'avrebbe ucciso, se si fosse

mosso: non poteva dubitarne, con quei gelidi occhi fissi su di lui. Ri-

cambiò cupamente l'occhiata, e gli ritornò stranamente alla memoria

una frase del Vecchio Einar.--Satanicamente bella--I'aveva chia-

l~ mata, e lo era davvero. L'inferno, o I'arte di Martin Sair, I'aveva pla-

L smata in modo tale che nessun uomo poteva guardarla senza sentirsi

scosso dalla falsa purezza dei suoi lineamenti... nessun uomo nelle cui

vene scorresse il sangue.

Margot riprese a parlare, gettando uno sguardo sprezzante sulle due

guardie impaurite.--11 Maestro sarà soddisfatto--fece sdegnata--

di apprendere che un'Erbaccia disarmata è in grado di battere due dei

suoi uomini.

Una delle guardie balbettò:--Ma, Altezza, ci ha aggrediti inaspetta-

tamente...

--~on importa--I'interruppe lei, e si rivolse di nuovo a Hull. Per la

prima volta, il giovane si sentì veramente alla presenza della morte,

L quando lei disse freddamente:--Ho intenzione di ucciderti.

--E allora uccidimi!--ribatté lui.

--Ero venuta qui per osservarti morire--osservò con calma la Prin-

Cipessa--M'interessa vedere gli uomini morire da coraggiosi o da vi-

~1 gliacchi o da rassegnati. Credo che tu morirai coraggiosamente.

Hull pensò che lo stava torturando di proposito.--Mettimi alla pro-

va--ringhiò.

--Ma credo anche--proseguì lei--che vivendo potresti divertirmi

più che morendo e...--Per la prima volta c'era un sentore di sentimen-

to nella voce.--Dio sa se ho bisogno di divertirmi !--Poi il tono ridi-

venne gelido.--Ti dono la vita.

--Altezza--mormorò la guardia, timorosamente.--Il Maestro ha

ordinato...

--Annullo l'ordine--disse brusca la Principessa. Poi si rivolse a

Hull.--Sei un combattente. Sei anche un uomo d'onore?

--Se non lo sono--ribatté lui--e se mento affermando di esserlo, la

menzogna non avrebbe molta importanza per me.

Lei sorrise freddamente.--Bene, io credó che tu lo sia, Hull Tarvish

Vai libero, sulla parola di non portare armi e sulla promessa di venire

a farmi visita questa sera, nel mio alloggio in casa dell'Anziano.--Fe-

ce una pausa.--Ebbene?

--Ti do la mia parola.

--E io l'accetto.--Margot colpì con i talloni le costole del grande

stallone che s'impegnò e ruotò su se stesso.--Via, tutti!--ordinò

--Voi due portate la tinozza e l'acqua per il mio bagno.--E si lanciò

verso la strada.

Hull si rilassò contro il muro, con un sospiro di sollievo. Il sudore co-

minciò a imperlargli la fronte gelata: i muscoli poderosi sembravano

quasi indeboliti. Non temeva la morte, si disse, ma la tensione di af-

frontare quegli splendidi diabolici occhi di smeraldo e il freddo tor-

mento della voce di Margot la Nera, e la certezza ché lei lo irrideva

persino quell'ultimo gesto noncurante con cui l'aveva liberato... Si rad-

drizzò. Dopo tutto, paura della morte o no, amava la vita, e questo ba-

stava.

S'incamminò a passo lento verso la strada. Dall'altra parte, le luci

brillavano nella casa di Marcus Ormiston: si chiese se c'era anche Vail

forse per servire la Principessa Margaret, proprio al contrario di quan-

to aveva detto lui così poco tempo prima. Voleva cercare Vail: voleva

usare come antidoto la sua fresca grazia contro il veleno tenebroso del-

la bellezza che aveva fronteggiato. Poi, ál cancello, indietreggiò all'im-

provviso. Un gruppo d'uomini che portavano le uniformi dell'Impero

veniva avanti; e tra essi, senza l'elmo e con la fronte fasciata, c'era il

Maestro.

I suoi occhi si posarono su Hull. Si fermò di colpo e aggrottò le so-

pracciglia.--Ancora tu!--esclamò.--Come mai sei ancora vivo

Hull Tarvish?

--L'ha ordinato la Principessa.

Il cipiglio svanì. --E così-- disse lentamente Joaquin Smith

--Margaret comincia a intromettersi un po' troppo spesso. Immagino

che ti abbia anche liberato.

--Sì, in cambio della mia promessa di non portare armi

Sul volto del conquistatore apparve una strana espressione.--Be-

ne--fece, quasi gentilmente--non avevo intenzione di torturarti, ma

solO di ucciderti per il tuo tradimento. Forse ti augurerai che i miei or-

dini non fossero stati annullati.--Poi entrò nel cortile della casa del-

I~Anziano~ seguito dai suoi uomini silenziosi.

Hull si avviò verso il centro del villaggio. Dappertutto incontrò uo-

mini dell'Impero, impegnati ad accamparsi; per le strade passavano

sferragliando i carri dei rifornimenti. Vide le file dei soldati che passa-

vano lentamente davanti ai carri-cucina, e l'odore del cibo che aleggia-

~ra nell'aria gli ricordò che aveva una fame tremenda. Si affrettò a rag-

giungere la sua stanza, accanto all officina di File Ormson; e là trovò

Vail Ormiston, pallida come la nebbia e con un'espressione tragica ne-

gli occhi.

Era raggomitolata sul gradino, ed Enoch la teneva stretta a sé.

Enoch fu il primo a vedere Hull; spalancò la bocca e sbarrò gli occhi.

Un grido strozzato gli uscì dalla gola. Vail alzò gli occhi, senza capire,

lo fissò per un istante, senza espressione e poi, con un gemito soffocato,

svenne.

Rimase priva di sensi solo per pochi istanti, quanti ne bastarono a

Hull per portarla nella sua stanza. Adagiata sul letto, lei gli teneva

stretta la mano, finalmente convinta che era vivo.

--Credo--mormorò--che tu sia immortale come Joaquin Smith,

Hull. Non crederò mai più che tu sia morto. Dimmi, dimmi com'è acca-

duto.

Hull glielo riferì.--Grazie a Margot la Nera--concluse.

Ma quel nome bastò a spaventa}e Vail.--Quella donna è il male,

Hull. Mi terrorizza, con quegli occhi da strega e quei capelli infernali.

Non oso neppure andare a casa, per paura di lei.

Il giovane rise.--Non preoccuparti per me, Vail. Sono sano e salvo.

Enoch intervenne.--Eccone uno per gli Irriducibili, allora--disse,

in tono acido.--Avranno bisogno di lui.

--Gli Irriducibili?--Hull alzò gli occhi, perplesso.

--Oh Hull, sì!--esclamò Vail.--File Ormson si è dato da fare. Gli

Irriducibili sono ciò che resta dell'esercito... i cittadini migliori di Or-

miston. La magia del Maestro non si spinge oltre il dorsale delle colli-

ne, e oltre quelle ci sono ancora fucili e polvere da sparo. E l'incantesi-

mo non regna più sulla valle. Uno degli uomini ha portato una tazza di

polvere oltre il dorsale, e non si è incendiata.

I cittadini migliori, pensò Hull, sorridendo. Vail intendeva, natural-

mente, coloro che possedevano terreni e temevano di venirne privati,

Come Marcus Ormiston. Ma a voce alta disse soltanto:--Quanti uomi-

ni avete?

--Oh, ce ne saranno centinaia, con i contadini, al di là delle colli-

ne.--Vail lo guardb negli occhi.--So che c'è poca speranza, Hull... ma

dobbiamo tentare. Tu ci aiuterai, vero?

--Certo. Ma i vostri Irriducibili possono solo cercare di compiere

nrr~ri~ Nnn nnc~;ono combattere contro l'esercito del Maestro.

--Lo so,lo so. Hull. E una speranza disperata.

--Disperata?--fece all'improvviso Enoch.--Hull, non hai detto

che questa notte Margot la Nera ti ha ordinato di presentarti nel suo al-

loggio?

--Sì

--Allora... ascolta! Porterai un coltello nascosto sotto I ascella. Pri-

ma o poi, vorrà che tu rimanga solo con lei, e quando questo awerrà, le

pianterai il coltello in quel cuore senza pietà! C'è una speranza per te

se ne hai il coraggio!

--Il coraggio!--ringhiò Hull.--Assassinare una donna!

--Margot la Nera è un diavolo!

--Diavolo o no, a che serve? E Joaquin Smith che costruisce l'Impe-

ro, non la Principessa.

--Sì--disse Enoch.--Ma metà del suo potere sta nell'arte della

strega Quando lei non ci sarà più, la Confederazione potrà sterminare

I eserclto, come un branco di anitre allo stagno!

--E vero!--esclamò Vail.--Ciò che dice Enoch è vero!

Hull fece una smorfia.--Ho giurato di non portare armi. I

--L'hai giurato a lei!--ribatté Enoch.--Questo non deve vincolar-

--Ho dato la mia parola--disse Hull, con fermezza.--Non ho l'abi-

tudine di mentire.

Vail sorrise.--Hai ragione--mormorò, e aggiunse, mentre il volto

di Enoch si oscurava:--E per questo che ti amo Hull.

--Allora--grugnì Enoch--se non è il coraggió che ti manca, fai co-

sì. Attirala alle finestre a ovest. Noi possiamo fare appostare due o tre

Irriducibili al limitare del bosco, e se lei passa davanti a una finestra

con la luce alle spalle... bene, non potranno mancarla

--No--disse Hull, stancamente.--Non combatto contro le donne,

e non sono disposto a causare a tradimento la morte di nessuno, neppu-

re di Margot la Nera.

Ma gli occhi azzurri di Vail erano supplichevoli.--Così non verrai

meno alla parola, Hull. Ti prego. Questo non è tradire una donna. Lei è

una strega. E malvagia. Ti prego, Hull.

Il giovane cedette, amaramente.--Proverò.--Aggrottò la fronte .--

Mi ha salvato la vita e... Bene, qual è la sua stanza?

--Quella di mio padre. La mia è a ovest, e lei l'ha presa per la sua... Ia

sua ancella.--Gli occhi di Vail sia annebbiarono per l'indignazione.

--Noi--aggiunse--siamo ridotti a dormire in cucina.

Un'ora dopo, quando ebbe terminato di mangiare, Hull accompagnò

Vail a casa, mentre Enoch sgattaiolava furtivamente verso le colline.

Nel cortile erano state rizzate diverse tende, e tutte le finestre erano il-

luminate. Davanti alla porta stavano di guardia due uomini dell'Impe-

ro; lasciarono passare subito la ragazza, ma fermarono Hull senza ceri-

monie. Vail si volse a lanciargli un'occhiata mesta, mentre si allonta-

nava~ e lui affrontò cupamente le domande delle guardie.

- --Cosa vuoi?

Vedere la Principessa Margaret.

Sei Hull Tarvish?

Uno degli uomini si accostò e gli passò le mani addosso, per control-

lare se era armato.--Ordini di Sua Altezza--spiegò, burbero.

Hull sorrise. La Principessa non si era fidata troppo della sua pro-

messa. Luomo finì di perquisirlo e spalancò la porta.

Hull entrò. Non aveva mai visto l'interno della casa, e per un mo-

mento quello splendore l'abbagliò. Antichi mobili scolpiti, tappeti, pa-

ralumi lavorati per le lampade a olio, e persino - per un istante non ca-

pì che cosa fosse - un grande specchio di fabbricazione antica, dove lo

fronteggiava la sua stessa immagine. Fino a quel momento aveva ViStO

soltanto pezzi di specchi.

Alla sua sinistra una guardia vigilava una porta aperta da cui usciva-

no delle voci. La voce del vecchio Marcus Ormiston.--Ma paghero. La

comprerò con tutto ciò che possiedo.--Il tono era lamentoso.

--No.--Una fredda decisione nella voce di Joaquin Smith.--Mol-

to tempo fa ho giurato a Martin Sair di non concedere mai l'immortali-

tà a chi non se ne fosse dimostrato degno.--La voce si colorò di sarca-

smo.--Dimostra di meritarla, vecchio, nei pochi anni che ancora ti re-

Hull arricciò sprezzante il naso. Gli sembrava che vi fosse qualcosa

di degradante nel modo in cui il vecchio piagnucolava davanti al vinci-

tore.--La Principessa Margaret?--chiese, e seguì il gesto indicativo

della guardia.

Al piano superiore c'era un corridoio fiocamente illuminato: anche lì

si trovava un uomo di sentinella. Hull ripeté la domanda: ma a rispon-

dergli fu la voce liquida di Margaret.--Lascialo entrare, Corlin.

Un paravento oltre la porta, celava l'interno della stanza. Hull gli gi-

ro intorno, cercándo di farsi forza contro il ricordo della sconvolgente

bellezza che ricordava. Ma le sue difese andarono in pezzi, infrante dal

trauma che l'attendeva.

. Il paravento riparava la Principessa dallo sguardo della sentinella

nel corridoio, non dagli occhi di Hull. Restò sconcertato nel vederla nu-

da, adagiata con assoluta indifferenza in una grande tinozza d'acqua,

mentre una donna grassa la lavava meticolosamente. Non poté evitare

di far indugiare lo sguardo su quelle forme squisite, poi si voltò e guar-

dò fuori dalle finestre a est, sapendo di essere arrossito violentemente

fino alle spalle.

--Oh, siediti--disse lei, sprezzante.--Avrò finito fra un momento.

~ ~ tenne vli occhi volti altrove mentre si sentiva lo sciacquio del-

l'acqua e un asciugatoio frusciava bruscamente. Quando udì accanto a

sé i passi della Principessa, alzò lo sguardo, incerto, ancora timoroso di

ciò che avrebbe potuto vedere; ma adesso lei era coperta da una lunga

vestaglia nera e oro che la faceva apparire più alta, pur nascondendola

appena con la sua trasparente delicatezza. Al posto dei coturni calzava

sandali dai tacchi alti, che gli ricordavano le calzature viste nelle anti-

che iliustrazioni. La vestaglia nera e la casta, corta chioma d'ebano le

davano un aspetto di purezza quasi monacale, ma negli occhi danzava-

no i fuochi verdi dell'inferno.

In fondo al cuore, Hull maledisse quella falsa aura d'innocenza, per-

ché si sentiva di nuovo affascinato, nonostante le sue migliori intenzio-

--Dunque--fece lei.--Puoi tornare a sederti. Sul campo non esigo

il rispetto dell'etichetta di corte.--Cli sedette di fronte prese una si-

garetta nera, e l'accese alla fiamma della lampada posáta sul tavolo.

Hull spalancò gli occhi: era abituato a veder fumare le donne, poiché

ogni montanara aveva la sua pipa, e ogni casetta aveva il suo campicel-

lo di tabacco: ma le sigarette erano una novità, per lui.

--Ora--continuò lei, con un lieve sorriso ironico--riferiscimi cosa

dicono di me, qui.

--Dicono che sei una strega.

--E mi odiano?

--Odiarti?--le fece eco Hull, pensieroso.--Come minimo, com-

batteranno te e il Maestro fino all'ultima freccia.

--Naturalmente. I giovani combatteranno... tranne quelli che Joa-

quin ha comprato con le terre dell'Anziano. Sanno che, una volta incor-

porati nell'Impero, non potranno più combattere. Niente più gioiose

eccitanti guerricciole tra le città, niente più vanterie e parate davanti

alle belle ragazze di provincia...--S'interruppe.--E tu, Hull Tar-

vish... cosa pensi di me?

--Io ti chiamo strega per altre ragioni.

--Altre ragioni?

--La magia non esiste--disse Hull, ripetendo le parole che gli aveva

detto il Vecchio Einar a Selui.--C'è soltanto la scienza.

La Principessa lo scrutò attentamente.--Un pensiero saggio, per

uno come te--mormorò, poi aggiunse:--Sei venuto disarmato.

--Io mantengo la mia parola.

--Me lo devi. Ti ho risparmiato la vita.

--E~io--dichiarò Hull in tono di sfida--ho risparmiato la tua.

Avrei potuto piantare una freccia nella tua candida gola, quand'ero sul

tetto della chiesa. Avevo già preso la mira.

Lei sorrise.--Che cosa ti ha trattenuto?

--Non combatto le donne.--Hull rabbrividì al pensiero di ciò che

doveva fare, perché smentiva le sue parole.

3 ~ ~ Dimmi--continuò la Principessa--era la figlia dell'Anziano la

bella ragazza che piangeva disperatamente per te, sulla piazza davanti

alla chiesa?

--Sì.

--E tu l'ami?

_ Sì.--Era l'occasione che aveva atteso, ma adesso gli era difficile

Iì davanti a lei.--Vorrei chiedere un favore.

--Chiedilo.

--Vorrei vedere--disse e questa non era una menzogna--la came-

ra che avrebbe dovuto essere la nostra stanza nuziale. La camera a

ovest.--Poteva essere... avrebbe dovuto essere la verità.

La Principessa rise sdegnosamente.--Vai a vederla, allora.

Per un momento, Hull temette, o forse sperò, che lo lasciasse andar

solo. Poi lei si alzò e lo seguì nel corridoio, verso la porta della camera a

ovest.

Tradimento

Hull si soffermò sulla porta della stanza per lasciar passare la princi-

pessa. Per una frazione di secondo gli splendidi occhi verdi balenarono,

scrutandolo con aria interrogativa; poi lei arretrò.--Prima tu, Erbac-

cia--ordinò.

Il giovane non esitò. Si voltò ed entrò, sperando che gli Irriducibili,

se erano veramente in agguato al limitare del bosco, riconoscessero in

tempo la sua figura poderosa e si trattenessero dallo sparare. I capelli

gli si rizzavano sul capo, mentre avanzava a passo deciso verso la fine-

stra ma non accadde nulla.

Dietro di lui, la Principessa rise sommessamente.--Ho vissuto per

troppo tempo fra gli intrighi di N'Orleans--disse.--Diffido di te sen-

za motivo, povero, onesto Hull Tarvish.

Quelle parole lo torturarono. Si voltò, e vide la vestaglia nera che le

aderiva al corpo mentre si muoveva: e come avviene talvolta nei mo-

menti di tensione, captò un'immagine di lei, con i sensi così concitati

da fargli sembrare che lei, lui stesso e il mondo fossero bloccati nell'im-

mobilità~ La ricordò per sempre com'era in quell'istante, nell'atto di

muovere un passo, gli occhi verdi addolciti dalla luce della lampada, le

labbra perfette atteggiate in un sorriso colorato di malinconia. Poteva

essere una strega e un diavolo, ma sembrava un angelo dai capelli scu-

ri: e in quell'istante il suo spirito si ribellò.

--N ~ ridò. Ianci~n~nsi verso di lei, e colpendo le sDalle esili con

entrambe le mani, in una spinta che la fece barcollare nel territorio, la

fece cadere seduta sul pavimento, accanto alla sentinella sbalordita

La Principessa balzò subito in piedi, e nel suo volto, adesso, non C'era

plU nulla d'angelico.--Tu... mi hai fatto male!--sibilò --A mel Io

ti ..--strappò l'arma alla cintura della guardia la puntò contro il petto

dl Hull, scagliandogli contro l'azzurro raggio ronzante.

La sofferenza fu più atroce che a Eaglefoot Flow. La sopportò stolida_

mente, reprimendo il gemito che gli saliva alla gola; dopo un istante, la

Principessa tornò a infilare l'arma, irosamente, nella fondina della sen-

tinella.--Ancora un tradimento!--esclamò.--Non ti ucciderò Hull

Tarvish. Conosco un modo migliore.--Si girò di scatto verso la trómba

delle scale.--Lebeau!--chiamò:--Lebeau! Ci sono...--Lanciò

un'occhiata a Hull e continuò:--·Iy a des tirat~leMrs d~ns le bois Je vais

a ~es ttrer en avant!--Era il francese di N 'Orleans, incomprensibile per

Hull quanto l'aramaico.

La principessa tornò a voltarsi.--Sora!--chiamò, e quando la don-

na apparve:--Lascia stare. Sei troppo pesante.--Poi si rivolse a Hull.

--Ho intenzione--fece--di togliere gli abiti da Erbaccia alla figlia

dell'Anziano e di mandare lei davanti alla finestra

Hull era stravolto.--Lei... lei era al villaggio!--ansimò. Poi tacque

nell udire un suono di passi al piano terreno.

--Bene, non c'è tempo--fece la Principessa.--Quindi se devo...--

Si avviò a passo fermo verso la stanza a Ovest, si soffermò un momento

e poi si pose davanti alla finestra

Hull era sbigottito. La guardò mettersi in modo che la luce della lam-

pada profilasse sul vetro la figura perfetta, e poi balzare indietro con

tale violenza che la vestaglia le turbinò intorno.

Aveva calcolato il tempo alla perfezione. Risuonarono due spari

quasi simultaneamente, e il vetro s'infranse. E poi, fuori nella notte ~i

guizzarono a dozzine i raggi, ed esile e chiaro nel silenzio che seguì gli

spari, salì un grido d'angoscia mortale, e poi un altro, e un altro ancora.

La Principessa Margaret sorrise maliziosa, succhiò una goccia di

sangue cremisi sgorgata da un dito ferito da una scheggia di vetro.--Il

tuo tradimento ricade sui tuoi amici--disse in tono irridente.--Inve-

ce di tradire me, hai tradito loro.

--Non ho bisogno che tu mi accusi--rispose Hull, cupamente.

--Sono io il mio accusatore e il mio giudice. Sì, e anche il mio giusti-

ziere Non voglio vivere da traditore.

Margaret inarcò le sopracciglia delicate e trasse uno sbuffo di fumo

grigio dalla sigaretta che teneva ancora in mano.--Hull Tarvish, così

forte, morirà suicida--osservò, con indifferenza.--Avevo intenzione

di ucciderti. Debbo lasciare che tu sia vittima di te stesso?

Hull scrollò le spalle.--Cosa m'importa?

--Bene--fece lei, in tono pensieroso--sei più divertente di quanto

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~ : mi aspettassi. Sei forte, sei ostinato, e pericoloso. Ti do il diritto di fare

ciò che Yuoi della tua vita, ma...--Gli occhi verdi guizzarono beffardi

~ Se io fossi Hull Tarvish, vivrei nella speranza di redimermi. Puol

cancellare il disonore della tua debolezza con un atto di coraggio. Puoi

vendere la vita per la tua causa e, chissà, forse per quella di Joaquin... o

per la mia!

Il giovane preferì ignorare quel tono beffardo.--Forse--rispose cu-

P E allora perché hai avuto quel momentO di debolezza, Hull Tar

vish~ Avresti potuto avere la mia vita.

t _ Io non combatto le donne--disse lui, avvilito.--Ti ho guardata...

e sono diventato debole.--Una domanda prese forma nella sua mente.

--Ma perché hai rischiato la vita davanti alla finestra? Avresti potu-

to mandare cinquanta esploratori a battere il bosco. E stato un gesto

coraggioso, ma inutile.

Lei sorrise, ma i suoi occhi si socchiusero in un'espressione astuta

--Perché molti villaggi sono costruiti sopra le strade sotterranee degh

Antichi... le metropolitane, le fogne. Come potevo sapere se i tuoi sicari

non potevano infilarsi in una tana e scomparire? Era necessario co-

stringerli a rivelarsi.

Hull abbassò le palpebre per nascondere la scintilla che gli ardeva

negli occhi. Ricordò all'improvviso l'antica fogna in cui si era smarrita

Vail da bambina, e il cui ingresso era nascosto dai cespugli di ribes.

Dunque gli uomini dell'Impero non la conoscevano! Immaginò gli Irri-

ducibili che la percorrevano armati di spade e archi.. . sì e anche di fuci-

L li ora che l'incantesimo non pesava più sulla valle. E all'improvviso

balzavano al centro dell'accampamento, sorprendendo l'esercito del

maestro nel sonno, alla sprovvista. Che piano per un attacco di sorpre-

--Altezza--disse cupo--non penso più al suicidio, e a meno che tu

mi uccida ora, sarò un nemico implacabile dell'esercito del tuo Impero.

--Forse meno implacabile di quanto tu creda--rispose lei, sommes-

samente.--Vedi, Hull, gli unici tre che hanno saputo della tua debo-

lezza sono morti. Nessuno può accusarti d'essere un traditore o un de-

bole.

--Ma lo posso io--rispose Hull.--E anche tu.

--Io no, Hull--mormorò la Principessa.--Non biasimo mai un uo-

mo che diviene debole per causa mia... ve ne sono stati molti. Uomini

forti come te, Hull: e alcuni di loro, il mondo li chiama ancora gran-

j di.--Si girò verso la sua camera.--Vieni--disse con voce diversa.

Prenderò un po' di vino. Sora!--Mentre la donna grassa si allonta-

nava, prese un'altra sigaretta e l'accese alla lampada, storcendo con

sdegno il naso elegante alla vista degli insetti notturni che le volavano

intf~rnl~

--Che posto!--scattò spazientita.

--E la casa più bella che io abbia mai visto--disse Hull, stolida_

mente.

La Principessa rise.--E un tugurio. Non vedo l'ora di ritornare a

N'Orleans, dove le finestre sono schermate, c'è acqua corrente a volon-

tà, e le luci non sono gialle e vacillanti e non esalano un calore soffocan-

te. Ti piacerebbe vedere la Grande Città, Hull?

--Lo sai che mi piacerebbe.

--E se ti dicessi che puoi vederla?

--Chi potrebbe impedirmi di entrarvi, se andassi in pace?

Lei scrollò le spalle.--Oh, puoi visitare N'Orleans, naturalmente.

Ma immagina che io ti offra la possibilità di andarvi come... ospite, di-

ciamo, della Principessa Margaret. Cosa daresti, per questo privilegio?

Perché si faceva nuovamente beffe di lui?--Che cosa mi chiederesti

in cambio?--replicò guardingo.

--Oh, la tua devozione, forse. O forse il tradimento della tua piccola

banda d'Irriducibili, che sarà una seccatura del diavolo togliere di

mezzo qui tra queste colline.

Hull alzò di scatto la testa, stupito che lei conoscesse il nome. Gli Irri-

ducibili? Come...

Margaret sorrise.--Abbiamo degli amici tra gli uomini di Ormi-

ston Amici comprati con le terre--aggiunse sprezzante.--Ma che ne

pensl della mia offerta, Hull?

Il giovane fece una smorfia.--Tu dici come ospite. Come debbo in-

tenderlo?

Lei si appoggiò al tavolo, fissandolo con gli squisiti occhi verdi, i ca-

pelli fiammeggianti, nerazzurri, le labbra perfette atteggiate a un lieve

sorriso.--Come preferisci, Hull. Come preferisci tu.

La collera stava crescendo in lui.--Vuoi dire--chiese con voce rau-

ca--che lo faresti per una cosa da poco, la distruzione di una piccola

banda nemica? Tu, con tutto l'Impero alle tue spalle?

Margaret annuì.--Un disturbo risparmiato, no?

--E l'onestà, la virtù, I'onore, per te contano così poco? E uno dei

tuoi mezzi abituali di conquista? Vendi abitualmente i tuoi favori

per...?

--Non abitualmente--I'interruppe lei, con freddezza.--Prima, de-

ve piacermi quello con cui concludo l'accordo. Tu, Hull... mi piacciono

i tuoi muscoli potenti, e il tuo coraggio ostinato, e la tua mente, lenta e

limpida. Non sei un grand'uomo, Hull, perché la tua mente non ha il

fuoco gelido del genio, ma sei forte, e mi piaci per questo.

--Ti piaccio!--ruggì il giovane, alzandosi.--Eppure tu pensi che

baratterò quel po' d'onore che mi resta, in cambio di... quello! Credi

che tradirò la mia causa! Credi... Ebbene, ti sbagli, ecco tutto. Ti sbagli!

Lei scosse il capo, sorridendo.--No, non mi sbagliavo, perché pen-

savo che non avresti accettato.

Lr --Oh, lo pensavi!--ringhiò Hull.--E allora, se avessi accettato?

Cosa avresti fatto?

--Quello che ho promesso.--Margaret rise della sua espressione

irata e incredula.--Non assumere quell aria così scandalizzata, Hull.

Non sono la piccola Vail Ormiston. Sono la Principessa Margaret di

N'Orleans, chiamata Margaret la Divina da quelli che mi amano, e da

quelli che mi odiano chiamata... Bene tu devi sapere come mi chiama-

no i miei nemici!

--Lo so!--scattò lui.--Margot la Nera, lo so!

_ Margot la Nera--gli fece eco lei, sorridendo.--Sì, chiamata così

per via di un poeta che una volta mi divertiva, e perché ci fu un tempo

un antico, grandissimo poeta francese chiamato Francois Villon, il

quale amava una prostituta chiamata Margot la Nera.--Sospirò.

--Ma il mio poeta non era un Villon: le sue opere sono già quasi dimen-

_ Un bel nome!--gracchiò Hull.--Un nome adatto a te.

--Senza dubbio. Ma tu non capisci, Hull. Io sono un'Immortale. Ho

tre volte più anni di te. Vorresti che seguissi i principi della mortale

Vail Ormiston?

--Sì! Con che diritto ti ritieni superiore a ogni morale?

Le labbra di Margaret smisero di sorridere, i profondi occhi verdi di-

vennero malinconici.--Con il dirtto che mi dà l'impossibilità di agire

diversamente, Hull--disse sottovoce. Un fremito d'emozione colorò la

sua voce.--L'immortalità!--mormorò.--Anni e anni e anni sempre

eguali, a percorrere avanti e indietro il mondo per conquistarlo! Che

m'importa della conquista? Io non ho il senso del destino come Joa-

quin che vede davanti a sé l'Impero... I'Impero... I'Impero, sempre più

vastó, sempre più immenso. Cos'è per me l'Impero? E anno dopo anno

~ mi annoio, e ormai il combattimento, le uccisioni, il pericolo e l'amore

r sono le sole cose che mi aiutano a respirare!

La collera di Hull era svanita. La fissava sgomento, sconvolto.

--E poi anche queste cose mi deludono!--mormorò lei.--Quando

le uccisioni annoiano e l'amore stanca, che cosa resta? Ho detto amore?

Come può esservi amore, per me, quando so che,- se amo un uomo, do-

vrò vederlo invecchiare, diventare grinzoso, debole, flaccido? E quan-

do supplico Joaquin di concedergli l'immortalità, lui mi ricorda osten-

tatamente la sua promessa a Martin Sair: concederla solo a coloro che

se ne sono già dimostrati degni. Quando un uomo ha dimostrato di es-

serne degno, ormai è vecchio.--E proseguì, con voce tesa:--Ti assicu-

ro, Hull, sono così sola e senza amici che invidio voi mortali! Sì, e uno

di questi giorni mi unirò a voi!

Hull deglutì.--Mio dio!--mormorò.--Sarebbe stato meglio per te

restare fra le tue montagne con gli amici, un marito e i figli.

--I fi ~ li fece eco la Principessa, mentre gli occhi le velavano di

lacrime.--Gli Immortali non possono aver figli. Sono sterili. Non do-

vrebbero essere altro che cervelli, come Joaquin e Martin Sair, non ess-

seri dotati di sentimenti... come me. Qualche volta maledico Martin

Sair e le sue radiazioni. Io non voglio l'immortalità: voglio la vital

Hull si trovò come preso in un turbine di pensieri. L'impossibile bel-

lezza della giovane donna che gli stava davanti, gli occhi verdi, ora te-

neri e umidi e tristi, le labbra tremanti, lo scintillio d'una lacrima sulla`

guancia... tutto questo lo faceva soffrire, gli faceva dimenticare tutto

--Dio!--mormorò.--Mi dispiace.

--E tu, Hull... mi aiuterai... un po'?

--Ma siamo nemici... nemici!

--Non possiamo essere... qualcosa d'altro?--Un singhiozzo la scos-

se.

All'improvviso un movimento delle belle labbra attirò l'attenzione

di Hull. Guardò, incredulo, nelle profondità verdi di quegli occhi. Era

vero. C'era l'ilarità, là dentro. La principessa si era fatta beffe di lui! E

quando si accorse che aveva capito, rise sommessamente, con un riso

che risuonò arpeggiando, come pioggia sull'acqua.

--Tu .. . sei il diavolo!--esclamò Hull, soffocato.--Strega nera ! Vor-

rei aver lasciato che ti uccidessero!

--Oh, no--fece lei.--Guardami, Hull.

Era un comando superfluo: non gli riusciva di distogliere lo sguardo

affascinato da quel viso squisito.

--Mi ami, Hull?

--Io amo Vail Ormiston--gracchiò il giovane.

--Ma ami me?

--Ti odio!

--E tuttavia mi ami?

Hull gemette.--Non è giusto--borbottò.

Lei aveva compreso ciò che intendeva. Il giovane imprecava contro

le circostanze che avevano portato la Principessa Margaret - la donna

più brillante di quell'epoca splendida, una delle più brillanti di ogni

tempo - a esercitare tutto il suo fascino su un semplice montanaro del-

I'Ozarky. Non era giusto: il sorriso di lei l'ammetteva, ma era anche ca-

rico di trionfo.

--Posso andare?--le chiese, impassibile.

Lei annuì.--Ma sarai un po' meno mio nemico, vero, Hull?

Lui si alzò.--Farò alla tua causa tutto il male che potrò--disse. 3

--Non tradirò due volte.

Ma gli parve che uno sconcertante guizzo di soddisfazione passasse

negli occhi di lei alle sue parole.

Tormento

A mezzogiorno, Hull guardava la valle di Ormiston, dove stava mar-

ciando Joaquin Smith. Al suo fianco, Vail s'era fermata: insieme scru-

tavano in silenzio la strada di Selui, nereggiante di cavalieri e di carri,

avviati ad attaccare la città e i resti dell'esercito della Confederazione.

Ma Ormiston non era stata completamente abbandonata, perché tre-

cento fanti e duecento cavalieri erano rimasti per occuparsi degli Irri-

ducibili, agli ordini di Margot la Nera. Il Maestro non poteva permette-

re che una grossa banda ribelle si riunisse senza ostacoli nel territorio

di conquista; nell'Impero, nonostante l'odio reciproco fra le città riva-

li, esisteva una sorta di pace forzata.

_ Il nostro momento verrà stanotte--disse sobriamente Hull.

--Non avremo mai un'occasione migliore: siamo in numero quasi

eguale a loro, e abbiamo la sorpresa dalla nostra parte.

Vail annuì.--L'antica galleria è stata un'idea ardita, Hull. Gli Irri-

ducibili stanno puntellando i tratti che crollano. Mio padre è con loro.

--Non doveva. Sul campo non c'è posto per i vecchi.

--Ma è la sua speranza, Hull. Non vive che per questo.

--Non è una grande speranza. Supponiamo che il colpo riesca, Vail.

Che cosa significherà, se non il ritorno di Joaquin Smith e del suo eser-

cito? Il buon senso mi dice che è un'impresa folle, e se non fosse per te e

per la possibilità di combattere che finora non abbiamo avuto... bene,

sarei tentato di riconoscere la vittoria del Maestro.

--Oh, no!--esclamò Vail.--Se il nostro successo significa la fine di

Margoot la Nera, non basterà? Inoltre, tu sai che i poteri del Maestro

sono per metà opera della strega. Lo diceva Enoch... povero Enoch.

Hull rabbrividì. Enoch era stato uno dei tre cecchini uccisi davanti

alle finestre della casa, e le parole della ragazza gli ricordarono la

parte che lui aveva avuto nell'episodio. Ma nel contempo, quelle paro-

le bruciavano anche per un'altra ragione, perché la visione della Prin-

cipessa, che l'aveva assillato per tutta la notte, era ancora viva nella

sua mente: e non poteva affrontare imperturbato il pensiero della sua

morte.

Ma Vail gli lesse in volto soltanto l'angoscia per la fine di Enoch.

--Enoch--ripeté, sottovoce.--Mi voleva bene, in quel suo modo aci-

do, Hull; ma da quando ti ho conosciuto, non ho più pensato a lui.

Hull la cinse con un braccio, maledicendosi perché non riusciva a di-

stogliere il pensiero da Margot la Nera, perché amava Vail, ed era Vail

che voleva amare. Qualunque fosse l'incantesimo che la Principessa

aveva ~ettato su di lui, sapeva che era malvagia, spietata, disumana-

mente fredda... una fattucchiera, un diavolo. Ma non riusciva a cancel-

larsi dalla mente quella bellezza satanica.

--Bene--sospirò.--Vada per stanotte, allora. Quattro ore dopo il

tramonto? Bene. Gli uomini dell'Impero, a quell'ora, dovrebbero esse-

re addormentati, o a giocare nella taverna di Tigh. Preghiamo per la

nostra polvere da sparo.

--La polvere da sparo? Oh, ma non hai sentito quello che ho detto a

File Ormson e agli Irriducibili, tra le colline? Le cose che gettavano

I incantesimo se ne sono andate: Joaquin Smith le ha portate a Selui.

Ho spiato e ascoltato dalla porta della cucina, questa mattina.

--Gli scintillatori? Non ci sono più?

--Sì. Ma li chiamavano rison... risatori...

--Risonatori--fece Hull, ricordando le parole del Vecchio Einar

--Qualcosa del genere. Erano due grossi barili di ferro, montati su

basi snodate, tutti pieni di una magia che ronzava e ticchettava, e spaz-

zavano la valle a nord e a sud, e a est e ovest, e verso Norse si sentivano

gli scoppi e si vedeva il fumo di un edificio che bruciava. Li hanno cari-

cati sui carri e li hanno portati via, a Selui.

--Non hanno attraversato la cresta delle alture con il loro incantesi-

mo--~ disse Hull.--Gli Irriducibili hanno ancora la polvere da sparo

--Sì--mormorò Vail, stringendosi a lui.--Dimmi--chiese all'im

provviso.--Cosa voleva da te, questa notte?

Hull fece una smorfia: aveva detto ben poco a Vail di quella sera diso-

norante, e temeva le sue domande.--Il tradimento--rispose alla fine

--Voleva che tradissi gli Irriducibili.

--A te? Ti ha chiesto questo?

--Credi che l'avrei fatto?--ribatté Hull.

--Lo so che non lo faresti mai. Ma cosa ti ha offerto, in cambio del

tradimento?

Hull esitò di nuovo.--Una grande ricompensa--rispose alla fine.

--Sproporzionata al compito.

--Dimmi, Hull, com'è da vicino?

--Un demonio. Non è veramente umana.

--Ma in che senso? Gli uomini parlano tanto della sua bellezza, del

suo fascino mortale. Hull... tu l'hai sentito~

--Io amo te, Vail.

Lei sospirò, e si fece ancora più vicina.--Credo che tu sia l'uomo più

forte del mondo, Hull. Il più forte.

--E necessario che lo sia--borbottò lui, scrutando cupo la valle. Poi

sorrise, debolmente, quando vide alcuni uomini intenti ad arare, per-

che la stagione era troppo avanzata per quell'attività. Il vecchio Mar-

~ Il campo del "risonatore Erden" penetra agevolmente strutblre e muri ma

viene bloccato da ostacoli naturali di un certo rilievo, dalle colline e per mótivi

sconosciuti anche da banchi di nebbia e da nuvole basse (N.d.A ).

cus Ormiston non voleva correre rischi; ricordando le parole del Mae-

stro, stava arando ogni ettaro su cui un cavallo poteva trainare un ara-

Vail lo lasciò a Ormiston e si avviò esitante verso casa. Hull lavorò un

~3 po' nell'officina, e quando il Sole cominciò a calare, comprò una grossa

pagnotta scura, una fetta di formaggio e una bottiglia del vino chiaro

della zona. Stava terminando il pasto in camera sua, quando fu richia-

mato da qualcuno che bussava alla porta dell'officina.

Era un uomo dell'lrnpero.--Hull Tarvish?--chiese bruscamente.

Al cenno del giovane, continuò:--Da parte di Sua Altezza--e gli con-

segnò un foglio di carta nera, piegato con cura.

Il montanaro lo guardò. Da un lato, a rilievo e in oro, c'era la forma

d'un serpe che cingeva il mondo, mordendosi la coda... il Serpente di

Midgard. Infilò un dito nella piega, aprì il messaggio, e socchiuse le

palpebre, guardando i caratteri tracciati in oro sul foglio nero.

--Questi scarabocchi non significano niente, per me--disse.

L'uomo dell'Impero arricciò sprezzante il naso.--Lo leggerò io--fe-

ce prendendo la missiva.--Dice: 'Segui il messaggero al nostro al-

loggio', ed è firmato Margarita Imperii Regina, che vuol dire Margaret,

Principessa dell'lmpero. E chiaro?--Restituì il foglio.--E da un'ora

che ti sto cercando.

_ E se non ci venissi?--ringhiò Hull.

--Non è un invito Erbaccia. E un ordine.

E Hull scrollò le spalie. Non se la sentiva di affrontare di nuovo Margot

la Nera, soprattutto perché era a conoscenza del piano degli Irriducibi-

li. La personalità complessa di quella donna lo sconcertava e l'affasci-

nava; e temeva che in qualche modo, con qualche arte sottile, lei riu-

. scisse a strappargli il segreto. La tortura non l'avrebbe costretto a par-

lare, ma quegli occhi verdi potevano leggere la verità. Eppure... era

F meglio andare senza far storie, anziché farsi trascinare con la forza;

con un grugnito di assenso seguì il messaggero.

La casa era silenziosa. La stanza al pianterreno dove aveva riposato

Joaquin Smith era adesso deserta; salì le scale, preparandosi di nuovo

al trauma della presenza di Margot la Nera. Questa volta, però, la trovò

~- vestita o semivestita secondo i criteri di Ormiston, poiché indossava

t soltantó i calzoncini corti e il giaco che portava per cavalcare, ed era

scalza Sedeva su una poltrona accanto alla tavola, con una fiasca di vi-

no accanto e una sigaretta nera tra le dita. I capelli erano come un ca-

sco d'ebano, accanto all'a~lorio della fronte e della gola, e gli occhi ver-

di sembravano due smeraldi gemelli.

--Siediti--gli disse, quando le fu davanti.--Ci hai perso tu, a tar-

dare, Hull. Avrei cenato con te.

--Per ritemprarmi le forze, mi bastano pane e formaggio--bor-

bottò lui.

--Sembra di sì.--Un fuoco le danzava negli occhi.--Hull, io sono

forte come molti uomini, ma credo che quei tuoi muscoli possenti po-

trebbero sopraffarmi come se fossi una timida ragazza di provincia.

Eppure...

--Eppure cosa?

--Eppure tu somigli molto ad Eblis, il mio stallone nero. I suoi mu-

scoli sono quasi altrettanto forti, ma come faccio con lui, posso pungo-

larti, spingerti, frustarti, e lanciarti al galoppo nella direzione che pre-

ferisco.

--Davvero?--scattò Hull.--Non provartici.--Ma era diffici] o ~f-

frontare l'incantesimo di quella bellezza ultraterrena.

--Invece credo che mi ci proverò--tubò gentilmente lei.--Hull, tu

non menti mai?

--No.

--Allora dovrb farti mentire, Hull? Dovrò farti giurare falsità tali

che in futuro arrossirai sempre al solo ricordo? Dovrò farlo?

--Non puoi !

Margaret sorrise e poi, cambiando tono, chiese:--Mi ami, Hull?

--Amarti? Ti odio...--S'interruppe di colpo

--Mi odii, Hull?--chiese lei, con gentilezza

--No--gemette finalmente il giovane.--No, non ti odio

--Mi ami allora.--Il viso era angelico, serio, puro, e persino gli oc-

chl verdi erano dolci come il verde della primavera.--Dimmi, mi

--No!--Lo sibilò rabbioso, poi arrossì al sorriso di lei.--Non è una

menzogna!--scattò.--La tua stregoneria non è amore lo non amo la

tua bellezza. E innaturale, infernale; è il dono di Martin Sair. E una

bellezza falsa, come tutta la tua vita!

--Martin Sair c'entra ben poco con il mio aspetto--rispose lei, dol-

cemente.--Cosa provi per me, Hull, se non è amore?

--Io... non lo so. Non voglio pensarci!--Strinse la mano a pugno.

--Amore? Chiamalo amore, se vuoi, ma è un amore diabolico che tro-

verebbe soddisfazione nell'ucciderti!--Ma a questo punto il súo cuore

si ribellò di nuovo.--Non è vero--concluse, avvilito.--Non potrei

ucclderti.

--Supponiamo--proseguì la Principessa--che io prometta di ab-

bandonare Joaquin, di non esser più Margot la Nera, la Principessa del-

I'Impero, di essere soltanto... la moglie di Hull Tarvish. Tra Vail e me

quale sceglieresti?

Hull non rispose nulla per il momento.--Sei ingiusta--disse poi

amaramente.--Ti sembra giusto paragonarti a Vail? Lei è dolce e de-

vota e innocente, ma tu... tu sei Margot la Nera!

--Comunque--continuò lei, calma--credo che farò il confronto

Sora!--La donna grassa comparve sulla soglia.--Sora, non c'è più vi-

412

no- ~landa qui la 6glia dell'Anziano con un'altra bottiglia e un secondo

~- bicchiere.

--Hull la fissò sgomento.--Cos'hai intenzione di fare?

~- --Nulla di male alla tua piccola Erbaccia. Te lo prometto.

_ Ma...--Il giovane tacque. I passi di Vail risuonarono sulle scale:

poi lei entrò timidamente, portando un vassoio con una bottiglia e un

calice di metallo- Hull la vide trasalire, quando lo scorse: ma poi si av-

vicinò in silenzio, posò il vassoio sul tavolo e arretrò verso la porta.

. --Aspetta un momento--fece la Principessa. Si alzò, si portò a flan-

co di Vail, come per imporre a Hull di fare un confronto. Lui non poté

L evitarlo: si detestò per quel pensiero, ma non seppe scacciarlo. Scalza,

la Principessa Margaret era alta esattamente quanto Vail con i suoi

sandali a tacchi bassi, ed era lievemente più snella. Ma i sorprendenti

capelli neri e gli splendidi occhi verdi facevano quasi sbiadire la ragaz-

~ za di Ormiston, e i capelli di rame e gli occhi azzurri parevano scialbi,

L scoloriti. Non è giusto: Hull capiva che era come paragonare la luce di

una candela a un raggio di sole, e si disprezzava perché restava a guar-

E dare.

--Hull--chiese la Principessa--chi di noi è la più bella?

Il giovane vide le labbra di Vail fremere per la paura, e restò chiuso in

un ostinato silenzio.

--Hull--insistette la principessa--chi ami, di noi due?

--lo amo Vail!--mormorò lui.

--Ma l'ami più di quanto ami me?

Ancora una volta, egli dovette ricorrere al silenzio.

--Deduco--continuò sorridendo la Principessa--che il tuo silen-

zio signiLichi che ami di più me. Ho ragione?

Hull non disse ulla.

--Oppure mi sbaglio, Hull? Puoi dare alla piccola Vail la soddisfa-

zione di rispondere a questa domanda. Perché, se non risponderai, mi

prenderò la libertà di credere che ami di più me. E vero?

Per Hull, era un torrnento atroce. Le labbra sbiancate si torsero per

I'angoscia. e alla fine proruppe:--Oh Dio! E allora, sì! ~1~

La Principessa sorrise dolcemente.--Puoi andare--disse a Vail, ~,

che attendeva pallida e spaventata.

Ma la ragazza esitò per un momento.--Hull--bisbigliò.--Hull, so

L che l'hai detto per salvarmi. Non lo credo, Hull, e ti amo. La colpaè

sua!

--Taci!--gemette lui.--non insultarla.

La Principessa rise.--Insultare me? Credi che potrei sentirmi insul

L tata da un po' di polvere che si trascina dalla culla alla tomba?--Girò ,~

sprezzante gli occhi verdi su Vail che, atterrita, usciva a ritroso dalla

porta.

--Perché ti diverti a torturare?--gridò Hull.--Sei crudele come J

una gatta. Sei un demonio-

413

--Non è stata una crudeltà--disse dolcemente la Principessa

--Era solo un modo per provare ciò che ho detto: che i tuoi muscoli po

tenti sl sono abituati alla mia sella.

--Se c'era bisogno di provarlo--borbottò lui.

--Non ce n'era bisogno. Le prove bastano, anche in ciò che sta acca-

dendo in questo momento, se ho calcolato esattamente il tempo. Mi ri-

ferisco ai tuoi Imducibili che stanno passando attraverso l'antica fo-

gna, per finire nella mia trappola, dietro la stalla.

Hull restò allibito.--Tu... tu sei... tu del~i essere una strega!--escla-

--Forse. Ma non è stata la stregoneria che mi ha indotta a farti bale-

nare il pensiero di quella fogna, Hull. Adesso ricordi che è stato un mio

suggerimento, pronunciato ieri sera nel corridoio? Sapevo benissimo

che avresti messo l'esca sotto il naso degli Irriducibili.

Il giovane era stordito.--Ma perché... perché...?

--Oh--rispose lei, indifferente--mi diverte vederti recitare due

volte la parte del traditore, Hull Tarvish.

La trappola

La Principessa gli si avvicinò, con magnifici occhi dolci come quelli di

un angelo, la curva delicata delle labbra atteggiate a un lievissimo

somso imbronciato.--Povero, forte, debole Hull Tarvish!--mormo-

rò.--Adesso capirai il costo della debolezza. Io non sono Joaquin, che

combatte benignamente, con le armi dei suoi uomini regolate al mini-

mo. Quando io vado in battaglia, i miei raggi sono al massimo, e la

carne brucia, i cuori cedono. La morte cavalca al mio fianco.

Hull l'udiva appena. La sua mente sconvolta lottava con un'idea. Gli

Irriducibili stavano strisciando a uno a uno nella trappola ma non po-

tevano essere tutti nella galleria. Se avesse saputo awertiríi I suoi oc-

chi si posarono sulla maniglia della campana, nel corridoio, accanto al-

la guardia, la fune faceva squillare la campana di bronzo della torre

per convocare le pubbliche assemblee, o per annunciare gli incendi

Sarebbe stata la morte se l'avesse suonata, senza dubbio: ma era un

prezzo equo da pagare per l'espiazione.

Il braccio robusto scattò all'improvviso, urtando la Principessa e

mandandola a sbattere violentemente contro il muro. Udì il suo fioco

--O-o-oh--di dolore, quando cadde pian piano in ginocchio: ma or-

mai Si era avventato sulla guardia sbalordita, l'aveva spinta oltre la ba-

laustra del ballatoio, giù nella tromba delle scale. Poi tirò la fune, con

tutto il suo peso, e la grande voce di bronzo tuonò, ripetutamente.

Margot la Nera era già in piedi, e le scintille d'inferno le brillavano

~ negli occhi: il suo viso era una bellissima maschera di furore. Molti uo-

mini salirono correndo le scale con le armi in pugno, e Hull tirò un'ulti-

ma volta la fune e si girò per amrontare la morte. Mezza dozzina d'armi

era puntata su di lui.

--No... no!--ansimò la Principessa sforzandosi di riprendere fiato.

_ Prendetelo! Portatelo... nella stalla!

~- Si lancib correndo per le scale, muovendo svelte le incantevoli gam-

be nude, con tonfi lievi dei piedi scalzi. I sei soldati del'Impero, torvi in

volto, spinsero Hull davanti alla guardia che, stordita, si era messa a

~` sedere sugli ultimi gradini, e poi fuori, nella notte, dove balenavano

lampi azzurri e risuonavano grida e spari.

Dietro la stalla c era un relativo silenzio, comunque, quando i cattu-

L ratori di Hull l'ebbero trascinato fin là. Una fitta massa di figure scure

era raccolta accanto all'imboccatura dell'antica galleria, dove gli ar-

busti erano stati strappati e calpestati: erano circondate da una fila de-

gli esploratori brunovestiti. Diversi uomini giacevano al suolo, e Hull

sorrise lievemente, quando vide che alcuni erano uomini dell'Impero.

Poi il suo sguardo si posò sulla Principessa, che si era fermata davanti a

un ufficiale dai capelli bruni.

--Quanti, Lebeau?

--Centoquaranta o centocinquanta, Altezza.

--Non sono neppure la metà! Perché non inseguite gli altri nella gal-

leria?

--Perché, Altezza, uno di loro si è fatto crollare addosso i puntelli e il

tetto, e ci ha bloccati. Adesso lo stiamo disseppellendo.

--E nel frattempo gli altri avranno lasciato la tana.--Dove finisce

la galleria?--La Principessa si avvicinò a Hull.--Hull, dove fini-

sce?--Poiché egli tacque, aggiunse:--Non importa. Ne uscirebbero

comunque, prima che arrivassimo noi.--Poi si voltò di scatto.--Le-

beau! Brucia quelli che abbiamo presi, e gli altri li liquideremo appena

potremo.--Un mormorio corse tra la folla degli abitanti del villaggio

t~ che si andava raccogliendo: gli occhi di lei, verdargentei nel chiaro di

~- Luna, si volsero in quella direzione.--E tutti i simpatizzanti--ag-

giunse freddamente la Principessa.--Tranne quest'uomo, Hull Tar-

La gran voce di File Ormson si levò rombando dalla massa dei prigio-

nieri.--Hull! Hull! Questa trappola è stata un'idea tua?

` Hull non rispose: fu Margot la Nera a farlo per lui.--No--scattò.--

Ma è stato lui a suonare la campana.

--Allora perché lo risparmi?

Gli occhi verdi brillarono gelidi.--Per ucciderlo a modo mio, Er-

baccia--disse in tono freddo, e fu come se un vento invernale avesse

t ~lit~tn ir~ n ~ nl~tt~ rlrimaverile.--Ho un conto da regolare con lui.

Gli occhi brillarono come smeraldi, fissandosi in quelli di Hull Il

giovane sostenne lo sguardo con fermezza e disse, a voce bassa:--Sei

disposta ad accordare una grazia a un uomo che sta per morire?

--Non è nostra usanza--rispose lei, indifferente.--E la salvezza

della figlia dell'Anziano? Non intendo farle alcun male

--Non si tratta di questo.

--E allora chiedi... sebbene io non sia propensa a concederti favori

Hull Tarvish, che per due volte mi hai messo le mani addosso con la vio-

lenza.

La voce del giovane si abbassò in un sussurro.--Ti chiedo la vita dei

miel compagni.

La Principessa inarcò le sopracciglia, stupita, poi scosse la fiamma

tenebrosa della chioma.--E come posso? Sono rimasta qui apposta

per spazzarli via. Debbo liberare la metà che ho catturato, soltanto per

distruggerla insieme al resto?

--Ti chiedo le loro vite--ripeté Hull.

Un bizzarro fuoco capriccioso danzò negli occhi verdi.--Proverò--

promise, e si rivolse all'ufficiale, che stava schierando i suoi uomini in

modo che il fuoco incrociato delle pistole non falciasse le sue stesse file

--Lebeau!--ordinò.--Aspetta un momento.

Si diresse nel varco tra i prigionieri e i suoi uomini. Con le mani sui

fianchi scrutò gli kriducibili, mentre il chiarore lunare conferiva alla

sua bellezza un'aura incredibile, ultraterrena. Nella semioscurità not-

turna non sembrava un demonio, ma una fanciulla, quasi una bambi-

na: e persino Hull, che aveva imparato a conoscerla bene, non riusciva

a distogliere lo sguardo affascinato dalla sua persona.

--Ora--disse lei, volgendo gli occhi sul gruppo--in cambio della

mia promessa d'amnistia, quanti di voi passerebbero dalla mia parte?

Un fremito percorse la massa. Per un momento vi fu un'immobilità

assoluta; poi, molto lentamente, due figure si fecero avanti, e il fremito

divenne un mormorio rabbioso. Hull riconobbe i due uomini: avevano

fatto parte dell'esercito della Confederazione: uomini di Ch'cago, buo-

ni combattenti ma semplici mercenari, pronti a cambiare bandiera co-

me li spingeva l'umore o I'interesse. Il brusio degli Irriducibili divenne

un nnghio furioso.

--Voi due--chiese la Principessa--siete uomini di Ormiston?

--No--disse uno.--Veniamo entrambi dalle rive del Mitchin.

--Benissimo--proseguì lei, con calma. Con un movimento rapido

quanto il volo d'una freccia, si sfilò l'arma dalla cintura: il raggio az-

zurro sibilò due volte, e gli uomini caddero con la faccia carbonizzata

Dai corpi esalavano nere spire di fumo fetido.

La Principessa si volse verso il gruppo sbigottito.--E ora --disse

--chi è il vostro capo?

File Ormson si fece avanti, con una smorfia tetra.--Cosa vuoi da

me?

Tratterai con me? 1 tuoi uomini accetteranno i nostri accordi?

, File annuì.--Hanno poca scelta.

--Bene. Adesso che ho eliminato i traditori dalle vostre file, poiché

io non tratto con i traditori, ti farò la mia offerta.--Sorrise al fabbro.

--Credo di aver servito bene me stessa e voi facendo così--fece sotto-

voce, e Hull ansimò, scorgendo la dolcezza dello sguardo che lanciava

verso File.--Tu, con i tuoi muscoli forti e il tuo cuore di guerriero, se-

guiresti una donna?

La smorfia svanì nello stupore.--Seguire te? Te?

--Sì.--Hull osservava, affascinato, come lei usava la voce, gli oc-

chi, la bellezza ultraterrena intensificata dal chiaro di luna, per incan-

tare il grosso File Ormson, dietro cui gli Irriducibili prigionieri stavano

tesi silenziosi.--Sì, seguire me--ripeté sottovoce--Siete tutti valo-

rosi, tutti, ora che ho eliminato i due vigliacchi.--Sorrise, malinconi-

camente, quasi con tenerezza, alla tozza figura che le stava davanti.

--E tu... tu sei un guerriero.

--Ma...--File deglutì.--Gli altri...

--Ti prometto che non dovrete combattere contro i vostri compagni.

Lascerò liberi tutti coloro che non vorranno seguirmi. E le vostre terre,

poiché è per le vostre terre che combattete, no?, non le toccherò, tranne

quelle dell'Anziano.--Fece una pausa.--Ebbene?

All'improvviso, risuonò la risata di File.--Per Dio!--imprecò.--Se

dici davvero, non c'è motivo di combattere! Per quanto mi riguarda,

sono con te!--Si rivolse ai suoi uomini.--Chi mi segue?

11 gruppo si agitò. Alcuni fecero un passo avanti, poi altri, e poi, con

un grido, tutti quanti .--Bene!--ruggì File. Si portò sul cuore la gran-

de mano dura, nel saluto dell'Impero.--A Margot... alla Principessa

Margaret!--gridò.--A una guerriera!

Lei sorrise e abbassò gli occhi, quasi pudicamente. Quando le escla-

mazioni si furono spente, lei si rivolse di nuovo a File Ormson.--Invie-

rai messaggeri agli altri uomini?--chiese.--Che vengano, alle stesse

condizioni.

--Verranno!--ruggì File.

La Principessa annuì.--Lebeau--ordinò--richiama i tuoi uomini.

Questi sono nostri alleati.

Gli Irriducibili cominciarono a separarsi, disperdendosi tra la folla

degli abitanti del villaggio. La Principessa si avvicinò a Hull, sorriden-

do con malizia della sua perplessità. Lui non sapeva se doveva sentirsi

lieto o amareggiato. perché sebbene avesse accolto la sua richiesta di

risparmiargli i compagni, I'aveva fatto solo distruggendo la causa alla

quale lui aveva sacrificato ogni cosa. Non c'erano più gli Irriducibili,

ma lui avrebbe dovuto comunque morire per loro.

--Morirai contento adesso?--chiese lei, dolcemente.

--Nessuno muore contento--ringhiò Hull.

--Ti ho accordato il favore che mi hai chiesto, Hull.

--Se ci si può fidare delle tue promesse--ribatté lui, con amarezza.

--Hai mentito con freddezza agli uomini di Ch'cago, e ti sei assicurata

che gli Irriducibili non li amassero, prima di ucciderli.

La Principessa scrollò le spalle.--Io mento, inganno, imbroglio con

ogni mezzo di cui dispongo--fece con indifferenza.--Ma non infrango

la parola data. Gli Irriducibili sono salvi.

Alle sue spalle, alcuni uomini uscirono dall'imboccatura della galle-

ria, trascinando qualcosa di scuro.

--L'Erbaccia che ha fatto crollare la volta, Altezza--disse Lebeau

La Principessa si voltò indietro, e sporse le labbra delicate in una

smorfia di sorpresa.--L'Anziano! Il vecchio rimbambito è morto co-

raggiosamente.--Poi scrollò le spalle.--Comunque, gli restavano so-

lo pochi anni da vivere.

Ma Vail si fece avanti, con un gemito sommesso d'angoscia, e Hull la

vide inginocchiarsi desolata accanto al corpo del padre. Un fremito di

pietà lo scosse, al pensiero che adesso era completamente sola. Enoch

era morto nell'imboscata, la notte prima; il vecchio Marcus giaceva lì

davanti a lei; e lui era condannato a morte. I tre che l'amavano e l'uo-

mo che amava... tutti uccisi nel corso di due notti. Le rivolse un lento

sorriso disperato di commiserazione, ma non c'era nulla che potesse di-

re o fare.

E Margot la Nera, dopo averle lanciato un'occhiata, si rivolse a

Hull.--E ora--disse, con voce ridiventata di ghiaccio--farò i conti

con te!

Il giovane l'affrontò, stordito.--Avrai la bontà di liquidarmi in fret-

ta, allora?--mormorò alla fine.

--Bontà? Per quanto ti riguarda, non conosco quella parola, Hull.

Anzi, sono stata anche troppo buona. Ti ho risparmiato la vita tre vol-

te... una sua richiesta di Joaquin a Eaglefoot Flow, una davanti alla ba-

racca, e una volta lassù, nel corridoio.--Si fece più vicina.--Non sop-

porto la violenza, Hull, e tu mi hai messo le mani addosso due volte.

Due volte!

--Una volta l'ho fatto per salvarti la vita--disse lui.--E l'altra

per rimediare al mio involontario tradimento. E ti ho risparmiato tre

volte la vita anch'io, Margot la Nera... Una volta quando ti ho preso di

mira dal tetto della chiesa, una volta salvandoti dall'imboscata nella

stanza a ovest, e una volta solo mezz'ora fa, perché avrei potuto ucci-

derti a pugni, se avessi voluto colpirti abbastanza forte. Io non ti devo

nulla.

Lei sorrise freddamente.--Ben detto, Hull; ma morirai lo stesso co-

me vorrò io.--E gli voltò le spalle.--In casa!--ordinò e Hull s'in-

camminò, tra le sei guardie che lo fiancheggiavano ancorá.

La Principessa li Drecedette nella stanza al Dianterreno c:h~ ~r:l Ct~ta

del Maestro. Sedette pigramente su un'antica poltrona, accese una si-

garetta nera alla lampada, allungò le gambe snelle, fissando Hull. Ma il

[ giovane, guardando oltre la finestra, poteva vedere la chiazza scura che

era Vail Ormiston, inginocchiata e piangente accanto al corpo del pa-

dre.

--Ora--chiese la Principessa--come vorresti morire, Hull?

--Di vecchiaia!--scattò lui.--E se non me lo permetterai, allora il

L più rapidamente possibile.

--Potrei accogliere la tua seconda richiesta--osservò lei.--Po-

Ii pensiero di Vail lo tormentava ancora. Finalmente disse:--Altez-

za, hai il coraggio di restare sola con me? Voglio chiederti qualcosa che

non direi mai alla presenza di altri.

La Principessa rise, sprezzante.--Uscite!--intimò alle guardie.--

Hull, credi che io abbia paura di te? Ripeto che i tuoi potenti muscoli e

il tuo cuore ostinato sono come quelli di Eblis, lo stallone nero. Debbo

dimostrartelo di nuovo?

--No--mormorò il giovane.--Dio mi aiuti, ma so che è vero. Non

sono all'altezza di Margot la Nera.

--Non lo è nessun altro uomo--ribatté lei. Poi, con voce più som-

messa:--Ma se mai incontrerò l'uomo che potrà vincermi, ammesso

che esista, avrà qualcosa di te, Hull. La tua forza grande e lenta, e la tua

sincerità ostinata, e il tuo coraggio, ti assicuro.--Fece una pausa, e il

suo volto era puro come quello di una statua di marmo.--Perciò, di'

'~ ciò che hai da dire. Che cosa vuoi chiedere?

--La mia vita--rispose lui, bruscamente.

Gli occhi verdi si splancarono per lo stupore.--Tu, Hull? Tu implori

perché ti risparmi la vita? Tu?

--Non per me--mormorò Hull.--C'è Vail Ormiston che piange sul

cadavere di suo padre. Enoch, che l'avrebbe sposata e amata, è morto

nell'imboscata di ieri notte, e se muoio io rimarrà sola. Ti chiedo la mia

~- vita, per lei.

F~ --I guai di quella ragazza non hanno importanza per me--disse

freddamente Margaret di N'Orleans.

--Morirà, se non avrà qualcuno... qualcuno che l'aiuti a sopravvive-

re a questi giorni di tormento.

--Che muoia, allora. Perché voi mortali vi aggrappate così dispera-

tamente alla vita, comunque? Talvolta io stessa accoglierei con sollie-

vo la morte, e ho infiniti motivi di vivere più di voi. Che muoia, Hull,

Come credo che morirai anche tu, fra pochi istanti!

Posò la mano sul calcio dell'arma che portava alla cintura.--Ac-

colgo la tua seconda richiesta--disse freddamente.--La morte rapi-

da.

10

Ancora il vecchio Einar

Margot la Nera schiacciò con la mano sinistra la sigaretta sul legno lu-

cido del tavolo, ma la destra restò posata inesorabilmente sull'arma

Hull sapeva che ormai stava per morire, e per un attimo pensò di mori

re combattendo, di farsi uccidere dal raggio mentre si scagliava cotro

di lei. Ma scosse il capo; gli ripugnava l'idea di tentare un nuovo atto di

violenza contro quella figura squisita che, strega o demonio che fosse

aveva la spassionata purezza e la bellezza di una divinità. Era più faci-

le morire passivamente, perdendo i propri pensieri nel fulgore di quel

fascino ultraterreno.

Lei parlò.--Muori, dunque, Hull Tarvish--fece dolcemente, e spia-

nò l'arma.

Una voce parlò alle spalle di Hull, una voce nota e gradita.--Distur-

bo, Margaret?

Il giovane si voltò di scatto. Era il Vecchio Einar, che sporgeva attra-

verso la porta il viso rugoso e bonario. Rivolse un sorriso a Hull, spa-

lancb la porta ed entrò nella stanza

--Einar!--gridò la Principessa, balzando dalla poltrona--Einar

Olin! Sei ancora al mondo~--La sua voce assunse di colpo un tono di

profonda pieta.--Ma così vecchio... così vecchio!

Einar le prese la mano libera...--Sono passati quarant'anni da

quando ti ho visto per l'ultima volta, Margaret... e allora ne avevo cin-

quanta.

--Ma così vecchio!--ripeté lei.--Einar, io sono cambiata~

Einar la scrutò.--Fisicamente no, mia cara. Ma a giudicare dalle

storie che si raccontano in tutto il continente, non sei più l'allegra paz-

zerella che N'Orleans adorava come Principessa Peggy, e neppure la

piccola, valorosa guerriera che chiamavano la Fanciulla d'Orleans

Lei aveva dimenticato Hull, ma le guardie che si scorgevano oltre l'u-

SCi0 semiaperto bloccavano ancora ogni via di scampo. Il giovane

ascoltava affascinato: era come se vedesse una Margot la Nera comple-

tamente nuova.

--Sono stata dawero la Principessa Peggy?-- mormorò lei.

--Lavevo dimenticato... Bene, Martin Sair può vincere la vecchiaia

ma non può arrestare il corso del tempo. Ma Einar... Einar, tu hai sba-

gliato a nfiutare la sua offerta!

--Vedendo te, Margaret mi chiedo invece se la mia scelta non sia

stata molto saggia. La giovinezza è un'inquietudine troppo grande per

sopportarla molto a lungo, e tu l'hai portata per poco meno di un seco-

lo. Che sarà tra altri cinquant'anni? Tra altri cento, se l'arte di Martin

Sair conserverà il suo potere? Che cosa diventerai?

Lei scosse il capo; gli occhi verdi divennero profondi, dolorosi.--No

F ~ _ Bene--fece quello placidamente.--Io sono vecchio, ma soddi-

sfatto Mi chiedo se tu puoi dire altrettanto.

_ Avrei potuto essere diversa, Einar, se tu ti fossi unito a noi. Avrei

otuto amarti, Einar.

_ Sì _ ammise il vecchio, amaramente.--Era questo che temevo:

e fu una delle ragioni del mio rifiuto. Vedi, io ti amavo davvero, Marga-

ret: e preferii superare quel tormento, piuttosto che perpetuarlo. Era

una malattia dolorosa, amarti, e ci aveva colpiti tutti, prima o poi. 'Col-

piti dalla fiamma,' dicevamo.--Sorrise, pensoso.--E rimasto qual-

cuno, oltre me, di coloro che ti amavano?

--Soltanto Jorgesen--rispose lei, con tristezza.--Cioè, se non si è

ancora ucciso nella sua ricerca del segreto delle ali degli Antichi. Ma

prima o poi si ucciderà.

--Bene--disse Olin, in tono asciutto.--La mia vecchiaia può anco-

ra farsi beffe della loro immortalità.--Poi puntò un dito nodoso verso

Hull.--Che cosa vuoi da questo mio giovane amico?

Gli occhi di smeraldo lampeggiarono, e la Principessa sottrasse la

mano alla stretta del Vecchio Einar.--Ho intenzione di ucciderlo.

--Davvero? E perché?

_ Perché?--La voce divenne gelida.--Perché mi ha percosso con

quelle mani. Due volte.

Il vecchio sorrise.--Non mi stupirei se ne avesse avuto ogni motivo,

Margaret. La memoria mi dice che io stesso ho provato il medesimo

_ Allora è stato un bene che non vi abbia ceduto, Einar. Anche se tu

'. eri tu.

--Senza dubbio. Ma credo che ti chiederò di perdonare il giovane

Hull Tarvish.

--Conosci il suo nome? E veramente amico tuo?

Il Vecchio Einar annuì.--Ti chiedo di perdonarlo.

t --Perché dovrei?--chiese la Principessa.--Perché pensi che una

tua parola possa salvarlo?

3 --Sono pur sempre Olin,--rispose il vecchio, sostenendo lo sguar-

do degli occhi verdi con i suoi, azzurri e sbiaditi.--Porto ancora il Si-

gillo di Joaquin.

L _ Come se questo bastasse a fermare n2e!--Ma il fuoco gelido si

spense lentamente nel suo sguardo, lasciando di nuovo il posto alla tri-

Stezza--Ma tu sei ancora Olin, il Padre dell'Energia--mormorò la

Principessa~ e con un gesto improvviso ripose l'arma alla cintura.--Lo

risparmierò ancora una volta--fece; e poi, con voce stranamente opa-

ca:--Immagino che non l'avrei ucciso comunque. E una mia debolez-

za: non sono capace di uccidere chi mi ama in un certo modo... una de-

~i bolezza che un giorno o I'altro mi costerà cara.

Olin aggricciò le labbra in quel suo sorriso da teschio, volgendosi al

giovane che era rimasto in silenzio.--Hull--disse gentilmente--tu

devi essere nato sotto una buona stella. Ma se hai intenzione di tentare

ancora la tua sorte, ascolta il consiglio di questo vecchio.--Il sorriso

divenne un ghigno.--Oltre le montagne occidentali vivono ancora cer-

ti felini cacciatori, poderosi e molto rari, chiamati leoni che secondo

Martin Sair non sono originari di questo continente, e fúrono portati

qui dagli Antichi; li tenevano in gabbia, li ammiravano e qualche volta

Ii addestravano. Non so se questo sia vero, ma ti dico questo, Hull: vai a

tirare la coda a un leone, piuttosto che sfidare di nuovo l'ira di Margot

la Nera. E adesso, vattene.

--Non ancora, Hull--scattò la Principessa.--Ho un conto da rego-

lare con te.--Poi si rivolse a Olin.--Dove hai intenzione di andare

ora, Einar?

--A N'Orleans. Ho qualcosa da riferire a Jorgensen, e inoltre ho no-

stalgia della Grande Città.--Fece una breve pausa.--Ho visto Joa-

quin. Selui è caduta. '

--Lo so. Questa notte parto per raggiungerlo. ~-

--E ha mandato ambasciatori a Ch'cago

--Bene!--esclamò lei.--Allora ci sarà da combattere.--I suoi oc-

chi assunsero un'espressione sognante.--Non ho mai visto i mari d'ac-

qua dolce--aggiunse, con aria malinconica.--Ma mi chiedo se posso-

no essere belli quanto il Golfo Azzurro, oltre N'Orleans.

Il vecchio Einar scosse la chioma canuta.--Come finirà, Margaret?

--chiese gentilmente.--Dopo che Ch'cago sarà caduta poiché la pren- ~`

derete... cosa accadrà?

--Le terre oltre i mari d'acqua dolce, e quelle a est, N'York, e tutte le

città sulle rive dell'oceano.

--E poi?

--E poi l'America del Sud, immagino.

--E poi, Margaret?

--Poi? C'è ancora l'Europa, ammantata di mistero, e l'Asia, l'Afri-

ca... tutte le terre note agli Antichi.

--E dopo di esse?

--Dopo--rispose lei, stancamente--potremo riposare. Il destino

che incalza Joaquin non può sicuramente spingerlo oltre i confini del

mondo.

--E così--disse Olin--vi aprite la strada combattendo intorno al

mondo per poter riposare alla fine del viaggio. E allora, perché non ri-

posare adesso, Margaret? Devi usare il pianeta come guanciale su cui

posare il capo?

Il furore divampò negli occhi verdi di lei. Alzò la mano e colpì il vec-

chio sulla bocca: ma leggermente, perché lui continuò a sorridere

--Sciocco!--esclamò.--Allora provvederò io perché vi sia sempre

guerra! Tra me e Joaquin, se sarà necessario... o tra me e chiunque...

` chi~nque~ purché io possa combattere!-- Si arrestò, ansimando.

F ` ~ Lasciami, Einar--fece con voce tesa.--Non mi piacciono le cose

che tu mi ricordi.

Il vecchio indietreggiò, sempre sorridendo. Si soffe}mò sulla soglia.

Ti rivedrò primá di morire, Margaret--promise, e se ne andò.

La Principessa lo seguì alla porta.--Sora!--esclamò.--Sora! Io

parto!

Hull odì il passo pesante di Sora, che entrò portando un paio di mi-

nuscoli coturni e un paio di lucenti guanti argentei, e subito se ne andò.

Lentamente, quasi stancamente, la Principessa si volse verso Hull,

che ancora non aveva permesso alla speranza di entrare nella sua ani-

ma poiché aveva imparato a conoscere Margot troppo bene per fidarsi

delía promessa strappata per lui dal Vecchio Einar. Sentiva solo il fa-

scino che aveva sempre esercitato su di lui, l'incanto degli incredibili

capelli neri e degli occhi verdemare, di quella bellezza ultraterrena.

--Hull--chiese lei, gentilmente--che cosa pensi di me, ora?

--Penso che tu sia una fiamma nera che divampa gelida nel mondo.

Penso che tu sia spinta da un dèmone.

--E mi odii tanto?

--A ogni istante prego di poterti odiare.

--Allora guarda, Hull.--Con le sottili dita guantate gli prese le

t grosse mani, se le posò intorno alla curva perfetta della gola.--Ecco, ti

do la mia vita. Basta che tu stringa con queste due mani poderose, e

Margot la Nera sparirà per sempre dal mondo.--Tacque un istante.

j --Debbo supplicarti?

Hull ebbe l'impressione che un torrente di metallo fuso gli scorresse

- nelle braccia, al contatto di quella pelle bianca. Le sue dita s'irrigidiro-

no come barre metalliche, e nonostante la sua grande forza non riuscì a

esercitare la minima pressione su quella gola morbida. E nelle profon-

dità delle fiamme smeraldine che ardevano negli occhi di lei vide anco-

ra il balenìo del sarcasmo.

- --Non vuoi?--disse lei, scostandogli le mani, ma tenendole strette

nelle sue.--Allora non mi odii?

. --Sai che non ti odio--gemette Hull.

--E mi ami?

--Ti prego--mormorò lui.--E necessario torturarmi ancora? Non

ho bisogno di altre prove del tuo potere.

--Allora di' che mi ami.

t --Il cielo mi perdoni--sussurrò Hull--ma ti amo!

Margaret lasciò cadere le mani di lui e sorrise.--Allora ascoltami.

Tu ami la piccola Vail di un amore più vero; e un mese dopo l'altro il ri-

cordo sbiadisce davanti alla realtà. Dopo qualche tempo, in te non re-

Sterà più nulla di Margot la Nera, ma ci sarà sempre Vail . Ora me ne va-

do, e spero di non rivederti mai più, ma...--E i suoi occhi divennero d

ghiaccio verde.--Prima di andarmene, regolerò il mio conto con te

Alzò la mano guantata.--Questo per il tuo tradimento!--esclamò, e

lo colpì selvaggiamente sulla guancia destra. Sgorgò il sangue: sareb_

bero rimaste le cicatrici, ma Hull restò impassibile.--Questo per la

- tua violenza!--esclamò lei, e il guanto d argento gli lacerò la guancia

sinistra. Poi gli occhi verdi si addolcirono.--E questo--mormorò lei

--per il tuo amore~

Le braccia di Margaret lo cinsero, il suo corpo era caldo contro quello

di lui, le labbra squisite bruciarono sulle sue. Per un momento, Hull eb

be la sensazione di aver abbracciato una fiamma: poi lei se ne andò

portandosi via una parte della sua anima. Quando udì gli zoccoli dello

stallone, Eblis, scalpitare oltre la finestra, Hull si voltò e uscì lenta

mente dalla casa, raggiunse Vail, ancora accovacciata accanto al corpo

di suo padre. La ragazza si aggrappò a lui, gli terse il sangue dalle

guance: e stranamente, non parlò di suo padre, né del fatto che Hull era

stato risparmiato, ma di Margot la Nera.

--Sapevo che avevi mentito per salvarmi--mormorò.--Sapevo

che non l'amavi.

E Hull, che era incapace di mentire, la strinse a sé, senza dir nulla.

Margot la Nera cavalcò a settentrione verso Selui, nella notte. Nel

cielo, davanti a lei, vi erano ombre evanescenti che guidavano eserciti

di fantasmi. Alessandro il Grande, Attila, Gengis Khan, Tamerlano

Napoleone, e più nitida di tutti, la regina guerriera, Semiramide. Tutti

i possenti conquistatori del passato... e dov'erano dov'erano i loro im-

peri, e dov'erano le loro ossa? Lontano, a Sud, c'érano le tombe degli

uomini che l'avevano amata, tutti, eccetto il Vecchio Einar, che vagava

come un fioco spettro grigio nel mondo, per trovare la sua tomba -

Al suo fianco, Joaquin Smith si volse, come per parlarle, spalanco gli _~

occhi e tacque. Non era abituato a vedere le lacrime negli occhi e sulle

guance di Margot la Nera.' J

I Tutte le conversazioni attribuite in questa storia alla Principessa Margaret

sono riprese testualmente da un volume anonimo pubblicato a Urbs nell'ann°

186, e intitolato Gli amon della Fiamma Nera. E attribuito a Jacques LebeaU,

comandante della guardia personale della Fiamma Nera (N.d.A.).

Titolo originale: Daw~2 of Flame

Traduzione di M. Gavioli, su licenza dl Fanucci Editore

L Sprague de Camp

DIVIDI E DOMINA

L'ampio Hudson rifletteva il cielo azzurro primaverile ed era punteg-

giato di vele. I frutteti della valle splendevano di fiori bianchi e violet-

ti. Oltre il fiume incombeva Storm King, non proprio una montagna in

confronto a quelle dell'ovest, ma pur sempre impressionante per un

abitante dello stato di York. Il paesaggio scintillava del verde tenero

delle foglie appena spuntate... e sir Howard Van Slyck, secondogenito

del Duca di Poughkeepsie, sperava in grazia di Dio di eliminare il pru-

rito che sentiva sotto la corazza, senza arrivare al punto di smontare

metà dell'armatura e togliersela.

Mentre l'imponente castrone nero arrancava sulla circonvallazione

che da Albany Post Road aggirava Peekskill, il suo cavaliere pensava

che partire da Ossining tutto bardato non era stata una cosa intelligen-

te. Ma come poteva immaginare che improvvisamente avrebbe fatto

così caldo? L'imbottitura di gommapiuma delle piastre rendeva l'ar-

matura soffocante. Goccioline di sudore gli scorrevano sulla pelle; e

poi, circa nei dintorni di Croton, era cominciato anche il prurito. Sem-

bra~ra proprio sotto il marchio dei Van Slyck, che, inserito nel piastro-

ne, era l'unico ornamento di un'armatura per il resto semplicissima. Il

marchiO rappresentava una foglia d'acero rossa entro un cerchio bian-

co, circondato dal motto dei Van Slyck, "Fagliela vedere".

Due volte aveva cercato distrattamente di grattarsi, ed era stato ri-

condotto alla realtà dallo stridere del metallo sul metallo. Forse una

fumata lo avrebbe aiutato a non pensarci. Aprì uno scomparto della

sella, prese pipa, tabacco e accendino e li accese. In realtà preferiva le

Sigarette, ma la cenere si infilava nell'elmo.

La circonvallazione oltrepassava i binari della Centrale di New

York ~;;ir ~_f~ward si fece da Parte per far passare un autobus a sei ca-

~a ~ 425

valli che sferragliava, poi fece awicinare il cavallo al parapetto e guar

dò giù. Sui binari attrassero la sua attenzione gli anelli lucidi di Ottone

all'estremità delle zanne di un elefante che stava trainando una serie

di vagoni; la spedizione pomeridiana per New York, pensò. Riconobbe

che era un elefante indiano perché aveva le orecchie piccole. Evidente-

mente la Centrale aveva scartato l'idea di utilizzare gli elefanti africa_

ni. La Pennsylvania li usava perché erano più grandi e più veloci, però

erano anche meno docili. L'anno precedente la Centrale ne aveva pr~

vato uno a titolo sperimentale; glielo aveva detto il duca, che era un

azionista importante della società. Durante il percorso di prova l'ad-

detto ai freni non aveva fatto attenzione e aveva lasciato che il vagone

di testa urtasse le zampe posteriori dell'animale, col risultato che l'ele-

fante ne fece deragliare due e avrebbe ucciso il presidente della com-

missione, se fosse riuscito a prenderlo.

Sir Howard riprese il cammino e notò con sollievo che il prurito era

cessato. All'incrocio della circonvallazione con la strada collegata a

Bronx Parkway tirò di nuovo le redini. Qualcosa stava discendendo la

strada a lunghi balzi parabolici. Sapeva che cosa significava. Bronto-

lando infastidito smontò da cavallo. Mentre la cosa si avvicinava, si

tolse la pipa di bocca e alzò il braccio destro per salutare.

La cosa, che ricordava vagamente un canguro con un casco da foot-

ball, li superò, apparentemente senza degnarli di uno sguardo. Sir Ho-

ward aveva sentito parlare delle tristi vicende di quelli che avevano

trascurato di salutare i saltatori, pensando di non essere visti. Non

provava risentimento per l'obbligo di salutare la creatura. In fondo,

I'aveva fatto per tutta la vita. L'irritazione che sentiva era dovuta solo

al pensiero di dover issare di nuovo i suoi 95 chili di peso, più i 1~ del-

I'armatura di acciaio al nickel-cromo, su un cavallo alto in una giorna-

ta afosa.

Per arrivare al castello di Peekskill bisognava risalire Post Road per

una decina di chilometri, e Sir Howard aveva tutta l'intenzione di

scroccare una cena e una stanza per la notte al suo vicino. A metà di un

tornante sentì un clacson. Lasciò la strada asfaltata; dietro di lui arri-

vava a tutta velocità una lunga torpedo nera. Smontò la lancia di du-

ralluminio dalla scarpa, e mentre l'auto sfrecciava via, l'insegna dei

Van Slyck con la foglia d'acero sventolò e ricadde disegnando un arco. ~.

Riuscì a intravedere gli occupanti; quattro saltatori che sotto gli inevi-

tabili elmetti assomigliavano vagamente a dei ratti enormi. Per fortu

na non bisognava smontare da cavallo davanti ai saltatori nei veicoli a

motore, che passavano troppo veloci perché una regola del genere fos-

se praticabile. Sir Howard si chiese, come già tanti altri, come si viag- .

giasse in un veicolo a motore. Certo, il modo per scoprirlo c'era: basta-

va infrangere la legge. Purtroppo in quel modo il viaggio era di sola an-

data.

'altronde non c'era dubbio che Dio sapesse il fatto suo quando sta-

bilì che solo i saltatori potessero avere i veicoli a motore, gli esplosivi e

tutt° il resto. Gli uomini erano stati cattivi, e Dio aveva mandato i sal-

tatori a dominarli. Perlomeno, questo insegnavano a scuola. Suo fra-

tello Frank aveva dei dubbi, e li aveva confidati in segreto a Sir Ho-

ward. Frank aveva detto addirittura che una volta gli uomini avevano i

veicoli a motore. Lui non sapeva; i saltatori sapevano un sacco di cose,

e se fosse stato proprio così, lo avrebbero insegnato a scuola. Eppure,

Frank era in gamba, e non c'era da ridere su quello che diceva. Frank

era strano, e scartabellava in continuazione vecchie carte per scoprire

cose di nessuna utilità. Sir Howard si stupiva di andare d'accordo con

quel suo fratello maggiore così mingherlino, con cui non aveva quasi

niente in comune. Di sicuro si augurava che a Frank non succedesse

niente prima che il vecchio raggiungesse i suoi avi. Sarebbe stato un

bel fastidio ritrovarsi sul groppone l'amministrazione del ducato, al-

meno per il momento. Si stava divertendo troppo.

Lasciò la strada asfaltata quando il castello di Peekskill divenne ViSi-

bile oltre le cime degli alberi, presso il vecchio villaggio di Garrison. Si

fermò davanti al portone e fischiò. Il custode sbucò dalla torretta col

solito ritornello:--Chi siete, e che cosa volete?--Poi disse:--Oh, sie-

te voi, Sir Howard. Dirò a Lord Peekskill che siete qui.--Subito, il

portone (una grande lastra di cemento armato con i cardini in fondo) si

staccò dal muro, abbassandosi.

John Kearton, il barone di Peekskill, era in cortile e intanto gli zoc-

coli del cavallo di Sir Howard facevano plop-plop sul cemento. Si ve-

deva che era appena rientrato da una partita di caccia al fagiano, per-

ché portava una vecchia giacca di cuoio e degli stivali infangatissimi, e

si appoggiava a una balestra leggera.

--Howard, ragazzo mio!--esclamò. Era un uomo tarchiato, con

barba e capelli rossicci.--Togliti quella ferraglia e mettiti in borghe-

se. Su Lloyd, porta la borsa di Howard nella prima stanza degli ospiti.

Ti fermi qui stanotte, vero? Ma come no! Voglio sapere qualcosa sulla

guerra. La wAsc aveva un cronista alla battaglia di Mount Kisco, ma

quando ha visto un paio di cavalli del Connecticut che venivano verso

di lui, ha tagliato la corda. Dopo di che siamo riusciti solo a sentire il

rumOre del suo cavallo che se la dava a gambe e tornava a Ossining.

--Sarei contento di restare--rispose Sir Howard--se non ti di-

sturbo...

--No no, assolutamente. Vedo che hai sempre lo stesso cavallo. Io

inVece cóme cavallo da guerra preferisco lo stallone.

--Saranno anche più vivaci--ammise il cavaliere--ma il buon

veCchio fa quello che gli dico, che è la cosa più importante. Tre anni fa

è stato terzo della sua categoria all'esibizione di White Plains. Prima

che si facesse quelle cicatrici. Ma da' un'occhiata a questa sella: è un

modello nuovo, veramente speciale. Guarda: radio incorporata, scom

parti portaoggetti nell'arcione, tutto. Mi hanno fatto anche lo sconto

Sir Howard salì rumorosamente le scale dietro al suo ospite. La vi-

siera di perspex trasparente della sua borgognotta era già sollevata

slacciò anche la baviera e l'alzò, poi estrasse piano la testa dall'elmo

Sul viso squadrato portava la barbetta e i baffi caratteristici della sua

classe sociale. Il naso non aveva affatto l'aria di un naso, per effetto

dell'incontro con l'estremità di un falcetto. Ma lui si era rifiutato di

farsi fare una plastica, sostenendo che nella vita gli sarebbe capitato

ben di peggio, e quindi operarsi sarebbe stato uno spreco. I capelli cor-

vini rivestivano un cervello molto sviluppato, alquanto arrugginito

per il disuso. Quando si è in grado di disarcionare chiunque in tutto il

ducato, di farlo finire sotto il tavolo a forza di bere, e si è in gamba con

le ragazze, non si è molto stimolati a fare riflessioni profonde.

--E bella la tua armatura. Che cos'è, una Packard?--osservò Peeks-

--Già--rispose Sir Howard, togliendosi un bracciale.--Ha qual-

che anno. Penso che prima o poi dovrò cambiarla con un modello nuo-

vo. Il problema è che le armature nuove costano. Che ne pensi delle

nuove Ford?

--Mmm... Non so. Non so se mi piace quell'elmo tutto di perspex. E

vero che ti offre una visione totale. Ma se è abbastanza robusto da resi-

stere a un'ascia da combattimento, ti renderà anche pesantissimo, cre-

do. E poi il perspex si graffia subito, specialmente in battaglia.

--John, fa' vedere il tuo aggeggio--disse Sir Howard, indicando la

balestra.--E una Marlin, vero?

--No, una Winchester dell'anno scorso. Ho fatto togliere dal mio ar-

maiolo quell'accidente di congegno per l'aggiustamento del tiro, che

non ho neanche mai usato. Per questo ha un altro aspetto. Ma raccon-

tami della guerra. I giornali riportano solo i fatti nudi e crudi.

--Oh, non c'è molto da dire--disse Sir Howard con finta indiffe-

renza.--Ho ucciso un uomo. Strano: mi sono trovato in mezzo a sei

battaglie, ma per la prima volta mi sono reso davvero conto di aver

colpito un nemico. Quel bandito che abbiamo preso a Staatsburg non

conta. Sai com'è, in battaglia: tutti che cercano di colpirsi a vicenda, e

non hai mai il tempo di vedere che danni hai fatto.

NPerò non dovrei vantarmi tanto di questa uccisione. A Ossining ho

firrnato perché il capo della città era mio cugino e pagavano bene. Il

capo aveva messo insieme un duecento elementi di cavalleria pesante

di Winchester, e come fanteria aveva i borghesi di Ossining e di Tarry-

town. Aveva sentito che Danbury stava per ricevere un contingente di

cavalleria pesante da Torrington. Così ci ha diviso in due ~rUDDi. con i

ncieri nel primo soltanto. Io ero nel secondo, e così mi hanno fatto

mettere da parte il mio stuzzicadenti. A proposito, è um arnese simpati-

co è dell Hamilton Standard.

E- 'Li abbiamo trovati proprio su un fianco di Mount Kisco. I nostri ri-

Cognitori avevano scoperto un'imboscata, senza possibilità d'errore;

cavalli di frisia in fondo, cavalleria sui due lati, balestre dietro tutti i

cespugli Il capo ci ha lanciato a sud, per distruggere uno dei loro corpi

di cavalleria prima che l'altro potesse venire in aiuto. Sotto la nostra

carica, la loro ala sinistra si è dispersa ancora prima che arrivassimo,

come se le stessero correndo dietro sei diavoli con le orecchie verdi. Io

non riuscivo a vedere niente a causa delle lance davanti al mio gruppo.

Ma il terreno è abbastanza irregolare, sai, e non si riesce a rimanere or-

dinati in riga. La prima cosa che ho sentito è stato un colpo sull'elmo, e

poi che degli individui in camicia rossa con gli elmi a punta e lo scudo

mi circondavano e miravano alle giunture dell'armatura. Erano l'ala

sinistra di Danbury. Non era riuscito a trovare la cavalleria pesante in

Connecticut. Erano armati da granchio, e avevano i cosciali di maglia

di ferro agganciati alla corazza.

"Mi sono lanciato contro due di loro, ma tutte le volte che l'ascia ar-

rivava erano fuori portata. A quel punto, Paul Jones ha quasi calpesta-

to due camicie rosse. Ne ho colpito uno, ma aveva alzato lo scudo in

tempo. Non mi ero ancora ripreso, che l'altro, che non aveva lo scudo,

afferrava l'asta con tutte e due le mani e cercava di strapparmela. Ave-

vo paura di lasciarla andare, temevo che mi uccidesse il cavallo prima

che riuscissi a sguainare la spada. Mentre giocavamo a tira-e-molla,

un granchio dall'altro lato, a sinistra, mi ha afferrato la caviglia e mi

ha spinto giù. Naturalmente sono caduto come un sacco di patate, pro-

prio sopra al tipo che voleva la mia ascia.

UPer un momento non ho visto niente, perché sono caduto in un ce-

spuglio. Quando mi sono tirato su non c'era più una camicia rossa in

giro. Per loro eravamo degli ossi troppo duri, e se l'erano svignata ap-

pena avevano visto le picche. Mi sono accorto di avere ancora l'ascia in

mano. Il danburiano era sotto di me, e la punta in fondo al manico gli

si era conficcata in testa, sotto il mento. Era più cadavere dei trattati

dell'anno scorso. Loro hanno lasciato una dozzina di morti in quella

boscaglia, noi abbiamo perso un uomo, colpito sotto l'ascella, e um

paio di cavalli, uccisi dai dardi delle balestre. Abbiamo preso i loro ca-

valli e alcune balestre. Sono rimontato in sella a Paul Jones e mi sono

- Unito alla caccia. Naturalmente non siamo riusciti a prenderli Li ab-

biamo inseguiti fino al castello di Danbury, ma quando ci siamo arri-

vati loro erano già dentro a farci marameo e a tirare contro di noi con

~,- le baliste.

" Siamo restati lì fuori per un paio di settimane, ma loro avevano ab-

bastanza ~rovviste in scatola per resistere anni, e a minacciare un mu-

ro di cemento alto venti metri non si ottiene granché. Così, alla fine il

capo e Danbury si sono accordati per far giudicare la loro contesa suj

pedaggi da una corte di saltatori e noi siamo tornati a Ossining per la

paga.J

Mentre raccontava, Sir Howard si era tolto l'armatura e si era messO

degli abiti normali. Era piacevole distendersi nella libertà del tweed e

del lino, con un calice in mano a guardare il sole che calava dietro

Storrn King.--Certo, sarebbe stata tutta un'altra cosa--e abbassò la

voce--se avessimo avuto le arrni da fuoco.

Peekskill trasalì.--Non dire queste cose, ragazzo mio. Non pensarle

neanche. Se loro venissero a saperlo...--Rabbrividì e inghiottì una

bella sorsata di whisky e soda.

Entrò un lacchè e annunciò:--Il signore di Matthews, con un mes-

saggio di Sir Humphrey Goldberg.

Peekskill ne fu contrariato.--Che significa? Non poteva scrivermi

una lettera? Vieni, Howard, vediamo che cosa vuole.

Trovarono il possidente nell'atrio, e aveva un'espressione di cortese

ferme~za. Si inchinò goffamente, e disse con distinzione eccessiva:

--Lord Peekskill, Sir Humphrey Goldberg vi manda i suoi ossequi e

desidera sapere che cosa diavolo intendesse dire vostra signoria ieri se-

ra chiamandolo babbuino doppiogiochista nella locanda dell'Orso

Rosso!

--Santo Cielo--sospirò il barone.--Dite a Sir Humphrey che, pri-

mo, nego di aver detto queste cose; secondo, che, se l'ho fatto, ero

ubriaco; e, terzo, che anche se non ero ubriaco ora mi dispiace e lo invi-

to a cena qui stasera.

Il possidente si inchinò di nuovo e se ne andò, facendo risuonare sul

pavimento gli stivali da equitazione.--Hump è mio amico--disse

Peekskill--solo che abbiamo avuto una piccola discussione sul mio

impianto elettrico. Dice che disturba la sua radio. Ma penso che potre-

mo sistemare la cosa. E poi, lui è migliore di me come spadaccino. An-

diamo a finire il whisky in biblioteca.

Si erano appena seduti quando fu fatto entrare un ragazzo con l'uni-

forme della Western Union. Guardò alternativamente l'uno e l'altro;

poi si avvicinò a Sir Howard.--Van Slyck?--chiese, spostando la

gomma da masticare nella guancia.--O.K. E da un po' che vi CercO

Firmare qui, grazie.

--L'educazione!--ruggì il barone. Il ragazzo ebbe un moto di stu-

pore, e poi di irritazione. Si inchinò profondamente, dicendo --sir

Howard Van Slyck, la vostra magnifica eccellenza può degnarsi di fir-

mare questo... questo umile documento?

Ormai erano entrambi irritati, ma Sir Howard firmò senza dire al-

tro. Quando il ragazzo se ne fu andato, disse:--Certi borghesi orma

sono diventati troppo spavaldi.

~ Già--replicò il suo ospite.--Avrebbero bisogno di una bella le-

zione ogni tanto, per ricordarsi di stare al loro posto. Ma... che c'è, Ho-

~F ~Nard? E successo qualcosa? Tuo padre?

~ No mio fratello Frank. I saltatori ieri sera lo hanno arrestato. E

| Stato prócessato stamattina, condannato, e mandato al rogo oggi po-

"L'hanno accusato di aver compiuto ricerche scientifiche."

--Cerca di fartene una ragione, Howard.

--Sto bene, John.

--Però faresti meglio a smettere di bere quella roba.

--Va tutto bene, ti dico. Non sono sbronzo. Non mi posso sbronzare,

ci ho già provato. Non mi gira neanche la testa.

--Ascolta, Howard, rifletti. Dio sa che sarei felicissimo di averti qui

finché ti va di restare, ma non ti sembra che dovresti andare a trovare

tuo padre?

--Mio padre? Buon Dio, mi ero dimenticato di lui! Sono dawero un

verme, John. Un verme schifoso. Il verme più schifoso che...

--Su, non è vero, ragazzo mio. Adesso bevi questo; ti schiarirà le

J idee E rimettiti l'arrnatura. Lloyd! Ehi, Lloyd! Porta qui l'armatura di

Sir Howard. No, idiota, non importa se non hai ancora finito di luci-

darla! Portala qui!

Sir Howard parlava con una certa esitazione; non sapeva come suo pa-

dre avrebbe accolto la sua proposta. Non sapeva neppure se fosse la co-

sa giusta da fare. Ma la reazione del vecchio lo stupì.--Sì--disse

stanCamente--Mi sembra una buona idea. Vai pure via per qualche

mese. Quando non ci sarò più sarai duca, e non avrai molte possibilità

di fare il galante, quindi dovresti sfruttare al meglio quello che hai. E

poi non hai mai visitato il paese, tranne da qui a New York. Viaggiare

allarga gli orizzonti, dicono. Non preoccuparti per me; ho da fare per

due.

"Ti chiedo una cosa sola, e cioè di non farti più coinvolgere in queste

F guerre locali. E di te che mi sono sempre preoccupato, non di Frank, e

non ne ho più voglia. Non mi interessa se la paga è buona. So che sei un

briccone e un mercenario, e non mi dispiace; almeno non mi devo

preoccupare che tu mandi in rovina il ducato. Ma se vuoi davvero gua-

gnare dei soldi, potrai provare a dirigere la società Scarpe Pough-

keepsie, quando tornerai.

Fu così che Sir Howard si ritrovò ad andare verso il nord, un po~stupito

di pensare a cose gravi. Per fortuna i saltatori non avevano fatto troppe

domande sul permesso di viaggio. Ma sapeva che lo avrebbero tenuto

d'occhio. Anche se non aveva fatto niente, era nell'elenco dei sospetti a

causa di suo fratello. Avrebbe dovuto stare attento.

Viaggiare a cavallo lascia molto tempo per pensare. Sapeva di essere

considerato solo un giovanotto prestante, energico e con la testa piut-

tosto vuota, amante dell'azione. Era ora di metterci qualcosa, dentro

quella testa, se non altro nella prospettiva di ereditare il ducato.

Sentiva che nella sua visione del mondo qualcosa non andava. Il ro-

go era la pena giusta per i colpevoli di ricerche scientifiche. Ma sentiva

che la morte di Frank non era giusta. Tutto quello che i saltatori dice-

vano era giusto, perché Dio li aveva messi al di sopra dell'uomo. Era

giusto che lui, Howard Van Slyck, avesse l'obbligo di salutare i saltato-

ri. Forse che i borghesi non dovevano salutarlo a loro volta? Così si

manteneva l'equità. Lui aveva il dovere di obbedire ai saltatori i bor-

ghesi avevano il dovere di obbedire a lui. A scuola ti spiegavanó tutto.

Analogamente, i saltatori erano obbligati da Dio a comandare su di lui

e lui sui borghesi. Di nuovo, perfettamente equo.

Solo che qualcosa non andava. Non riusciva a trovare un difetto nel

ragionamento che gli era stato insegnato; combaciava tutto perfetta-

mente come una lastra di acciaio Chrysler super-pesante al silicio-

manganese. Ma un difetto doveva pur esserci. Se avesse viaggiato, te-

nendo gli occhi bene aperti e facendo domande, forse lo avrebbe trova-

to_ Forse qualcuno aveva un libro che avrebbe fatto luce sul problema.

I soli libri che gli erano capitati in mano erano di favole che parlavano

delle gesta eroiche dei cavalieri senza paura, oppure testi semplici che

spiegavano come gestire una cassa di risparmio o come montare una

scrematrice.

Avrebbe addirittura potuto unirsi ai borghesi e scoprire il loro punto

di vista sul mondo. Considerando il suo retroterra, Sir Howard non era

particolarmente classista; niente da dire sui borghesi, certi erano ad-

dirittura simpatici, purché non si prendessero troppe confidenze e non

pensassero di essere al tuo stesso livello. Per uno della sua classe socia-

le, queste considerazioni erano decisamente fuori dalla norma.

Si contorse dentro il carapace da aragosta, desiderando di potersi

grattare attraverso il metallo. Maledizione, doveva aver preso qualche

insetto al castello di Poughkeepsie, dove non c'erano parassiti, anche

se vi erano allevati normalmente. Colpa dei saltatori.

Cominciò a piovere, una pioggia scrosciante di primavera Caratteri-

stica dello stato di York, che poteva durare un'ora come una settima-

na. Sir Howard tirò fuori il poncho e infilò la testa nell'apertura. Non

si preoccupava per l'armatura, che era stata ripassata per bene con la

vaselina. Ma la pioggia, che cadeva proprio fitta, era una seccatura. Se

alzava la visiera gli sferzava il viso, se l'abbassava doveva tergere in

Continuazione il perspex per vedere la strada. Sotto il poncho, l'acqua

filtrava nelle giunture e rendeva le gambe tutte fredde e appiccicatic

ce. Non piaceva neanche a Paul Jones, che arrancava ciondolando la

testa, e ogni tanto trottava riluttante.

L'umore di Sir Howard non era dei migliori, quando, dopo un'ora, la

pioggia cedette il posto a una pioggerella brumosa attraverso cui la ri-

va dell'Hudson si distingueva a fatica. Stava avvicinandosi al ponte

Rip van Winkle, quando un uomo a cavallo di fronte a lui gridò:

Ehi !

Sir Howard pensò che volesse passare. Ma lo strano cavaliere restc

fermo, urlando:--Credevi che tagliavo la corda, eh? E invece sono sta-

to ad aspettarti, e adesso me la paghi!

Si capiva dall'abbigliamento che era straniero. Aveva le gambe av-

volte in una specie di pantaloni di cuoio, con larghe falde ai lati.--Co-

sa diavolo volete dire?--replicò il cavaliere.

--Lo sai benissimo, vigliacco figlio di un cane. Combatti da uomo, c

devo tirarti giù le braghette e sculacciarti?

Sir Howard aveva troppo freddo, era troppo fradicio e tormentatc

dagli insetti per continuare quella discussione assurda, soprattuttc

perché scorgeva oltre il fiume la città di Catskill, dove avrebbe trovato

whisky e fuochi accesi.--Bene, straniero, te la sei voluta. In guardia,

plebeo!--Dalla scarpa estrasse la lancia e la mise in posizione oriz-

zontale. Gli zoccoli del castrone rimbombarono sull'asfalto.

Lo straniero aveva buttato in una pozzanghera la giacca di pelle di

pecora, scoprendo una camicia di maglia; vi aveva buttato sopra il

cappello a larghe tese, rivelando una calotta d'acciaio. Sir Howard ab-

bassò la visiera, chiedendosi che tipo di attacco avrebbe usato; nor

aveva sguainato la sciabola che pendeva dalla sella. Con quel cavallo

leggero avrebbe cercato probabilmente di schivare all'ultimo momen-

to la punta della lancia...

Il cavallo lo schivò agilmente; il cavaliere tirò la lancia; la mossa er:

stata una finta, e lo straniero si era messo al sicuro alla sinistra di Sir

Howard Il cavaliere vide di sfuggita una corda che roteava sulla testa

di quell'uomo poi qualcosa gli strinse il collo. Il mondo cominciò a

turbinare, e l'ásfalto si sollevò, colpendolo con un fragore terrificante.

Per alzarsi in piedi dentro un'armatura bisogna essere a pancia in

giù e far leva sulle ginocchia. Rotolò su se stesso e cercò di sollevarsi...

ma fu tirato giù con uno strattone. Lo straniero aveva legato la cordc

intomO a una sporgenza della sella. Il cavallo la teneva tesa; ogni volta

che il cavaliere si metteva in ginocchio faceva uno o due passi e lo ri

buttava per terra. Quando era a terra non vedeva che cosa stava succe-

dendo. Qualcosa gli immobilizzò il braccio destro prima che riuscisse

a ~f~u~erare l'arma. Rott~lando vide che lo straniero aveva oettato un al-

tro cappio intomo al suo braccio. E con quest'altra corda arriVar

dei nodi serpeggianti che gli legarono l'altro braccio, le gambe, il collo

finché non fu imbrigliato come un cerbiatto.

--Adesso--disse lo straniero, awicinandosi con un coltello da cac.

cia in mano--vediamo come si sta dentro 'sti tubi di stufa.----Alzò la

visiera e restò senza fiato.--Come! Tu non sei lui!

--Lui chi?--sibilò Sir Howard.

--Quello che mi ha infilato nella mangiatoia dei cavalli. Uno gros-

so, Baker, si chiama, a Catskill. Avete la stessa armatura, e anche la

stessa bestia. Pensavo proprio che eri lui; con questa luce e l'elmo non

ti ho mica visto bene in faccia. E stato tutto uno sbaglio. Diavolo, rni

dispiace davvero, mister. Non ti arrabbi se ti tiro su, eh?

Sir Howard gli concesse di non arrabbiarsi . Il fatto era che alla colle-

ra per la caduta ignominiosa provocata dai modi sleali di quello stra-

niero bizzarro si mescolava un'ammirazione riluttante per la sua abi-

lità, e una grande curiosità per i metodi che aveva usato.

Lo straniero era alto e magro, con i capelli color paglia e aveva qual-

che anno più di Sir Howard. Slegando le corde spiegava:--Mi chiamo

Haas, Lyman Haas. Vengo dal Wyoming, sai, dal Far West. Qui c'è un

sacco di gente che non sa cos'è il Wyoming. Ieri sera a Catskill mi stavo

facendo un bicchiere al Bar Grill di Luka, bello tranquillo, quando sal-

ta su 'sto Baker e comincia a litigare. Io sono un uomo pacifico, ma a

me certe cose non mi piacciono. Insomma, si viene alle mani e questo

Baker e due suoi amici mi prendono e mi infilano nella mangiatoia dei

cavalli, come ti dicevo. Ah, ecco perché ti ho scambiato per lui: il tuo

ma}chio era nascosto sotto il poncho. Il suo è una testa di volpe. Così I

imparo a non uccidere più nessuno prima di sapere chi è. Spero di non '

aver ammaccato la tua bella armatura sul selciato.

--Fa lo stesso. Un'ammaccatura in più o in meno non cambia gran-

ché per questa vecchia armatura. In parte è anche colpa mia. Avrei d~

vuto pensarci, al poncho.

Haas fissava il marchio dei Van Slyck muovendo le labbra.--Fa...

glie...la... vedere--sillabò.--Cosa vuol dire?

--E un'espressione che si usava tanto tempo fa, e significa '~dagliele

più che puoin, o qualcosa del genere. Sentite, Haas, vorrei andare da

qualche parte ad asciugarmi. Non mi dispiacerebbe bere qualcosa. Co-

noscete qualche buon locale a Catskill?

--Come no, conosco un bel posto. E un bicchiere non ci farà male-

--Bene, devo comprare anche un antiparassitario. E poi, quand°

avremo fatto tutto, forse potremo risolvere il vostro problema con il si-

gnor Baker.

Il mattino seguente gli onesti abitanti di Catskill videro con stupore

il signor Baker in persona, nudo e dipinto in modo osceno, appeso ma-

ni e piedi a un lampione dell'incrocio principale. Essendo stato aPPeSO

piuttosto in alto e imbavagliato efficacemente, non se ne accorsero fin-

ché non fu giorno. Baker non superò mai quell'evento spiacevole; dopo

qualche mese lasciò Catskill e si imbarcò per l'America Centrale su

una goletta di commercianti di banane e lattice.

_ Di' un po', How, vorrei sentire un po' di musica.

Sir Howard non si era ancora abituato al fatto che Haas lo chiamas-

se "How". Gli era simpatico, ma non riusciva a inquadrarlo. Per certi

versi si comportava da borghese. Se lo era, il cavaliere pensò che la sua

~amiliarità avrebbe dovuto infastidirlo. Ma sotto altri aspetti... per

esempio il suo autocontrollo. Oh, be', senz'altro lo schema delle classi

sociali nel West era diverso. Accese la radio.

--E un aggeggio simpatico, quello--continuò Haas.

--Già. E carino quando si fa un viaggio lungo. Nello stivale della

lancia c'è il contatto per l'antenna, così lo stuzzicadenti fa da antenna.

Invece, quando non ho la lancia, posso fissare il contatto all'armatura,

che funziona quasi altrettanto bene.

--C'hai una batteria nella sella?

--Sì, una batteria piccola. Loro hanno una batteria vera, a carbu-

rante, ma non ce la lasciano usare.

Arrivarono in cima a un'altura; apparve il grattacielo dell'Ufficio di

stato di Albany. Era di gran lunga l'edificio più alto della città, che an-

cora non si vedeva. Si diceva che fosse stato costruito molto tempo pri-

ma, quando lo stato di York era un'unica entità politica, e non solo una

vaga espressione geografica. Ora, naturalmente, era il quartier genera-

le dei saltatori per tutto il nord della regione. Sir Howard pensò che

quella torre scura e quadrata avesse un che di sinistro. Ma non era di-

ventato cavaliere per dar voce a quelle caute stravaganze. Chiese ad

Haas:--Come mai sei venuto fin qui?

--Oh, volevo vedere New York. Tu ci sei stato a New York, no?

--Sì, spesso. Però non sono mai andato molto a nord dello stato.

--Quella era la cosa principale. Certo, c'era quel tipo...

--Sì? Continua; di me puoi fidarti.

--Be'... Non penso di avere problemi, visto che siamo un bel po' lon-

tani dal Wyoming. Lui e io stavamo a discutere in un bar. Ora, io sono

un uomO pacifico, ma a me certi discorsi non mi piacciono, e quel tipo

non li Stava mica facendo col sorriso sulle labbra. Così siamo andati

jfiuori a finire la discussione con le sciabole. Solo che lui aveva degli

iCi. Così imparo: prima di battermi con uno devo essere sicuro che

non abbia degli amici. Comunque, volevo vedere New York, e così ec-

comi qui. Quando resto senza soldi, ne metto insieme un po facendo

giochetti con le corde nei locali. La settimana scorsa a New York ho

messo insieme seicento sacchi. Adesso li ho proprio finiti, ma ne faccio

ancora. Da queste parti non ci sta nessuno che sa usare una corda.

--Perché?--chiese Sir Howard.--Che cosa è successo? Sei stato

derubato?

--Naa. Li ho spesi.--Lo disse con una tale noncuranza da far rab-

brividire Sir Howard L'uomo del West lo guardò socchiudendo gli oc-

chi, con un abbozzo di sorriso.--Sai--continuò--io mi credevo che

i signori e i cavalieri non ci badavano proprio ai soldi, che li buttavano

come niente. E invece sei il tipo più attento ai soldi che ho mai visto.

Mi sta proprio bene.

--Ti è piaciuta New York?--chiese il cavaliere.

--Sì, proprio. C'è tante cose da vedere. Sono diventato amico di un

tizio che lavorava in una fabbrica di mobili e mi ha portato in giro. Mi

piaceva stare a vedere le sedie e tutto il resto che venivano fuori dalla

catena di montaggio; fanno zzz... Però il mio amico non ha potuto far-

mi entrare nell'impianto elettrico. C'era un saltatore di guardia Non

fanno entrare nessuno, solo qualche vecchio dipendente, e ho sentito

che li esaminano con la loro droga tutte le settimane per essere sicuri

che non dicono a nessuno come funziona il macchinario elettrico.

"Ma dopo qualche settimana mi sono stancato. Troppi saltatori. Mi

danno sui nervi, sempre a guardarti con quegli occhietti neri come se ti

leggessero nel pensiero. Certi dicono anche che lo fanno. Credo che do-

po quello che mi hai detto di tuo fratello posso dirti cosa ne penso. Non

mi piacciono."

--Non ci sono i saltatori anche nel West?

--Come no, ce n'è qualcuno, ma non ci danno mica fastidio. Certo,

bisogna obbedirgli, ma finché ci facciamo i fatti nostri e paghiamo il

tributo ci lasciano in pace. A loro non gli piace il clima. E troppo secco.

--Neppure da noi interferiscono molto nelle faccende locali--disse

il cavaliere--solo che le grandi città come New York sono sotto la loro

diretta amministrazione. Ecco perché laggiù ce n'è tanti. Certo, se...

Ma te ne ho già parlato.

--Già. E poi i prezzi delle bistecche da queste parti sono un furto.

Nel Wyoming, dove tiriamo su le bestie, mangiamo solo quelle. E il tri-

buto che incide, e costano tanto per le tariffe e il pedaggi doganali.

--Anche da voi ci sono le guerre?

--Come no, ogni tanto noi e i Navvos ce le diamo.

--I Navvos?

--E gente che vive più a sud. Quasi tutti allevatori. Non sono Come

noi. C'hanno la pelle scura, rossiccia, come Queenie, e la faccia schiac-

ciata. C'hanno anche i capelli neri come i tuoi.

~ Mi sembra di aver già sentito parlare di loro--disse il cavaliere.

[~ ~ L'anno scorso al castello è venuto un uomo che era stato all'Ovest.

~a queStO popolo con la pelle rossa li chiamava Nziani.

--Davvero? Io credevo che la nzina era quella cosa che fa andare le

macchine dei saltatori. Mi sta bene. Comunque, ogni tanto ci battiamo

con i Navvos per questioni di pascolo e roba del genere. Più che altro

tra arcieri a cavallo. Anch'io me la cavo mica male. Guarda.--Slaccib

il lembo di una custodia di forma allungata appesa alla sella, che si ri-

velb essere una faretra. Tirb fuori le due parti di un arco di acciaio.

_ Piacerebbe anche a me di averci una sella con gli aggeggi come la

tua per ficcarci la roba, invece di appendere tutto addosso a me e al ca-

vallo come un albero di Natale. ~a per quello viaggio proprio leggero.

Bisogna, se si ha solo un cavallino come Queenie. L'arcione così alto ti

serve soprattutto a non essere buttato giù da qualche stuzzicadenti,

vero?--Haas aveva unito le due parti dell'arco, che aveva un conge-

gno per la mira proprio sopra l'impugnatura.

--Vedi quel nodo in quel pino? Adesso sta' attento, yahuu!--La ca-

valla balzb in avanti. Haas estrasse una freccia dalla faretra; I'arco vi-

L brò. L'uomo fece tornare indietro la cavalla, la fece andare verso l'albe-

` ro e strappb la freccia dal nodo.--Forse non dovevo farlo--disse.

--Ormai siamo propFio vicini ad Albany e forse c'è un regolamento

per il tiro con l'arco in città. Che c'è da vedere ad Albany?--Tra le vec-

chie case di legno a due piani era apparsa una delle abitazioni esago-

nali di vetro dei saltatori.

--Non molto--rispose il cavaliere.--Per prima cosa devo andare

all'Ufficio di Stato a far timbrare il permesso di viaggio. E tu?

--Oh, io no. L'ho fatto timbrare a New York e adesso non devo più

far rapporto finché non arrivo a Chicago. Perb ti accompagno. Finora

mi sembra che nessuno dei due deve andare da qualche parte.

Prima di poter entrare aspettarono per un quarto d'ora sul marcia-

piede di fronte al grattacielo, perché, naturalmente, non potevano pre-

cedere qualche saltatore nell'ingresso. A Sir Howard ormai il braccio

rivestito di metallo faceva male a forza di salutare. Gli passarono da-

vanti due di quegli esseri, chiacchierando nella loro lingua incompren-

sibile che sembrava un cinguettio. Avevano lo stesso odore del formag-

S, gio molto maturo. Trasalì nel sentire uno dei due parlare improvvisa-

~ - mente inglese.--Uomo!--squittì.--Perché non hai salutato?

I - Sir Howard si guardb intorno, e vide che si era rivolto ad Haas, ri-

masto inebetito con la sigaretta in bocca e l'accendino in mano. Si ri-

CompOSe, mise via sigaretta e accendino e si tolse il cappello.--Mi di-

SpiaCe un sacco, vostra eccellenza, ma ho paura di non avervi mica vi-

i sto.

--Bada a come parli, Uomo--cinguettb il saltatore.--Dispiacersi

I non è una giustificazione. Sai che c'è una multa di cinque dollari per

·~ chi n~n C~l~lt~

I

--Sì, vostra eccellenza. Grazie, vostra eccellenza, di avermelo riCor

dato.

--Comunque, dentro è vietato fumare--pigolò la creatura .--Però

siccome hai assunto un atteggiamento più rispettoso non darò seguitO

alla cosa. E tutto, Uomo.

--Grazie, vostra eccellenza.--Haas si rimise il cappello e seguì Sir

Howard dentro l'edificio. Il cavaliere lo udì borbottare:--Io sono un

uomo pacifico, ma...

Sir Howard trovò allo sportello dei permessi di viaggio un uomo con

i baffi bianchi spioventi, che timbrò il suo documento e accolse la visi-

ta senza commenti. L'uomo aveva la solita aria nervosa e avvilita di

tutti quelli che lavoravano in mezzo ai saltatori

Mentre tornavano dove avevano legato i cavalli, Haas disse sottovo-

ce:--Di' un po', How, secondo te il saltatore che mi ha fatto quella

parte voleva farsi bello con la sua ragazza?

--Non hanno la ragazza, Lyman. Non hanno sesso. Meglio, sono

maschio e femmina contemporaneamente. Per fecondare le uova devo-

no essere in due, ma le depongono entrambi. Sono detti ermafroditi

Haas lo fissò sbalordito.--Vuoi dire che...--Fece dietro-front

scoppiando a ridere sgangheratamente e dandosi delle pacche sui pan-

taloni di pelle.--Ragazzi, certo che mi piacerebbe averne un paio in

gabbia!

--How, mangiamo qui. Dalla finestra si vede la ferrovia. Mi piace ve- q_

dere passare gli elefanti.

--Va bene, Lyman. Tanto, non è peggio di un posto qualunque di

Amsterdam.

Al banco, gli avventori si fecero rispettosamente da parte vedendo

I'armatura.--Due Manhattan--chiese Sir Howard.

--Cannucce, signore?--chiese il barista. 3

--No--brontolò il cavaliere, litigando con l'elmo.--Sempre che

riesca a togliere di mezzo questo affare. Ah!--Finalmente la baviera si

aprì.--Prima o poi dovrò prendere questo maledetto cappello e pulir-

lo per bene. La cerniera è più sporca di un trogolo di seconda mano.

--Sai, How--disse Haas.--E uno dei motivi per cui non mi sono

mai piaciuti molto quei cappelli di ferro. Cioè, da mettere in testa... co-

me vasi da fiori non ho niente in contrario. Ho sempre pensato, metti

per esempio che uno mi voglia offrire da bere, così, e io che devo tirare

via visiere, sportelli, eccetera. Ora che sono pronto, quello può aver

mbiato idea.--Bevve un sorso e fece un sospiro di contentezza.

Voi yankee li sapete fare, i cocktails. Da noi i cocktails fanno così

schifo che il veleno ce lo beviamo puro.

~ E un gran bel fiume, questo Mohawk--continuò.--Vorrei poter

dire lo stesso di certe città. Vengo da New York e ho attraversato il

1~ Connecticut; Ci sono delle città mica male in Connecticut. Ma il fiume

è bello. Mi piace guardare le chiatte. Quelli che le fanno andare li san-

no guidare i cava ~

Qualcunó in fondo al banco esclamò:--E io protesto che è un'inde-

i~ cenza!--Parecchi si voltarono verso di lui. Qualcuno cercò di zittirlo,

ma lui continuò:--Sappiamo tutti che lo fa da anni, ma non ce lo deve

sbattere in faccia in quel modo. Poteva almeno farla passare da una

strada secondaria, invece di trascinarla proprio per la via principale.

--Chi l'ha trascinata in che via?--chiese Sir Howard a uno accanto

a lui.

--Kelly è andato di nuovo a ragazze--rispose l'uomo.--Solo che

questa volta la sua banda ne ha rapita una proprio qui in città. Poi

I'hanno legata su un cavallo e Kelly ha guidato la processione fino in

~_ centro. Io ho visto tutto; lei si teneva diritta a cavallo come un soldato.

Naturalmente non poteva parlare perché era imbavagliata. Tutti era-

no tristi. Penso che se qualcuno avesse avuto un apriscatole sarebbe

saltato addosso a Kelly, anche se lui aveva le sue aragoste. Io lo avrei

fatto.

--Eh?--fece Haas, inespressivo.

--Vuol dire--spiegò il cavaliere--che se avesse avuto un'alabarda

L o un'ascia da combattimento avrebbe affrontato Kelly, nonostante lui

~osse protetto da una banda di uomini completamente armati. Un uo-

mo armato a metà si chiama granchio.

--Voi dell'Est parlate proprio strano--disse Haas.--Chi è 'sto

Kelly~ Sembra un duro.

L'informatore osservò l'abbigliamento di Haas e il marchio di Sir

Howard.--Siete stranieri, vero? Certo, Warren Kelly è un duro. For-

nisce "protezione" ai cittadini. Sapete, o paghi, o... Noi dovremmo far

parte del feudo del barone Schenectady, ma lui sta sempre a New York

e nessuno fa niente. Kelly ha un grande castello vicino a Broadalbin,

dove porteranno quella povera ragazza. Non ha titoli nobiliari, per

| ~ quantO, di questo passo, non ci vorrà molto... Senza offesa per la nobil-

~_ tà--si affrettò ad aggiungere.--Signori, avete mai pensato all'im-

portanza di essere assicurati? Il mio biglietto da visita, se permettete.

La mia società fa delle condizioni particolari per gli uomini d'arme...

Sir Howard e Haas si guardarono, abbozzando lentamente un sorri-

so.--Proprio come nei libri--disse il cavaliere.--Lyman, secondo

me dovremmo cercare informazioni su questo castello e il suo proprie-

tario superduro. Sei con me?

4~ J 439

--Come no, anzi, ti precedo. Ci sarà una ferramenta aperta dopo ce.

na, vero? Voglio comprare della vernice. Ho un'idea.

--Ci serviranno un sacco di idee, amico. Un castello non si distrugge

in un sofflo, sai. Ci vuole una strategia.

Il rumore degli zoccoli del cavallo cessò sull'orlo del fossato, il cavalie_

re fischiò. Lo trafisse un raggio di luce proveniente dalle mura, accom-

pagnato da un "altolà". La luce investì Sir Howard Van Slyck e la sua

cavalcatura, ma c'era una differenza. I piedi di Paul Jones erano diven-

tati bianchi, e sulla sua fronte nera era comparsa una gran stella bian-

ca. Sul piastrone del cavaliere la foglia d'acero dei Van Slyck era na-

scosta da un cerchio verde con un triangolo nero al centro. Dalla lancia

era sparito lo stendardo biancorosso.

--Sono Sir William Scranton di Wilkes-Barre!--gridò il cavaliere.

(Sapeva che la Pennsylvania nordorientale era piena di Scranton, e tra

loro doveva esserci pure qualche William.)--Passavo da queste parti

ho senhto parlare di Warren Kelly e gradirei fare la sua conoscenza!

--Aspettate qui--disse la sentinella. Sir Howard restò ad aspetta-

re, ascoltando il gracidare delle rane nel fossato e sperando che il suo

falso nome reggesse all'ispezione. Era eccitato. Si era fatto qualche

scrupolo di violare la promessa fatta a suo padre, ma aveva deciso che

dopotutto, salvare una fanciulla in pericolo non si poteva obiettiva-

mente definire "farsi coinvolgere in una guerra locale".

I cardini del ponte levatoio cigolarono mentre si srotolavano i cavi

che lo reggevano. Il cavallo trotterellò nel cortile. Un uomo dai linea-

menti insignificanti disse:--Sono Warren Kelly. Piacere.--L'uomo

non era molto alto, ma era veloce nei movimenti. Aveva il naso lungo e

occhi sporgenti, leggermente iniettati di sangue. Avrebbe avuto biso-

gno di tagharsi i capelli. Sir Howard lo vide ammiccare impercettibil-

mente mentre gli stringeva la mano. Pensò: UMa come potrei schiac-

ciare questo... Aspetta; se lo temono, dev'esserci un motivo. E assoluta-

mente un farabutto, ma è furbo".

Erano nel salone; Sir Howard aveva accettato di bere qualcosa.

--Come vanno le cose dalle vostre parti?--domandò Kelly in tono in-

differente. L'espressione non era né amichevole, né altro. Sir Howard

apri al massimo la valvola del suo fascino ben noto, una dote non indif-

ferente. Non voleva una pallottola tra le scapole prima ancora di co-

minciare. Riferì frammenti di pettegolezzi sentiti in giro per la Penn-

sylvania, lodò il brandy del suo ospite, raccontò storie incredibili delle

vicende in cui dicevano fosse stato coinvolto Kelly. A poco a poco I'uo-

mo si lasciò andare, e cominciarono a scambiarsi racconti. Sir Howard

np,escò nella memoria i più sporchi, ma Kelly ogni volta ne aveva uno

migliore. Qualcuno era un po' forte per il gusto cattolico del cavaliere~

i~ ma lui muggiva lo stesso in segno di apprezzamento.--Adesso--dis-

se Kelly con un sorrisetto gelido--voglio raccontarti quello che ab-

I! biam° fatto al tipo del banco dei pegni; è la storia più divertente che tu

abbia mai sentito. Sai l'acido nitrico? Be', abbiamo preso un tubo di

VetrO, con dentro un po' di lana di vetro come stoppino...

Qualcuno degli uomini di Kelly ammazzava il tempo ascoltando la

radio e giocando a dadi- In un angolo stavano giocando a bridge. Or-

mai dovremmo esserci, pensò Sir Howard. Non devo guardare in alto

come se stessi aspettando qualcosa. Se questo non funziona... Non si

faceva illusioni sulla possibilità di prendere la ragazza e farsi largo tra

un mucchio di guerrieri esperti.

Si sentì in alto un debole tintinnio di vetri. Kelly alzò lo sguardo, ag-

grottò la fronte e continuò il suo racconto. Poi si udì di nuovo tintinna-

re. Qualcosa precipitò, atterrando sul tappeto. C'era una freccia in ac-

, ciaio con le penne di duralluminio. La punta era conficcata in un sac-

chetto contenente una sostanza che bruciava con una fiamma azzurra,

emanando una puzza incredibile, soffocante.

--Che diavolo!...--esclamò Kelly, scattando in piedi.--Chi è lo

spiritoso?--Prese in mano la freccia, storcendo il naso e tossendo. Si

avvicinò al muro e sbraitò in un tubo di comunicazione:--Ehi, voi,

lassù! Qualcuno sta tirando qui dentro delle bombe allo zolfo. Prende-

telo, imbecilli!--Una voce sorda disse qualcosa come un:--Non si

riesce a vederlo!--Un uomo scendeva di corsa le scale con un'altra

freccia in mano.--Senti, capo, un bastardo l'ha tirata nella mia stan-

za, attaccata a un sacchetto di zolfo...

Ora erano tutti in piedi e bestemmiavano sfregandosi gli occhi.

--Maledetti imbecilli...--Però servirà a disinfestare. Gli scarafaggi

stanno diventando...--Sta' zitto, scemo, lo zolfo non puzza mica più

di te!--Sir Howard, tossendo, si premette il fazzoletto sugli occhi che

lacrimavano. Kelly soffiò tre volte nel fischietto più acuto che si fosse

3 mai sentito.

Gli uomini entrarono in azione come una squadra di vigili del fuoco

ben addestrati. Spalancarono delle porte nel muro; dietro a ognuna

c'era un'armatura. Gli uomini le indossarono con una rapidità che a

Sir Howard parve incredibile.--Vieni anche tu, Wilkes-Barre?--dis-

se Kelly.--Se lo becchiamo, ti faccio divertire. Voglio provare un'idea

che mi è venuta, scaglie di pigna roventi. Ehi, ragazzi! Venga con me

solo il primo squadrone, gli altri restino qui. State attenti: potrebbe es-

sere un trucco.--A quel punto andarono nel cortile, metà di corsa,

L metà a passo normale, dove i cavalli li stavano già aspettando. Monta-

ronO in sella con un gran fragore metallico e rimbombarono attraver-

~_ sando il ponte levatoio.

--Disperdetevi--ordinò Kelly.--Butler, tu prendi il...

--Yahuu!--si sentì gridare nel buio.--Farabutti nordisti! Ehi,

Kelly, come si chiama tuo padre? Scommetto che non lo sai neanche

tu!--Allora tutti si allontanarono sulla strada di Broadalbin, inse

guendo un'ombra minuscola che sembrava galleggiare invece che ga

loppare davanti a loro.

Sir Howard trattenne leggermente Paul Jones, facendosi sorpassare

dagli altri, imprecando nel frattempo ad alta voce per la lentezza del

suo cavallo, e confondendolo. Quando gli altri arrivarono alla curva

era ormai in coda. Tirò con forza le redini e fece girare il cavallo sulle

zampe posteriori...

In tre minuti fu di nuovo al castello, imitando alla perfezione un uo

mo barcollante sulla sella. L'armatura e Paul Jones erano spruzzati di

rosso, che gocciolava a terra dalla sua scarpa sinistra.--Un'imbosca

ta!--gridò.--Kelly è circondato da questo lato di Broadalbin! Ero ul

timo e sono riuscito a fuggire!--Ansimava in modo convincente.

--Fuori tutti, presto!--ln un attimo il castello vomitò una massa di

banditi. Di nuovo il castrone nero sembrava incapace di restare al pas

so con gli altri...

Questa volta, appena raggiunto il castello, Sir Howard legò il caval-

lo a un albero al di là del fossato. Dentro il castello dovevano essere ri- :~

masti alcuni servi, che sarebbero accorsi a prendere il cavallo e a fare

domande se lo avesse portato all'interno. Anche le sentinelle dovevano

essere di guardia. Cercando di vedere nel buio, sulle merlature non riu-

scì a distinguerne neppure una. Ora o mai più. Grazie a Dio avevano

lasciato il ponte levatoio abbassato

~1 cortile era deserto. Anche l'atrio. Anche la sala da pranzo. I~iami-

ne, pensò, non c'è nessuno? Devo trovame almeno uno! Si diresse verso

la cucina in punta di piedi, precauzione alquanto inutile, poiché l'ar-

matura scricchiolava e strideva al minimo movimento.

Dietro la porta un uomo grasso e sudaticcio con un gran cappello -

bianco stava asciugando un bicchiere. Vedendo la spada restò a bocca

aperta e fece per scappare, mentre il bicchiere andava in mille pezzi. `~

--Non lo farai--ruggì il cavaliere, e in quattro falcate raggiunse il

cuoco e lo prese per la collottola, puntandogli la spada sopra il rene de-

stro.--Prova a squittire e sei morto. Dove sono tutti?

--S-sissignore, lo chef è a letto con il raffreddore e gli altri sono an- -

dati al cinema.

--Lei dov'è?

--Lei? Non so di chi... iik--La punta era penetrata per tre millime- ;~

tri.--E nella stanza degli ospiti al secondo piano...

--Bene, fammi strada. Marsh!

La stanza degli ospiti aveva una porta di quercia massiccia, chiusa

da una robusta serratura Yale. La serratura aveva un supporto di bron-

zo, ed era evidente che aveva soprattutto lo scopo di tenere qualcun°

all'interno della stanza, piuttosto che all'esterno.

Dov'è la chiave?

Non lo so, signore... cioè, la tiene il signor Kelly...

Sir Howard rifletté. Si era congratulato con se stesso per aver pensa-

to a tutto .. e adesso questo! Pensò che se avesse cercato di sfondare la

porta ne avrebbe ricavato solo dei lividi, e non sbagliava. Non era ca-

e di scassinare una serratura, ammesso che una serratura a cilin-

dro si potesse scassinare. Doveva fare in fretta. . in fretta... Erano gli

zOCcoli dei loro cavalli? No, ma avrebbero potuto tornare in ogni mo-

mento. Se fosse successo qualcosa ad Haas, o se il secondo squadrone

avesse raggiunto il primo...

- Sdràiati a pancia in giù accanto alla porta--ordino.

- Sissignore... Non mi ucciderete, signore? Non ho fatto mica nien-

--Per ora no.--Posò la punta della spada sulla schiena dell'uomo.

_ Una mossa, e mi ci appoggio.--Con la mano libera sfoderò il pu-

gnale e cominciò a svitare le quattro viti che flssavano la serratura.

Sperando che la lama così sottile resistesse...

Ci volle un tempo interminabile. Appena l'ultima vite uscì, la serra-

tura cadde sopra il cuoco con un tonfo sordo. Sir Howard aprì la porta.

--Chi siete?--chiese la ragazza, in piedi dietro una sedia. Piuttosto

alta, pensò. Era una cosa che gli piaceva. Indossava il solito vestito fat-

to a pigiama, e sembrava più sprezzante che spaurita. I capelli chiari

erano piuttosto corti, ed era più abbronzata di quanto non fosse di mo-

da.

--Non ha importanza. Sono venuto a liberarvi. Su, presto!

--Ma chi siete? Non mi fido...

--Volete uscire o no?

--Aliora, basta ciance e venite con me. Kelly può tornare da un mo-

mento all'altro. Non vi mangio mica. Oop, maledizione, ci è riusci-

tol--Il cuoco si era rimesso in piedi all'improvviso, e le sue gr~da

d'aiuto svanivano in fondo al corridoio.--Insomma, venite, perdiana!

Quando furono nel salone, un uomo con mezza armatura stava scen-

dendo dall'altra scala, quella che portava al camminamento delle sen-

tinelle. Scendeva due gradini alla volta, tenendo un'ascia da combatti-

mento a pettarm.

--State da parte!--Sir Howard diede una spinta alla ragazza,

sbattendo giù la visiera. In cima alle scale apparve un altro uomo; il

primO aveva già attraversato metà della sala. Il primo fece un allungo

con il suo apriscatole. Sir Howard spostò il peso del corpo in modo da

schivare la punta con la spalla; poi i loro corpi si urtarono rumorosa-

mente. Il cavaliere colpì col pugno destro la mascella dell'uomo, usan-

do il guanto massiccio come tirapugni. L'uomo si accasciò, e l'altro gli

fu Sopra. Era ancora più robusto di Sir Howard, e brandiva la scure co-

me una sferza. La lama alla sua estremità sembrava quella di una

mannaia; dietro la lama sporgeva un gancio, per disarcionare i ca~/a

lieri, e in cima c'era una punta lunga trenta centimetri.

Sir Howard, schivando un colpo sul piede, pensò: "Se nel castello C'è

qualcun altro, questa cagnara lo attirerà presto . La lama colpì il suo

elmo in modo particolarmente sonoro; vide le stelle e si chiese se gli

avessero rotto il collo. Poi il manico cominciò a roteare per farlo in-

ciampare. Barcollò e cadde su un ginocchio; stava appena riprenden_

dosi, quando vide che la punta era diretta verso la sua visiera. Si chinò

e colpì. Non poteva sperare di trapassare la corazza di duralluminio

ma la lama affondò nei tendini della sinistra nuda dell'uomo. Ecco!

Ma l'uomo lasciava cadere la scure e indietreggiava fuori dalla sua

portata, schizzando sangue dalla mano ferita. La sua spada apparve

con un wh~ip prima ancora che il cavaliere fosse riuscito ad alzarsi in

piedi. Allora ricominciarono. Finta-affondo-parata-risposta-inguar-

dia-colpo di taglio-parata-colpo di punta-doppio-affondo. Ting-clang-

swish-bong-zing. Sir Howard, sudando, si rese conto di stare indietreg-

giando. Un altro passo indietro, un altro... quell'uomo lo stava chiu-

dendo in un angolo. Quell'uomo era uno spadaccino migliore di lui

Maledizione! La punta della sentinella era quasi riuscita a infilarsi tra

la baviera e il piastrone e a raggiungere la gola. Quell'uomo era spa-

ventosamente bravo. Non si riusciva a colpirlo. Un altro passo indie-

tro... non poteva farne altri, o si sarebbe ritrovato contro il muro.

La ragazza aveva preso una seggiola vicino al tavolino da gioco. In

punta di piedi andò a sbatterla dietro le gambe della sentinella, che

strillò, alzò le braccia e cadde in modo ridicolo, con le mani dietro di sé

sul pavimento. Sir Howard mirò al viso e premette con tutto il peso del

corpo; sentì la punta della spada che faceva scricchiolare le ossa del

cranio.

--L'altro!--gridò la ragazza. L'altra sentinella era carponi sul pa-

vimento e cercava a tentoni la sua arma.--Non sarebbe stato meglio

ucciderlo?

--Non c'è tempo. Correte!--Uscirono, clank, clank, clanlc, nel buio

--Non... preoccupatevi... di lui--ansimava il cavaliere--Quanto...

ammiro... Ia... vostra... prontezza.--Maledizione! Stava quasi per ca-

dere dal ponte levatoio.--Che... furbo... se... adesso... annego... nel...

f o s s a t o .

--Santo cielo, devo aver dormito tutta la mattina! Per favore, che ore

sono, signor cav~li.qr~

i' Sir Howard si guardò il polso, e gli venne in mente che l'orologio era

SottO la manopola e il bracciale. Era un bell'orologio, e il cavaliere, con

il suo senso del risparmio, sarebbe inorridito all'idea di tenerlo scoper-

to quando si prospettava un combattimento. Andò a vedere l'orologio

incorporato nel pomo della sella.--Le undici e mezzo-- disse.

Dormito bene?

~ Come un sasso. Ho l'impressione che il vostro amico ancora non si

sia fatto vivo, no?

Sir Howard guardò tra i pini il paesaggio ondulato, sabbioso. Tutto

era immobile, tranne qualche uccello ogni tanto.--No--rispose

ma non vuol dire. Dobbiamo aspettare fino al calare del buio. Se per

allora non si farà vivo, allora andremo a... andremo da qualche parte.

Anche la ragazza si mise a guardare.--Vedo che per il vostro appun-

tamento avete scelto una zona senza neppure una casa in vista. Non...

ehm... ho l'impressione che non ci sia niente da mangiare, vero?

--No. Ho una fame che potrei mangiare un cavallo, e correre dietro

al cavaliere. Possiamo soltanto aspettare.

La ragazza guardò per terra.--Non è per guardare in bocca al sal-

vator donato, se mi capite... ma... ho come l'impressione che non vo-

gliate dirmi il vostro vero nome.

Sir Howard tornò in sé, sbuffando.--Il mio vero... come diavolo

a~ete fatto a saperlo?

--Non offendetevi, ma col sole si vede che quel marchio è stato ridi-

pinto. Anche se l'armatura è tutta sporca di sangue.

Sir Howard fece un gran sorriso:--Il sangue dei miscredenti è più

bello di un tramonto, come dice un libro. Vi faccio una proposta: vi di-

co il mio vero nome, se mi dite il vostro!

3 Ora toccava alla ragazza stupirsi, negare e interrogarlo.--Sempli-

ce, mia cara signorina. Dite di chiamarvi Mary Clark, ma sulla cami-

cetta sono ricamate le iniziali SM, e c'è una S sul fazzoletto. Giusto?

--Oh, va bene, mi chiamo Sara Waite Mitten. E voi, furbacchione?

--Avete mai sentito parlare dei Poughkeepsie Van Slyck?--Sir Ho-

ward le fece un resoconto della sua posizione in tale nobile famiglia.

Nel frattempo, Paul Jones si avvicinò e diede un colpetto col naso alla

ragazza~ che fece per grattarsi la fronte, ma allontanò la mano.--E tui

Come si chiama?--Il cavaliere glielo disse.

--Da dove l'avete preso?

--Oh, non lo so; è il nome dei cavalli di famiglia da molto tempo.

Penso che una volta sia esistito un uomo che si chiamava così. Un uo-

mo importante, voglio dire.

--Sì--disse la ragazza.--Infatti. Era un personaggio romantico,

proprio uno di quelli che sarebbero andati in giro a liberare le fanciul-

le prigioniere, ammesso che ce ne fosse qualcuna. Aveva anche un cer-

~ to Senso dell'umorismo. Una volta, la nave di cui era il comandante era

444 ~ 44.5

L.

inseguita dai nemici; la tenne fuori portata, sicché i colpi di cann

della nave nemica non riuscivano a raggiungerla. Jones mise un uon~

a poppa ordinandogli di rispondere a ogni colpo di cannone con uno di

moschetto. Il moschetto era un tipo di fucile leggero che si usava al.

Iora.

--Sembrerebbe un tipo in gamba. Era anche bello?

--Be'--la ragazza inclinò la testa da una parte--dipende dai p

ti di vista. Se si considera bella una scimmia, allora Paul Jones era in-

dubbiamente un bell'uomo. A proposito, ho notato che il colore del v~

stro Paul Jones sfregandolo viene via.--Mostrò una mano Sporca di i

vernice. Al castrone non interessava essere né grattato né aCCarezzatO-

sperava solo che gli dessero qualche zuccherino Siccome non ne vede-~

va, si allontanò. Sally Mitten continuò:--La prima volta che vi ho vi-

sto, ho pensato che foste soltanto un giovanotto grande, grosso e intra-~

prendente, senza particolari doti, tranne quella di tagliare a pezzi la

gente che non vi va a genio. Ma il modo in cui è stato concepito il pianoi

e il fatto che abbiate notato le iniziali sui miei abiti sembrano dim~r

strare una vera intelligenza.

--Grazie. La mia famiglia non ha mai fatto molto affidamento sUI

mio cervello, ma forse li deluderò. Mi sono appena reso conto che no._

ci sarebbe stato bisogno di dirvi chi ero; avrei potuto spiegare il mar-

chio dicendo che l'armatura era di seconda mano. i.

--Ma difficilmente avreste ridipinto il cavallo, anche se fosse stato~

pure lui di seconda mano, vero?

--Dico, siete diabolica. Qualunque cosa io dica, ne avete sempr

una migliore.--Rifletté un momento e chiese:--Per quanto temp~

siete rimasta nel castello di Kelly?

--Tre giorni.

Tre giorni, eh? Potevano essere accadute molte cose in tre giorni. Ma

se lei non gliene avesse parlato spontaneamente, certo non sarebb

stato lui a chiederglielo. In effetti, nessuno dei due tornò più sull'arg~

mento.

--E dove--continuò Sir Howard--avete trovato tutte le notizie s~

Paul Jones, sull'epoca in cui gli uomini avevano il fucile, e così via?

--Soprattutto nei libri.

--Libri, eh? Non sapevo che esistessero dei libri su queste cose, i

meno che i saltatori non li abbiano. Si parla del diavolo...

Piegò indietro la testa per guardare una macchina volante che sbul

fava sopra di loro, oscillando fino a diventare un punto nel cielo terSa

Accanto a lui si sentiva un respirare affannoso. Si voltò verso la ragaZ

za. Parlava piano e molto seriamente.--Sir Howard, mi avete fatto ID

grande favore, e mi volete aiutare, vero? Ecco, qualunque cosa succed

non voglio cadere nelle toro mani. Piuttosto preferisco tornare nel Ca

stello di Kelly.

~ Ma che cosa...--si interruppe. Sembrava davvero spaventata.

Non aveva avuto affatto paura di Kelly; era solo rabbiosa, sprezzante,

--Non dovete preoccuparvi--la rassicurò.--Loro non piacciono

nche a me.--Le raccontò di suo fratello.--E ora--disse--mi

prendo un paio d'ore di sonno. Svegliatemi se si vede qualcuno.

Gli sembrava di avere appena trovato una posizione comoda, quan-

do si sentì scuotere la spalla.--Sveglia!--diceva lei--Sveglia... oh,

. diamine... sveglia!

--Haas?--borbottò, sbattendo le palpebre.

--~Io, uno di loro. Ho continuato a scuotervi...

Balzò in piedi così velocemente che quasi la fece cadere. La sonno-

~- lenza scomparve di colpo.

i Il sole era basso all'orizzonte. Un veicolo a due ruote si stava av-

vicinando al gruppo di pini attraverso la sabbia e l'erba. Sir Howard

diede un'occhiata a Paul Jones, che brucava soddisfatto l'erba.--Inu-

tile cercare di scappare--disse.--Ci vedrebbe, e quelle moto sono

più veloci di un fulmine in ritardo a un appuntamento. Tre o quattro

volte più veloci di un cavallo, comunque. Dovremo bluffare. Forse non

sta cercando noi.

Il veicolo si diresse proprio verso i pini, e rallentò, fermandosi, re-

stando diritto sulle due ruote. Il tettuccio arrotondato di perspex si

aprì, e un saltatore uscì fuori senza fretta. I due esseri umani salutaro-

no. Cominciarono a sentire il vago odore di formaggio della cosa.

--Tu sei Sir William Scranton--cinguettò.

Sir Howard non vide il motivo di negare un'affermazione tanto ov-

via.--Sì, vostra eccellenza.

--leri sera hai ucciso Warren Kelly.

I --No, vostra eccellenza.--Gli occhietti neri e lucidi sotto l'elmetto

|- di cuoio sembravano perforarlo. Il muso appuntito non tradiva nessu-

na emozione. Le vibrisse da ratto tremolavano come al solito.

--Non contraddire, Uomo. Sappiamo che sei stato tu.

| Sir Howard aveva la bocca secca, e si sentiva le ossa di gelatina.

|. Lui, che aveva combattuto in sei corpo-a-corpo senza torcersi un ca-

. pello, che aveva strappato un prigioniero di sotto il naso a un bandito,

era terroriZzato. Le grinfie del saltatore erano appoggiate al calcio del-

~la pistola nella fondina. Sir Howard, come la maggior parte degli esse-

_ ~i umani di allora, aveva il terrore delle armi da fuoco. Non aveva idea

~i Come funzionassero. Un saltatore ti puntava addosso un aggeggio

~pparentemente innocuo, poi un lampo e uno scoppio, ed eri morto,

~n un foro netto nella corazza largo un dito. Tutto qui. Nessuna spe-

~anZa di resistere a delle creature che disponevano di un tale potere. E

andO non c'è speranza di resistere, il coraggio è tanto raro che chi lo

~;siede può essere accusato di mancare di una rotella.

Provò a cambiare tattica.--Avrei dovuto dire, vostra eccellenza~ '

che non ricordo di aver ucciso Kelly. Inoltre, I'uccisione di un uornO :

non è contro le leggi supreme.--(Si riferiva alle leggi dei saltatori.)

Il discorso sembrò fermare il saltatore.--No--squittì.--Ma è `

inopportuno che tu abbia ucciso Kelly.--Si interruppe, come per

escogitare un pretesto per arrestarlo.--Hai mentito, dicendo di non

aver ucciso Kelly. E le leggi supreme sono quello che diciamo noi. _ ~

Una brezza leggera fece mormorare i pini. Sir Howard, gelando, sentì ~|

che tra loro stava passando la morte, e sogghignava. ~ `

Il saltatore continuò:--Qui c'è qualcosa che non va. Dobbiamo in .

dagare su di te e sulla tua complice.--Sir Howard vide con la coda

dell'occhio che Sally Mitten aveva serrato forte le labbra.

--Mostrami il tuo permesso di viaggio, Uomo. ~,

A Sir Howard sembrava che a ogni battito del cuore dovesse spezzar- -

glisi una costola. Si avvicinò a Paul Jones e aprì una tasca della sella ~

piena di carte. Frugando, scelse la circolare di un'agenzia turistica che

reclamizzava le attrattive delle Mille Isole. La porse al saltatore.

La creatura si chinò sul foglio. La spada del cavaliere roteò in un

lampo, fendendo l'aria. Ci fu un rumore carnoso.

Sir Howard si appoggiò sulla spada, aspettando che le orecchie ~`3

smettessero di rombare. Sapeva di non essere mai stato così vicino a - .

svenire. La testa del saltatore era poco più in là, con gli occhi tondi fissi I `

nel vuoto. Il resto della creatura giaceva ai suoi piedi, con le membra

che si contraevano impercettibilmente, ammucchiando la sabbia con

le mani e i piedi. Per terra si allargava una pozza di sangue verdeaz- i

zurro. Sulla sua superficie roteavano lentamente gli aghi di pino. _~

La ragazza stava a guardare inebetita.--Cosa... Cosa facciamo -~

adesso?--chiese. Era poco più di un sussurro.

- --Non lo so. Non lo so. Non ho mai sentito di un saltatore ucciso. 3

--Distolse lo sguardo affascinato dal cadavere, per guardare oltre le ~

dune.--Guardate, ecco Haas!--Il sangue ricominciò a scorrergli nel- b

le vene con più calore. Lo straniero forse non sarebbe stato di grande

aiuto, ma gli avrebbe fatto compagnia.

L'uomo del West cavalcava spavaldo, sbattendo i calzoni di cuoio

contro i fianchi di Queenie. Gridò:--Ehilà, gente! Ci è voluto un sacCO |~

di tempo per togliere di mezzo quelle aragoste, come si chiamano. Ho

dovuto annegare...--Si fermò vedendo il saltatore, e fece un fischi

prolungato.--Ma... che... mi... venga. Di', ragazzo, lo pensavo che ave-

vi fegato, ma non ho mai sentito che qualcuno abbia fatto questo. Non

ti piacerebbe provare qualcosa di più tranquillo, che so, fare a botte ~

con un orso o fare un nodo a un fulmine?--disse con un sorriso forza---

to.

--Sono stato costretto--disse Sir Howard. Lo sbigottimento dell°--

straniero gli fece riacquistare la calma. Era montato in groppa all° ~

i`` stallone selvaggio della ribellione, e non poteva fare altro che caval-

~rlo con la massima disinvoltura possibile.--Mi aveva chiesto il per-

mesS° di viaggio, e sarei stato arrestato per infrazioni al marchio o

Chissà che.--Presentò Sally Mitten, e fece un resoconto degli avveni-

I menti.

--Dobbiamo sbarazzarcene al più presto--intervenne la ragazza.

Quando sono di pattuglia, contattano via radio il comando ogni ora

circa- Quando questo non si farà sentire, gli altri cominceranno a cer~

carlo.

--E come fanno, signorina?--chiese Haas.

--Formano un cerchio intorno alla zona da cui hanno avuto l'ulti-

ma comunicazione. e lo stringono sempre più, tenendo sotto osserva-

zione l'area dall'alto.

--Sembra ragionevole. Da quello che mi avete detto, questo era in

missione ufficiale o che, quindi, i suoi compari avranno un'idea di do-

v'era quando è stato infilzato. Quindi noi siamo dentro al cerchio. Co-

me facciamo a sbarazzarcene? Se lo sotterrassimo...

--Potrebbero usare i cani per localizzarlo--disse la ragazza.

--Be', allora, se solo potessimo buttarlo nel fiume o che. L'Hans

Creek laggiù non è abbastanza profondo.

Sir Howard osservava aggrottando la fronte una mappa a grande

scala che aveva comprato ad Amsterdam la sera prima.--Oltre quelle

colline c'è il bacino di Sacandaga--disse, indicando il nord.

--No--disse Sally Mitten.--Dobbiamo eliminare anche il suo vei-

colo. Non possiamo portarlo oltre la catena del Maxon. Lo so io: but-

tiamolo nel Round Lake. E a est di qui, non lo si vede.

--Dico, signorina, avete in testa la cartina di tutto il paese?--chie-

se beffardo Haas.

!~ --Ho vissuto qui vicino per quasi tutta la vita. Copriremo le mac-

chie di sangue con della sabbia pulita e degli aghi di pino. E, Sir Ho-

ward, farete il favore di ripulire la vostra spada alla prima occasione.

--La piccola è in gamba, How--osservò Haas, smontando di sella.

--Solo che non è poi tanto piccola. Bisogna, gente. Voi prendetelo per

la testa... cioè per le braccia; la testa è a parte. Non sporcatevi con

quella roba blu. Forza! Che bello, questi aggeggi restano dritti sulle

ruote anche da fermi; così è più facile spingerli.

L --Fate un po' di buchi nel perspex--disse Sally Mitten.--Così af-

fonderà più velocemente.

--Che mi venga un colpo se questa non pensa a tutto--disse Haas,

j CominciandO a dar di coltello nella carrozzeria. Sogghignava.--How,

! Se gli altri saltatori riescono a trovarlo, mi piacerebbe sentire cosa di-

no, cercando di capire cosa gli è successo. Se capissi la loro lingua

I da canarini~ certo. Dite un po', signorina, avete pensato a come uscia-

|~o da questo cerchio se cominciano a cercare prima che riusciamo a

cappare? E da che parte si va?

L ~ t ~

--Vi guiderò io, Haas. Penso di sapere come fare. E se voi due disp

rati volete nascondervi, venite con me. Conosco il posto giusto. Dovre

mo fare presto. Oh, non avete portato qualcosa da mangiare, vero? I.~n

momento fa non avrei potuto mandare giù niente, ma adesso che quellO

non c'è più ho di nuovo fame. E anche Sir Howard, credo.

--Non mi sono mica dimenticato, che mi venga un colpo. Per strada

mi sono fermato a prendere qualche panino. Pensavo che ormai dove.

vate averci i crampi allo stomaco.--Tirò fuori un paio di panini av.

volti nel cellofan.--Saranno un po' asciutti. Per migliorare il sapore

potete metterci un po' del sangue che c'è sulla corazza di How.

La ragazza guardò le chiazze sull'armatura. Sogghignando, Sir H~

ward tirò via un po' di quella sostanza rossa e appiccicosa, mezzo sec-

ca, e si mise il dito in bocca. Sally Mitten deglutì, sembrava sul punto

di vomitare. Ma lo imitò.--Vi faccio vedere io, spiritosi!--Cambiò

espressione.--Marmellata di fragole!--Haas schivò, ridacchiando, il

pugno di lei che passò a un palmo dal suo naso.

--C'è un altro aereo. Certo stanno facendo un lavoro accurato. Qual-

cuno riesce a vedere se sono già arrivati all'acqua?--Era Sally Mitten I. `

che parlava. Erano in un boschetto di pini e guardavano il bacino di

Sacandaga disteso placidamente davanti a loro, a perdita d'occhio a

destra e a sinistra. Un pipistrello disegnava precocemente neri zig-zag

nel crepuscolo. Sulla sponda più lontana c'era un viavai come di for-

miche; erano i veicoli dei saltatori. I fari si accesero a uno a uno.

--Se solo venisse buio più presto--continuò la ragazza.--Questa

bravata dipende dal nostro tempismo. Sono quasi all'acqua ormai.

--Peccato che non ci siamo allontanati di più prima che CominciaS- .

sero a cercare--osservò Haas.--Potevamo essere già fuori dal cer-

chio. Di', How, pensa se ci incontriamo. Chi diciamo di essere?

Sir Howard rifletté.--L'ultima volta mi hanno registrato ad Alba-

ny. Come destinazione ho dato Watertown e le Mille Isole. Ho detto che

andavo là a pescare, e pensavo anche di farlo. E poi, i saltatori staran

no cercando un certo William Scranton. Quindi, forse farei meglio a es-

sere me stesso.

--Forse--disse Haas.--E poi, forse faresti meglio a toglierti quel--

marchio finto. O va via con l'acqua?

--No, è uno smalto impermeabile. Per toglierlo ci vuole l'alcol-

--Allora, perché non usi quella bottiglia di antidoto che hai nel

sella?

r

Cosa? Ma quello è un whisky di marca! Oh, be', mi sa che questo è

mportante--Sir Howard tirò fuori la bottiglia a malincuore.

as nella bisaccia trovò una calza che era tutta un buco, decise che

tanto era giusto da buttare via, e si mise al lavoro sul piastrone del ca-

valiere.--Di' un po'--chiese--come pensi di riuscire a nuotare per

mezzo miglio dentro a quel coso?

_ Infatti--rispose Sally Mitten--Ci spogliamo.

_ Cosa?-- Il tono dello straniero, scandalizzato, era stridulo.

_ Volete dire che facciamo il bagno nudi... tutti e tre?

_ Ma certo. Non penserete di andare in giro con i vestiti bagnati con

questo freddo, vero? O di incontrare un saltato}e e di dovergli spiegare

come mai siamo tutti fradici?

Haas riprese il suo lavoro, ridacchiando.--Be', che mi venga... Sa-

pevo che gli yankee erano picchiati, ma... Ti sta bene. Dite un po', si-

gnorina, sicura che non possiamo scappare girando intorno al lago?

_ Santo cielo, no. Laggiù saranno ancora più numerosi. Partiamo

dal principio che l'unico varco nel cerchio sarà quando raggiungeran-

no la riva dall'altra parte, e si separeranno; metà di loro aggirerà le

due estremità del bacino, per ricomporre il cerchio da questa parte. Se

nel frattempo noi saremo in acqua, e sarà abbastanza buio da non esse-

re visti, ci troveremo automaticamente fuori dal cerchio.

_ Com'è che portiamo di là l'armatura di How? Il mio cavallo è già

abbastanza carico.

--Faremo una zattera. Potete tagliare qualche pino giovane e legare

i tronchi con le corde che avete.

--Direi che si potrebbe. Ecco, How, la tua corazza è a posto. Mi sa

che è troppo buio perché ci vedano, eh?--Si alzò in piedi, tirò fuori la

sciabola e cominciò a sfrondare un arboscello.

Il cavaliere fece lo stesso.--Vorrei avere qui un'ascia--disse.

--Non volevo caricare Paul Jones con troppe cianfrusaglie. Quanto

dev'essere grande la zattera?

--Quanto pesa l'armatura?

--Venti chili. Poi c'è la lancia: non la faremo certo sporgere come un

,~ albero maestro, e la spada, e i nostri vestiti.

--Meglio &rla di quattro per quattro, con due traverse.

--Sbrigatevi--disse Sally Mitten.--Adesso sono sulla riva; vedo il

riflessO delle luci sull'acqua.

--Chi hai annegato, Lyman?--chiese Sir Howard.

--Oh, quello... Mi hanno fatto passare un brutto quarto d'ora. Era-

~no veloci, nonostante la ferramenta che c'avevano. E il piccoletto da-

anti che dava ordini a tutti montava a cavallo come un diavolo. Aveva

una torcia e me la teneva puntata addosso. Ho continuato ad andare

anti finché Queenie non aveva più fiato, e vedevo che quelli arriva-

no. Allora... come si chiama quel fiumiciattolo che attraversa Broa-

~dalbin? . _ .

4 ~ 4~ 1 1

--Kenneatto Creek--rispose Sally Mitten.

--Insomma, sono arrivato a un ponte sopra questo Kenny... Kt~n

neatto Creek... qui, How, tira forte questa corda... e sono entrato in a,~

qua. Ho trovato un posto tra gli alberi bello buio, con l'acqua che arr;

vava alla pancia di Queenie. Allora, quando quelle aragoste sono an~'

vate sul ponte, ho beccato con la corda il piccoletto davanti. E finito

giù nel fiume che era una meraviglia. In tre metri d'acqua con l~arrn

tura addosso. Peccato che ho dovuto tagliare quella bella corda e la.

sciarla quasi tutta nel fiume, perché se la tenevo stretta quello poteva

tirarsi fuori, e i suoi soci stavano già cercando di capire come aveva

fatto il capo a finire giù. Ho comprato dell'altra corda in un negozi~

tornando a Round Lake. Ma non mi piace. Non funziona affatto come~

una delle nostre. Devo fare pratica. E tenere insieme la zattera non le

farà mica bene.

--Capisco--disse Sir Howard.--Ecco perché i saltatori credono

che io abbia ucciso Warren Kelly. Non sanno di te, ma sanno che io s~

no stato al castello, o perlomeno, che vi è stato un certo William Scran-

ton.

--Vuoi dire che ho annegato il capo in persona? Non dirmelo! Penso ~

che adesso la zattera sia a posto. Sentite, signorina, la mettiamo sulla lii

sella di How e voi la tenete ferma mentre noi guidiamo le bestie.

Dieci minuti dopo sentirono un rumore metallico davanti a loro Sir

Howard disse sottovoce:--E una recinzione di filo di ferro- sembra al- -

ta circa tre metri. Credo che dall'alto non si veda

--Che bello--disse Haas.--Dovevamo ricordarci che ci sono le re-

cinzioni intorno ai bacini, se no le bestie ci finiscono dentro e muoiono. 5

Non è che qualcuno c'ha una tenaglia?

--No--sibilò il cavaliere.--Dovremo usare il tuo coltello da cac-

cia.

--Cosa? Ehi, non si può! Si rovina la lama!

--Non si può fare altro. Ho rovinato la punta del pugnale per aprire

la porta della stanza della signorina Mitten, quindi non fare storie.

Fu passato il coltello, e nel buio si sentirono i brontolii soffocati del

cavaliere che ansimava, e il rumore metallico dei fili di ferro che si

staccavano.

--Bene--sussurrò.--I cavalli ci passano, se gli facciamo abbassa

re la testa. Per favore, mi puoi togliere lo stuzzicadenti dallo stivale?

Erano passati dall'altra parte. Sir Howard disse:--Lyman, vieni ~.

qui e tieni questi fili mentre riannodo le estremità. Inutile far sapere a

loro da che parte siamo andati.

--Piano--fece Sally Mitten.--L'acqua trasporta i suoni, sapete-

Presto, i saltatori stanno andando verso le estremità del bacino. Lo ca-

pisco dalle luci.--In effetti, sulla sponda più lontana i puntini di luce

si spostavano a destra e a sinistra.

- Dico, signorina--piagnucolava Haas--non potrei tenermi le

tande~ Sono un uomo costumato, io.

O, affatto--rispose bruscamente la ragazza.--Se lo fate, vi

I prendete una polmonite, e dovremo curarvi. E pOi c'è solo la luce delle

'I ~ Ho f-freddo--continuò l'uomo del West.--How ci metterà tutta

l notte a tirarsi via quella roba i id due for

me spettrali in piedi sopra di lui che si stringevano le braccia intorno

a1 petto e saltellavano per scaldarsi.--Andate avanti e fissate le cor-

~ de disse.--Fra un momento ho finito. Devo stare attento a come

5 metto i pezzi, altrimenti qualcuno va perso.

Finalmente completarono i preparativi. La zattera, coperta di ac-

~ ciaio e di abiti, era ferma sulla sabbia, legata alla sella di Queenie con

t_ una lunga corda. Un altra corda era legata a Paul Jones.

--Bene, vai!--Sir Howard batté il castrone sulla groppa ed entrò

1 in acqua. Lui e Sally Mitten tenevano una corda ciascuno. Haas faceva

lo stesso con la sua. I cavalli non volevano nuotare, e bisognò spingerli

e tirarli. Ma alla fine arrivarono dove l'acqua era più profonda, tirando

le corde con i loro carichi.

Sir Howard stava pensando a com'era tiepida l'acqua che gli gorgo-

gliava nell'orecchio, quando fu colpito da qualcosa all'occhio sinistro.

--Maledizione--sussurrò.--Volete cavarmi un occhio?

--Che cosa ho fatto?--gli rispose una voce davanti a sé.

--Mi avete messo l'alluce nell'occhio. Perché non restate dalla vo-

_ Io sono dalla mia parte. Perché non tenete lontana la faccia dal

mio piede?

--Dunque è così, eh? Adesso vi sistemo, signorina! Non soffrlte ll

solletico~ no?--Si avvicinò in due bracciate. Ma la ragazza s'immerse

Sott'acqua come una lontra. Tenendo la corda, il cavaliere alzò la ma-

no per vedere meglio sull'acqua illuminata dalla luce delle stelle. Al-

lora, due mani sottili ma incredibilmente forti lo presero per le cavi-

glie e lo tirarono sotto.

Quando riemerse, scuotendo fuori l'acqua dalla testa, udì Haas che

3 sibilava isterico:--Perdiana, smettetela di giocare a pallanuoto! Fate

più rumore di due balene sbronze!

Tacquero A parte i rumori leggeri degli insetti e delle rane, si udiva-

no solo il respiro affannoso dei cavalli e lo sciabordio dell'acqua.

3 Il tempo passava lentamente. La riva sembrava non avvicinarsi mai.

E Poi apparve all'improvviso, e cominciarono a toccare. Dopo la quiete, i

L C avalli che sguazzavano nell'acqua bassa sembravano le cascate del

Erano sdraiati sulla sabbia. Sally Mitten disse:--Vedete?--Fece

dei segni sulla sabbia.--Qui c'è il bacino. Noi siamo qui. Io e la

gente viviamo sugli Adirondacks. Adesso possiamo salire da que

parte, vicino ai laghi di Sacandaga. C'è una bella strada che arriva

Speculator e a Piseco. Ma proprio per questo c è molto traffico. La ge

te va a pescare sui laghi di Sacandaga. Mentre noi vogliamo essere ~

sti il meno possibile. Sarebbe meglio restare da questa parte del fium;

Sacandaga, e seguire il ramo ovest fino al lago di Piseco. A quel pun

conosco una pista che porta da noi passando per i laghi dei Cedri. E u

percorso difficile, ma così saremo quasi sicuri di non incontrare nessu

no. Di solito scendo ad Amsterdam facendo la strada di Camp Perkins

di Speculator; c'è una vecchia strada che scende dal Jessup, in buon~

condizioni. Compriamo quasi tutto a Speculator- vado ad Amsterdam

solo una volta al mese, più o meno. Sarebbe veramente un colpo di for

tuna se fossi là quando...--Si interruppe

--Come ci arrivate, ad Amsterdam?--chiese Sir Howard.--Sem-

bra un bel viaggetto.

--Infatti. Ho una bici. Cioè, avevo una bici. L'ultima volta che l'ho

vista era ferma su un marciapiede di Amsterdam. Ormai sarà sparita.

E ho lasciato l'unico cappello decente nel castello di Kelly E un viag-

giO di due giorni buoni. Noi ci metteremo molto di più, dato che non

seguiamo le strade.--Cancellò accuratamente la cartina.--Sarà me-

glio cancellare le nostre tracce sulla spiaggia, e anche quelle dei caval-

--Secondo voi, perché i saltatori si preoccupano tanto per Kelly~--

chiese Sir Howard.--Di solito, non interferiscono nelle beghe tra

--Non lo sapete? Lo sostenevano. Non apertamente; non è così che _

fanno. La baronia di Schenectady si stava ingrandendo troppo, così=

misero in azione Kelly per smembrarla. Divide et impera.

--Come?

--Dividi e domina. E il loro sistema: mantenere divisi gli uomini in .

staterelli grandi come un francobollo sempre in lotta fra loro, .

--Mmm. Mi sembra che sappiate un sacco di cose su di loro.

--Li ho studiati per tanto tempo.

--Ci credo. Ouello che dite mi dà molto da pensare. Dite, pensate ~

c e la vostra... ehm... gente accoglierà due stranieri con dei precedent

terribili come i nostri?

--Al contrario, Sir Howard...

--Preferirei che lasciaste perdere il ''sirn.

--Sì? C'è qualche motivo particolare~

--Be'. . non so come dirlo, ma... ehm .. mi sembra un po' stupid°-

Voglio dlre, siamo tutti camerati. Ehm... tu e Haas siete in gamba ,

quanto me, per quel poco che ho potuto conoscervi.

--Credo di capire.--Sorrideva calma nel buio.--Stavo dicend°

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e tu e lui siete proprio le persone che cerchiamo; uomini che hanno

~sat° levare le mani contro di loro. Non ce ne sono moltn E una cosa

che divide dagli altri, sai. Ti impedisce per sempre di tornare come pri-

~entre parlavano, le stelle erano diventate più fioche. Ora un disco

'~ giallo coperto di macchie sorgeva dietro l'oscurità dell'orizzonte, sfio-

rando loro la pelle con un sofflo di oro pallido.

3 --Santo cielo!--esclamò Sally Mitten.--Mi ero dimenticata della

IunaI Bisogna che ci vestiamo e ce ne andiamo subito. Grazie al cielo

asciutta Lyman... Come, si è addormentato!--L'uomo era diste-

so, con la testa appoggiata su un braccio, e respirava fischiando legger-

--Non si può biasimarlo--disse Sir Howard.--E il primo sonno

dopo trentasei ore. Ma ci penso io.--Si chinò sopra la figura distesa e

alzò il braccio, tenendo la mano aperta. Sally Mitten gli afferrò il pol-

Nol Fara più rumore di una fucilata! Lo sentiranno fino ad Am-

sterdam!--Soffocò una risatina.--Ma sarebbe proprio un peccato

sprecare un'occasione come questa, vero?

--Zoppichi, Howard--osservò Sally ~litten. Era a cavalcioni del a

L sella di lui, e aveva legato alle caviglie l'orlo dei pantaloni con delle

stringhe Dietro di leij, l'armatura del cavaliere, con i pezzi ordinata-

mente incastrati e legati insieme in un fagotto, era sistemata sulla lar-

ga groppa di Paul Jones. Il mucchio d'acciaio tintinnava leggermente.

--Niente affatto--disse lui.--Almeno, non molto. E solo un a tra

vescica.--Camminava davanti al suo cavallo, aveva un paio di stivali

da equitazione da cui quattro giorni di marcia attraverso gli Adiron-

dacks avevano cancellato ogni traccia di lucido, e usava la lancia come

un bastone da passeggio un po' fuori misura. Si era tlrato sulle orec-

chie un berretto rosso. Lyman Haas chiudeva il gruppo, dondolando

tranquillamente sulla sella e arrotolandosi una sigaretta. Anche se c e-

rano quasi trenta gradi, tutti e tre portavano i guanti (quelli di Sa y

Mitten erano di qualche taglia più grandi) e tenevano rialzato il col et-

E to della camicia. Si picchiavano continuamente il ViSO.

--Solo un'altra vescica! Fermati subito, giovanotto, che la curiamo.

Hai delle bende? Per oggi, basta camminare. Quei calzoni e quegli sti-

vali vanno benissimo per cavalcare, ma non per camminare da queste

_ Non è niente, davvero. E poi, tocca a me camminare. La tabella di

marCia dice che devo camminare ancora una mezz'ora.

--Tira fuori il lazo, Lyman. Vuol fare il testardo.

--Meglio fare come dice la signora--disse Haas.--Certo, signori-

na, in una delle tasche della sella ci sono lo iodio e la garza. Quella li e

una sella magica. Esprimi un desiderio, dici abracadabra, premi un

bottone~ e salta fuori tutto quello che vuoi. Ecco perché How c ha un

cavallo fuori misura: una bestia normale non potrebbe portare tutt;

quella roba. A volte penso che faceva meglio a noleggiare un elefante

delle ferrovie.

--Come il Cavaliere Bianco--disse Sally Mitten.--E io, invece

che non ho neppure uno spazzolino da denti!

--Come chi?--domandò Sir Howard.

--Il Cavaliere Bianco. Un personaggio di un libro intitolato Attra

verso lo specchio. Nel tuo equipaggiamento ci sono anche alveari e

trappole per topi? Nel suo c'erano.

--Dici davvero?--disse Haas.--Mi sa che quel tipo era un eccen-

trico bell'e buono. Adesso, How, infila l'altro piede in questa radice qui

e io tiro. Uh!--Lo stivale si sfilò, scoprendo due grosse dita del piede

che sporgevano da un buco nella calza.--Di' un po'--fece l'uomo del

West, annusando.--Sei sicuro che quel piede non è mica morto? Male-

dizione!--Si diede uno schiaffo sulla guancia.

--Avrei dovuto dirvelo che è la stagione dei mosconi--disse Sally

Mitten.--Spariranno nel giro di qualche settimana.

--Non ho la trappola per topi--disse Sir Howard--ma ho un ra-

soio meccanico e una mini-macchina fotografica, se possono andar be-

ne. Ho anche un binocolo per gli uccelli. Sai, come passatempo vado in

giro a cercare cucù dal becco giallo e usignoli dorati. Mio fratello

Frank diceva sempre che era il mio solo lato positivo.--Si diede uno

schiaffo sulla mascella, ornata da rivoli di sangue secco a causa delle

punture d'insetto.--Forse avrei fatto meglio a tenere addosso l'arma-

tura. Almeno avrebbe tenuto lontani gli insetti, sempre che non punga-

no attraverso l'acciaio.--Un altro schiaffo.--Questo sentiero sembra

proprio una giungla. Perché qualcuno non prende un'ascia e un falcet-

to e non lo ripulisce?

Sally Mitten rispose:--E proprio questo il punto. Se fosse un bel

sentiero pulito, lo userebbero tutti, e noi non lo vogliamo. Abbiamo ad-

dirittura piantato degli arbusti sui sentieri che non vogliamo siano

usati.

Haas disse:--E il bosco più fitto che ho mai visto. Dalle mie parti è

diverso. Gli alberi, tutti quanti, crescono belli lontani, così ci puoi pas-

sare in mezzo anche se non sei un serpente.--Accese la sigaretta e

continuò.--E queste voi le chiamate montagne, eh? Ho paura che voi

yankee non sapete neanche come sono fatte le montagne vere. Prende-

te quel Mount Orrey che mi avete mostrato; in Wyoming non gli da-

remmo neanche il nome, a un moscerino come quello. Dico, signorina,

dobbiamo attraversare ancora molte paludi? Non capisco come fai a

girare di notte per questo paese senza cadere neppure in una pozzan-

ghera. Per me la gente qui c'ha le zampe palmate, come le anatre.

--No--rispose Sally Mitten.--I laghi dei Cedri sono finiti. Se

guardi oltre quegli alberi laggiù puoi vedere Little Moose Mountain. E

là che andiamo.--Si diede una manata sul collo.

Sally Mitten disse che sarebbe andata avanti ad avvertire la sua gente.

Poco dopo si arrampicava sul fianco ripido della montagna, aggrap-

pandosi ai rami e ai cespugli. I due uomini continuarono la loro lenta

cavalcata a zig zag. Haas disse:--Che mi venga un colpo se non era

più facile tagliare attraverso la campagna, piuttosto che seguire que-

sto cosiddetto sentiero.

Sir Howard osservava la sagoma della ragazza che si allontanava

sempre più, fino a diventare minuscola. Non vide alcun segno di abita-

zioni umane. Ma dai pioppi sbucò un uomo, e poi un altro. Malgrado la

distanza, il cavaliere distingueva gli abbracci e le pacche sulle spalle.

Fu punto da una sensazione strana, mista alla curiosità divorante sulla

"gente" di quella misteriosa ragazza.

Quando lui e Haas raggiunsero finalmente lo spiazzo dove si trova-

vano i tre, lei stava ancora parlando animatamente. Si voltò appena

smontarono da cavallo, e li presentò.--Questi--disse--è il signor

Elsmith, il nostro capo.--~idero un uomo sulla cinquantina, con i ca-

pelli sottili e biondicci, e miti occhi scuri dietro le lenti. Strinse loro la

mano con tutte e due le sue, in un modo che diceva più di tante parole.

--E questi è Eli Cahoon.--Laltro era più anziano, con i capelli bian-

chi sotto il cappello di feltro più vecchio del mondo. Era vestito al mo-

do dei tagliaboschi del nord, con i calzoni tenuti su da una bretella sola

e arrotolati in fondo, e gli scarponi infangati.--Lyman, ci hai chiama-

ti yankees dello stato di York; Eli è un esemplare tipico. Viene dal Mai-

Sir Howard aveva guardato tra i pioppi. ~lide che quella che gli era

sembrata dapprima una caverna era invece una casa a un piano, semi

sepolta da tonnellate di terra che si confondeva con il fianco della

montagna, e mimetizzata ad arte con la vegetazione. Era assolutamen-

te invisibile finché non ci si era sopra.

L'uomo chiamato Eli Cahoon mosse la lunga mascella, aprì le labbra

sottili che rivelavano dei denti gialli e storti, e sputacchiò una saliva

marrone.

--Ben fatto--disse--portare via la nostra Sally da quel castello

la.--Aveva gli avambracci grossi e muscolosi, e si muoveva come un

gatto.

--Un giochetto--disse Haas.--Li ho solo insultati un po' per farl

arrabbiare~ e How è andato dentro a prenderla mentre quelli mi corre-

vano dietro.

Sir Howard fu sorpreso di vedere che Elsmith si era già alzato e vesti

to. L'uomo gli sorrise, mostrando due denti da scoiattolo. Chissà per

ché, gli faceva venire in mente un simpatico coniglio.

--Qui andiamo a dormire presto e ci alziamo presto--disse.--E

meglio che ti alzi se vuoi la colazione. Anche se non vedo come potresti

mangiare qualcosa dopo la cena di ieri sera.

Sir Howard si stirò i muscoli. Era bellissimo dormire in un letto ve

ro, una volta tanto.--Oh, io posso mangiare sempre. Parto dal princi_ ;

piO che un giorno potrei essere senza cibo, così è meglio approfittare di

quel che c'è. Per la verità, stavamo per provare a fare un'insalata di

scorza di betulla condita con un po' di melma quando siamo arrivati

E avremmo avuto ancora più fame, se Haas non avesse ucciso un cer-

biatto durante il cammino.

Durante la colazione Sir Howard, che allora non era privo di spirito

d'osservazione, tenne occhi e orecchie bene aperti per cercare di capire

la natura di quel ménage. Elsmith parlava come una persona benedu-

cata, termine con cui il cavaliere indicava i membri dell'avida aristo-

crazia feudale cui apparteneva. In un certo senso, era vero. Sir Howard ~.

decise che si trattava probabilmente di un nobile decaduto che aveva , ~3

fatto qualcosa contro i saltatori, e per questo viveva nascosto. Sally

Mitten lo chiamava zio Homer. D'altro canto, Elsmith e la ragazza

avevano qualcosa (la tendenza a usare parole inconsuete e astrazioni 3;

mentali) che li rendeva diversi da tutte le persone che il cavaliere ave-

va conosciuto fino ad allora. Era evidente che Cahoon che pronuncia-

va il proprio nome in una sillaba sola, non era un gentiíuomo Ma nelle

rare occasioni in cui apriva bocca, le sue osservazioni in stretto accen-

to settentrionale mostravano un'acutezza penetrante che Sir Howard

non Si sarebbe mai aspettato da un appartenente ai ceti inferiori.

Dopo colazione Sir Howard ammazzò il tempo fumando la pipa e

pensando al proprio futuro. Non poteva restare lì e approfittare indefi-

nitamente dell'ospitalità di quella gente, salvataggio o no. Era sicuro

che da lui si aspettassero qualcosa, e si chiedeva che cosa.

Non rimase in dubbio a lungo.

--Vieni, Van Slyck--disse Elsmith.--Oggi piantiamo le patate.

Sir Howard restò a bocca aperta, e il suo pregiudizio classista tornò

improvvisamente a galla.--Io piantare patate?--Era un'espressione

più di stupore che di irritazione.

--Certo, perché? Noi lo facciamo.--Elsmith sorrise impercettibil-

mente.--Adesso sei in un altro mondo, sai. Avrai molte sorprese

Se l'uomo avesse parlato in tono brusco, il cavaliere probabilmente

sarebbe uscito e se ne sarebbe andato sdegnato. Così, invece, la sua in-

dignazione svanì sul nascere.--Credo abbiate ragione. Ci sono tante

cose che non so.

Chinato umilmente sopra il suo solco nel campo di patate, chiese a

Elsmith:--Coltivate tutto da voi?

~ Quasi. Abbiamo qualche gallina, e tutti gli anni. alleviamo un

le. Eli ogni tanto abbatte un cervo. Intomo alla montagna c'è una

rie di cassette di verdure; chiaramente sono ben nascoste. E sorpren-

dente quanta verdura si può far crescere in uno spazio così ristretto.

Si coltivano le verdure nelle cassette? Mai sentito.

~ Oh, sì, molto tempo fa era praticato su larga scala. Ma i saltatori

hann° deciso che così si risparmiava troppa fatica, e l'hanno abolito.

Non vogliono che la gente abbia troppo tempo libero, sai. Potrebbero

VeQueste frasi, neila mente di Sir Howard facevano I effetto di un lam

po attraverso una finestra che illuminasse per un athmo una vasta

campagna, di cui non avesse mai sospettato l'esistenza.

Chiese:--Siete lo zio di Sally?

_ No. In realtà lei è la mia segretaria. Suo padre era il mio migliore

amico. Fu lui a fondare tutto questo. Eli lavorava per lui, e restò con

me quando il signor Mitten morì, sei anni fa.

Nel pomeriggio, Elsmith annunciò che per quel giorno avevano fini-

to, e che doveva sbrigare della corrispondenza. In salotto, Sir Howard

notò una serie di paesaggi dipinti ad acquarello appoggiati contro una

delle spoglie pareti di legno.--Li avete dipinti voi?--chiese.

--Sì. Arrivano a New Y~k di contrabbando, e un artista li firma e li

vende come opera sua.

--Mi sembra un trucchetto sporco.

--No. E necessario. L'artista è un mio buon amico. Qui non ci servo-

no molti soldi, ma dobbiamo pure averne, e questo è uno dei modi.

D'inverno Eli mette le trappole per gli animali da pelliccia per la stes-

sa ragione.

"Senti, devo dettare delle cose a Sally per un paio d'ore; perché non

dai un'occhiata a qualche libro?--Indicò gli scaffali che ingombrava-

~; no quasi tutta la parete.--Vediamo... Direi questo... e questo... e que-

sti.~

I libri erano quasi tutti molto antichi. Le pagine giallastre sembra-

vano essere state passate con una specie di vernice lucida. Come con-

~ servante pensò Sir Howard. Cominciò a leggere con una certa rilut-

L tanza, piU che altro per cortesia verso l'ospite. Poi, una frase dopo l'al-

tra attirò la sua attenzione, sorprendendolo.

r~ Sobbalzò quando Elsmith gli fu davanti, e disse tranquillamente:

sp _ Ti piacciono?

Buon Dio, sono già passate delle ore? Temo di non essere andato

moltO avanti. Non sono mai stato un gran lettore, e ho continuato a

cerCare le cose nel dizionario.

"Sinceramente, non so che cosa pensare. Se sono veri, stravolgono

tutto quello che ho sempre pensato. Prendete questo libro di Wells, per

, esempio. Racconta le origini dell'uomo in modo completamente diver-

so da quello che ho imparato a scuola. Gli uomini che si dedicavano

la scienza... governi di cui non ho mai sentito parlare che amministra

vano interi continenti... nessuna menzione dei saltatori... non riesc

proprio a raccapezzarmici."

--Me lo aspettavo--disse Elsmith.--Sai, Van Slyck, nella vita di

molte persone arriva il momento in cui ci si guarda intorno, e si comin

cia a sospettare che molte delle verità eterne imparate sulle ginocchia -

della mamma non sono né eterne, né vere. Allora si hanno due altern

tive. Qualcuno decide di essere aperto, di osservare, indagare, speri 3

mentare, e di cercare quale sia la vera natura dell'uomo e dell'univer-

so. Ma molti si sentono a disagio. Per eliminare il disagio, mettono a

tacere i dubbi e si rifugiano nei dogmi della loro infanzia. Per evitare

che il disagio si ripeta, arrivano a sopprimere, con la violenza, quelli

che non condividono le loro convinzioni.

"Ragazzo mio, ora tu sei di fronte a questa scelta. Pensaci bene."

Dopo cena, Sir Howard disse a Elsmith:--Uno di quei libri che ho let-

to diceva qualcosa a proposito dell'importanza di ottenere tutte le in-

formazioni possibili prima di decidere qualcosa. E quello che ho visto

e sentito in questa settimana mi fa pensare di non essere molto infor-

mato, dopotutto. Per esempio, chi o che cosa sono i saltatori~

Elsmith si sedette comodamente e accese un sigaro.--E una storia

lunga. I saltatori apparvero sulla Terra circa trecento anni fa. Nessuno

sa da dove venissero, ma è quasi certo che provenissero da un pianeta

esterno al nostro sistema solare. ' ~1

--Il nostro che cosa?

--Il... Immagino che tu abbia imparato a scuola che il sole gira in- ;~

tomo alla Terra, vero? Be', non è così. La Terra e gli altri pianeti che ve- ,~

diamo girano intorno al sole. Non voglio cercare di spiegartelo, ades

so; qualcuno di quei libri può farlo meglio di me. Diremo solo che sono I

venuti da un altro mondo, lontano, in una grande macchina volante

"A quel tempo, le condizioni dell'umanità erano press'a poco quelle

spiegate negli ultimi capitoli di quei libri di storia.

"I saltatori atterrarono in una regione pressoché disabitata del Su- ~-

damerica, dove non potevano essere visti da nessuno tranne che da

qualche selvaggio senza importanza. Nella navicella spaziale non po-

tevano esserci più di poche centinaia di saltatori. Ma, vedi, com'è logi-

co aspettarsi, sono molto diversi dagli animali terrestri. In effetti asso-

migliano a degli enormi ratti saltatori, ma le somiglianze sono piutto-

sto superficiali. Un animale terrestre di quelle dimensioni deve avere

uno scheletro interno, come i mammiferi, non esterno, come gli insetti

e ha bisogno degli occhi per vedere, della bocca per mangiare, eccete

ra. Pero, se tu avessi provato a dissezionare un saltatore, e io l'ho fatto,

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ammifero- Anche il pelo è diverso; al microscopio Sl vede che ogm

.~ pelo si ramifica come uno scopino. Esistono anche delle differenze chi-

iche- hanno il sangue blu perché contiene una sostanza detta emo-

Cianina, come gli insetti, invece dell'emoglobina rossa, come I uomo o

la rana. Per questo non è possibile incrociare i saltatori con una specie

qualsiasi di animali terrestri.

"Tra quelli che, come me, hanno studiato i saltatori, alcuni pensano

che il loro pianeta d origine sia molto simile al nostro per quanto rl-

guarda la temperatura, e che l'atmosfera sia più povera di ossigeno. E

anche più grande e quindi ha una gravità più forte, perciò i saltatori

riesconO a fare suila Terra dei balzi tanto ampi. Essendo più grande, ha

un'atmosfera più profonda e più densa alla superficie della nostra. Ec-

co perché le loro voci sono così acute; il loro apparato vocale è concepi-

to per funzionare in un mezzo più denso.

"Molti sanno già che sono bisessuali e ovipari; depongono uova delle

dimensioni di quelle di un pettirosso. Crescono molto rapidamente, e

raggiungono quasi le dimensioni finali nel giro di un anno dalla cova-

ta. E così che hanno conquistato la terra. Nella loro navicella spaziale

c'erano centinaia di migliaia, forse milioni di uova, insieme a delle in-

cubatrici che sono state montate appena dopo l'atterraggio. Trovando-

si in una zona ricca di foreste, ed essendo vegetariani, non ebbero pro-

blemi di cibo.

"A quel tempo, la loro scienza era molto più avanzata della nostra,

ma non tanto da non poter essere raggiunta, se gli eventi avessero se-

guito il loro corso naturale. Ci voleva una scienza molto progredita per

trasformare il legno, I'acqua e la terra del loro ambiente naturale in ar-

mi di conquista a grandissima scala. Ma il fattore sorpresa e il loro nu-

mero enorme li aiutarono quanto la loro scienza.

"Inoltre, c'era il fatto che agli uomini di allora sembrarono piu buffi

che minacciosi; solo dopo un certo tempo furono presi sul serio. Ma la

gente smise di considerarli buffi quando conquistarono tutto il Suda-

merica dopo una settimana dalle prime notizie sul loro conto, e da al-

lora nessuno fece più quell'errore. L'Africa venne poco dopo. Le loro

macchine volanti erano più veloci delle nostre, i loro esplosivi erano

più distruttivi, i loro fucili sparavano più lontano e con maggiore pre-

Cisione. Avevano anche tanti congegni particolari, come il raggio con-

Vulsivo~ la bomba a protoni e la pistola lampo.

"In effetti, questi congegni non sono così misteriosi come si potrebbe

pensare. Il raggio convulsivo emette un fascio di positroni pesanti,

particelle-y~ di cui leggerai nei libri. Colpiscono il sistema nervoso del-

L I uomo incrementando notevolmente tutti gli impulsi motori nervosi.

`4~ Per esempio, mettiamo che tu pensassi di alzare una tazzina di caffè

per herlo. Il ~ensiero indurrebbe un le~ero impulso motorio nei nervi

del braccio e della mano. Se tu volessi davvero alzare la tazzina, il cer

vello dovrebbe inviare un impulso molto più forte. Ora, mettiamo che

un raggio convulsivo fosse puntato contro di te, e tu pensassi soltanto

di alzare la tazzina. I tuoi muscoli reagirebbero con una tale violenza

che ti tireresti in faccia la tazzina con il caffè e tutto. Vedi così che ii

corpo umano diventa completamente incontrollabile sotto l'effetto del

raggio.

"Prendiamo invece la bomba a protoni. Una bomba pesante una ton

nellata ha una parte di ioni di idrogeno delle dimensioni di una biglia

che è llarma vera e propria. Il resto del peso è costituito dalle bobine e

dagli altri apparecchi necessari per mantenere invertito il campo elet-

trostatico, in modo che gli ioni non si dividano per effetto della loro re

ciproca repulsione. Nell'attimo in cui si interrompe il controllo del

campo, gli ioni si separano di colpo. Hanno anche delle difese contro

queste bombe, nel caso che gli uomini ne rubassero una lo chiamiamo

raggio X. In realtà, si tratta solo di un grande proiettore di raggi

Roentgen, mille volte più potente di un'apparecchiatura medica. In-

verte in anticipo il campo che circonda i protoni.

"Ma torniamo al nostro racconto. L'Eurasia, L'America del Nord, i

continenti più popolosi resistettero per un certo tempo e si cominciò a

pensare di poterli sconfiggere. Fu questo l'errore. I saltatori avevano

soltanto interrotto l'attacco, per permettere alla loro seconda genera-

zione di giungere alla maturità. Quando vogliono, possono essere in-

credibilmente prolifici, e appena la prima nidiata ha raggiunto la ma-

turità sessuale, depongono altri milioni di uova. Ricorda che su un cer-

to totale di esseri umani, solo un quinto ha l'età per combattere.

Invece, tra i saltatori, praticamente tutti tranne i caduti sono in grado

di attaccare.

"Avevano un ulteriore vantaggio. Sembrano immuni a tutti i batteri

terrestri conosciuti, pur avendo alcune malattie proprie. Purtroppo

non Si può dire il contrario. E probabile che abbiano diffuso intenzio-

nalmente molti dei loro batteri alieni, e uno di questi trovò nel corpo

umano l'ambiente ideale. Causò un'epidemia chiamata pazzia blu.

Una cosa veramente orribile. Quasi metà della popolazione umana

morì. Insomma, così i saltatori hanno vinto.n

Sir Howard chiese:--Da allora ci sono state altre epidemie blu?

--No. Pare che una parte della razza umana sia naturalmente im-

mune, e tutti quelli che non lo erano sono morti. Perciò oggi siamo tut-

ti immunizzati, perché discendiamo dai sopravvissuti. I saltatori non

ci hanno sterminati, pur avendone la possibilità, cosa alquanto ap-

prezzabile. Sembrerebbe che dopo aver visto che la civiltà umana era

a uno stadio piuttosto avanzato e aveva una capacità produttiva enor-

me, avessero deciso che sarebbe stato meglio collocarsi come specie

dominante, lasciando a tutti glí altri il compito di coltivare i campi e

ionare le macchine, mentre si godevano i loro divertimenti saltato-

rii per esempio dare ordini. Forse hanno avuto pietà di noi, per quanto

·a difficile crederlo. In ogni caso, da allora hanno sempre seguito que-

sto sistema---Guardò I orologio e si alzò.--Qui si va a letto presto,

cai. Puoi stare alzato a leggere, se vuoi, ma io mi ritiro. Buona notte.

Risalendo il sentiero che portava al campo, c'era una radura, in mezzo

alla quale c'era un ceppo. Su questo ceppo era seduta Sally Mitten, che

fumava una sigaretta e sembrava divertirsi molto. Sir Howard girava

intorno al ceppo. Non stava guardando la ragazza, come Si potrebbe

pensare, ma Lyman Haas. Luomo del West camminava intorno al cep-

po nella stessa direzione, ma in un cerchio più ampio, con l'espresslone

di uno che in nome dell'amicizia stesse compiendo un grande sforzo.

--Un po' più piano, Lyman--disse il cavaliere.

Apparve Elsmith.--Che cosa... che cosa diavolo state facendo? E un

ballo nuovo?--No.--Sir Howard si fermò.--Stavo solo controllan-

do l'ipotesi co... copernicana. Sapete, sul moto dei pianeti. Perché a

volte sembrano andare indietro nel cielo.

--11 moto retrogrado?

--Ecco, infatti. Sally è il Sole, io la Terra e Haas è Marte. Lo stavc

guardando per vedere se sembra andare indietro rispetto agli alberi

più lontani. Ehm... non vi dispiace se faccio una prova, no?

--Al contrario, ragazzo mio. Voglio che tu controlli tutto quello ch~

impari da me, o dai libri, tutte le volte che puoi. Mostra un moto retro-

grado?

--Già. Va indietro come un gambero spaventato appena lo supero

--C~JJ-I~C~ .c~r-c?--disse Haas.--Ho camminato sernnrf~ in :lvan-

--Certo, ma relativamente a me continui ad andare indietro. Non so

spiegarlo molto bene. Ti mostrerò il punto nel libro.

Elsmith chiese:--Leggi molti libri, Haas?

r~rt~ n ~ he volta mi piace. Solo che ho scassato ~li occhiali ..

New York, e non sono mai stato abbastanza nello stesso posto per far-

mene un altro paio. Ero in un bar, e c'avevo gli occhiali nel taschino

Ho litigato con un tipo. Diceva che era risaputo che nel West nasciamo

tutti con la coda. Ora, io sono un uomo pacifico, però...

--Non fa niente Lyman--disse Sally Mitten, suadente.--Lo sap

piamo che non ha; la coda. Vero, Howard?

La fronte di Haas, che non era abbronzata, arrossì.--Ah... ehm.

r~ t~v~mo dicendo di ouei nianeti lì? Voglio capire 'sta cosa...

Sir Howard disse:--Stasera mi racconterete qualcos'altro sui saltato_

Elsmith spense il fiammifero.--Non do mai lezione senza avere il

sigaro acceso, e poi si consuma mentre parlo, così non riesco mai a fu

marlo. E stupido, vero?

"Ma dove eravamo rimasti? I saltatori videro che avrebbero dovuto

riplasmare la società umana se volevano tenere sotto controllo gli uo-

mini, soprattutto perché questi erano la stragrande maggioranza, e in

apparenza erano soddisfatti di questo rapporto da un punto di vista

economico. Non potevano permettersi di farci diventare di nuovo po

tenti. Bene, che fonti di energia avevamo?

"Avevamo veicoli a motore, alcuni si muovevano sulle strade, al

sui binari, altri nell'aria e altri nell'acqua. Così li abolirono. Per noi, è

chiaro. Avevamo gli esplosivi, così ce li tolsero. Avevamo dei governi

che amministravano vaste popolazioni; perciò ci suddivisero in picco-

le unita. Delle società in cui gli individui capaci potevano raggiungere

i livelli più elevati senza distinzione di origine erano una minaccia.

Studiarono la nostra storia e giunsero alla conclusione che un sistema

di caste di tipo feudale sarebbe stato l'ostacolo più efficace. La ricerca

scientifica naturalmente fu bandita, così come tutte le attività scienti-

fiche, tranne quelle necessarie per mantenere in funzione l'apparato

"Abolirono tutte quelle invenzioni che ritenevano potessero minac-

ciarli. Per esempio, sapevi che si poteva parlare via cavo con gli abi-

tanti di tutte le parti della nazione? E che le compagnie dei telegrafi

possedevano vaste reti di cavi per inviare messaggi quasi istantanea-

mente. Adesso sono diventate delle semplici agenzie di fattorini, e in-

viano le lettere tramite cavalli o biciclette.

"Non è tutto. Una visione del mondo empirista, materialistica, pote-

va permetterci di smascherare la mitologia assurda che intendevano

imporre alle nostre menti tramite l'educazione scolastica. Quindi, i l

bri improntati a questa filosofia furono messi da parte, e le persone che

la conoscevano furono eliminate. Al suo posto ci hanno propinato il

misticismo, I'aldilà, l'evasione romantica. Usarono a questo scopo la

radlo, il cinema, i giornali e i libri, poiché queste istituzioni hanno con-

tinuato a operare sotto il loro stretto controllo. Sarebbe stata una cosa

stupida distruggere dei mezzi già pronti ed efficacissimi di dominio

delle masse. Da allora hanno continuato a riempirci di 'Ignoranza in-

tegrale e robusta irrazionalità', come ha detto Bell, uno scrittore pre-

saltatori. E devo dire--a questo punto si appoggiò allo schienale,

chiuse gli occhi e aspirò una boccata del sigaro--che la mia srecie

I~ha affrontato in modo veramente ammirevole. Certo, le ha fatto un ef-

fetto terribile. Ma nei momenti di maggiore sconforto mi consola in

parte il pensiero che l'uomo non è diventato COSi folle come avrebbe

potuto, considerando quello che ha passato."

~ Ma--obiettò Sir Howard--ma mi avevano insegnato che

Dio Sì~ Ammettendo pure che un Dio ci sia, si è mai confidato con te

personalmente? Chi te I ha insegnato? I maestri di scuola, naturalmen-

te E dove l'hanno studiato? Nei libri. E chi li ha scritti? I saltatori.

Ammettiamo che io ti abbia detto la verità; che cosa ti aspetteresti che

scrivessero nei libri? La verità su come hanno conquistato la terra e ne

hanno ridotto gli abitanti in schiavitù, cosa che avrebbe rappresentato

un incitamento costante alla ribellione?

Sir Howard si guardava corrucciato la punta dei piedi.--Signor El-

smith, un paio di mesi fa--rifletté--probabilmente vi avrei fatto in-

goiare la mia spada per certe cose che avete detto. Senza offesa, s in-

tende.

--Lo so--rispose Elsmith.--E se tu fossi stato ancora lo stesso di

due mesi fa, non le avrei dette.

--Ma ora... non so. Tutto mi sembra sottosopra. E comunque, per-

ché la gente non si è ribellata?

--Lo hanno fatto; e quasi in continuazione durante il primo secolo

di dominio dei saltatori. Ma le rivolte sono state represse e i rlbelli so-

no stati uccisi. I saltatori si sono diffusi in modo capillare. Come forse

sai, possiedono una droga, la veramina, che fa dire la verità. Una volta

gli uomini avevano una sostanza simile, ma questa è molto migliore.

L'unico limite che ha è che l'alcool annulla il suo effetto. Potevano

iniettarla a tutti gli abitanti di una certa regione, per esempio per cat-

turare un solo ribelle. E per la ribellione c'era una pena solamente: la

morte, di solito lenta. Così dopo un po' non ci furono più rivolte. Nel

secolo scorso non ce ne sono state praticamente più, quindi i saltatori

hanno alquanto allentato il controllo sugli esseri umani.

--Allora--brontolò il cavaliere--cosa si può fare?

Homer Elsmith aveva già visto quello sguardo negli occhi dei giova-

ni.--E tu, che cosa faresti?--chiese tranquillamente.

--Mi batterei!--Sir Howard senza pensarci aveva stretto i pugni,

menando fendenti nell'aria.

--Capisco. Ti vedi a capo di uno squadrone di cavalleria corazzata,

pronto a infilzare i saltatori come tanti maiali e a spazzarli via dalla

faccia della terra. No, non ti sto prendendo in giro, è una reazione co-

mune. Ma lo sai che cosa succederebbe? Hai mai visto come cadono gli

steli del grano sotto la falce? La stessa cosa succederebbe a te e ai tuoi

valorosi cavalieri se i saltatori aprissero il fuoco contro di voi. Oppure

potrebbero usare il raggio convulsivo, far rotolare a terra uomini e ca-

valli e farli prigionieri. Sai, I'effetto dura per vari minuti dopo che il

raggio è stato spento. Oppure potrebbero usare un trasformatore, crea

re vorhci di corrente all'interno delle corazze e arrostirvi nei vostri ca-

--Bene, e allora?--Sir Howard si colpì il ginocchio con il pugnO

--Non lo so. Finora non lo sa nessuno. Non lo so, malgrado abbia

passato gran parte della vita a studiare il problema. Ma questo no

vuol dire che non lo sapremo mai. L'uomo ha risolto problemi anche

"Oualche vantaggio l'abbiamo: il numero, per dirne uno. Poi, il fatto

che i saltatori siano dispersi in piccoli gruppi li rende vulnerabili alle

sollevazioni organizzate. Ormai non sono più un esercito, ma un'am

ministrazione civile e una forza di polizia. Prendiamo Albany: laggiù

ce ne sono solo duecento. Li sostituiscono spesso perché non amano

restare incollati sempre allo stesso posto. Se ci vólessimo nascondere

da altri esseri umani, sarebbe uno dei posti meno indicati. Ma per · sa1

tatori va benissimo, perché sono solo in due a pattugliare tutti gli Adi-

rondacks, e si allontanano raramente dalle strade principali. E poi c'è

il fatto che in realtà non sono molto intelligenti."

--Non lo sono! Ma come, loro...

--Lo so. Conoscono molte più cose di noi e hanno in mano la scien-

za, eccetera eccetera. Ma quella non è intelligenza. Un saltatore un po'

piu acuto degh altri ha press'a poco l'intelligenza di un uomo stupido.

--Lo so, lo so. Ma loro hanno tre grossi vantaggi. Primo: imparano

in fretta, anche se non in modo intelligente. Ecco perché gli eserciti dei

conquistatori sono stati addestrati e sono diventati soldati specializza-

ti tanto velocemente. Secondo: vivono a lungo. Non so quale sia la du-

rata media della loro vita, ma credo raggiunga i quattrocento- anni.

Terzo: gli elmetti.

--Gli elmetti?

--Quegli arnesi di cuoio che si mettono in testa. Nella loro storia

1 elmetto fu inventato dal loro dio, di cui non ti posso dire il nome per-

ché non so imitare i canarini. Chiamiamolo X. Per quel che ne so, que-

in e etti fu un grande genio, un misto tra Archimede, Leonardo

Vinci e Isaac Newton. Erano tra le menti più fulgide dei tempi anti-

chi. X dev'essere stato un mutante sterile. Dopo puoi cercarlo su un li-

bro Mi sembra probabile, perché non è mai più apparsa una stirpe di

genli tra i saltatori, che allora erano solo un gradino più su degli ani-

"X scoprì abbastanza presto la tecnica dell'indagine scientifica: l'os-

servazione e la sperimentazione delle cause. Inventò il loro alfabeto

che è un ibrido tra un sistema fonetico e uno musicale. Inventò un sac-

466

~==~

· saltatori ne fecero il loro dio, perché non dovesse plù lavorare per Vl-

vere. Probabilmente anche X la pensava così.

"Quattrocento anni sono tanti, come dicevo. Verso la fine della sua

vita inventò l'elmetto. In realtà è un apparecchio elettrico che ha I ef-

fetto di dare al saltatore che lo usa un'eccezionale capacità di concen-

trazione- Per esempio, un uomo non può concentrarsi su una cosa per

più di qualche secondo per volta. Provaci, qualche volta. Per prima co-

sa sai che penserai di mantenere la concentrazione su un qualunque

oggetto su cui ti devi concentrare, invece di concentrarti sul soggetto

stesso Spero di essere stato chiaro. Ma un saltatore con l'elmetto può

pensare a una cosa per ore e ore alla volta. Credo che perfino uno scim-

panzé potrebbe imparare a far di conto con questo sistema.

"Potrebbe darsi che siano anche più stupidi di un uomo stupi o, e

che gli elmetti aumentino le loro facoltà intellettuali. E certo che senza

gli elmetti sono ancora più scervellati di uno scimpanzé, e sono mca-

paci di portare a termine una sequenza complessa di azioni. Uno dei

motivi che me li fa ritenere stupidi è che la loro scienza sembra essere

rimasta sempre allo stesso livello dopo tre secoli dalla conquista. Pero

potrebbe darsi che avere due miliardi di schiavi, appartenenti a una

specie inferiore, addetti ai lavori pesanti, li abbia privati di ambizlo-

--Allora--intervenne Sir Howard--direi che si dovrebbe attac-

carli di sorpresa e tirargli via gli elmetti.

--Sì? Dimentichi i fucili e il resto. Se potessimo programmare una

rivolta con tanta precisione, li potremmo uccidere a mani nude. Ti ri-

peto che avevano già tentato delle cospirazioni su larga scala. Non

hanno funzionato. Per una ragione sola: non abbiamo un'arma che sia

abbastanza mortale, semplice e che passi inosservata. Sotto questo

aspetto, siamo molto indietro rispetto a com'eravamo al tempo del a

conquista. Dobbiamo avere qualcosa che sia almeno migliore delle ar-

mi da fuoco. Prendiamo di nuovo i saltatori di Albany. Hanno una ri-

serva di armi leggere nel grattacielo dell'Ufficio. L'artiglieria pesante

più vicina si trova nell'arsenale di Watervliet. Le armi veramente leta-

li, come le bombe a protoni, sono a E;ort Knox, negli antichi depositi

per l'oro. Se potessimo sopraffare una frazione abbastanza numerosa

di saltatori, potremmo catturare abbastanza armi da riequilibrare i

confronto. Ma avremmo bisogno di qualcosa per sopraffarne prima

una parte, e gli archi e le frecce non serviranno a molto.

--Be', e cosa ne direste se si togliessero l'elmetto spontaneamente?

~on si potrebbe mandargli una specie di onda radio o che?

--Ci hanno già pensato; piani per mettere fuori uso il circuito elet-

triCo dell'elmetto; piani per scaldare i cavi in modo da renderli inSOp-

ortabili; piani per interferire nel loro funzionamento con la statica.

La statica non sembra fare effetto, e bisogna ammettere che non cono.

sciamo nessun tipo di onda o di raggio che possa provocare il resto L'

dea di riscaldare gli elmetti, per esempio. Ci vorrebbe un'energia Spa

ventosa per scaldare milioni di elmetti, e quella che passa nella tua r

dio tramite l'antenna è così infinitesimale che non riesci a sentirla. La

più grande stazione radio che esiste non emette l'energia che si svilup-

pa in una sola delle moto dei saltatori. Come si fa a costruire una sta

zione che emetta mille volte più energia, senza le loro conoscenze?

--Mmm... sembra davvero senza speranza. Forse se ci mettessimo

in testa un elmetto, ci verrebbe qualche idea.

--Hanno provato anche questo. Ci ho provato anch'io Ha funziona

to bene per circa tre minuti, poi mi è venuto il peggior mal di testa del-

la mia vita; è durato una settimana. Il cervello dei saltatori è più pri-

mitivo del nostro; un trattamento del genere non lo danneggia Co-

munque non si può fare la stessa cosa al cervello dell'uomo, perlomeno

non allo stato attuale delle conoscenze. Forse un giorno ci riusciremo

quando li avremo cacciati via.

Restarono per un po' in silenzio, fumando. Sir Howard disse---Se

non sono indiscreto, dove avete trovato tutte queste informazioni? E

da dove vengono quei libri?

--Oh, usando gli occhi e le orecchie per tanti anni. Potrei aggiunge-

re che sono un provetto scassinatore. I libri, e molte delle informazioni

sui saltatori, in parte sono rubati. Il resto è stato raccolto qua e là so-

prattutto da Thurlow Mitten, prima che mi unissi a lui. Sai, non si può

pretendere che i saltatori, per quanto minuziosi, frughino in tutti gli

angoli di tutte le soffitte e le cantine di tutte le case vecchie della nazio-

ne.

Sir Howard disse:--Certe vostre affermazioni mi fanno venire in

mente quello che diceva mio fratello Frank.

Elsmith sollevò un sopracciglio.--Sally mi ha parlato di lui. E

Scusa.--Qualcosa nel modo in cui parlò fece pensare al cavaliere che

Elsmith sul conto di suo fratello sapesse più di quanto volesse dire. Ma

anche così aveva troppe cose a cui pensare per fare altre domande in

quel momento.

--Insomma, mi lancia il coltello addosso, e mi inchioda il ditone al

tronco sicché non posso più staccarlo. Ma io ci dico: aMike Brady« ci

dico «ho promesso di farti sputare le budella e vedrai che lo faccio«.

Cosi Ci corro dietro con il gancio. Lui scappa, e io dietro. Ma sai, non si i~

468

orre mica tanto con un tronco d'acero di sei metri inchiodato al piede,

doVeva pesare quasi tre quintali, e dopo un chilometro o due ti vedo

che quello là stava allontanandosi! Allora ho tirato il gancio e allora la

punta entra in un albero da una parte del collo, e la parte curva gli en-

tra nella schiena dall'altra parte e lui rimane lì come un salame. Allora

prendo il coltello e ci apro le budella. «Così impari« ci dico «a sfottere

~li Cahoon.« Lui fa: aVa bene, forse dovevo pensarci meglio. Se tu mi

r·metti dentro le budella io non ti sfotto mai più«. Allora ce le ho rl-

rnesSe dentro e da quella volta siamo amici. Ci ho ancora la cicatrice

_ Dici davvero? Mi ricordo una volta in Wyoming che io e un mio

amico tiravamo con I arco. Tiravamo ai tafani. Ecco che arriva una

zanzara. Lui fa: «Scommetto che non riesci a prendere quella zanza-

ra« . lo dico: < Quanto ci scommetti? « . Lui punta un centone, e io centro

la zanzara. Allora ne arriva un'altra. Lui fa: «Troppo facile. Vediamo se

riesci a prendere questa in un occhio«. «Quale dei due?« dico io senza

neladue pParlavano piano e con indifferenza davanti al fuoco.

ward alzò lo sguardo dal libro.--Signor Elsmith--chiese--che cosa

intende dire questo tizio? "Governo del popolo, con il popolo, per il po-

polo". Che popolo?

--. .e così ho perso mille dollari, scambiando l'occhio destro con il

sinistro. Ma mi ricordo quando che ho vinto quest'orologio a una

scommessa. Era di un tipo che si chiamava Larry Hernandez, e per

questo c'ha le iniziali come le mie. Volevamo vedere chl dei due riusci-

va a scendere col cavallo dalla scarpata più ripida...

Elsmith parlava. Sir Howard si chiedeva che cosa desse tanta auto-

revolezza alle parole asciutte e precise di quell'ometto mite.--Signifi-

ca che tutti gli adulti votano per scegliere le persone che li governeran-

no per un certo periodo. Alla scadenza prevista si fa un altra elezione, e

la gente può mandare via i funzionari precedenti se non le piacciono.

--Tutti gli adulti? Quindi, perfino i borghesi? E le donne? Ma e un i-

dea ridicola! Una persona dei ceti inferiori...

Sir Howard aggrottò la fronte concentrandosi.--Ma loro...

no ignoranti. Non possono sapere quello che è giusto per loro. I loro ca-

pi naturali...--Si interruppe di nuovo, confondendosi.

--Diresti che sono un ignorante?--Lo disse con molta calma.

--Voi~ Ma voi non siete un...

--Mio padre lavorava in una fonderia, e io ho cominciato come fat-

torino delle Poste e Telegrafi.

--Ammetto che con una classe dirigente ereditaria ogni tanto si ab-

biano degli individui validi. Ma anche degli individui molto discutibi-

li. Prendiamo il barone Schenectady. Con il concetto di "governo del

popolo, quando ci si accorge che chi governa è un farabutto o un

zo, se non altro si può cacciarlo via senza bisogno di una rivolta arma

Sir Howard sospirò.--Non riuscirò mai a farmi entrare in test

queste idee nuove. Pensarci è come vedere che tutto il tuo mondo, tutte

e tue solite idee, le tue convinzioni, si dissolvono come una zolle~tta d

zucchero in una tazza di tè. E ... quasi tremendo. Per cominciare bene

avrei dovuto venire qui dieci anni fa.

--No.

--Oh, dài, Sal. Ti piaccio abbastanza, no?

--Non è quello il punto.

--E allora qual è?

--Sarebbe... opportunistico.

Ecco; di nuovo una di quelle maledette parole da vocabolario Sentì

un impeto di collera. Ricordando Warren Kelly, nella sua mente prese

rma un commento pungente e offensivo. Ma il suo innato senso della

decenza lo soffocò prima che gli venisse alle labbra.

Lei stava infilando l'esca sull'amo. La barca dondolava dolcemente

sotto le nubi plumbee cariche di neve che incombevano sulla monta

gna di Little Moose e sul piccolo Sly Pond

--Perché... così. Forse non ci hai fatto caso, ma noi lavoriamo sodo

nostro lavoro e l'Organizzazione, e per noi è letteralmente il lavorb

piu importante del mondo. Tra questo e la nostra sussistenza, non ab-

p rze per ... Ie relazioni personali

--Ho paura che non riuscirò mai a capirti, Sally.--Finora non c'e-

ra riuscito. Non aveva i modi di una plebea. Doveva saperlo, le r

del popolo per lui erano un gioco da ragazzi. D'altro canto, le aristo-

cratiche che aveva conosciuto sarebbero inorridite all'idea di infilare

su amo un gamberetto decisamente recalcitrante, per non parlare di

squamare e pulire un mucchio di pesci-gatto. Però era fuori di dubbio

e ei fosse di buona famiglia. Se necessario avrebbe capovolto il si-

stema feudale (per il quale ormai sentiva moíto meno rispetto) pw di

mettervi in cima la classe cui lei apparteneva, qualunque fosse.

-- n altro motivo--continuò la ragazza.--Zio Homer mi ha detto

che fra uno o due giorni probabilmente ti unirai a noi. Ufficialmente

inten o. Potrei dire che lo spero. Ma, e questo è importante, tu non de- :

Sto, puoi lasc ar perdere fPinrd°nadi. E se hai in mente di farlo pe

--Ma perché? Cos'hanno di tanto terribile i motivi personali~

--Perché se cambiassi idea su questi motivi personali, potresticam-

470

b·are idea su tutto- Idiota, non vedi? Cosa rappresenta una ragazza in

ù o in meanmilioni di altri?--Il mulinello ronzò per qualche iS

p -ma che lei se ne accorgesse. Prese la canna con un movlmento velo-

ce eo esperto e in un attimo nella barca ci fu un altro pesce-gatto. Sir

lo Mala~ jilcotpodelpesces ~

Stomaco. Un giorno usciamo sul lago di Little Moose a pescare il persi-

C°TaOtnando al camP° con iillpesamentidecisidisirHowardesorris

astutamente. Sir Howard più tardi pensò che più di tutto lo preoccu-

pava quel sorriso.

Sir Howard chiese:--La vostra organizzazione non ha un nome? Vo-

li dire tutte le volte dite solo noi 1~0 aniZZaZione I

nomi sono come dei manici, e non vogliamo dare a loro più manici con

cui afferrarci di quanto sia indispensabile. Ora, per favore, potresti ti-

rare su la manica?--Tenne controluce un ago ipodermico.

_ Avrà qualche effetto permanente?

--No, ti farà sentire leggermente ubriaco ed euforico per un po .

usano i saltatori durante il terzo grado. E molto più efficace della tor-

tura, perché si può stare sicuri che il prigioniero sta effettivamente i-

cendo quella che ritiene la verità.

--Devo fare un qualche giuramento?

--Non sei obbligato. Partiamo dal presupposto che quando una per-

sona fa una dichiarazione d'intenti, sempre che sia sincera, dà un indi-

cazione del suo comportamento futuro valida quanto un giuramento.

A volte le persone cambiano idea, ma quando lo fanno trovano sempre

una scusa per infrangere un giuramento.

--Ditemi, mio fratello Frank era uno di VOi.

Elsmith esitò, poi disse:--Sì. Certo, nell'Organizzazione non era

entrato con quel nome. Non abbiamo avuto la possibilita di avvertir o.

Il suo diretto superiore, che normalmente avrebbe dovuto fare rappor-

t to a me, era scomparso un paio di mesi prima. D accordo, sapevamo

che cosa significava, ma non siamo riusciti a riallacciare i collegamen-

QuestO è il centro di tutto?--Sir Howard sollevò p

con una certa incredulità. Nel campo non succedeva un gran che, e co-

munque niente che facesse pensare che si trattava del quartier genera-

1- IP ~ ma cospirazione mondiale.

--Sì. So cosa stai pensando. Forse non ti sei accorto ultimamente d-

quante volte sei stato allontanato dal campo con discrezione. Si stava-

o gen o egli incontn.

Il cavaliere era stupefatto. Non ci aveva mai pensato. Cominciò a

re ersi conto dei sacrifici enormi sopportati da quella gente. Una co-

e genere non Si poteva improvvisare; richiedeva anni di lavoro at-

--Come ti senti?--chiese Elsmith

--Un po' intontito.

--Benissimo, adesso cominciamo. Howard van Slyck, hai tu...

--Hai superato la prova a pieni voti, ragazzo mio. Ne sono felice-

riuScito non saresti mai uScitore i P°Sds° aggiUngere che se non ci' fPo

--Cosa? P-perché? Come?

Elsmith si frugò nella camicia e tirò fuori la pistola di un salt

--A proposito, questa è la pistola del saltatore che hai ucciso Ne ab

amo a tre. Non ti erl accorto che Sally l'aveva rubata al cadavere e se

nascosta nei vestiti, vero? Non avresti potuto. Sally sa il fatto suo

motivo per cul I'avrei usata, se necessario, è che sapevi troppe co

so ito quassu sono ammessi solo i lavoratori di vecchia e sper-

mentata fedeltà. Sally non avrebbe mai portato qui te e Haas - che per

50 Si e unito a noi giovedì scorso - se non si fosse trattato di

mergenza. Dovevate trovare un nascondiglio, e avevate troppe buone

qua ita per cadere nelle ~oro mani. Così ci siamo fidati di voi. Se ci fos-

... non potevamo rischlare di riportare l'Oroa

zione indietro di anni.n

Sir Howard guardò per terra.--Sarebbe stato giusto~ ~loglio d

secondo le vostre idee. Se non avessi voluto rimanere.

giuStificare I ingiustizia invOcandaOSIarebbe stato necessario E slea

modo sono stati giustificati o perdonati i delitti più atroci

--Riprovaci, Van Slyck.

Sir Howard si volto docilmente e riattraversò la stanza. In effetti si

--No, così non va bene. Troppa tracotanza.

--Si sente un rumore metallico anche quando non ha addosso l'ar-

a-- isse Sally Mitten.--Non so cosa sia- qualcosa nel modo m

CUi la parte inferiore delle gambe viene avanti a ogni passo. -`

-- orse o so io--disse Haas. Era seduto con i piedi dentro un

chio di acqua calda; era andato a fare un giro con Eli Cahoon, e aveva

472

5o un paio di normali sicalrtpotoniche quelli che lui chiamava tendi~

ta da chillen si erarlo infiam imainique Chili di tubi di stufa e altra ferra

menta. Forse se gli mettessimo del piombo negli stivali resterebbe coi

PiediGPuarda--disse Elsmith.--Lascia andare le ginocch

he si pieghino leggermente a ogni passo. E appoggia completamente

il piede, invece di appoggiarti sul tallone. ~cco, così va meglio. Presto

· insegneremo a camminare da borghese. Fa' un po' di esercizio.--

Diede un'occhiata all orologio.--Dovrebbero arrivare da un momen-

to all'altro. Ricordati che per i membri dell'Organizzazione tu sei

Charles Weier. Ti presenteremo Lediacre e Fitzmartin, ma neanche

questi sono nomi veri. Comunque, Lediacre è davvero francese.

--Perché tutta questa segretezza?--chiese Sir Howard.

--Perché, mio caro Weier, se non conosci la vera identità di un uo-

mo, non la puoi rivelare sotto l'effetto della veramina. Le uniche perso-

ne di cui puoi conoscere la vera identità sono quelle direttamente sotto

di te. Per ora non hai nessuno, e sei direttamente ai miei ordini.

Lediacre e Fitzmartin quando arrivarono accettarono senza commenti

la presentazione di "Weier". Lediacre era alto come il cavaliere, anche

se non così massiccio; solido, in un certo senso anche bello, con una fi-

sionomia volpina, e squisitamente gentile. Sir Howard al suo confron-

to si sentiva un montanaro. L'altro era un ometto scuro e nervoso, e

aveva una scatola cui sembrava annettere una grande importanza.

Quando tutti gli altri si furono radunati intorno l'aprì e cominciò a in-

stallare dei marchingegni: pulegge, cinghie, stecche d'ottone, dischi di

· vetro con parti metalliche. Sir Howard intuì che erano personaggi im-

portanti dell'Organizzazione, e si rallegrò al pensiero che gli permet-

tesserO di assiStere adq l radio disse FitZmartin--Sulla lung .

za d'onda proibita dei saltatori, se potete.--Quando l'apparecchlo Sl

fu sintonizzato sul cinguettio sinistro di una stazione dei saltatori, co-

minciò a girare una manovella del suo congegno. Presto una serie di

scintille azzurre saltò da un pomo d'ottone all'altro in rapida succes-

Sione. A ogni scarica di scintille corrispondeva un blup nella radio, che

copriVa i cinguettii. Un programma di musiche da ballo su una del e

frequenze legali fu reso incomprensibile allo stesso modo.

- --Vedete?--disse Fitzmartin.--Con una macchina elettrostatica

I a dischi di un metro e ottanta di diametro possiamo disturbare la rice-

zione radio abbastanza bene nel raggio di quindici chilometri e anche

più. Coprendo il paese con queste macchine, possiamo sommergere

473

completamente le comunicazioni dei maledetti saltatori con l'elettro

statica. Usano solo delle stupidissime radio. Hanno abolito assolut

mente tutte le comunicazioni via cavo secoli fa, e ci vorrebbe un sacco

di tempo per montarne di nuove. Mesi, assolutamente.

Elsmith aspirò il sigaro.--E allora?

--Insomma... Voglio dire... vecchio mio... se potessimo assoluta

mente disorganizzarli...

--In neanche ventiquattro ore troverebbero le nostre macchine e ri-

stabilirebbero le comunicazioni. E sai bene che cosa ci succederebbe

Ma aspetta...--Vedendo l'aria abbacchiata di Fitzmartin mise avanti

una mano.--E un'idea eccezionale lo stesso. L'ammiro Volevo solo

far presente che i saltatori non si suicideranno in massa per un po' di

elettrostatica. Per ora non ne costruiremo. Ma faremo elaborare un

progetto per macchine di grandi dimensioni, ne faremo fare centinaia

i mig iaia di copie e le distribuiremo ai quartieri generali regionali di

o i mondo. Penso che se ne possa occupare Baugh Poi, quando

avremo il modo di dare il colpo mortale ai saltatori, faremo costruire

le macchine, e le metteremo in funzione al momento giusto. Saranno

un aiuto di valore incalcolabile.

Gli uomini si fermarono alcuni giomi. Il secondo giorno Sir Howard fu

eggermente scioccato nel vedere Lediacre e Sally che passeggiavano

ungo un sentiero, apparentemente in gran confidenza, e così assorbiti

nei loro discorsi da dimenticare il resto. Osservò le loro figure che si

lontanavano continuando a parlare e pensò, allora è così. Decise che i

raffinato monsieur Lediacre non gli piaceva.

Il giorno dopo incontrò il francese che guardava il paesaggio, fuman-

.-- , salve, amico mio--disse Lediacre.--Stavo ammirando il

panorama. Mi ricorda il Massiccio Centrale, nel mio paese.

--Ci tornerete presto?--chiese il cavaliere, cercando di non sem-

brare troppo acido.

--No, per almeno tre o forse quattro mesi. Vedete, sono qui per lavo-

ro. Sono quello che da voi si chiama rappresentante viaggiatore di una

--Posso chiedere che tipo di azienda~

--Certo, caro Weier. Profumeria.

Profumeria! Buon Dio! Ormai non faceva più caso ai natali plebei

ma i profumi I Vide con la coda dell'occhio Sally Mitten che usciva dai

stato un modo per nspondere per le rime a nuel

venditore di profumi. Era molto abile negli esercizi a cavallo più spet-

tacolari. Scherma, tornei e corsa a ostacoli non erano cose pratiche

Disse:--Ultimamente non mi sono allenato molto. Mi hanno tenuto

letto. Sapete fare la lotta?

f ~ Da qualche anno non più, ma mi piacerebbe riprovare. Dovrei an-

~ / L~ \ ~ , Sir H°Wardhe avreb_

1 ~

~=

Haas stavano °Sservdand°Latdenacare Fu letteralmente un ~ancoran- Sir

pensò.

10

1~

475

va cosciente di sé, come invece non gli era mai successo quando scor-

razzava per il paese con la corazza in lega d'acciaio. Avevano avuto il

permesso di tenere la spada, perché non attirava l'attenzione maligna

e sgradita dei saltatori.

--Partiamo dal presupposto che il mio vecchio non deve saper nien-

te di questa missione--spiegò ad Haas il cavaliere.--Lui mi crede a

Watertown, o chissà dove. Altrimenti entreremmo tranquillamente in

casa. Secondo me, ci stanno facendo recitare questa parte per vedere

come ce la caviamo.

--Non è che mi importa molto del travestimento--disse Haas

--Solo che ogni volta che vedo un saltatore ho l'impressione che ven

ga a fare domande. Mi mette un sacco a disagio. Prima non ci facevo

mica caso; li consideravo solo una seccatura che bisognava sopporta-

re Adesso non riesco più a mangiare un panino al formaggio: I'odore

ml fa venire in mente i saltatori.

--Per quanto mi riguarda--aggiunse Sir Howard--credo che pre-

ferirei quello di un cadavere di tre settimane. Se ci fermano ricordati

chi sei e che hai una serie completa di documenti falsi per próvarlo.--

Si sentiva più o meno allo stesso modo. Un nemico umano, che si può

disarcionare con un colpo ben assestato di lancia, era una cosa- questo

potere invisibile con le sue armi misteriose e la sua feroce capillarità

un'altra.

--Qui niente--mormorò Sir Howard. Avevano setacciato accurata-

mente la stanzetta nel retro della rimessa degli attrezzi che Frank van

Slyck usava come laboratorio. Le loro piccole torce intermittenti rive-

lavano solo pezzetti di metallo contorto, reticella metallica e vetri rot-

Haas mormorò:--Sembra che i saltatori abbiano ripulito per bene

la roba di tuo fratello.

--Sì. Hanno esaminato i suoi miseri apparecchi e poi li hanno fatti a

pezzi; da come li hanno ridotti, non li riconoscerebbe neanche la ma-

dre. Hanno forzato i contenitori in cui teneva gli insetti, e li hanno but-

tati in cortile. Hanno bruciato i suoi appunti, e hanno portato via i suoi

libri per metterli in una delle loro biblioteche. Andiamo via, rimango-

no da esaminare solo gli appartamenti nel castello.

--Sicuro che qui in giro non ci siano dei nascondigli?

--Sì. Questa tettoia è stata costruita sul terreno, e sotto ci sono solo

detriti. Questa parete è di compensato. Attraverso le crepe si vede la ri-

messa degli attrezzi, quindi non ci sono intercapedini tra le pareti o al-

tro. Andiamo via.

Aspettarono che la sentinella raggiungesse l'altro lato, e attraversa-

rono furtivamente il prato. Sir Howard, essendo il più robusto, spinse

in alto Haas; I'uso attento di un diamante tagliavetro gli diede accesso

al chiavistello, e la finestra si aprì con un debole cigolio, non più forte

dei vari rumori degli insetti notturni. L'odore vago di muffa della bi-

blioteca si mescolava ai profumi del giardino.

--Che Dio ci assista--disse Sir Howard--se il mio vecchio scopre

quello che abbiamo fatto alle sue rose. Sarà peggio di un lupo affamato

e col mal di denti in mezzo a nove agnelli.

Misero il naso dappertutto come due topi curiosi, frugando nei cas-

setti della scrivania e nei cestini della carta. Sir Howard disperava or-

mai di trovare qualcosa, quando si ricordò che suo fratello aveva l'abl-

tudine di mettere dei foglietti tra le pagine dei libri e di dimenticarse-

ne. Gli venne un tuffo al cuore illuminando gli scaffali stracarichi con

la torcia. Ce n'erano centinaia, tutti i libri che da ragazzo l'annoiava-

no: di poesia, fiabe, romanzi, teologia. Che differenza dall'assortimen-

to sostanzioso di Elsmith! Almeno, poteva fare una certa selezione.

Uno scaffale conteneva libri di agraria, amministrazione e altri argo-

menti di carattere pratico concernenti la gestione del ducato. Se Frank

aveva letto qualcosa in quella biblioteca, aveva letto quelli. Cominciò

a sfogliarli con Haas.

Trovarono parecchi foglietti di carta bianca, in apparenza banali se-

gnalibri. Sir Howard se li mise in tasca. C'era un bellissimo disegno

della testa di un'ape. C'era un foglietto su cui erano scritti vari indiriz-

zi. Ce n'era uno con l'annotazione enigmatica:

Pulex irr.

M-146 Fatt. rid. 0,17

M-147 F.r. 0,88

M-148 F.r. 0,39

M-149 F.r. 0,99!!!

Era un volume intitolato Genetica dell'allevamento, che era scientifi-

co quasi quanto era permesso dai saltatori. In un piccolo vocabolario

c'era un altro foglietto con la risoluzione di un problema algebrico.

C'era...

--Voi due, mani in alto!--Nel buio si spalancò un occhio giallastro,

che inondò di luce i due scassinatori. Dietro l'occhio si intravedeva a

rnalapena un uomo anziano in camicia da notte. Aveva una balestra

antirapina, cioè una balestra con una torcia all'estremità. La balestra

era carica.

--Piano con quel grilletto, padre--disse Sir Howard, alzandosi

--se non volete fare un bel buco nel vostro legittimo erede.

--Howard! Non ti avevo riconosciuto!--Per non farsi riconoscere il

cavaliere aveva trascurato il viso per una settimana, e ora aveva il viso

coperto di una stoppa nerofumo terrificante.

--Cosa accidenti... cosa diamine... cosa diavolo stai facendo, una ra-

pina in casa tua?

--Stavo cercando una cosa, e non volevo svegliarvi a quest'ora. Pec-

cato che non possiamo fermarci.--Sir Howard sapeva che la Scusa

non era molto plausibile.

--Insomma, che cosa succede? Cosa stai cercando? E chi è quell'uo-

mo?

Sir Howard presentò Haas.--Stavo solo cercando delle carte che

avevo lasciato qui. Niente d'importante, davvero.

--Quali carte? Non è una spiegazione per questa... questa...

--Oh, solo certe carte... Penso che abbiamo quasi finito, eh, Lyman?

Sono contento di avervi visto, padre.

--Oh, no, affatto. Non ti muovi di qui finché non mi dai una spiega-

zione plausibile.

--Scusate, padre, ma vi ho detto tutto quello che potevo. E devo

propno andare.

rl duca stava andando su tutte le furie, come raramente gli accadeva.

--Tu... tu piccolo... te ne vai da qui, vestito da vero gentiluomo, e dici

che vai in viaggio di piacere. E sei mesi dopo ti trovo vestito come un

barbone, che vai in giro con i borghesi e ti intrufoli nelle case degli al-

tri. Che cosa significa? Che cosa sig~ifica?

--Scusate, padre. Io mi diverto così.

--Ma io non mi diverto affatto! Smettila subito con queste scioc-

chezze o ti... ti diseredo.

--Sarebbe un vero peccato per il ducato.

--Ti taglio i viveri! Controllo ancora quasi tutto il tuo reddito, lo

sai.

Sir Howard fece attenzione a non mostrare quanto quella minaccia

lo sconvolgesse.--Oh, posso cavarmela lo stesso. Se ci sarà proprio bi-

sogno, ci uniremo a un circo.

--Farai che cosa? Ma non puoi ! Insomma, è insensato. Un Van Slyck

che lavora in un circo!

--Sareste sorpreso. Vi ricordate del prozio Waldo? Quello che ha

truffato quei banchieri? Potrei trovare lavoro come forzuto, e Lyman

sa fare giochi con la corda. Tireremo avanti.

rl duca sospirò profondamente.--Hai vinto. Howard, io non ti capi-

sco. Pensavo fossi diventato una persona di buon senso, con la testa

sulle spalle, e tu ti comporti così. Ma hai vinto. Piuttosto, qualsiasi co-

sa! Un artista da circo!--Rabbrividì.--A proposito, come avete fatto

a scavalcare il muro?

--Lyman ha tirato il lazo intorno a uno dei merli della fortificazio-

ne. Sapete che cos'è un lazo, una corda con un cappio mobile. E un

esperto. Quando avete fatto costruire il muro, ricordate che vi avevo

avvisato di non mettere quelle merlature in cima?

--Non ci resteranno per molto!

--Oh, prima di dimenticarmi--disse con indifferenza Sir Howard

--abbiamo qualche cucciolo nei canili?

_ Fammi pensare... Sì, Irish Mist ha figliato circa sei mesi fa, e ce ne

sono alcuni che non abbiamo ancora dato via. Ne vuoi uno?

--Sì, mi piacerebbe.

_ E perché, se non ti secca la curiosità di un vecchio?

--Oh, avevo solo pensato di regalarlo a una persona.

--Una persona, eh? Spero solo che non sia un'altra borghesuccia.

--Oh, non dovete preoccuparvi del blasone dei Van Slyck. Niente di

serio, ricambio solo un favore.

_ Un favore ! Ci sono tanti tipi di favori.--Il duca li condusse ai ca-

nili, e Sir Howard illuminò con la torcia i cuccioli di terrier irlandese

che uggiolavano. Ne prese uno.

--Non vuoi qualcosa per trasportarlo?

--Sì, se ci fosse un cestino o qualcosa del genere.

_ Mmm... Penso che questo vada bene. Sei sicuro di non volere re-

stare qui con il tuo amico per stanotte?

--No, comunque grazie. Ci vediamo. E, a proposito, meglio non par-

lare di questa visita.

_ Non preoccuparti! Non voglio far sapere a tutti che mio figlio è di-

ventato matto! Stai attento, vero? E cerca di tornare indietro tutto in-

tero. Se succedesse qualcosa non potrei sopportarlo. Ti prego, Ho-

ward. Addio e buona fortuna!

--Odio trattare così il mio vecchio. Spero di potergli spiegare tutto,

un giorno.

--Mmm. In effetti, sembrava un po' incavolato. Di', How, forse non

è stata una grande idea cercare di arrivare a Renssalaer. Forse avrem-

mo dovuto fermarci per la notte a Hudson. Sarà più buio dell'inferno.

E credo che stia per piovere.--Haas si staccò dalla pelle il davanti

della camicia bagnata.--Che mi venga un colpo se mi piace la vostra

estate umida. Soprattutto quando va a piovere. I vestiti ti si appiccica-

no addosso.

--Se comincia a piovere ci fermiamo a Valatie. Non è molto lonta-

no. Abbiamo appena passato Kinderhook.

--Meglio che accendi la torcia, o finisci nel fosso. La bestiolina è an-

cora nel cestino? Carino, il diavoletto. Oh-oh, ecco un lampo, laggiù a

ovest. Se avevo i pantaloni di cuoio mi proteggevo dall'acqua.

--Il lampo era sulle Helderberg. La pioggia non arriverà per qual-

che ora. Trotto!

Plop-plop-plop-ptop facevano gli zoccoli. Qualcosa... Qualcosa fece

rizzare i capelli sulla nuca a Sir Howard. Sbagliava, o c'era un leggero

odore di formaggio?

--Alt, Uomo!--Era il cinguettio familiare e odioso. Sul suo viso era

puntata una luce accecante. Si guardò intorno cercando Haas, ma lui e

la sua cavalcatura sembravano svaniti nel nulla.

Ce n'erano due, in uno déi loro veicoli a due ruote. Per meglio dire,

uno era nel veicolo, e l'altro era fuori e lo squadrava. Tolse il piede de-

stro dalla staffa.--Non smontare!--Nel buio si sentirono dei trilli e

dei cinguettii, e quindi l'ordine:--Dammi le redini!

Il veicolo avanzava a meno di dieci chilometri all'ora; dietro trotta-

va Paul Jones. Uno dei saltatori teneva la testa voltata indietro per

controllare il cavaliere.

Pensò, questi fanno parte della pattuglia stradale. Mi portano alla

stazione di Valatie (che i saltatori si ostinavano a chiamare Vallity, con

gran fastidio degli abitanti, che dicevano Valaysha). Mi interrogheran-

no, probabilmente usando la veramina. Vorranno sapere la mia vera

identità. Potrebbero volere perfino informazioni su Elsmith. Non devo

dire niente. Dovrei uccidermi, piuttosto. Ma forse c'è una scappatoia

più semplice. Inutile cercare di scappare. Hanno le fotoelettriche e i fu-

cili. Ma se quello là avesse un crampo al collo... E frugò di nascosto in

uno dei contenitori della sella.

La processione si fermò alla stazione di Valatie. Davanti alla porta era

di guardia un saltatore con un lungo fucile. I due saltatori scesero dalla

moto. Un altro uscì dalla porta, e all'interno ce n'era un quinto davanti

alla macchina per scrivere.

--Smonta, Uomo.

Oh, Dio, pensò. Non devo barcollare. Devo restare lucido. Tirò fuori

il cagnolino grigio dal cestino sulla groppa di Paul Jones.

--Entra. Aspetta! Lascia fuori la spada.

Il cavaliere slacciò a tentoni il cinturone e appoggiò l'arrna contro il

muro della stazione.

--Che cos'è?--La torcia fece chiudere gli occhi al cucciolo.--Nel-

la stazione è vietato l'ingresso ai cani. Devi lasciare fuori anche lui.

--Scapperà, vostra eccellenza.

--Allora rimettilo nel cestino.

--Il cestino è scoperto, vostra eccellenza. Salterà fuori.

Un cinguettio nel buio. Poi:--Allora lascialo con la sentinella. Lo

terrà lui.

La sentinella prese in mano il guinzaglio, cercando di dare una grat-

tatina dietro alle orecchie al cucciolo con l'altra mano. Il cane indie-

treggiò più che poté, tremando. Sir Howard entrò goffamente nella

stazione con una perfetta andatura da borghese.

--I tuoi documenti, Uomo. Siediti. Qua il braccio.

L'ago entrò. I saltatori scartabellarono i documenti.

Pensò, devo parlare bene. Spero che funzioni. Se Dio esiste, spero

che mi faccia dire le cose giuste. Mi sembra che per Elsmith Dio non

esista; perlomeno, certe volte mi ha dato quest'impressione. Ma se esi-

ste, spero che mi farà dire le cose giuste.

Eccola, quella sensazione di formicolio e di vertigine. Devo dire le

cose giuste. Se comincio a dire quelle sbagliate, ho sempre il mio col-

tello a serramanico. Potrei tirarlo fuori velocemente prima che riesca-

no a fermarmi. Penso che il punto migliore sia la gola. Non sono sicuro

che la lama sia abbastanza lunga per il cuore. Fammi dire le cose giu-

ste...

Ora iniziava. Il saltatore che sembrava essere il capo alzò lo sguardo

dai documenti.--Sei Charles... Weier?

--Sì, vostra eccellenza.

--Sei un giocatore di hockey professionista?

--Sì, vostra eccellenza.--Speriamo che non mi facciano domande

sull'hockey!

--Dove sei nato?

Questa domanda era in forma diversa; poteva essere un tranello. Do-

veva rispondere: Ballston Spa.

--Ballston Spoh, vostra eccellenza.--Grazie a Dio, se l'era ricorda-

to! Se avesse obbedito all'impulso di usare la pronuncia meridionale

di Spa, si sarebbe tradito.

Cinguettii. Poi:--Sai qualcosa sul conto di un uomo, della tua stes-

sa statura e con i capelli scuri come te, che ultimamente è stato segna-

lato nella regione dell'Hudson-Mohawk, e che a volte si fa passare per

William Scranton, e altre volte finge di essere Sir Howard van Slyck,

figlio del Duca di Poughkeepsie?

--No, vostra eccellenza.--Sperando di non confondere il suo vero

nome con quelli falsi! Scranton--Weier--Van Slyck - non era più si-

curo di sapere chi era.

--Questi documenti sembrano in ordine. Stiamo esaminando uomi-

ni con le tue caratteristiche fisiche nel tentativo di risolvere la scom-

parsa di uno dei nostri agenti, avvenuta il mese scorso. Ne sai qualco-

sa?

--No, vostra eccellenza.--Urrà, ce l'aveva quasi fatta!

Ulteriori cinguettii. Se si fosse trattato solo dell'ordine di controlla-

re i timbri sul suo permesso di viaggio con i registri di Albany e di

Poughkeepsie, sarebbe andata bene. I timbri erano autentici. Ma se si

fosse trattato di controllare il permesso con gli archivi centrali di New

York, sarebbe stato un altro discorso.

--Siamo soddisfatti, Uomo. Puoi andare.--La grinfia pelosa gli

gettò i documenti attraverso il tavolo. Non devo barcollare quando mi

alzo. Non devo neppure essere troppo spavaldo.

480 ~ 481 ~ ~ ~

Davanti alla porta non c'era traccia di sentinella. Il suo lungo fucile

era per terra. Sull'orlo della luce che veniva dalla porta aperta c'era il

suo elmetto di cuoio.

Sir Howard era stupefatto. Non aveva idea di cosa potesse essere

successo. Se fossero usciti e avessero scoperto che la sentinella era spa-

rita avrebbero frugato dappertutto per scovarla - e per scovare lui. Si

voltò.--Eccellenze!

--Che c'è, Uomo? Ti avevamo detto di andartene

--La vostra sentinella si è portata via il mio cane.

I quattro saltatori schizzarono fuori dalla stazione. Esaminarono il

fucile e l'elmetto abbandonati, facendo più rumore di un negozio di uc-

celli. Un paio balzarono via nel buio trillando, poi tornarono indietro.

Agitarono le grinfie e scossero la testa, gorgogliando. Uno balzò al-

I'interno e cominciò a trillare nel microfono.

--Che aspetti, Uomo?--Di nuovo il capo.--Qui non sono richiesti

i tuoi servizi.

--Il mio cane, sua eccellenza.

Il saltatore sembrò riflettere brevemente.--Uomo, il tuo comporta-

mento è stato improntato a un senso di cooperazione ammirevole. In

ricompensa terremo qui il tuo cane se lo troveremo, per speciale con-

cessione, finché non verrai a reclamarlo. Naturalmente dopo che avrai

pagato una somma a titolo di deposito per coprire i costi di custodia.

Un dollaro sarà sufficiente.

Il senso del risparmio di Sir Howard lo fece trasalire, ma pagò, si

riallacciò la spada, e condusse via Paul Jones.

Quando fu abbastanza lontano dalla stazione cominciò a fischiare

prima piano, poi più forte. Si udì un ticchettio di unghie sul selciato, i

rumore di un guinzaglio che si trascinava, e poi la pressione improv-

visa delle zampe sul ginocchio. Mise nel cestino il cucciolo, che si di-

menava freneticamente per la contentezza, montò in sella e si allonta-

nò. Gli dava fastidio aver lasciato il dollaro al saltatore, ma tornare in-

dietro a reclamarlo era un rischio troppo grande.

--Ehi, How!--sibilò qualcuno nell'oscurità.

--Lyman! Che ti è successo?

--Avevo visto che quelli ti aspettavano, ma non ho potuto avvertirti

perché eri troppo avanti, proprio sopra di loro~quando li ho visti. Pri-

ma che accendessero la luce ho fatto saltare Queenie in un fosso e poi

per i campi. Ho visto che i saltatori ti portavano via, e li ho seguiti at-

traverso i campi per non farmi sentire. E a te, che cosa è successo?

Sir Howard gli raccontò tutto.

--Dici davvero? Quello di guardia è sparito di botto? Che mi ven-

ga... Ma come hai fatto a non dirgli la verità, se ti hanno drogato con

quella roba?

--Se per caso qualcuno si accorge di una bottiglia vuota di whisky

nel fosso vicino alla stazione di Valatie, forse può fare due più due... El-

smith ha detto che l'alcol contrasta l'effetto della veramina sul sistema

nervoso, e credo che avesse ragione. Ma tra l'uno e l'altro non mi sento

molto bene. Faresti meglio ad andare, Lyman. Credo proprio che il li-

quore mi farà stare male per la seconda volta nella mia vita.

--Va bene. Meglio puntare a destra, è sottovento.--Più lontano

rombb il tuono.--Ragazzo, mi è caduto un bel gocciolone sulla mano.

Mi sa proprio che stanotte ci inzuppiamo. Ma che diavolo. Preferisco

stare al bagnato fuori da una casa di saltatori, che all'asciutto dentro.

12

--Oh, grazie, Howard, grazie mille davvero. L'ho sempre desiderato.

"Non male come reazione" rifletté "soprattutto considerando che il

cucciolo non mi è costato un soldo, a parte quel maledetto dollaro di

deposito. Chissà che effetto farebbe una bici nuova. Vediamo... Una

bella bici costa... Magari potrei trovarne una all'ingrosso. Oh, no, lui è

di nuovo qui" pensò con disgusto il cavaliere.

Apparve Lediacre, che cominciò a fare versi in francese al cucciolo,

che sembrava sbalordito di tanta attenzione.

--Non so--disse Elsmith.--Se lo si può addestrare come si deve,

sarà un vantaggio, ma se si dimostrerà un cane che sa soltanto abbaia-

re, dovremo eliminarlo. Attirerebbe l'attenzione. Bene, Weier, che co-

s'hai da riferire?

Entrarono, e Sir Howard sparpagliò le carte che aveva trovato, rac-

contando nel frattempo gli avvenimenti.--Faremo delle prove su que-

sti fogli bianchi per essere sicuri che non siano scritti con l'inchiostro

simpatico, anche se non penso che ci sia qualcosa. La sentinella è spa-

rita nel nulla lasciando fucile ed elmetto, eh? E strano. Cosa sai di

quello che faceva tuo fratello con gli insetti? Tieni presente che abbia-

mo perso i contatti con lui per due mesi prima che morisse.

--Non molto--rispose Sir Howard.--Sono anche stato lontano da

casa per la maggior parte di quei due mesi, e lui non mi ha mai fatto

confidenze. ~on sapevo neppure dell'esistenza del laboratorio, finché

non sono tornato a casa dopo che mi hanno dato la notizia. E ormai lo-

ro avevano distrutto tutto, e confiscato quello che non avevano distrut-

to. Hanno buttato gli insetti nel cortile. Per una settimana siamo stati

infestati.

--Mmm. Mmm.--Elsmith si accese un sigaro.--Secondo me tuo

fratello, i suoi insetti e la scomparsa della sentinella sono collegati, an-

rhr Cf~ nnn rif~Cco a can_ire come.

Sir Howard prese in mano l'appunto con il titolo enigmatico PULEX

IR~.--Avete idea di cosa può significare, signore?

--Suppongo stia per Pulex imtans, la pulce comune. M-146 potreb-

be essere il numero di una mutazione artificiale, ammesso che tuo fra-

tello stesse lavorando sulle mutazioni. Sai cosa sono, vero? La scritta a

destra significa probabilmente 'fattore di riduzione 0,17', e cioè che

dopo un dato periodo in determinate condizioni solo un sesto di un da-

to numero di pulci è sopravvissuto, come potrebbe succedere con la va-

rietà normale, non mutante. I punti esclamativi accanto a M-149 do-

vrebbero significare che aveva scoperto un tipo di pulce che resisteva a

queste condizioni, quali che fossero, analogamente a come il tipo nor-

male resiste alle condizioni normali.

Sir Howard rifletté.--Le pulci non mordono i saltatori no? Lo dico-

no tutti che le mosche e le zanzare non danno mai fastidió a quelle co-

se. C'è... Ehii!--Più tardi, Sir Howard pensò che fosse stato il momen-

to più importante della sua vita. Non si spiegava come c'era riuscito.

Passò in un lampo dalla confusione e dallo smarrimento alla chiarez-

za. Vide mentalmente l'immagine ormai familiare di un animaletto

grigio che si grattava, si grattava.--E il cucciolo!

--Cosa? Cosa? Non farlo più, ragazzo mio. Perlomeno non al chiuso,

se non vuoi farmi venire un infarto.

--Il cucciolo, il cane. Supponiamo che Frank abbia scoperto una

pulce mutante a cui piacessero i saltatori. Quando loro hanno buttato

via tutti i suoi insetti, alcune di queste pulci particolari hanno rag-

giunto i canili ed erano sul cucciolo che ho dato da tenere alla sentinel-

la. Un paio di queste sono andate in perlustrazione e sono passate sulla

sentinella.

--Allora?

--Allora, che cosa fareste se aveste un cappello in testa e una pulce

passasse sotto e vi mordesse il cuoio capelluto?

--Mi toglierei il... Per Giove, ho capito. E incredibile ma ci azzecca

Di solito gli insetti non pungono i saltatori perché l'emócianina del lo

ro sangue è indigesta. Ma se tuo fratello avesse sviluppato una pulce

che si nutrisse di emocianina come di emoglobina... e il saltatore, non

avendo mai provato a essere morso dagli insetti impazzisse quasi per il

fastidio - non hanno portato con sé parassiti specifici dal loro pianeta

- si toglierebbe l'elmetto e non avrebbe abbastanza buon senso per ri-

metterselo. Mentre quelle loro menti artificiali fossero concentrate su

qualcos'altro, si toglierebbero l'elmetto per grattarsi senza riflettere...

Dove stai andando?

Sir Howard era già alla porta.--Lediacre!--gridò.--Dov'è il ca-

ne?

--E andato con Sally, amico mio. Anzi, lo ha preso lei. Ha detto che

voleva fargli il bagno.

--Dove? Dove?

--Su alla sorgente. Volete che...

Sir Howard non restò ad ascoltare; si diresse di corsa alla sorgente.

Il cuore gli batteva. In fondo al sentiero apparve un'immagine grazio-

sa, incorniciata dagli alberi; Sally Mitten inginocchiata di fronte a una

tinozza, con il sole nei capelli. Sopra la tinozza teneva col braccio di-

steso un cucciolotto grigio fumo, dall'aria perplessa.

--Satly!--L'urlo frenetico, con tutta la potenza del suo petto mas-

siccio, echeggiò in tutta la foresta.

--Cosa... Howard, che c'è? I saltatori ci hanno scoperti?

--No... E il cane.--Fece una pausa per riprendere fiato.

--Il cane? Stavo appunto per lavarlo. E strapieno di pulci.

--Grazie a Dio!--Puff, puff, pu~

--Perché è pieno di pulci?

--Sì. L'hai già messo dentro quella roba?

--No. Howard van Slyck, sei diventato matto?

--Per niente. Chiedi a tuo zio Homer. Ma io devo prendere le pulci.

Vieni, Mutt, Spike o come diavolo ti chiami.

--Volevo chiamarlo Terence.

--Bene. Vieni, Terence.

Terence guardò il cavaliere, scodinzolò poco convinto, si sedette e

cominciò a grattarsi.

Quando riportò al campo il cane, ormai le idee spuntavano come

funghi dopo la pioggia. Elsmith disse:--Probabilmente solo una par-

te delle pulci di Terence ci saranno utili. Dobbiamo trovare un modo di

dividerle dalle altre. E sembra anche che ce ne siano un bel po'.--Te-

rence si mordicchiava il fianco setoso.

Sir Howard disse:--Se avessimo un po' di sangue con l'emocianina,

potremmo farglielo succhiare, e quelle che non muoiono sarebbero

quelle giuste.

--Sì--rifletté Elsmith--e questo ci permetterebbe di controllare

la validità della nostra teoria. Però non so dove potremmo trovare un

quantitativo sufficiente di sangue di saltatori.

Haas disse:--Magari potremmo rapire una di quelle bestie e to-

gliergli il cappello, così sarebbe inoffensiva.

--Bravo!--esclamò Lediacre.--Questo è il vero spirito america-

no, di cui in Francia parlano i libri.

--Temo che sia troppo rischioso--disse Elsmith.

--Dunque--continuò Lediacre--nient'altro possiede questo san-

gue particolare?

--E quasi identico a quello degli artropodi, soprattutto dei crosta-

_ ('r~ctz ~ s homards, le aragoste?

--Allora abbiamo risolto il problema, amici miei! Un nostro uomo è

direttore di Vinay Frères, un ristorante di New York. Ci avete mai

pranzato? Ma dovete! La loro zuppa di cipolle... magnifica! Mi metterò

d'accordo con lui perché faccia dissanguare le aragoste prima di cuo-

cerle. Non le rovinerà. E possiamo far contrabbandare il sangue fin

qui. Ma come si fa ad allevare le pulci? Non si può dire- "Qui, pulce

qui" quando è ora di mangiare.

--Per esempio si possono mettere sotto un bicchiere e poggiarlo sul

polso. Allora mangiano quando vogliono. Ma se riempissimo di sangue

delle vescichette di gomma fine, che potrebbero bucare e poi succhia-

re. .

Una volta iniziato, I'allevamento di pulci crebbe a gran velocità. In

media ci volevano cinque settimane per portare alla maturità una ge-

nerazione, ma la loro capacità riproduttiva sembrava illimitata alme-

no quando venivano coccolate come facevano al campo sugli Adiron-

dacks. Sir Howard non ebbe la possibilità di andare ad Amsterdam a

cercare la bicicletta. Un viavai di uomini. Il piccolo Fitzmartin se ne

andò tutto contento con l'incarico di costruire più elettrostati che po-

teva, e dicendo che avrebbero cancellato assolutamente quelle male-

dette canaglie. Lediacre era spesso al campo. Per Sir Howard era una

magra consolazione il fatto che, se lui era troppo indaffarato per fare la

corte a Sally Mitten, il francese era nella stessa situazione. Lavoravano

dalla mattina alla sera. Nel fianco della collina si dovette ricavare un

magazzino per sistemare migliaia di pulci.

C'era un uomo di colore che veniva da un luogo detto Missouri, che

partì con parecchie migliaia di strani animaletti nascosti nella fodera

della sua consunta valigia di fibra. C'era un pellerossa del sudovest, un

Navvo, che si rivelò essere un cordiale nemico di Haas. E intanto gran-

di pacche sulle spalle e tanti ricordi:--Di', ti ricordi quando vi ábbia-

mo fatto calare le brache a South Platte?--Come calare le brache?

Eravate due a uno, e anche così ci siamo ritirati in buon ordine!

--C'era Maxwell Baugh, il nuovo capo del ramo Hudson-Mohawk del-

I'Organizzazione, che riferì che i saltatori locali non avevano dato se-

gno di sospetto, ma erano ancora preoccupati per la storia della senti-

nella, che era stata ritrovata mentre vagava come un idiota e incapace

di dare una spiegazione coerente del suo comportamento dopo che le

era stato rimesso l'elmetto.

Sir Howard cominciò ad apprezzare che il mondo fosse così grande.

Gli sarebbe piaciuto chiedere a quegli uomini di diversa statura e colo-

re qualcosa sul loro paese d'origine. Ma non ce n'era il tempo; andava-

no e venivano furtivamente, fermandosi solo pochi minuti. Terence ab-

baiava, poi una forma spettrale nell'oscurità, parole d'ordine, sussurri,

e l'uomo se n'era andato.

--Adesso--disse Elsmith--stiamo ad aspettare. Ci vuole un certo

lasso di tempo.

--Che intendete, signore?

--Il tempo necessario perché i nostri messaggeri raggiungano le di-

verse parti del mondo. Prima dell'avvento dei saltatori, si poteva arri-

vare dovunque in pochi giorni, con le macchine volanti e i veicoli terre-

stri. Ma con i mezzi di trasporto più veloci che abbiamo, per arrivare

in Asia centrale ci vuole un mese intero. Perciò dobbiamo aspettare.

Per fortuna quasi tutti i messaggeri dei paesi più lontani sono partiti

presto. Per risparmiare tempo abbiamo mandato molti dei nostri. Ma

uno di loro, che doveva raggiungere l'lberia, è stato trovato dai saltato-

ri. Si è gettato nel golfo di Biscaglia e si è annegato prima che potesse-

ro strappargli delle informazioni. Ma abbiamo dovuto mandare un al-

tro carico di pulci.

"Perciò, ragazzo mio, per le prossime cinque settimane puoi pro-

grammare di passare il tempo andando a caccia, a pesca, e dedicandoti

al giardinaggio."

--Signore, domani vorrei andare ad Amsterdam...

--Temo di no, Van Slyck. Per il mese prossimo dovremo farci notare

il meno possibile. Sarebbe intollerabile se qualcosa andasse storto al-

l'ultimo minuto. I saltatori non hanno mostrato sospetti, ma chi può

dire che non stiano facendo il gioco del gatto col topo?

E così non ci sarebbe stata la bicicletta per Sally Mitten. E Lediacre

sarebbe tornato fra pochi giorni. Oh, al diavolo!

--Quante pulci abbiamo allevato in tutto, signore?

--Non saprei davvero. Circa 50 milioni.

--Non mi sembra abbastanza. Ci sono 20 milioni di saltatori. Mi

sembrerebbe che dovremmo avere più di due saltatori per pulce... Vo-

glio dire, due pulci per saltatore. Per quanto anche le pulci saltino.

--Le avremo. I messaggeri creeranno delle stazioni per l'allevamen-

to di altre generazioni di pulci in varie parti del mondo. Anche se

avranno tempo per aspettare lo sviluppo di una generazione sola. Al-

cuni le stanno facendo crescere in viaggio.

--Come fanno a mantenerle in vita?

--Male che vada, hanno pur sempre il loro corpo.

--Quand'è il giorno stabilito?

--Il primo ottobre.

L'attesa si rivelò più faticosa dell'attività, malgrado Sir Howard fa-

cesse il possibile per accelerare lo scorrere del tempo. Si gettò nelle oc-

cupazioni che aveva a disposizione con un'energia feroce, come quan-

do camminò per otto chilometri tenendo in spalla un montone che ave-

va ucciso. Andava poco a pesca. Era un'attività troppo poco

movimentata, e poi c'era la probabilità di arrivare a Sly Pond e trovare

Sally Mitten e Lediacre nella barca che dondolava tranquillamente in

mezzo al laghetto. Non era affatto divertente restarsene orgogliosa-

mente a riva, e dopo la seconda occasione non ne aveva cercate altre.

486 1 487 ~L ~

Preferiva andare al lago di Little Moose con i suoi binocoli da uccelli a

guardare una coppia di falchi pescatori tuffarsi per prendere il pesce.

Leggeva avidamente.

Verso la fine di settembre, quando gli aceri si rivestirono di rosso e

d'oro, giunse Maxwell Baugh per discutere nei dettagli i piani per la

sollevazione dello stato di New York. Sir Howard fu stupito di sapere

che era stato designato per guidare un contingente di cavalleria pesan-

te contro quei saltatori di Albany che non fossero stati colpiti dalle pul-

ci. I piani erano stati elaborati da tempo. Bastava solo infilare gli indi-

vidui al loro posto nello schema.

Sir Howard alzò l'elmo.--Questo--disse--è il bowl. Questa è la

visiera. Questa è la baviera.

--Mamma mia!--esclamò Sally Mitten.--Immagino che anche

tutte le altre parti dell'armatura abbiano il loro nome.

--Guarda, guarda, cara, non dirmi che ho trovato un argomento in

cui ne so più di te? Certo che hanno il loro nome, e hanno tutte la loro

&nzione. E io so tutto.

--Che peccato, Howard.

--Eh?

--Voglio dire che, se vinciamo, le armature cadranno in disuso ab-

bastanza in fretta, vero? Avremo le armi da fuoco.

--Dio mio, non ci avevo pensato! Eppure, credo tu abbia ragione.

--E avremo anche i veicoli a motore. Chi vorrà andare a cavallo

quando si potrà viaggiare in macchina a cento all'ora?

--Mi sa che hai vinto di nuovo, signorina. Ho impiegato degli anni

per imparare a montare a cavallo, a tenere la lancia, a tirare di scher-

ma, a saltare con indosso un'armatura di venti chili. Più stratagemmi

delle mosche intomo a un cavallo morto. E ora contribuisco a rendere

inutili tutte queste preziose conoscenze. Ma direi che ormai è troppo

tardi per rimediare.

--Oh, sono sicura che te la caverai benissimo. Sei un ragazzo pieno

di risorse. A proposito, non sono mai riuscita a capire come facciano a

muoversi i cavalieri con un'armatura completa. Dovrebbero sentirsi

come una tartaruga a pancia in su.

--Non è così difficile. Il peso è ben distribuito, e le giunture e le

placche mobili permettono una certa libertà di movimento. Ma se cer-

chi di salire le scale di corsa ti rendi conto di portare qualcosa addosso.

--Penserei che la maglia di ferro sia preferibile. Non è più leggera e

più flessibile?

--Questo è quello che pensano tutti quelli che non l'hanno mai usa-

ta. A parit~à di protezione, ha quasi lo stesso peso. E c'è l'imbottitura.

--L'imbottitura?

--Sì. Senza quattro o cinque centimetri di imbottitura di cotone

sotto, non serve a molto. Un colpo ti romperebbe le ossa anche senza

trapassarti. E, una volta completata I imbottitura, non è molto più

flessibile di una corazza, ed è anche più calda del caminetto del demo-

nio. La maglia di ferro è adatta per una camicia come quella di Lyman

Haas. Giusto per evitare che qualche simpaticone ti infili un pugnale

tra le costole nel cuore della notte.

Allacciò la fibbia dell'ultimo cinturino, prese l'elmo e si alzò in pie-

di. Il fuoco copriva di bagliori rossi la sua armatura.--Siete pronti,

ragazzi?

--Seee--rispose Cahoon.--Pronti.

--Da mezz'ora--disse Haas.--Così imparo a lasciare tanto tempo

alle aragoste per mettersi il guscio.

--Howard...

--Sì, Sally?

--Volevo dirti una cosa... Sta' attento a non esporti. Chi non ha mai

affrontato un fucile non ha idea di quanto sia mortale.

--Oh. Non preoccuparti. Anch'io ho una paura matta di quei cosi. Ci

vediamo. Spero.

Plop-ptop-plop-plop facevano gli zoccoli. La nebbia si stava alzando sul

Mohawk. Non si vedevano altro che gli uomini dello squadrone e la

strada nera e lucida. La bruma si condensava sulle armature e forma-

va dei rivoletti d'acqua.

Usciti da Schenectady superarono gli alti pennoni della sede delle

telecomunicazioni. Un focherello alla base del pennone più vicino era

un punto arancione nel grigio. Intomo al pennone c'erano tre uomini, e

un quarto era inginocchiato davanti alla base. Stava tranciando un ca-

vo con una mannaia da macellaio. La mannaia faceva chunk. Chunk.

Chunk. Chunk.

--Eccoci a McCormack Corners--disse uno.

--Perché Weier ci porta in giro in questo modo?--chiese un altro.

--Per Colony è più corta.

--Boh. Forse vogliono lasciare libera l'autostrada di Mohawk per

qualcun altro.

Si fermarono. Più avanti si sentì l'acciottolio di molti zoccoli.

--In fila per uno--disse Sir Howard con voce baritonale.--Avan-

Raddrizzarono la fila e videro che un gruppo numeroso di uomini

senza ammatura con le balestre appese alla sella trottava lungo l'auto-

strada di Cherry Valley. Uno di loro gridò:--Ehi, aragoste! Che cosa

siete venuti a fare? Non sarete più utili delle aragoste vere! Siamo noi

che combattiamo sul seriol

--Siamo noi che attacchiamo i saltatori quando sbucano fuori, e voi

taglierete la corda--ribatté uno degli armati.--Visto qualcuno?

--Uno solo--rispose un balestriere.--Vicino a Duanesburg. Mai

vista una cosa tanto ridicola. E rimasto lì sulla sua moto a guardarci

passare. Non ha mosso un dito. Pensava che fossimo solo una fazione

di una guerra locale, credo.

--Fazione di una guerra localel Questa è buona!

--Non ha mosso un dito. Non ha neanche detto: «Alt, Uomini!«.

Scommetto che non si aspettava che Schuyler, davanti, lo infilzasse.

--E allora che cosa ha fatto?

--E caduto e ha squittito per un po'. Poi ha smesso di squittire.

I balestrieri andarono avanti. Stava facendosi giorno. La bruma si

dissolveva. Davanti a loro, il sole rosso sfumato di arancione colorava

allegramente le armature.

--Vedo il grattacielo dell'Ufficio--disse uno.--Dite che dentro ci

saranno dei saltatori?

--Probabile--rispose un altro.--Vanno a lavorare presto. Uno dei

motivi per cui non mi sono mai piaciuti sono i loro orari.

--Secondo te, andare a lavorare alle sette è presto! Dovevi lavorare

in una fattoria, amico.

--Forse ci vedranno.

--Forse. Si accorgeranno che qualcosa non va. Quel generatore elet-

trostatico dovrebbe cominciare a funzionare da un momento all'altro.

--Hanno armi nel grattacielo dell'Ufficio?

--Già. Penso.

--Voglio dire, quelle grosse... Le chiamano artiglieria.

--Be', non siamo a Watervliet.

- No. Ma da Watervliet possono sparare fino ad Albany, se voglio-

- Eh? Non esiste niente che spari così lontano.

--Oh, sì. Possono sparare fino a Kingston se vogliono. Ecco perché

hanno fatto le macchine elettrostatiche. Così i saltatori non possono

dirsi via radio dove sparare.

--Ho sentito che anche noi abbiamo delle armi da fuoco.

--Qualcuna, penso. Un po' le hanno rubate ai saltatori, un po' le

hanno costruite. Il problema è che nessuno sa come farle andare. Ave-

vo pensato di unirmi a una pattuglia armata, e loro mi hanno detto di

tenermi stretto il vecchio stuzzicadenti.

--Di', chi è quella mezza cartuccia che sta davanti con Weier? Quel-

lo con quel cappello strambo.

--Boh. Viene da un posto che si chiama Wyoming. Giù nel Sud, cre-

do.

--Non capisco come fa a correre con quel cappello. Fa troppa resi-

stenza.

--Ehi, non era uno sparo quello?

--Già. Sembra.

--Stanno proprio sparando. Meglio che Weier si sbrighi, o ci perdia-

mo il divertimento.

Ad Albany i vetri tremavano sotto il fuoco incessante, e Sir Howard

condusse la sua pattuglia dietro il palazzo dell'Educazione, di fronte al

grattacielo dell'Ufficio. Lungo tutta Elk Street piccoli gruppi di uomi-

ni erano in attesa. Il cavaliere disse ai suoi uomini di aspettare, smontò

e girò velocemente dietro l'angolo.

Il fuoco proveniva soprattutto dal grattacielo dell'Ufficio. Tutte le fi-

nestre ai piani inferiori del palazzo erano infrante. Gli edifici circo-

stanti vomitavano frecce e dardi. Agli incroci erano state erette delle

barricate. Dietro di esse erano appostati altri balestrieri e alcuni uomi-

ni armati di fucili e di pistole. Eli Cahoon era dietro una delle più vici-

ne. Andava da un uomo all'altro e diceva:--Adesso fa' con calma, fi-

gliolo; premi il grilletto lentamente.--Davanti alle vetrate in frantu-

mi del grattacielo dell'Ufficio giacevano ammucchiati parecchi

saltatori senza elmetti. Una ventina circa di cadaveri erano sparpa-

gliati nella vasta Piazza del Campidoglio. Stava alzandosi il vento.

Sollevava le foglie gialle e marroni ammucchiate nei canali e le faceva

volteggiare allegramente sulla piazza.

Sir Howard scorse un ufficiale, un uomo vestito con un comune abi-

to da caccia con una fascia sul braccio.--Ehi, Bodansky! Sono pun-

tuale, spero.

--Grazie a Dio siete arrivato, Weier! Prendete il comando.

--Cosa?

--Già. Tutta la baracca. Baugh è morto. Ha guidato la carica cer-

cando di sfondare al piano terra. Haverhill non si è visto; non si sa che

fine abbia fatto. E McFee ha avuto il braccio spappolato da una pallot-

tola. Quindi tocca a voi.

--Fiuu! Com'è la situazione?

--Così così. Noi non possiamo entrare, e loro non possono uscire.

Olsen ha liberato le pulci secondo il programma; hanno attaccato qua-

si tutti i saltatori. Ma ne sono rimasti abbastanza per rimettere a qual-

cuno l'elmetto. Quelli che non si erano rimessi l'elmetto sono usciti

dalla porta principale come cretini, e i ragazzi hanno sparato nel muc-

chio. Non credo che riuscirà a farli caricare un'altra volta. Hanno visto

cosa è successo al primo gruppo.

_ E i trasformatori a cono?

t --Ne hanno un paio, ma non possono usarli perché abbiamo tolto

I'energia alla città. Abbiamo preso subito la centrale elettrica. Aveva-

no anche qualche raggio convulsivo, ma di quelli piccoli, che arrivano

a un metro e mezzo. Ecco Greene.--Un altro ufficiale correva verso di

loro.

--Le munizioni dei fucilieri non dureranno molto--ansimò.--Co-

munque la metà è troppo vecchia per funzionare. E stanno sparando a

caso.

--Dite ai fucilieri di cessare il fuoco--ordinò Sir Howard. Si senti-

va allo stesso tempo sbigottito per la responsabilità inaspettata e

straordinariamente importante.--Ci serviranno più tardi.

--Archi e frecce non raggiungono i piani superiori.

--Da qui non possiamo fare molto in ogni caso. Dobbiamo trovare il

modo di entrare nei piani inferiori.--Rifletté un momento. Si aspet-

tavano che tirasse fuori qualche idea brillante. Diversamente, lo

avrebbero considerato un fallimento. Alzò la voce:--Ehi, Eli! Eli Ca-

hoon!

Il vecchio del New England avanzò con passo furtivo.

--Eh?

--Secondo te, sta per alzarsi il vento?

--Mmm. Forse. Non mi stupirebbe.--Guardò il cielo, le foglie svo-

lazzanti.--Nord ovest, tra un'oretta.

--Bene. Bodansky, fate costruire un'altra barricata nel cortile sul

retro del palazzo dell'Ufficio. Usate i mobili, qualsiasi cosa. Dite ai ra-

gazzi di stare sotto, che non gli sparino addosso dai piani alti. Portate

tutte le cassette e i cartoni che trovate in città. Fate un mucchio sul la-

to ovest della barricata. Portate più foglie secche che potete.

--Un falò? Li affumichiamo?

--Sì. E portate tutte le pattumiere di Albany! Gli insegniamo qual-

cosa sugli odori! Ehi, St.John! Faccia uscire i vigili del fuoco. Accen-

diamo un falò, e quando il fumo sarà più denso porteremo i camion sul

marciapiede davanti al grattacielo dell'Ufficio, e i ragazzi useranno le

scale per entrare dalle finestre.

Passò dall'altra parte della piazza da dietro gli edifici, controllando

le disposizioni e parlando con gli ufficiali in difficoltà. C'erano uomini

con l'armatura, uomini in tuta, in borghese. Uomini con ganci da bo-

scaiolo, con l'arco, con coltelli da macellaio legati all'estremità di pali.

C'erano alcuni morti, e ogni tanto veniva portato via qualche ferito.

Il mucchio di combustibili assortiti aumentava, davanti al gratta-

cielo dell'Ufficio. I vigili del fuoco non si vedevano. Ma certo, pensò, so-

no quasi tutti sulla linea del fuoco. Sono stato stupido. Deve pur esser-

ci qualcuno che aggioghi i cavalli. Dovrò trovare qualcuno per legarli.

Dava ordini e gli uomini correvano via, esitavano e tomavano indietro

a farseli ripetere.

Il falò cominciò a crepitare e a fare fumo. Fumava che era una mera-

viglia. C'era quel tanto di brezza sufficiente per avvolgere il grattacie-

lo dell'Ufficio in un velo di fumi perlati, sicché si vedeva solo in parte.

Sir Howard sentì un uomo lì vicino che tossiva, dicendo:--Ma chi dia-

volo vogliono affumicare, noi o i saltatori?

Si udì un ronzio rauco, e una macchina volante passò sopra gli edifi-

ci. Uno dopo l'altro, gli uomini smisero di sparare per fermarsi a guar-

darla ansiosi. Questa disegnò un cerchio e tornò indietro.

--Ci bombardano?--chiese un ufficiale.

--Gli piacerebbe--rispose Sir Howard.--Ma non sanno dove

bombardare. Hanno paura di colpire i loro. Dite ai vostri ragazzi di

stare attenti al grattacielo dell'Ufficio, e di non preoccuparsi dell'ap-

parecchio.

La macchina riapparve, molto più in quota e diretta a nord. Era qua-

si invisibile oltre gli edifici, quando scomparve in un lampo accecante,

come di magnesio. Sir Howard sapeva che cosa stava per succedere, e

aprì la bocca. Lo spostamento d'aria fece barcollare gli uomini, e qual-

cuno cadde. Il cavaliere dopo un momento capì che il tintinnio non era

nella sua mente, ma erano i vetri di migliaia di finestre che andavano

in frantumi.

Dappertutto facce spaventate, parecchi perdevano sangue dal naso.

Avrebbero abbandonato il campo in un momento. Corse davanti alla

linea e spiegò:--Tutto bene! Abbiamo preso Watervliet! Abbiamo

puntato uno dei loro raggi X sulla navicella e abbiamo fatto saltare le

bombe! Va tutto bene!

--Stanno uscendo!--gridò qualcuno.

Sir Howard si guardò intorno. Ora che l'arsenale era perduto, sareb-

be stato logico che i saltatori abbandonassero il campo. Avrebbe dovu-

to trovarsi con il suo squadrone di cavalleria dall'altra parte della

piazza. La sparatoria proveniente dal grattacielo dell'Ufficio era dimi-

nuita. Avrebbe impiegato tutta la giornata per allontanarsi dalla zona

di fuoco. Scavalcò una barricata, quasi cadde sotto il peso dell'arma-

tura, e cominciò a correre attraverso la piazza nel modo strano e bar-

collante di chi indossa un'armatura.

Era quasi in mezzo alla piazza, quando i saltatori schizzarono fuori

dal grattacielo dell'Ufficio uscendo dalle porte principali. Gli era pro-

prio di fronte. Dai fucili che tenevano fra gli artigli partì una scarica di

pallottole. Non fu toccato. Continuò a correre. Dai saltatori partirono

spari a raffica, qualcosa gli colpì la spalla sinistra e rimbalzò via stri-

dendo. Fece un mezzo giro su se stesso e cadde. Grazie a Dio è stata so-

lo una pallottola vagante, pensò. Meglio fare il morto per un po'. Ca-

dendo, gli era sembrato di udire un lamento nell'esercito degli uomini,

ma era tutta presunzione, perché la maggior parte di loro non sapeva

neppure chi fosse. Guardò verso i saltatori con la coda dell'occhio. At-

traversavano la piazza diretti verso gli edifici. Dovevano essere una

cinquantina; minimo erano trentacinque. Dardi sfrecciavano contro

di loro, ma quasi sempre mancavano il bersaglio. Una freccia rimbalzò

sul dorsale di Sir Howard. Dio, pensò, uno di questi idioti non vorrà

uccidermi per sbaglio? I saltatori avevano fatto dietro-front e stavano

tornando da dove erano usciti.

Sir Howard riuscì a rialzarsi. Davanti a lui degli uomini saltavano

giù da una barricata e gli correvano incontro. Indicavano qualcosa gri-

dando. Si guardò intorno. A meno di dieci metri c'era un saltatore. Im-

bracciava una specie di fucile, collegato con dei cavi a una sorta di zai-

no che teneva sulla schiena. Era un fucile a raggio. Scattò stridendo

acutamente e un tratto di luce azzurra superò Sir Howard. Stridette

ancora, ancora. Un paio di quelli che erano corsi verso di lui giacevano

a terra, gli altri stavano scappando. Il fucile stridette di nuovo e il lam-

po terminò sul piastrone della sua corazza. Gli si contrassero tutti i

muscoli e sentì una vibrazione nelle ossa. Ma non cadde. Il fucile stri-

dette di nuovo, di nuovo, con lo stesso risultato. L'armatura lo isolava

dalle scariche. Sguainò la spada e fece un passo verso il saltatore. La

creatura si allontanò attraversando la piazza a grandi balzi seguendo i

suoi compagni che percorrevano saltando State Street.

La gente correva fuori dalle porte e giù dalle finestre e si arrampica-

va sulle barricate. Ora che i saltatori erano in ritirata uscivano abba-

stanza in fretta. Se non avesse allontanato presto la súa cavalleria, la

piazza sarebbe stata invasa dalla folla e loro sarebbero rimasti intrap-

polati come mosche sulla carta moschicida.

Proprio davanti a tutti apparvero Musik, il suo secondo, e Lyman

Haas, che galoppavano lentamente. Il primo portava con sé Paul Jo-

nes. Gli uomini sferragliavano dietro di loro in doppia fila. Sir Howard

gridò:--Forza, ragazzi!--e montò in sella. Frattanto, Haas gridò

--La cavalleria di Pittsfield viene verso nord, dal fiume!

--Non possono passare di qui, digli di fare il giro a sud della città e

di andare a ovest. Devono cercare di tagliare fuori i saltatori! Bene, an-

diamo!--Attraversarono la piazza a passo pesante; gli uomini che

erano appena venuti fuori corsero via come galline spaventate per la-

sciar libero il cammino.

La barricata attraverso State Street a ovest del grattacielo dell'Uffi-

cio non era molto alta, e dietro c'erano solo pochi uomini. Spararono

come forsennati finché i saltatori furono a due salti da loro, poi abban-

donarono il campo sparpagliandosi come quaglie impazzite. I saltato-

ri superarono la barricata con un gran balzo e spararono nella schiena

agli uomini che scappavano. Quando Sir Howard arrivò alla barricata

i saltatori erano ormai lontani, e si vedevano sollevarsi e cadere come

pistoni di un motore. Sir Howard fece passare Paul Jones oltre la barri-

cata. Uno schianto tremendo lo fece voltare sulla sella. Musik e il suo

cavallo si erano rovesciati sul lato ovest della barricata. Si rialzarono

in fretta. Il cavallo di Musik cominciò a inseguire lo squadrone e Musik

gli correva dietro a piedi, gridando:--Torna qui, figlio di un cane!--

mentre l'animale lo distanziava sempre più. Di lontano udirono le si-

rene dei pompieri che infine arrivavano.

Tagliarono attraverso Washington Park e si lanciarono al galoppo su

New Scotland Avenue, tenendo sempre d'occhio i saltatori, ma senza

guadagnare troppo terreno. La gente si riversò nelle strade, tornò in-

dietro quando apparvero i saltatori, uscì nuovamente e corse via di

nuovo quando venne avanti la cavalleria.

Sbucarono nella zona sud ovest di Albany, dove New Scotland Ave-

nue diventava Slingerlands Road. Un tempo vi erano state costruite

delle strade, ma c'erano pochissime case. Più che altro era un grande

spiazzo coperto di erbacce. A sinistra avevano altri cavalieri, presumi-

bilmente uomini del Massachusetts. Si avventavano contro i nemici

con deg~i archi d'acciaio. La combinazione funzionava a meraviglia.

La freccia atterrava il saltatore, e quando le aragoste di Sir Howard ci

erano passate sopra dando un colpo di lancia, la cosa non sembrava

più un saltatore. Non sembrava più niente in particolare.

I saltatori si stavano sparpagliando. Gli uomini, privi di ordini, si di-

videvano per dare loro la caccia. Sir Howard si ritrovò solo a rincorre-

re un saltatore. Si chiese che cosa avrebbe fatto se il saltatore avesse

raggiunto il limite dell'altopiano su cui sorge Albany prima di riuscire

a catturarlo. Non poteva lanciare al galoppo Paul Jones sul pendio che

finiva a Normans Kill. Ma il saltatore sembrava andare piano. Nel rag-

giungerlo, Sir Howard si accorse che aveva una freccia conficcata nel-

la coscia.

Sir Howard strinse la lancia e mirò al saltatore. Questi si voltò e alzò

una pistola. La pistola sparò e qualcosa si staccò dal fianco del cavalie-

re. Gli sembrò che gli venisse tolta la sella di sotto, e cadde nell'erba

sulla schiena. Per un momento il fianco gli diede un dolore insopporta-

bile, da morire.

A causa dell'erba che lo circondava fitta come una foresta, non ci ve-

deva. Vedeva solo il saltatore fermo davanti a lui. Il saltatore alzò di

nuovo la pistola. La pistola fece cilecca. Se riesco ad alzarmi posso fi-

nirlo prima che la ricarichi, pensò Sir Howard. Cercò di mettersi a se-

dere, ma la corazza lo tirava giù. Il saltatore stava ricaricando la pisto-

la, e lui non poteva alzarsi. Sentiva un rumore di zoccoli, ma sembra-

vano lontani mille miglia. Oh, Dio, pensò, perché devo morire proprio

adesso? Non potevo morire subito? Il saltatore fece scattare la pistola e

l'alzò un'altra volta. Il fianco gli faceva un male insopportabile; stava

per morire all'ultimo momento.

Allora si sentirono degli zoccoli, vicini, e qualcosa di serpentino sibi-

lò nell'aria avvolgendo il saltatore. La pistola sparò, ma il saltatore

stava balzando via in posizione grottesca. Fece un ultimo balzo e sparì

tra l'erba.

Il dottore sulla soglia disse:--Si rimetterà. E solo una costola rotta.

Una pallottola ha attraversato la corazza e gli ha scalfito il fianco. Le

due estremità della frattura lo hanno tagliato leggermente quando è

caduto. Certo che potete vederlo.

Allora entrarono tutti: Elsmith e Sally Mitten e Lyman Haas ed Eli

Cahoon e Lediacre. Il francese era tutto sporco ed era bendato sopra

l'orecchio sinistro. Fu molto comprensivo.

Tutti cercarono di parlare nello stesso momento. Sir Howard chiese

come stava andando. Elsmith rispose:--Bene. Abbiamo saputo dalla

radio - abbiamo spento le macchine elettrostatiche - che tutte le sta-

zioni radio di New York sono state prese. Dovevano esserci almeno

mille saltatori nel grattacielo della RCA, ma hanno montato alcuni can-

noni pesanti a Columbus Circle e li hanno spazzati via. Per quanto ne

so, tutte le piazzeforti dei saltatori nel Nordamerica sono state cattu-

rate. Ci sono ancora dei saltatori allo sbando ma li uccidono a vista.

"Parecchi resistono ancora in Africa, ma un ésercito arabo si sta pre-

parando ad affrontarli, equipaggiato completamente con le armi dei

saltatori. Hanno anche trovato qualcuno disposto a rischiare di pilota-

re le loro macchine volanti. In Mongolia non sono mai arrivate le pulci

ma laggiù ce n'erano pochissimi. Anche in altri posti è pressappoco ló

stesso. Alcuni sono fuggiti con le macchine volanti, usando le bombe e i

raggi. Per esempio, hanno raso al suolo Louisville. Ma alla fine sono

dovuti atterrare, e hanno trovato solo ostilità. Dove è stato liberato il

quantitativo maggiore di pulci e tutti i saltatori si sono levati l'elmet-

to, come a Watervliet, sono stati uccisi esseri indifesi. Sto cercando di

salvarne alcuni."

--Perché?

--Senza l'elmetto sono delle creature piuttosto inoffensive, e abba-

stanza interessanti. Sarebbe una vergogna sterminarli completamen-

te. Dopotutto, loro potevano farlo e non l'hanno fatto.

--Lyman! Certamente mi hai salvato la pelle!

--Una cosa da niente, davvero. Però è stato un bel tiro. Avevo finito

tutte le frecce. Ho rotto il collo al saltatore con un colpo solo. Mi sa che

quell'elmetto lo ha fatto concentrare troppo su di te, se no mi vedeva.

E il tiro più lungo che ho mai fatto con una corda. Peccato solo che

quando torno a casa non ci credono. Dovrò portare la corda per farglie-

la vedere.

--Come hai fatto ad arrivare proprio al momento giusto?

--Oh, ti ho raggiunto. Quei cavalli da tiro che usate sono peggio del-

le tartarughe. Non capisco perché non usate le tartarughe invece dei

cavalli. I gusci fermerebbero le frecce e tutto, e non avreste ;I problema

di cadere per il vento.

Ad Albany probabilmente ci sarà sempre un albergo Ten Eyck. Erano

nel salone del quinto palazzo con quel nome.

--Vai via, Howard?--chiese Sally Mitten.

--Già.--Sapeva che era l'ultimo addio. Cercò di assumere un tono

spiritoso e mondano.--Dovrò dare un'occhiata a come vanno le cose,

giù a Poughkeepsie. Anche tu ed Elsmith andate via, no?

--Sì. Prendiamo il battello per New York stasera. Salpiamo alle no-

ve, venti permettendo. Non ho mai fatto il viaggio sull'Hudson.

--Cosa farete?

--Qualcuno sta già dicendo di creare zio Homer conte, o re, chissà.

Ma a lui non va. Organizzerà un'università. E quello che ha sempre de-

siderato. E io sono ancora la sua segretaria. Che cosa conti di fare? Tor-

nerai a fare il gentiluomo di campagna?

--Non te l'ho detto? Abbiamo avuto tanto da fare tutti e due. Ho

una carriera davanti! Sai quei libri che ho letto quando eravamo al

campo? Be', mi hanno insegnato a pensare. Per trecento anni siamo ri-

masti fermi all'organizzazione politico-sociale che i saltatori ci hanno

imposto - anch'io me la cavo bene con le parole del vocabolario, eh?

- e non l'hanno creata perché avevano a cuore il nostro benessere, o

perché volevano che la nostra posizione sociale migliorasse. L'hanno

scelta perché era la forma più stagnante che avessero trovato nella no-

stra storia. Voglio dire che il nostro... uhm... feudalesimo sintetico ha il

dinamismo di una lumaca con l'artrite. Perciò ho pensato che sarebbe

una bella idea provare con questo governo del popolo. Senza classi,

tutti compagni, come eravamo io e Lyman.

--Sono così contenta. Avevo paura che volessi tornare ai vecchi me-

todi.

--Pensavo che avresti approvato. Sai già come andrà: una lotta sel-

vaggia per il potere, tutti i baroni e i marchesi che cercheranno di farsi

la pelle a vicenda. Sai quale sarà il loro slogan: lo stato di New York

per quelli di New York, Saratoga per quelli di Saratoga e Katerskill

Junction per i vattelapesca. Ma io vorrei vedere tutto il continente sot-

to un solo governo popolare. Una volta era così. O anche tutto il mon-

do, se un giorno ci si riuscirà. Certo, molti dei nostri signorotti non sa-

ranno d'accordo. Quindi ho già un lavoro pronto. Non mi aspetta una

vita molto tranquilla.

--Come farai?

--Abbiamo già cominciato. L'altra notte ci siamo riuniti, io e altri

che la pensano come me, soprattutto membri dell'Organizzazione, e

abbiamo formato un Comitato di Organizzazione Politica per lo Stato

di New York. coPsY in breve. Mi hanno eletto presidente.

--Ma è meraviglioso!

--Be', forse anche perché sono stato io a organizzare la riunione. Ho

fatto anche un discorso.

--Non sapevo che sapessi fare i discorsi.

--Neanch'io. Ero lì e ho cominciato a dire «Ah... ah~. Poi ho pensa-

to, diamine, questi non sono qui per sentirmi dire «Ah... ah«. Così gli

ho raccontato quello che ho passato, cosa che sapevano quanto me, e

com'era in gamba il defunto Maxwell Baugh. Poi ho ripetuto certe cose

che avevo letto nei libri, e ho detto che tanto valeva lasciare i saltatori

al potere se non avevamo intenzione di cambiare niente. Poi hanno

cercato di portarmi in trionfo.

--Oh, Howard, perché non li hai lasciati fare?

--Ero anche d'accordo. Solo che uno di loro era il piccolo Fitzmar-

tin, I'inventore della macchina elettrostatica - a proposito, si chiama

Mudd - e non era proprio in grado di reggere la sua parte dei miei no-

vanta e passa chili. Così si è ritrovato subito sul pavimento con me so-

pra.

Lei rise.--Avrei voluto esserci!

Anche lui rise, malgrado non ne avesse nessuna voglia. Si sentiva da

cani. Era un malessere tutto particolare, che non aveva mai provato.

--Sembra proprio che io sia tagliato per la politica. Diamine, quando

penso all'ignorante che ero! Forse questa è l'ultima volta che porto la

vecchia armatura.--Accarezzò l'insegna della foglia d'acero sul pia-

strone.--Ho paura che mio padre non sarà d'accordo col mio pro-

gramma, mi sembra di sentirlo, quando inveisce contro i traditori del-

la loro classe. Ma non c'è niente da fare.

--Fai il viaggio a cavallo?

--Sì. La costola è quasi a posto, anche se ho addosso tanto di quel-

I'adesivo da fermare il proiettile di una Remington superpotente. Non

mi dà fastidio, ma non voglio pensare a quando me lo tireranno via.--

Dai, pensò, Van Slyck, star qui a chiacchierare è molto peggio. Falla fi-

nita.

--Potresti prendere un veicolo dei saltatori, penso.

--Grazie, ma finché non avrò imparato a guidare da solo, non voglio

rischiare il collo con qualche pivello che pensa di saper guidare solo

perché lo ha visto fare.--Aggiunse:--Ci siamo divertiti, vero?

--Sì, davvero.

Ormai era ora di andare. Aprì la bocca per dirle addio. Ma lei chiese:

--Pensi di venire a New York?

--Oh, certo, ci sarò spesso, per la politica.

--Verrai a trovarmi?

--Come no, ehm, certo, penso di sì.

--Se non ne hai voglia, non sei obbligato.

--Oh, ma certo che voglio. Lo voglio come un pesce vuole l'acqua.

Ma, sai... se tu e monsieur Lediacre... forse non vorreste...

Restò interdetta, poi scoppiò a ridere.--Howard, idiota! Etienne in

Francia ha una moglie e quattro figli che adora. Ogni volta che può mi

prende da parte e mi parla di loro. Etienne è un caro amico, ti darebbe

anche la camicia. Ma è una tale barba con la sua cara piccola Josette, e

il suo meraviglioso piccolo René; un bambino così intelligente, un pro-

digio! Le ultime settimane al campo, poi, sono state proprio un disa-

stro. Speravo sempre che tu ci mettessi il naso per interrompere queste

sviolinate, e non lo facevi mai.

--Be', che... che... che mi venga...

--Ma stavi davvero per dirmi addio per sempre solo per questo?

Non avrei mai più potuto guardare le foglie degli aceri d'autunno sen-

za pensare a te.

--Ma io... in questo caso verrò di sicuro. Pensavo di essere lì fra un

paio di settimane; è... Al diavolo! Dove posso trovare un biglietto per la

nave? Non importa, in albergo c'è un'agenzia. Spero che imbarchino i

cavalli, il mio lo imbarcheranno, dovessi portarlo a bordo di nascosto

nella borsa. Vedo che devo recuperare un po' del tempo perduto. Sally,

una volta hai detto che pensavi che avessi un po' di cervello. Be', non

sarò un gran genio come tuo zio Homer. Ma credo di avere abbastanza

buon senso per non fare due volte lo stesso sbaglio, grazie a Dio! Per di

più, penso di sapere come fare per vendicarci perfettamente del nostro

amico Lediacre.

--Ma come, Howard? Non è colpa sua, poveretto...

--No. E un simpaticone e tutto. Ma un giomo o I'altro--sorrise ri-

soluto--sarà un vero piacere chiuderlo in un angolo e somministrar-

gli una bella dose della sua stessa medicina!

Titolo originale: Divide and rule.

Traduzione di Anna Pensante.

Jack Wiltiamson

LUPI DALLE TENEBRE

Le tracce nella neve

Involontariamente mi fermai, rabbrividendo, sul piazzale coperto di

neve della stazione. Un suono strano, misterioso e in un certo senso

terrificante, riempiva il chiarore spettrale della luna in quella notte

d'inverno. Era un ululato tremolante e lontano che si ripercuoteva sul

mio corpo con brividi ben più freddi del penetrante morso dell'aria

immota e ghiacciata.

Sapevo che quel suono lugubre che lacerava i nervi doveva essere

l'ululato dei lupi grigi, chiamati anche lobo, sebbene non li avessi più

sentiti da quando ero piccolo. Ma questo suono conteneva una nota di

terrore puro che nemmeno le tremanti apprensioni della fanciullezza

avevano mai colto nella voce dei grandi lupi. C'era un non so che di

acuto, di spezzato, in quel lamento arcano, che proveniva da un punto

remoto in un pulsare ritmico. Era qualcosa che induceva a pensare

che l'ululato giungesse da gole umane tese in uno sforzo inumano...

Lottando con me stesso per liberarmi da quel frutto della mia im-

maginazione, mi affrettai attraverso il piazzale ghiacciato precipitan-

domi nella squallida sala d'aspetto. Il locale era ben illuminato da al-

cune semplici lampadine e una stufa rovente lo riempiva di un calore

piacevole. Io, a ogni modo, ero più contento di aver lasciato all'esterno

quell'ululare lontano che di aver trovato il tepore di un riparo.

Accanto alla stufa sedeva un uomo alto, completamente assorto con

attenzione febbrile a fare un solitario con delle carte da gioco unte, di-

sposte su una cassetta da imballaggio che stringeva tra le ginocchia.

L'uomo portava un giubbotto di pelle sformato e lucido per l'eccessivo

uso. Una guancia abbronzata era rigonfia di tabacco, e le labbra erano

striate di macchie color ambra.

Sembrò stranamente colto di sorpresa dalla mia entrata improv-

visa, e con un brusco sussulto spinse via la cassetta, balzando in piedi.

Per un istante i suoi occhi mi fissarono ansiosi, poi sembrò sospirare

di sollievo. Aprì lo sportello della stufa e dopo aver sputato sulla fiam-

ma crepitante tornò a sedersi.

--Salve, signore--disse con un tono strascicato leggermente forza-

to e rauco.--Mi ha quasi spaventato. Ci ha messo tanto, a entrare, che

io credevo non fosse sceso nessuno.

--Mi sono fermato ad ascoltare i lupi--gli spiegai.--Un suono si-

nistro, vero?

Mi rivolse uno sguardo indagatore con occhi strani e apprensivi, re-

stando a lungo in silenzio. Poi esordì in modo sbrigativo:--Be', cosa

posso fare per lei?

Mentre avanzavo verso la stufa aggiunse:--Sono Mike Connell, il

capostazione.

--Io sono Clovis McLaurin--mi presentai.--Dovrei rintracciare

mio padre, il dottor Ford McLaurin. Abita in una fattoria da queste

parti.

--Ah, lei è il figlio del dottor McLaurin, eh?--disse Connell, assu-

mendo un atteggiamento visibilmente cordiale. Si alzò e sorrise, spo-

stando la cicca di tabacco all'altra guancia, e mi strinse la mano.

--Sì. L'ha visto di recente? Tre giorni fa ho ricevuto da lui uno stra-

no telegramma. Mi chiedeva di venire subito. Pare che si trovi in qual-

che guaio. Ne sa niente lei?

Connell mi guardò con un'espressione poco chiara.

--No--rispose alla fine.--Ultimamente non l'ho visto. Sono due

o tre settimane che nessuno della fattoria si fa vivo qui a Hebron. Ve-

de, sono anni che non viene giù una nevicata come questa, e non è faci-

le andare in giro. Però non so proprio come hanno fatto a mandare un

telegramma senza venire giù in città. E qui non li ha visti nessuno.

--Lei conosce di persona mio padre?--chiesi io, allarmandomi ul-

teriormente.

--Be', no... non proprio--ammise il capostazione.--Ma l'ho visto

abbastanza spesso quando è venuto qui a Hebron con Jetton e la figlio-

la di Jetton. C'è parecchia roba per loro, qui alla stazione. Scatole e

casse... dai marchi si direbbero apparecchiature scientifiche, ma di

preciso non saprei. Però quella Stella Jetton è un bel pezzo di ragazza,

davvero una meraviglia.

--Sono tre anni che non vedo mio padre--dissi confidando nel ca-

postazione, nella speranza di guadagnarmi la sua comprensione e di

ottenere qualsiasi eventuale aiuto potesse offrirmi per raggiungere il

ranch attraversando l'insolita coltre nevosa che ammantava le piane

del Texas occidentale.--Sono stato in un istituto di medicina nel-

I'Est, e non vedo mio padre da quando è venuto qui nel Texas tre anni

fa.

500 1 501 ~

--Lei è dell'Est, eh?

--New York. Ma ho passato un paio d'anni qui con mio zio, quan-

d'ero piccolo. Il babbo ha ereditato la fattoria da lui.

--Sì, lo so. Il vecchio Tom McLaurin era amico mio--mi spiegò il

capostazione.

Erano trascorsi tre anni da quando mio padre aveva lasciato la catte-

dra di astrofisica di un'università dell'Est, per venire in questo ranch

isolato e condurre i suoi nuovi esperimenti. L'eredità di suo fratello

Tom, oltre alla fattoria, comprendeva una piccola fortuna in denaro

così mio padre aveva potuto rinunciare alla propria occupazione acca-

demica e dedicarsi interamente ai problemi astrusi su cui stava lavo-

rando.

Interessandomi maggiormente della scienza medica che di quella

matematica, io non avevo seguito completamente il lavoro di mio pa-

dre, sebbene di solito l'avessi aiutato nei suoi esperimenti quando di-

sponeva solo di un piccolo appartamento e di misere attrezzature Sa-

pevo, a ogni modo, che aveva elaborato uno sviluppo della geometria

non-euclidea di Weyl in una direzione del tutto differente da quelle

scelte da Eddington e da Einstein, e che conduceva a implicazioni ri-

guardanti la struttura del nostro universo davvero stupefacenti. La

sua nuova teoria dell'elettrone onda, che completava lo smantella-

mento della struttura atomica planetaria di Bohr, era stata altrettan-

to sensazionale.

La prova richiesta dalla sua teoria era il confronto esatto della velo-

cità di raggi di luce ad angoli retti. Per l'esperimento si rendeva quin-

di necessaria la disponibilità di un vasto spazio all'aperto, e che posse-

desse un'atmosfera limpida, priva di polvere o di fumo. Da qui la scel-

ta di mio padre circa l'utilizzazione della fattoria come luogo in cui

portare a compimento il lavoro.

Dato che io desideravo restare all'istituto universitario e non ero in

grado di aiutarlo ulteriormente, mio padre aveva scelto come suo assi-

stente e collaboratore il dottor Blake Jetton, anch'egli studioso di fa-

ma grazie ai suoi notevoli studi sulla propagazione della luce e sulle

recenti modifiche della teoria quantistica.

Il dottor Jetton, come mio padre, era vedovo. Aveva un'unica figlia

di nome Stella, che trascorreva parecchi mesi dell'anno insieme a loro

al ranch. Sebbene non l'avessi vista che rare volte, potevo senza dub-

bio dichiararmi d'accordo con il capostazione circa il fatto che fosse

una ragazza graziosa, anzi la ricordavo come una fanciulla dotata di

notevole avvenenza.

Tre giorni prima avevo ricevuto il telegramma da mio padre. Si tratta-

E~4 va di un messaggio allarmante, formulato in modo strano, in cui mi

implorava di raggiungerlo senza perdere un solo istante. Diceva che la

sua vita era in pericolo, sebbene non accennasse minimamente alla

natura di questo pericolo

Incapace di comprendere pienamente il messaggio, mi ero affrettato

a raccogliere alcuni effetti personali strettamente necessari, tra i quali

non avevo tralasciato di mettere una piccola pistola automatica, e

senZa indugio ero salito sul primo treno espresso. Avevo trovato la di-

stesa del Texas Panhandle coperta da quasi trenta centimetri di neve;

un inverno così rigido non si registrava da diversi anni. E quando ero

sceso dal treno nel villaggio solitario di Hebron ero stato accolto da

quei terribili e misteriosi ululati.

--Era un telegramma urgente, molto urgente--dissi a Connell.

--Devo raggiungere il ranch stanotte, se è appena possibile. Lei non

sa come potrei arrivarci?

Per un po' Connell rimase silenzioso, guardandomi con un'espres-

sione che tradiva una certa paura.

--No non saprei--rispose poi.--Ci sono quindici chilometri da

qui al ránch. E lungo la strada è tutto deserto, non c'è anima viva. C'è

quasi mezzo metro di neve, e non credo che un'auto ce la farebbe. Po-

trebbe farsi dare uno strappo da Sam Judson col suo carro, domani.

--Pensa che mi porterebbe là anche adesso?

Il capostazione scosse la testa a disagio; guardò nervosamente il de-

serto di neve che brillava sotto la luna fuori dalle finestre, e sembrò

mettersi in ascolto carico d'ansia.

Io stesso riuscii a fatica a reprimere un brivido.

--No, penso proprio di no!--esclamò poi Connell all'improvviso

_ Da un po' di tempo non è troppo salutare uscire di notte in quest

paraggi-

S'interruppe un istante; poi, lanciandomi una fuggevole occhiata in-

quieta, mi domandò di colpo:--Penso che abbia sentito quell'ululato,

vero?

--Sì. Lupi?

--Hmmm, sì... credo di sì. Strano. Maledettamente strano! Sono

dieci anni che non si vede un loafer da queste parti. Hanno cominciato

a farsi sentire proprio dopo l'ultima bufera di neve.

(Loafer, a quanto pare, era un termine locale derivato dalla parola

spagnola lobo che indicava appunto il lupo grigio della prateria, un

animale molto più grosso del coyote e un nemico temuto da tutti i ran-

cheros del Sudovest finché non era stato quasi completamente stermi-

--Pare che ci sia un branco intero di quelle bestie che se ne va a cac-

cia qui attorno--proseguì Connell.--Hanno ucciso un bel po' di be-

stiame nelle ultime settimane, e...--s'interruppe, abbassando la voce

--...e anche cinque uomini!

--I lupi hanno ucciso delle persone?--esclamai.

--Sissignore--disse il capostazione lentamente.--Josh Wells e il

suo aiutante sono stati uccisi circa due settimane fa... sì, con venerdì

saranno due settimane giuste. Li hanno uccisi mentre erano fuori nel-

la prateria. Poi è toccato ai Simms. Il vecchio, sua moglie e la piccola

Dolly. Li hanno attaccati proprio fuori dal recinto delle mucche, cre-

do, mentre stavano mungendo. Abitavano a tre chilometri dal paese.

Rufe Smith è andato a trovarli domenica. Nel recinto c'erano delle be-

stie morte e c'erano i secchi del latte tutti sfasciati in un mucchio di

neve sotto la tettoia. Di Simms e della sua famiglia nemmeno l'ombra,

invece!

--Non ho mai sentito dire che i lupi attaccassero la gente in questo

modo!

Connell spostò nuovamente la cicca di tabacco e mormorò:

--Neanch'io. Ma vede, signore... questi non sono lupi comuni!

--Come sarebbe a dire?

--Be', dopo che i Simms erano spariti ci siamo riuniti in una specie

di squadra di volontari e siamo andati a caccia di quelle bestiacce. Di

lupi non ne abbiamo trovati, però abbiamo trovato delle tracce nella

neve. Di giorno non c'è in giro nemmeno l'ombra di un lupo!

--Be', c'erano 'ste impronte nella neve--ripeté lentamente.--E

vede, signore, quelle tracce di lupo, maledizione, erano troppo lontane

l'una dall'altra per essere quelle di una bestia comune. Quelle bestie

devono fare dei balzi di una decina di metri!

Dopo di che Connell piombò in silenzio, fissandomi con una strana

espressione.

Io ero sconvolto. Naturalmente c'erano alcuni elementi d'increduli-

tà nelle mie sensazioni, ma il capostazione non mi sembrava per nulla

il tipo che ha appena finito di abbindolarti con una riuscita storiella

fantasiosa, dato che i suoi occhi rivelavano un terrore autentico. E poi

ricordavo di aver creduto di riconoscere dei toni umani negli strani

ululati che avevo udito in lontananza.

Non c'era alcuna buona ragione per cui potessi credere di trovarmi

semplicemente di fronte a una superstizione locale. Per quanto diffuse

possano essere le leggende sulla licantropia, deve ancora giungermi

notizia di un racconto di lupi mannari narrato da un texano dell'O-

vest. Il racconto del capostazione era stato troppo particolareggiato e

ricco di elementi concreti perché io fossi indotto a ritenerlo una fanta-

sia infondata o una paura radicata segretamente nel profondo.

--Il messaggio di mio padre era urgentissimo--ripetei a Connell.

--Devo assolutamente raggiungere la fattoria stasera. Se l'uomo di

cui mi ha parlato non vorrà portarmi, noleggerò un cavallo e andrò da

solo.

--Se Judson accetta di uscire al buio con quei lupi in giro è proprio

un imbecille!--disse con tono convinto il capostazione.--Ma niente

le impedisce di chiederglielo. Dovrebbe essere ancora alzato, a que-

st'ora. Abita in quella casa bianca, appena girato l'angolo dietro il ne-

gozio di Brice.

Connell mi seguì verso il piazzale per indicarmi la strada. Non ap-

pena la porta fu aperta, sentimmo di nuovo il ritmico, intenso ululato

proveniente da lontano attraverso la candida distesa nevosa. Non riu-

scii a reprimere un brivido. E dopo avermi indicato la casa di Sam

Judson, tra le poche sparse abitazioni che costituivano il villaggio di

Hebron, Connell rientrò in tutta fretta nella stazione, chiudendosi la

porta alle spalle.

Il branco sotto la luna

Sam Judson possedeva e coltivava una tenuta che distava quasi un

chilometro e mezzo da Hebron, ma aveva trasferito la propria abita-

zione nel villaggio in modo che sua moglie potesse occuparsi dell'uffi-

cio postale. Mi affrettai verso la casa di Judson attraversando strade

ghiacciate, felice che Hebron potesse permettersi il lusso dell'illumi-

nazione elettrica. L'ululare distante del branco di lupi mi riempiva di

una paura vaga e inspiegabile, ma non diminuiva la mia determina-

zione di raggiungere il ranch di mio padre il più presto possibile, per

risolvere l'enigma del telegramma che mi era stato inviato.

Quando bussai alla porta, Judson venne ad aprire. Era un uomo cor-

pulento che indossava una tuta rattoppata di un azzurro sbiadito e

una camicia di flanella marrone. Era quasi completamente calvo, e la

sua testa nuda e abbronzata sembrava una striscia di cuoio scuro. Il

volto, largo, era coperto da una barba nera che doveva avere parecchie

settimane di vita. Judson mi squadrò in viso con un misto di nervosi-

smo e di paura.

Mi condusse nella cucina posta sul retro della casa, una stanzetta

squallida con le pareti coperte da una serie disordinata di pentole e

padelle. La cucina economica era accesa; a quanto pare Judson dove-

va essere stato seduto tenendo i piedi appoggiati nel forno, intento a

leggere un giornale gettato ora sul pavimento.

Mi fece accomodare su una sedia scricchiolante e io mi presentai.

Disse che conosceva mio padre, il dottor McLaurin, dato che ritirava

la posta nella stanza anteriore adibita appunto a ufficio postale. Ma

aggiunse che da tre settimane non si era fatto vivo nessuno del ranch,

forse perché la neve rendeva gli spostamenti difficoltosi. Mi spiegò che

ora al ranch vivevano cinque persone: mio padre, il dottor Jetton e sua

figlia Stella, e due meccanici provenienti da Amarillo.

Gli parlai del telegramma ricevuto tre giorni addietro e Judson sug-

gerì che forse mio padre poteva essere venuto in paese di sera, imbu-

cando il telegramma all'ufficio telegrafico con il denaro necessario per

l'invio. Ma ritenne strano che non avesse parlato con nessuno, e che

nessuno l'avesse visto.

Allora dissi a Judson che desideravo mi portasse subito al ranch, e

alla mia richiesta il suo atteggiamento cambiò: sembrava maledetta-

mente spaventato!

--Non ha poi così fretta da voler partire stanotte, vero, signor

McLaurin?--domandò.--Possiamo sistemarla nella stanza libera, e

domani la porterò al ranch con il carro. Il viaggio è lungo, per farlo di

nolte.

--Sono molto ansioso di arrivare al ranch--gli spiegai.--Sono

preoccupato per mio padre. C'era qualcosa che non andava quando mi

ha telegrafato. Qualche guaio serio. La pagherò più che adeguatamen-

te, e vedrà che ne vale la pena.

--Non si tratta di soldi--mi disse.--Sarei felice di farlo gratis per

il figlio del dottor McLaurin. Ma penso che li abbia sentiti anche lei i

lupi, vero?

--Sì, li ho sentiti. E Connell, alla stazione, mi ha detto alcune cose

in proposito. Hanno proprio attaccato degli uomini?

--Sì.--Per alcuni istanti Judson rimase in silenzio, e il suo viso

ispido mi fissò con due occhi strani. Poi riprese:--E non è tutto qui.

Alcuni di noi hanno visto le tracce. E c'erano anche impronte di uomi-

ni!

--Ma io devo raggiungere mio padre--insistetti.--Dovremmo es-

sere abbastanza al sicuro in un carro, e poi lei avrà un'arma, vero?

--Sì, d'accordo... ho un fucile--ammise Judson.--Ma non è che

abbia molta voglia di trovarmi di fronte ai lupi!

Mi ostinai: alla fine, quando gli offersi cinquanta dollari per il viag-

gio, lui cedette. Ma disse che lo faceva, e io gli credetti, più per cortesia

verso un amico che per denaro.

Andò nella stanza da letto, dove sua moglie stava già dormendo, la

svegliò e le spiegò che si apprestava a darmi un passaggio. La donna

era piuttosto spaventata, come ebbi occasione di giudicare dal tono

della voce, ma si calmò sentendo del guadagno di cinquanta dollari.

Allora si alzò - era un tipo alto ed estremamente bizzarro in camicia

da notte color porpora e cuffietta intonata - e si affaccendò a prepa-

rarci un po' di caffè sulla stufa ancora calda e a trovarci qualche co-

perta perché potessimo avvolgercela addosso sul carro, dato che la

notte era freddissima. Nel frattempo Judson accese una lampada a ke-

rosene, che era quasi inutile nel riflesso brillante della luna, e si recò

nella stalla dietro casa per preparare il veicolo.

Mezz'ora dopo stavamo uscendo dal villaggio a bordo di un carro leg-

gero tirato da due cavalli storni. I loro zoccoli affondavano nella cro-

sta superficiale di neve a ogni passo, e le ruote del carro facevano al-

trettanto, scavando un solco in cui si infilavano saldamente producen-

do un curioso scricchiolio. La nostra avanzata era lenta, e io mi

preparai subito a un viaggio di parecchie ore.

Sedevamo vicini sul sedile a molle, pesantemente infagottati e con

delle coperte che ci riparavano stese sulle ginocchia. L'aria aveva un

morso pungente, ma non c'era vento, quindi pensai che in fondo non

potevo lamentarmi. Judson si era legato alla cintura un vecchio revol-

ver, e inoltre disponevamo di una doppietta e di un fucile a ripetizione

che stavano appoggiati contro le nostre ginocchia.

Una volta fuori dal villaggio di Hebron, ci trovammo circondati su

ogni lato da una candida distesa di neve quasi perfettamente liscia.

Era interrotta soltanto dalla fila insignificante di paletti che sostene-

vano i reticolati e che a quanto pareva rappresentavano per Judson

l'unico punto di riferimento. Il cielo era inondato da un'opalescenza

spettrale, e sulla neve sfavillavano milioni di diamanti di gelo.

Per circa un'ora e mezzo non si verificò nulla degno di nota. Le luci

di Hebron impallidirono e a poco a poco svanirono alle nostre spalle.

Non incontrammo alcuna abitazione lungo quel deserto di neve scon-

finato. L'impressionante ululato, a ogni modo, si faceva sempre più in-

tenso.

Poi quei lamenti misteriosi cambiarono d'un tratto posizione. Jud-

son al mio fianco rabbrividì e parlò nervosamente ai due storni che ar-

rancavano a fatica nella neve. Poi si voltò verso di me e disse conciso:

--Credo che stiano arrivandoci alle spalle, signor McLaurin.

--Be', in questo caso lei può sempre tirarsene dietro qualcuno, per

scuoiarlo domani--gli risposi. Le mie intenzioni erano state quelle di

mettergli un po' di buon umore, ma la mia voce era stranamente bru-

sca, e aveva un tono che suonava falso perfino alle mie orecchie.

Per alcuni minuti avanzammo in silenzio.

All'improvviso notai un cambiamento negli urli del branco.

Quel ritmo strano e profondo si fece improwisamente più concitato.

Quei lugubri lamenti sembrarono cedere il posto a rapidi guaiti di

bramosia, un suono che aveva in sé un elemento ventriloquiale che ci

impediva di individuare esattamente la direzione di provenienza. Le

note rapide e smaniose sembravano giungerci da una dozzina di punti

sparsi lungo la distesa candida alle nostre spalle.

I cavalli si allarmarono. Drizzarono le orecchie e guardarono indie-

tro, riprendendo il cammino con rinnovata foga. Vidi che gli animali

stavano tremando. Uno di loro sbuffò di colpo. Quel rumore inaspetta-

to urtò i miei nervi già strapazzati, e io mi afferrai in maniera convul-

sa alla sponda del carro.

Judson impugnava saldamente le redini e si puntellava con i piedi

contro il cassone del veicolo, parlando sommessamente ai due storni

spaventati per calmarli. Se non fosse stato per questo, forse, si sareb-

bero già dati alla fuga.

Si voltò verso di me e disse in un mormorio:--Di lupi ne ho sentiti,

ma non fanno certi ululati. Questi non sono i soliti lupi!

E ascoltando i latrati del branco capii che aveva ragione. Quegli

ululati avevano una sfumatura insolita e aliena, una caratteristica in-

trinseca che non apparteneva a questa terra. E difflcile farne una de-

scrizione, perché era qualcosa di completamente estraneo. Mi balenò

nella mente, allora, che se fossero esistiti dei lupi negli antichi deserti

di Marte, morti da secoli, forse avrebbero potuto produrre simili la-

menti, mentre si lanciavano all'inseguimento di una creatura indifesa

spingendola verso una morte crudele.

--Credo che siano alle nostre calcagna--disse improvvisamente

Judson, con voce sommessa e stentorea.--Guardi dietro di noi, signo-

re.

Mi voltai sul sedile a molle, scrutando l'immenso pianoro desolato di

neve abbagliante. Per alcuni minuti tesi invano lo sguardo, sebbene

l'urlo terribile del branco invisibile crescesse rapidamente d'intensità.

Poi scorsi delle macchioline grigie che spiccavano balzi, molto lon-

tane dietro la pista del carro. Normalmente un lupo avrebbe dovuto

arrancare a fatica attraverso la spessa coltre nevosa, dato che la crosta

superficiale non era abbastanza solida per sostenerne il peso notevole.

Ma le cose che io vedevo, agili ombre grigie dalla forma indefinita,

avanzavano invece a grandi balzi, con una velocità stupefacente.

--Li vedo--annunciai con voce tremante a Judson.

--Guidi lei--mi disse spingendomi in mano le redini e afferrando

il fucile a ripetizione.

Si contorse sul sedile e cominciò a sparare.

I cavalli tremavano e sbuffavano. Nonostante il freddo, i loro corpi

ansanti grondavano di sudore. Improvvisamente, dopo che Judson

aveva aperto il fuoco, i due storni strinsero il morso e si ribellarono al-

la guida fuggendo disperatamente, affondando nella neve e trascinan-

do il carro privo di controllo. Per quanto mi sforzassi di riprendere la

guida, strattonando con forza le redini, il mio tentativo si rivelò inuti-

Judson vuotò ben presto tutto il caricatore. Dubito che fosse riuscito

a colpire qualcuna delle bestie che ci inseguivano... infatti era pratica-

mente impossibile mirare con precisione stando sul carro che ondeg-

giava e traballava. E anche se il veicolo fosse stato immobile, i nostri

inseguitori che spiccavano quei balzi selvaggi avrebbero costituito un

bersaglio difficile.

Judson sbatté il fucile scarico nel cassone del carro e si girò verso di

me con una faccia cadaverica e spaventata. Aveva la bocca aperta e gli

occhi sbarrati dal terrore. Sbraitò qualche parola incoerente che io

non riuscii ad afferrare, e agguantò le redini. Impazzito evidentemen-

te di paura maledisse i due storni che si dibattevano nella neve e li

frustò, comé se credesse di poter distanziare il branco.

Per un po' mi aggrappai alla sponda del carro traballante. Poi i cavalli

sbuffando descrissero uno scarto inaspettato, rompendo quasi il timo-

ne del carro e per poco non facendolo rovesciare. Il sedile a molle si

staccò dai fermi e cadde nel cassone del mezzo. Io fui sballottato oltre

la sponda di tutto il busto e in un istante disperato tentai di arrampi-

carmi nuovamente a bordo. Ma i due storni diedero un altro strappo

in avanti e fui proiettato nella neve.

Infransi la sottile crosta ghiacciata, e lo spesso strato di neve soffice

sottostante attutì la mia caduta. In pochi istanti riuscii a risollevarmi

in piedi, portandomi freneticamente le mani al volto per liberarmi gli

occhi da quella sostanza bianca e farinosa.

Il carro era ormai a un centinaio di metri. I cavalli pazzi di paura

stavano ancora fuggendo, con Judson in piedi sul cassone che strapaz-

zava furiosamente le redini ondeggiando avanti e indietro, incapace di

frenarli. Quando ero stato sbalzato i cavalli avevano girato brusca-

mente e ora stavano lanciandosi a capofitto in direzione di quel miste-

rioso branco di belve ululanti!

Judson, urlando e imprecando pazzo di terrore, veniva trascinato

indietro verso quelle grigie ombre indistinte che saltavano nella notte

lanciando spaventosi ululati soprannaturali.

L'orrore scese su di me simile a un'enorme ondata che mi paralizza-

va l'anima. Provai un desiderio folle di fuggire, di correre e correre at-

traverso la distesa innevata finché non avessi cessato di udire il la-

mento dello strano branco. Con uno sforzo mi controllai, frenai il tre-

mito del mio corpo e deglutii per inumidire la gola secca.

qyq

Sapevo che con il mio misero arrancare non sarei mai riuscito a di-

staccare le ombre grigie sorprendentemente agili che balzavano nei ri-

flessi lattei della luce lunare in direzione del carro. E ricordai allora

che disponevo di un'arma, I'automatica calibro 25 assicurata sotto

un'ascella. Lo strano messaggio di mio padre mi aveva spinto a porta-

re con me quella piccola arma mortale e a infilarmi in tasca alcuni ca-

ricatori di proiettili.

Con mani tremanti mi sfilai un guanto e frugai sotto gli abiti in cer-

ca della pistola.

Alla fine estrassi la minuscola ma pèsante automatica, piacevol-

mente calda per il contatto con il mio corpo, e feci scattare indietro

l'otturatore per accertarmi che ci fosse un colpo in canna. Poi rimasi

fermo in quella distesa nevosa che mi arrivava quasi alle ginocchia, e

attesi.

Il lugubre ululato alieno del branco mi paralizzò letteralmente di

terrore.

11 carro doveva trovarsi a circa quattrocento metri da me, quando le

indistinte macchie scure del branco abbandonarono la pista e deviaro-

no per tagliargli la strada. Vidi allora sottili lingue di fiamma gialla-

stre, e udii secche scariche di armi da fuoco, seguite dal sibilo lanci-

nante dei proiettili. Judson, almeno così supponevo io, aveva abban-

donato le redini e tentava di difendersi con i fucili e la sua vecchia

pistola.

Le macchie grigie circondarono il carro. Sentii l'urlo di un cavallo

agonizzante, il suono più straziante e orribile che io conosca, se si

escludevano gli ululati soprannaturali di quel branco. Una massa di

figure in lotta sembrò dibattersi a ridosso del carro. Seguirono ancora

alcune detonazioni, poi un grido echeggiò sinistro sulla prateria inne-

vata, un grido che racchiudeva in sé un misto di atroce sofferenza e di

terrore inconcepibile... Capii che si trattava di Judson.

Dopo di che non rimase altro che l'agghiacciante lamento delle bel-

ve, un coro mostruoso che non si era ancora placato.

Presto, spaventosamente presto, quel coro alieno parve avvicinarsi.

E vidi allora forme grigie che si staccavano dalla macabra scena della

tragedia e avanzavano a balzi... verso di me!

Il lupo e la donna

Non sono assolutamente in grado di spiegare il terrore puro e folle che

mi prese quando mi resi conto che le belve si erano lanciate sulle mie

tracce. Il mio cuore parve arrestarsi, tanto che pensai che sarei svenu-

to; poi prese a pulsarmi cupamente in gola. Avevo il corpo improv-

visamente madido di sudore gelido e i muscoli tesi spasmodicamente,

e stringevo l'automatica con tanta forza da avvertire dolore alla ma-

no.

Avevo deciso di non fuggire, ritenendo folle un eventuale tentativo

di sottrarmi alla caccia del branco. Ma la mia decisione di resistere a

ogni costo era ben poca cosa al cospetto della paura che mi ossessiona-

va.

Mi gettai attraverso la levigata distesa di neve. I miei piedi sprofon-

davano nella sottile sfoglia di ghiaccio e io arrancavo a fatica, con i

polmoni ormai esausti. La neve sembrava divertirsi a ostacolarmi,

quasi fosse un demone.malvagio. Molte volte incespicai e caddi goffa-

mente, rialzandomi con la forza della disperazione e avanzando di

nuovo ormai stremato, singhiozzando di terrore e ansando nell'aria

gelida.

Ma la mia fuga volse ben presto al termine. Le cose che mi stavano

inseguendo erano in grado di procedere a una velocità di gran lunga

superiore alla mia. Voltandomi, quando non avevo coperto nemmeno

un centinaio di metri, le vidi avvicinarsi, forme ancora vaghe nel chia-

rore lunare. Mi accorsi però che gli inseguitori erano soltanto due.

Improvvisamente il mio pensiero tornò alla piccola automatica che

stringevo in mano. La sollevai e scaricai tutti i proiettili, sparando il

più rapidamente possibile; ma anche se colpii una di quelle forme gri-

gie, quelle dovevano essere senz'altro invulnerabili alle mie pallottole.

Avevo cercato nella tasca un secondo caricatore e stavo tentando

con dita tremanti di infilarlo nella rivoltella, quando quelle cose giun-

sero sufficientemente vicine, nel chiarore lattiginoso, perché potessi

vederle in modo distinto. A quel punto le mie mani si paralizzarono

sulla pistola; ero troppo sorpreso e sconvolto per completare il carica-

mento dell'arma.

Una delle due rorme grigie era un lupo, uno scarno lupo della prate-

ria dal lungo pelo ispido, una bestia enorme alta quasi un metro che

stava raggiungendomi spiccando balzi che coprivano diversi metri. I

suoi grandi occhi avvampavano di una misteriosa luce verdastra, una

luce innaturale, strana, terribile e in un certo senso ipnotica.

L'altra forma era una ragazza.

Era una cosa incredibile, che ottenebrò e fece vacillare la mia mente

già offuscata dal terrore. Dapprima pensai che si trattasse di un'allu-

cinazione, ma mentre lei si avvicinava a lunghi salti con la stessa rapi-

dità del lupo grigio, fui costretto ad accettare quanto vedevano i miei

occhi. Ricordai allora la mia impressione di aver udito toni umani nei

gridi del branco; ricordai quanto Connel e Judson mi avevano detto

circa la presenza di orme umane frammiste a quelle dei lupi nelle

tracce lasciate dal branco.

La ragazza era vestita in modo piuttosto leggero, per essere fuori al-

I'aperto nel freddo pungente della notte invernale. Apparentemente in-

dossava solo una leggerissima sottoveste di seta bianca, lacera, che le

penzolava da una spalla e non le arrivava nemmeno alle ginocchia.

Aveva il capo scoperto e i suoi capelli, che alla luce lunare sembravano

di uno strano biondo pallido, erano corti e scarmigliati. Le braccia vel-

lutate e le piccole mani, le gambe e perfino i suoi piedi guizzanti erano

nudi. La sua pelle era bianca, di un candore freddo, esangue, lebbroso.

Quasi bianca quanto la neve.

E i suoi occhi scintillavano di un riflesso verde.

Erano come gli occhi del lupo, infuocati di una terribile fiamma di

smeraldo, la fiamma di una vita aliena, estranea a questo mondo. Era-

no malvagi, crudeli, ripugnanti. Erano gelidi come le distese cosmiche

al di là della luce delle stelle. Ardevano di un'intelligenza maligna, più

forte e spaventosa di quella di ogni creatura terrestre.

Le sue labbra e le sue guance, di un candore alabastrino erano se-

gnate da una macchia gocciolante di colore rosso scuro ché spiccava

quasi nera al chiarore fioco.

Io rimasi come pietrificato, svuotato di ogni residua energia per l'or-

rore e l'incredulità.

La ragazza e il lupo avanzarono balzando fianco a fianco nella neve

come dotati di una forza e di un'agilità soprannaturali.

E mentre si facevano più vicini io subii un altro shock terrificante.

Il volto della ragazza mi era familiare, nonostante il pallore cadave-

rico, I'infernale riflesso maligno degli occhi verdi, e la macchia rossa-

stra sulle gote e sulle labbra. Quella donna era una ragazza che io ave-

vo ammirato, e che avevo persino sognato di poter amare, un giorno.

Era Stella Jetton!

La ragazza era la deliziosa figliola del dottor Blake Jetton che, come

ho detto, mio padre aveva portato con sé in quel ranch del Texas come

assistente nei suoi rivoluzionari esperimenti.

Mi resi conto che lei era stata trasformata in qualche modo spaven-

toso .

--Stella!--gridai. Più simile a un urlo atterrito di angoscia e incre-

dulità che a una voce umana, quel nome uscì dalla mia gola inaridita

dalla paura. Io stesso sussultai udendo quel mio appello rauco, stento-

reo e ansante.

L'enorme lupo grigio si diresse direttamente verso di me, come se

stesse per azzannarmi alla gola con un balzo. Ma si fermò a qualche

metro di distanza, accucciandosi nella neve e fissandomi con quegli

orribili occhi verdi da cui trapelava un'espressione di guardinga e

strana intelligenza.

La ragazza si spinse ancora più vicina, prima di fermarsi e di restare

a guardarmi con occhi terribili, simili a quelli della belva, luminosi e

verdi.

Il volto, per quanto di un pallore spettrale e orrendamente macchia-

to di rosso, era proprio il volto di Stella Jetton. Ma gli occhi non erano i

suoi !

Poi lei parlò. La sua voce conteneva ancora qualcosa del suono a me

familiare, ma ora possedeva un tono nuovo e strano. Racchiudeva lo

stesso mistero alieno e minaccioso degli occhi e della pelle lebbrosa, la

medesima sfumatura dei lugubri ululati lamentosi del branco che ci

aveva seguito.

--Sì, Stella Jetton--disse la voce.--Come sei chiamato tu? Sei tu

Clovis McLaurin? Hai ricevuto un telegramma?

A quanto pare non mi conosceva. Perfino la formulazione delle sue

parole era un poco strana, come se stesse parlando una lingua con cui

non aveva eccessiva dimestichezza. La deliziosa ragazza, la ragazza

umana che io avevo conosciuto un tempo, era spaventosamente cam-

biata.

Pensai che dovesse essere afflitta da una forma di follia, da cui aveva

tratto la forza pressoché soprannaturale che aveva dimostrato di pos-

sedere quando correva con il branco di lupi. Doveva trattarsi di un ca-

so di licantropia davvero molto particolare, immaginai.

--Sì, sono Clovis McLaurin--dissi con voce tremante.--Ho rice-

vuto il telegramma di mio padre tre giorni fa. Dimmi cosa c'è che non

va... perché ha usato simili parole nel messaggio?

--Non c'è nulla che non va, amico mio--rispose la strana creatura.

--Noi desideravamo semplicemente la tua assistenza in un certo espe-

rimento di grande singolarità, che abbiamo iniziato a condurre. Tuo

padre ora attende al ranch, e io sono venuta per condurti da lui.

Quel discorso era quasi incredibile. Riuscii ad accettarlo solo par-

tendo dal presupposto che chi aveva parlato soffrisse di uno spavento-

so sconvolgimento mentale.

--Tu mi sei venuta incontro?--esclamai, combattendo contro l'or-

rore che stava per sopraffarmi.--Stella, non devi siartene fuori al

freddo così poco coperta. Devi prendere il mio cappotto.

Cominciai a togliermelo ma, come mi ero in un certo senso aspetta-

to, lei rifiutò di accettarlo.

--No. Non mi serve. Il freddo non può nuocere a questo corpo. E

adesso devi venire con noi. Tuo padre ci attende alla casa per condurre

il grande esperimento.

Aveva detto noi! Inorridii ancora di più notando che la ragazza con-

siderava lo scarno lupo al pari di se stessa.

Poi balzò in avanti con un'agilità incredibile nella direzione in cui io

e Judson stavamo viaggiando prima. Con un braccio, nudo e di pallore

cadaverico, mi invitò a seguirla. Il grande lupo grigio si mosse saltan-

do, dietro di me.

Stimolato di colpo ad agire, ricordai l'automatica semicaricata che

stringevo in mano. Con un gesto brusco finii di inserire il caricatore

nuovo, feci scattare l'otturatore e poi scaricai tutti i colpi addosso alla

belva dagli occhi verdi.

Una strana compostezza era scesa su di me. I miei movimenti furono

sufficientemente calmi, quasi calcolati Sono certo che la mia mano

non tremasse. Il lupo era solo a pochi metri ed era praticamente im-

possibile mancarlo, non centrarlo con almeno un proiettile.

Sono sicuro di averlo colpito numerose volte, poiché sentii le pallot-

tole conficcarsi nel suo corpo scarno, vidi l'animale vacillare sotto il

loro impatto, e notai ciuffi di pelo grigio staccarsi nella luce lunare.

Eppure non cadde. I suoi terribili occhi verdi non mostrarono il ben-

ché minimo cenno d'esitazione e continuarono a fissarmi con quella

loro espressione sinistra di malvagità infernale.

Non appena io ebbi scaricato la pistola - mi erano occorsi solo alcu-

ni secondi per sparare i sette proiettili - udii un ringhio selvaggio pro-

veniente dalla ragazza. Mi ero girato per metà nella sua direzione

quando il suo corpo pallido si scagliò contro di me con la velocità di un

proiettile.

Caddi sotto di lei, alzando istintivamente un braccio per protegger-

mi la gola. E un bene che l'abbia fatto, perché sentii i suoi denti affon-

darmi nel braccio e nella spalla, mentre sprofondavamo insieme nella

neve.

Sono certo che gridai.

Lottai con lei selvaggiamente, finché non udii di nuovo la sua strana

voce non umana.

--Non devi avere paura--disse.--Non siamo intenzionati a ucci-

derti. Noi desideriamo il tuo aiuto in un importantissimo esperimento.

Per questo motivo tu devi venire con noi. Tuo padre attende. Il lupo è

nostro amico e non ti farà del male. E la tua arma non potrà ferirlo.

Dalla gola del lupo, che non si era più mosso da quando gli avevo

sparato, uscì un bizzarro guaito inarticolato, come se la bestia avesse

capito le parole della ragazza e stesse confermando.

Lei mi stava ancora addosso, tenendomi schiacciato nella neve. I

suoi denti insanguinati erano a pochi centimetri dal mio viso e le sue

dita affondavano nel mio corpo quasi fossero artigli dotati di una forza

sovrumana. La sua gola emise un basso grugnito bestiale, poi riprese a

parlare.

--Verrai dunque con noi alla casa, dove tuo padre ci aspetta per

condurre l'esperimento?--mi chiese con quella voce terribile che ri-

cordava il lamento del branco di lupi.

--Verrò--acconsentii, leggermente sollevato nel constatare che la

coppia di belve non voleva divorarmi sul posto.

La donna - non posso chiamarla Stella poiché, tranne che nel corpo,

lei non era più Stella - mi aiutò ad alzarmi. Non fece alcuna obiezione

quando mi chinai a raccogliere l'automatica caduta nella neve e l'infi-

lai in tasca.

Lei e il lupo grigio, che misteriosamente i miei proiettili non erano riu-

sciti a uccidere, balzarono via assieme sulla candida distesa innevata.

Io li seguii, arrancando al massimo delle mie possibilità, con la mente

piena di supposizioni confuse e ottenebrate dal terrore.

Ormai non nutrivo più alcun dubbio che la donna si considerasse un

membro del branco, e che effettivamente lo fosse. Sembrava che tra lei

e il grande lupo che l'affiancava esistesse uno strano rapporto empati-

co .

Doveva trattarsi di una forma di pazzia, pensai, per quanto non

avessi mai letto di casi di licantropia dai sintomi così terribilmente

esagerati come quelli che lei presentava. E ormai noto che alcuni ma-

niaci abbiano una forza sovrumana, ma il modo in cui lei correva e

balzava nella neve era un fatto che esulava dai limiti della compren-

sione razionale.

Senza contare poi gli altri particolari che la teoria della malattia

mentale era incapace di spiegare. Il pallore cadaverico della sua pelle,

la terribile luminosità verde degli occhi, il modo in cui lei parlava... co-

me se l'inglese rappresentasse per lei una lingua straniera, ma di cui

possedeva una discreta padronanza.

L'andatura sostenuta dalla donna e dal lupo era impietosamente ra-

pida per me. Per quanto arrancassi al limite delle mie possibilità, non

ero in grado di muovermi con la velocità che loro desideravano. Né mi

era concesso di restare indietro, perché ogni volta che mi attardavo il

lupo mi raggiungeva, ringhiando minaccioso.

Dopo essermi trascinato per alcuni chilometri, i polmoni mi doleva-

no ed ero pressoché cieco dalla fatica. Per l'ultima volta incespicai e

caddi pesantemente nella coltre nevosa. Quando tentai di risollevarmi

i muscoli straziati rifiutarono di rispondere e io rimasi steso là, pronto

a sopportare qualsiasi cosa il lupo potesse farmi, piuttosto che sotto-

pormi all'agonia di uno sforzo ulteriore.

Ma questa volta fu la donna a raggiungermi. Io ero semisvenuto ma

mi resi conto vagamente che mi stava sollevando, caricandomi sulle

spalle. Dopo di che i miei occhi si chiusero; ero troppo stanco per os-

servare ciò che mi circondava. Però, da una sensazione di ondeggia-

mento, capivo in maniera nebulosa che mi si stava trasportando.

Infine le tossine dello sforzo sostenuto presero il sopravvento sui

miei tentativi di restare cosciente. Caddi nel sonno profondo della

spossatezza, dimenticando che i miei arti stavano gelando e che venivo

trasportato sulle spalle di una donna che possedeva gli istinti di un lu-

po e la forza di un demonio; una donna che, I'ultima volta che l'avevo

vista, era stata una creatura assolutamente umana e adorabile.

Uno strano ritorno a casa

Non potrò mai dimenticare le sensazioni che provai al mio risveglio.

Aprii gli occhi in un'oscurità attenuata soltanto da una fioca luminosi-

tà rossa. Ero steso su un letto, o un divano, e avvolto in alcune coperte.

Delle mani, che perfino al mio corpo gelato sembravano fredde corne

ghiaccio, stavano massaggiandomi gambe e braccia. E terribili occhi

verdastri fluttuavano nell'oscurità soffusa di sfumature cremisi, fis-

sandomi dall'alto con un'espressione orrida.

Spaventato, ricordando quanto era accaduto nel chiarore lunare co-

me un vago incubo, raccolsi i miei sensi smarriti e con uno sforzo mi

sollevai seduto tra le coperte.

E strano, eppure la prima impressione che colpì la mia mente confu-

sa fu la vista degli sgradevoli fiori verdi che spiccavano in file monoto-

ne sulla squallida tappezzeria macchiata. Nella luce rossastra della

stanza sembravano di una lugubre tinta nera, eppure risvegliarono

ugualmente un vecchio ricordo. Mi resi conto di trovarmi nella sala da

pranzo della fattoria, dove ero venuto a trascorrere due estati con lo

zio Tom McLaurin molti anni prima.

Quella camera dall'illuminazione grottesca conteneva pochissimi

mobili. Il divano su cui giacevo io era accanto a una parete, di fronte a

un lungo tavolo attorniato da una mezza dozzina di sedie. In fondo alla

stanza vi era una grossa stufa, e dietro di essa un secchio pieno di car-

bone e una cassetta contenente ramoscelli di pino per accendere il fuo-

co.

La stufa era spenta e la stanza era freddissima. La debole luce cremi-

si proveniva da una piccola lampada elettrica appoggiata sul tavolo,

provvista di una lampadina rossa probabilmente del tipo usato dai fo-

tografi nella camera oscura.

Senza dubbio dovetti raccogliere tutte queste impressioni in manie-

ra inconscia, dato che la mia mente atterrita era assorbita dalle perso-

ne che occupavano la stanza.

Mio padre era chino su di me, intento a strofinarmi le mani, men-

tre Stella stava massaggiandomi i piedi che sporgevano dalle coperte.

E anche mio padre aveva subito lo stesso spaventoso, misterioso

cambiamento della ragazza!

La sua pelle esangue era di un freddo pallore cadaverico. Le sue ma-

ni erano gelide quanto quelle di un morto irrigidito. E i suoi occhi, che

mi osservavano con una strana e terribile circospezione, brillavano di

un fulgore verdastro, simili a quelli di Stella e del grande lupo grigio.

Lei stessa, la cosa orrida che un tempo era stata l'adorabile Stella, non

era cambiata. Aveva ancora quella pelle pallidissima, quegli occhi dal-

la strana luminescenza verde e quelle macchie sul viso, che appariva-

no adesso nere nella tetra luce rossastra.

Nella stufa non ardeva alcuna fiamma, eppure, nonostante il gelo

che impregnava la stanza, lei indossava ancora la medesima sottove-

ste di seta bianca strappata. Mio padre, o almeno la cosa che una volta

era mio padre, portava solo una leggera camicia di cotone, da cui era-

no state strappate le maniche, e un paio di calzoni logori. Braccia e

piedi erano nudi.

Constatai un'ennesima cosa spaventosa. Mentre il mio respiro si

condensava in bianche nuvole di cristalli ghiacciati nell'aria gelida,

dalle narici di mio padre e di Stella non usciva alcuna traccia di vapo-

re.

Dall'esterno potevo sentire il lugubre lamento soprannaturale del

branco. E di tanto in tanto i due guardavano con inquietudine in dire-

zione della porta, quasi fossero ansiosi di raggiungerlo.

Quando mio padre parlò, io mi ero già sollevato a sedere guardando-

mi attorno in un misto d'incredulità e di confusione.

--Siamo felici di vederti, Clovis--disse piuttosto freddamente e

senza mostrare alcuna emozione, con un atteggiamento affatto diverso

dai suoi modi solitamente gioviali e affettuosi.--Sembra che tu abbia

freddo, ma tra poco tornerai a essere normale. Noi abbiamo sorpren-

dentemente bisogno di te nella conduzione di un esperimento che non

possiamo portare a termine senza la tua assistenza.--Parlava lenta-

mente, incerto, come uno straniero che ha tentato di imparare l'ingle-

se da un dizionario. Io rimasi fortemente perplesso, anche se davo per

scontato che sia lui che Stella soffrissero di uno squilibrio mentale.

E la sua voce aveva un certo tono lamentoso, che ricordava gli ulula-

ti del branco.

--Ci aiuterai?--domandò Stella con la stessa terrificante inflessio-

ne.

--Spiegatemi! Spiegatemi tutto quanto, per favore!-- sbottai.

--Altrimenti io impazzirò! Perché tu correvi insieme ai lupi? Perché i

tuoi occhi hanno quella luminosità verde, e la tua pelle è di un pallore

mortale? Perché voi due siete così freddi? Perché questa luce rossa?

Perché non c'è un fuoco acceso?

Mentre io farfugliavo queste domande, loro rimasero a fissarmi si-

lenziosi nella strana stanza, con quello sguardo mostruoso.

Per alcuni minuti restarono zitti. Poi negli occhi di mio padre apparve

un'espressione di scaltra intelligenza e dalla sua bocca uscì di nuovo

quella voce agghiacciante.

--Clovis--mi disse--tu sai che siamo venuti qui con lo scopo di

studiare la scienza. E una grande scoperta è stata effettuata, un'enor-

me scoperta riguardante le risorse della vita. I nostri corpi sono cam-

biati, come tu sembri vedere. Macchine migliori sono diventati, e più

forti. Il freddo non li danneggia, a differenza del tuo. Perfino la nostra

vista è migliore, quindi luci intense non ci occorrono più.

--Ma ancora ci manca il successo perfetto. Le nostre menti sono sta-

te cambiate e noi non ricordiamo ciò che un tempo era in nostro pos-

sesso. E sei tu che noi desideriamo come nostro aiutante nella sostitu-

zione di una nostra macchina che è stata rotta. Noi vorremmo aiuto da

te, cosicché a tutta l'umanità noi possiamo portare il dono della nuova

vita, che è di forza etema e non conosce morte. Noi cambieremo tutti

con la nuova scienza che a noi è giunta in scoperta.

--Vorresti dire che hai intenzione di trasformare la razza umana in

tanti mostri simili a voi?

Mio padre ringhiò con la ferocia di un animale da preda.

--Tutti gli uomini riceveranno il dono della vita simile alla no-

stra--ribadì.--La morte non sarà più. E noi il tuo aiuto richiedia-

mo... e otterremo!--La sua voce conteneva un intenso tono malefico

di minaccia.--Tu sarai nostro aiuto. Tu non rifiuterai!

Si piantò di fronte a me scoprendo i denti e incurvando le dita come

fossero artigli.

--Certo, ti aiuterò--riuscii a balbettare con voce tremante.--A

ogni modo non sono molto brillante come sperimentatore.--Ero sicu-

ro che un rifiuto avrebbe rappresentato un mezzo per commettere uno

spiacevolissimo suicidio.

In quei minacciosi occhi verdi brillò una luce trionfante di astuzia, I'a-

stuzia del maniaco che ha appena perpetrato un abile inganno.

--Può venire adesso, così da vedere la macchina?--domandò Stel-

la.

--No--risposi io in tutta fretta, cercando delle ragioni per guada-

gnare tempo.--Ho freddo. Devo accendere un fuoco e scaldarmi. E

poi ho fame, e sono molto stanco. Devo mangiare e dormire.--Ed era

tutto quanto vero, tra I altro. Il mio corpo era interamente ghiacciato

per le ore trascorse all'aperto. Gambe e braccia mi tremavano ancora.

I due si guardarono scambiandosi strani suoni gutturali, simili a la-

menti bestiali. Sembrava che quello, e non le parole, fosse il loro lin-

guaggio naturale, e che il loro inglese fosse solo una lingua appresa su-

perficialmente da poco tempo.

--Vero--disse mio padre, e guardò verso la stufa.--Accendi un

fuoco se devi. Quello che ti occorre è qui?--E indicò con aria interro-

gativa il carbone e i legnetti, come se il fuoco fosse una cosa del tutto

nuova e sconosciuta per lui.

--Noi dobbiamo andare all'esterno--aggiunse.--La luce del fuo-

co è dannosa per noi, come il freddo per te. E in un'altra stanza chia-

mata...--esitò visibilmente--... chiamata cucina, ci sarà cibo. Là ti

aspetteremo.

Seguito dalla ragazza, uscì silenziosamente dalla camera.

Rabbrividendo per il freddo mi affrettai verso la stufa. Le braci era-

no spente; da parecchi giorni non veniva accesa. Scossi giù la cenere,

accesi un fiammifero che trovai in tasca e lo buttai sulla grata, riem-

piendo poi la stufa di ramoscelli e di carbone. In pochi minuti si levò

una fiamma crepitante, di fronte alla quale mi accovacciai con un sen-

so di gratitudine.

Poco dopo la porta si aprì lentamente. Stella lanciò un'occhiata

guardinga per vedere se c'era della luce nella stanza, poi entrò. La stu-

fa, perfettamente chiusa, non lasciava filtrare alcun bagliore.

La pallida ragazza dagli occhi verdi aveva le braccia cariche di cibo,

un curioso assortimento raccolto evidentemente a casaccio in cucina.

C'erano due pagnotte, della pancetta affumicata, una lattina chiusa di

caffè, un sacchetto di sale, una scatola di farina d'avena, un barattolo

di lievito, una dozzina di confezioni di cibo in scatola, e perfino una

bottiglia di lucido per la stufa.

--Tu mangi questo?--mi chiese con la sua voce stranamente ani-

malesca, deponendo il tutto sul tavolo.

Era una situazione quasi ridicola, eppure in un certo senso anche

terribile. Sembrava che lei non avesse la minima idea riguardo ai biso-

gni alimentari umani.

Provando finalmente un piacevole tepore al corpo, e letteralmente

affamato, mi accostai al tavolo ed esaminai lo strano assortimento.

Scelsi una pagnotta, una scatoletta di salmone e una di albicocche.

--Alcune di queste cose si mangiano così come sono--azzardai,

chiedendomi come avrebbe reagito.--Altre devono essere cotte, inve-

ce.

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--Cotte?--Domandò immediatamente lei.--Cosa vuol dire?--

Poi, mentre io restavo zitto per la sorpresa, aggiunse:--Esprime

forse che devono essere calde e sanguinanti dall'animale?

--No!--urlai.--No. Per cuocere un cibo lo si riscalda. E di solito si

aggiungono condimenti, come il sale, per esempio. E un procedimento

abbastanza complesso che richiede una notevole abilità.

--Capisco--disse.--E tu devi consumare simili generi per mante-

nere il tuo corpo integro?

Le risposi di sì, poi le feci notare che mi serviva un apriscatole per il

cibo confezionato. Dopo avermi chiesto una descrizione di tale arnese

si affrettò in cucina e tornò quasi subito con l'apriscatole.

Anche mio padre era rientrato nella stanza. I due mi osservarono con

quegli strani occhi verdi mentre mangiavo. L'appetito non ne fu certo

stimolato, ma io cercai di protrarre il pasto il più a lungo possibile per

rinviare qualsiasi cosa mi riservassero per quando avessi finito.

Entrambi mi rivolsero parecchie domande. Domande simili a quella

di Stella riguardante la cottura, circa argomenti normalmente noti an-

che a un bambino. Non si trattava comunque di domande stupide... af-

fatto! Entrambi diedero prova di un'intelligenza quasi soprannatura-

le. Ricordavano tutto, e io rimasi impressionato dalla loro abilità nel

collegare i fatti che io fornivo loro, per svilupparne altri.

I loro occhi mi fissarono incuriositi quando, incapace di protrarre

ulteriormente la finzione di avere ancora fame, io estrassi una sigaret-

ta e cercai un fiammifero per accenderla. Quando la fiammella balugi-

nò, lanciarono un urlo agonizzante e si coprirono gli occhi, balzando

indietro tremanti.

--Distruggi quella cosa!--ringhiò con ferocia mio padre.

Io spensi la minuscola fiamma, sorpreso dai suoi effetti.

I due scoprirono gli occhi, sbattendo le palpebre. Trascorsero parec-

chi minuti prima che si riavessero completamente dalla loro sbalordi-

tiva paura della luce.

--Non fare più luce quando noi siamo vicini--ringhiò mio padre.

--Ti lacereremo il corpo se dimentichi!--E scoprì i denti, arriccian-

do le labbra come un lupo e lanciando un altro grugnito terribile.

Stella corse a una finestra che guardava a est, sollevò gli scuri e sbir-

ciò nervosamente fuori. Vidi che stava arrivando l'alba. La ragazza ug-

giolò in maniera strana, rivolta a mio padre. Anche lui era inquieto, co-

me una preda puntata dai cani, e roteava gli enormi occhi verdi intor-

no a sé. Si voltò nella mia direzione con fare ansioso.

--Vieni--disse.--La macchina che noi con il tuo aiuto ripareremo

è nella cantina sotto la casa. Il giorno arriva. Noi dobbiamo andare.

--Non posso--protestai.--Sono stanco morto, sono stato in piedi

tutta la notte. Devo assolutamente riposarmi, prima di mettermi a la-

vorare a una macchina. Ho tanto sonno che non riesco nemmeno a con-

nettere.

Mio padre rivolse un guaito lamentoso a Stella, come se stesse par-

lando in una strana lingua lupina. Lei gli rispose nello stesso modo, poi

mi parlò.

--Se il riposo è necessario al funzionamento del tuo corpo, puoi dor-

mire fino a quando la luce non andrà. Segui.

Aprì la porta in fondo alla stanza, mi condusse attraverso una sala

buia, e da là in una piccola camera da letto che conteneva un lettino,

due sedie, una toeletta e un armadio.

--Tenta di non andare--mi avvertì con un ringhio--o noi ti segui-

remo sulla neve!

La porta si chiuse e io rimasi solo. Una chiave cigolò sinistramente

nella serratura. La piccola stanza era fredda e buia. Mi infilai in fretta

a letto e per un po' rimasi coricato ad ascoltare.

L'ululato spaventoso del branco, che era continuato tutta la notte,

sembrò farsi più intenso e vicino. Poi cessò con pochi uggiolii acuti, ap-

parentemente proprio fuori dalla finestra. Con l'alba, il branco era ve-

nuto alla casa!

Mentre la luce crescente del giorno filtrava nella cameretta, mi sol-

levai sul letto per esaminarne di nuovo il contenuto. Era una stanza or-

dinata, tappezzata di fresco. La toeletta era coperta da un vivace drap-

po di seta su cui erano disposti ordinatamente articoli da toeletta fem-

minili. In un angolo, sotto una tenda, erano appesi alcuni abiti, un ber-

retto di colore brillante e un maglione. Sulla parete c'era una foto... un

mio ritratto!

Mi resi conto che la stanza in cui ero stato chiuso a chiave fino al ca-

lar della sera doveva appartenere a Stella.

E ora capivo anche che nessuna spiegazione terrena, nessuna forma

di pazzia, poteva spiegare ciò che avevo visto e sentito. Era un pensiero

presente nella mia mente fin dall'inizio, ma avevo tentato di relegarlo

in un angolo, in cerca di una spiegazione più semplice. Avevo pensato a

Marte... e adesso mi rendevo conto che simboleggiava qualcosa di alie-

no, qualcosa che non apparteneva a questo mondo.

Stella e mio padre erano posseduti da entità aliene, da entità intelli-

genti e malvagie. Le loro personalità umane erano state scacciate, o as-

soggettate... e le entità usurpatrici ora volevano il mio aiuto...

Passai a esaminare le finestre, prospettando un'eventuale fuga. Ve

n'erano due, rivolte verso oriente. All'esterno, comunque, erano state

fissate trasversalmente due assi massicce, talmente vicine da toglier-

mi qualsiasi speranza di riuscire a sgusciarvi in mezzo. Un'ispezione

della stanza non rivelò alcun oggetto con cui potessi tentare di rimuo-

verle. Del resto avevo troppo sonno ed ero troppo spossato per tentare

la fuga. Al pensiero dei quindici chilometri di neve spessa e farinosa

che mi separavano da Hebron, abbandonai subito l'idea. Sapevo che

nelle condizioni in cui mi trovavo non avrei mai potuto percorrere una

distanza simile nel corso della breve giornata invernale. E rabbrividii

al pensiero di essere raggiunto sulla pianura innevata dal branco.

Mi coricai di nuovo sul letto di Stella, che conservava ancora una

leggera fragranza di profumo, e ben presto mi addormentai. Il mio

sonno, per quanto profondo, fu agitato. Ma nessun incubo avrebbe po-

tuto essere così sconvolgente come la realtà da cui avevo trovato scam-

po per qualche ora.

La macchina in cantina

Dormii per gran parte della breve giornata invernale. Al mio risveglio

il sole stava tramontando. Una luce grigia scendeva sullo sterminato

deserto di neve all'esterno delle mie finestre sbarrate, e il pallido disco

della luna quasi piena stava sorgendo nel cielo crepuscolare a oriente.

Non si scorgeva traccia di alcuna abitazione lungo le miglia di candida

prateria, e io provai un'acuta sensazione di solitudine completa.

Non potevo contare su alcun aiuto esterno nell'affrontare la strana e

paurosa situazione in cui mi ero inaspettatamente trovato. Se dovevo

sfuggire a quei mostri che si celavano nei corpi delle persone a me più

care, dovevo fare affidamento esclusivamente sulle mie forze. E sareb-

be toccato esclusivamente a me l'impresa di restituire loro le persona-

lità che possedevano un tempo.

Ancora una volta esaminai le robuste traverse di legno che ostruiva-

no le finestre. Sembravano inchiodate saldamente alla parete da en-

trambi i lati e io non trovai alcun attrezzo adatto a tagliarle. Avevo an-

cora i fiammiferi in tasca, comunque, e pensai che forse avrei potuto

bruciarle. Ma non c'era tempo sufficiente per una simile operazione

prima che le tenebre facessero tornare i miei catturatori, e inoltre non

gradivo per niente il pensiero di fuggire con il branco che mi inseguiva.

E poi avevo di nuovo fame e sete.

Scese l'oscurità, mentre io giacevo sul letto tra gli effetti personali di

un'adorabile ragazza nei cui confronti avevo nutrito sentimenti di te-

nerezza, e aspettavo che lei arrivasse con la notte, in compagnia dei

suoi terribili alleati, per trascinarmi incontro a un orrendo destino che

ml era ancora ignoto.

La grigia luce diurna svanì impercettibilmente nel pallido chiarore

argenteo della luna.

All'improvviso, senza alcun segno rivelatore, la chiave girò nella ser-

ratura.

Stella, o I'entità aliena che dominava il grazioso corpo della ragazza,

scivolò nella stanza con una grazia sinistra.

--Immediatamente tu verrai--disse con quella voce lupina.--La

macchina aspetta l'aiuto di te nel grande esperimento. Subito vieni. Il

tuo debole corpo è riposato?

--D'accordo--dissi.--Certo, ho dormito. Però adesso ho di nuovo

fame e sete. Devo assolutamente bere e mangiare qualcosa, prima di

mettermi ad armeggiare con una macchina.

Ero deciso a posticipare il più a lungo possibile qualsiasi prova mi

fosse riservata.

--Il tuo corpo potrai ancora soddisfare--acconsentì la donna.

--Ma impiega non troppo tempo!--ringhiò minacciosa.

La seguii nella sala da pranzo.

--Prendo acqua--mi disse, e uscì silenziosa dalla porta.

La stufa era ancora tiepida. L'aprii, attizzai le braci e aggiunsi altro

carbone, ottenendo ben presto una fiamma crepitante. Poi spostai la

mia attenzione al cibo che era avanzato. I resti del salmone e delle al-

bicocche erano gelati sui piatti, e io li appoggiai sulla stufa a scaldarsi.

Poco dopo Stella fu di ritorno con un secchio contenente un blocco di

ghiaccio. Evidentemente sorpresa dal fatto che io non potessi bere l'ac-

qua in forma solida, mi lasciò deporre il recipiente sulla stufa affinché

il ghiaccio si sciogliesse.

Mentre attendevo accanto alla stufa, mi rivolse innumerevoli do-

mande, molte delle quali così elementari da risultare ridicole se mi

fossi trovato in una situazione meno tragica, altre riguardanti invece

le più recenti e astruse teorie scientifiche, di cui la ragazza sembrava

possedere una conoscenza superiore alla mia.

Mio padre apparve all'improwiso con le braccia cadaveriche piene

di libri. Li depose sul tavolo e mi fece un brusco cenno esortandomi a

dare un'occhiata. Aveva portato La teoria della relatività di Einstein,

Gravitazione ed Elettricità di Weyl, e due dei suoi volumi stampati pri-

vatamente. Si trattava di Tenson Spazio-~emporali e del volume di ipo-

tesi matematiche intitolato Universi interdipendenti, le cui bizzarre im-

plicazioni avevano creato sensazione notevole tra gli studiosi ai quali

mio padre aveva inviato copie del libro.

Cominciò allora ad aprire quei volumi e a bombardarmi di domande

a cui spesso non fui in grado di rispondere. Tuttavia la maggior parte

dei suoi interrogativi riguardavano semplicemente la grammatica o il

significato delle parole del testo. Sembrava che riuscisse ad afferrare

facilmente l'essenziale del discorso, mentre la lingua gli creava diffi-

coltà.

Le sue domande erano esattamente quelle che avrebbe potuto rivol-

gere un essere super-intelligente di Marte, nel caso avesse tentato di

leggere dei trattati scientifici senza possedere però una padronanza

completa del linguaggio in cui erano scritti.

Anche i suoi stessi testi sembravano risultargli poco familiari, come

quelli degli altri scienziati. Eppure scorse le pagine a una velocità im-

pressionante, fermandosi solo occasionalmente per chiedere un chiari-

mento, e parve acquisire una conoscenza completa del testo man ma-

no che procedeva.

Quando mi lasciò libero di consumare il mio pasto, il cibo e l'acqua

erano ormai caldi. Bevvi, poi mangiai pane, salmone e albicocche, con

la massima lentezza che il coraggio mi consentiva. Li invitai a dividere

il pasto con me, ma i due rifiutarono seccamente. La filza di domande

nel frattempo continuò.

Poi, di colpo, concludendo evidentemente che io avevo mangiato a

sufficienza, si incamminarono verso la porta ordinandomi di seguirli

e io non osai fare altrimenti. Mio padre si fermò all'estremità del tavo-

lo e prese la lampada rossa, unica fonte luminosa della stanza.

Attraversammo di nuovo la sala buia e uscimmo da una porta sul re-

tro della fattoria. Mentre percorrevamo un tratto innevato alla luce lu-

nare, io rabbrividii per l'ennesima volta udendo il gemito lontano del

branco in cui echeggiava ancora quella nota terribile che ricordava de-

gli organi vocali umani tesi in uno sforzo inaudito.

A pochi metri da noi si trovava la porta della cantina. Il seminterra-

to dell'abitazione era stato evidentemente ampliato in maniera consi-

derevole di recente, dato che il cortile posteriore era pieno di cumuli di

terriccio, alcuni dei quali coperti di neve, altri neri e s~ogli.

I due fecero strada lungo i gradini che immettevano nella cantina mio

padre portava ancora la lampada che rompeva debolmente l'oscúrità

con un fievole bagliore cremisi.

La cantina era spaziosa e intonacata accuratamente. Non aveva su-

bito lavori di ampliamento, ma accanto alla porta si apriva un passag-

gio scuro che declinava verso scavi a una profondità maggiore.

Al centro del pavimento c'erano i rottami di uno strano macchinario

che era stato evidentemente danneggiato di proposito. Lì accanto no-

tai infatti un'accetta, senza dubbio l'oggetto causa della devastazione.

Il pavimento era cosparso di schegge di vetro, appartenenti a valvole

termoioniche infrante. La macchina stessa era un ammasso di cavi ag-

grovigliati, di bobine contorte e di magneti piegati, sistemato in ma-

niera incomprensibile all'esterno di un grande anello di rame, del dia-

metro di un metro abbondante.

L'anello di rame era montato perpendicolarmente su un telaio me-

tallico, di fronte al quale vi era uno scalino di pietra sistemato in modo

da lasciar supporre che servisse per salire e penetrare attraverso l'a-

nello. Vidi però che era praticamente impossibile farlo, poiché sul lato

opposto vi era un ammasso di apparecchiature contorte... un grande

specchio parabolico di metallo lucido al centro del quale era avvitato

un oggetto che aveva tutta l'aria di un tubo catodico spezzato.

Era una macchina davvero sconcertante, che aveva subito una di-

struzione pressoché totale. Escludendo l'anello di rame e quel gradino

di pietra, le altre sue parti erano quasi tutte contorte o infrante.

In fondo alla cantina c'era un generatore di piccole dimensioni, un

piccolo motore a benzina collegato a una dinamo, del tipo usato a volte

nelle case isolate per fornire corrente elettrica. Vidi che quello non era

stato danneggiato.

Da un banco vicino alla parete, mio padre raccolse una valigetta da

cui tolse un rotolo di cianografie e un fascio di fogli infilati in una car-

telletta di cartoncino. Sparse tutto quanto sul banco e vi appoggiò vici-

no la lampada rossa.

--Questa macchina, come vedi, è stata danneggiata, con nostra

grande sfortuna--mi disse.--Queste carte dicono il metodo di co-

struzione da seguire nel montaggio di simili macchine. Il tuo aiuto è

necessario nel decifrare quello che dicono. E la nuova macchina porte-

rà una grande e forte vita, come noi abbiamo, a tutto il tuo mondo.

--Hai detto tuo mo?~do!--gridai.--Dunque ammetti di non appar-

tenere a questa terra? Tu sei un mostro, che ha rubato il corpo di mio

padre.

Entrambi ringhiarono come belve, scoprendo i denti e fulminandomi

con un terribile sguardo dei loro occhi verdastri. Poi nelle pupille di

mio padre affiorò di nuovo una subdola espressione d'astuzia.

--No, figlio mio--mi disse con un uggiolio animalesco.--Un nuo-

vo segreto di vita noi abbiamo scoperto. Grande forza esso dà ai nostri

corpi. La morte non più temiamo. Ma le nostre menti sono cambiate.

Molte cose non ricordiamo. Dobbiamo richiedere il tuo aiuto per leg-

gere questo che un tempo noi abbiamo scritto...

--Sciocchezze !--esclamai.--Non ti credo. E che io sia dannato se

vi aiuterò a riparare quel congegno infernale, e a trasformare altri es-

seri umani in mostri come voi!

I due balzarono verso di me. I loro occhi brillavano orrendamente

sulla pelle pallidissima; le loro dita erano incurvate come artigli e dal-

le loro bocche ringhianti gocciolava saliva.

--Tu aiuterai!--urlò mio padre.--O il tuo corpo noi atrocemente

distruggeremo. Lo divoreremo lentamente, mentre tu vivi ancora!

Accecato dal terrore persi l'uso della ragione, e con un grido selvag-

gio e tremolante mi lanciai verso la porta.

Era un gesto disperato, poiché era impossibile sfuggire a esseri dota-

ti della loro forza soprannaturale.

Con urli impressionanti si scagliarono dietro di me insieme, gettan-

domi sul pavimento e addentandomi selvaggiamente alle braccia e al

corpo. Per alcuni istanti lottai sorretto dalla disperazione, mi contorsi

e scalciai, riparandomi la gola con un braccio e colpendo alla cieca con

l'altro.

Poi mi immobilizzarono definitivamente, e non mi restò altro che

imprecare e lanciare una vana richiesta di aiuto

La donna, bloccandomi le braccia contro i fianchi, mi sollevò con fa-

cilità e mi caricò sulle sue spalle. Il suo corpo a contatto del mio era

freddo come il ghiaccio. Lottai con furia ma inutilmente, mentre lei

imboccava il tenebroso pendio del passaggio che conduceva nei recen-

ti scavi sottostanti la cantina della casa.

Dietro di noi, mio padre raccolse la lampada rossa e le carte del pro-

getto, seguendoci nel tetro cunicolo.

Il tempio dell'oscurità scarlatta

Impotente tra quelle braccia mostruosamente forti, sebbene avessero

il gelo e il pallore di un cadavere, venni trasportato lungo una stretta

rampa di scalini in un'altra sala sotterranea pervasa da una fioca luce

rossastra che non proveniva da alcuna fonte visibile, tanto da sembra-

re un tetro lucore sanguigno prodotto dall'aria stessa. Le pareti del lo-

cale sotterraneo erano lisce e scurissime, di una sostanza misteriosa

nera come l'ebano.

Venni trasportato per diversi metri lungo quella cavità stranamente

illuminata, finché non arrivammo in un locale più ampio, con un alto

soffltto a volta e ogive sorretto da una doppia fila di colonne massicce e

nerissime. Nelle pareti erano scavate numerose e buie nicchie ad arco.

Anche questa sala più ampia era illuminata in maniera tetra da una lu-

ce spettrale e scarlatta che non sembrava irradiarsi da nessun punto

definito.

Era un posto silenzioso e terribile, una specie di cattedrale delle te-

nebre consacrata al male e alla morte. Una sinistra atmosfera di orrore

indicibile pareva sprigionarsi da quelle stesse pareti buie come la not-

te, simile ai soffocanti fumi d'incenso offerti a un'informe divinità del-

I'orrore. La fioca luce rossastra avrebbe potuto provenire da ceri invi-

sibili bruciati in riti proibiti di sangue e di morte. Il silenzio stesso era

come un'entità malvagia e tangibile che strisciava su di me staccando-

si da quei muri d'ebano.

Mi fu concesso ben poco tempo per poter riflettere sugli interrogati-

vi suscitati da quel luogo. Cos'era quella materia nerissima delle pare-

ti? Da dove proveniva quel livido lucore sanguigno? Da quanto tempo

era stato costruito quello strano tempio del terrore? E a quale divinità

demoniaca era consacrato? Ma non ebbi l'opportunità di cercare una

risposta a queste domande, anzi, non ebbi nemmeno il tempo per ri-

prendermi dal mio naturale stupore nel trovare un posto simile sotto il

terreno di una fattoria del Texas.

La ragazza che mi trasportava mi lasciò cadere a terra, accanto a un

pilastro che aveva un diametro di mezzo metro abbondante, e lasciò

un guaito stridulo come quello di un cane affamato. Si trattava eviden-

temente di un richiamo, dato che due uomini apparvero nell'ampia

navata centrale del tempio, verso la quale io ero voltato.

Due uomini... o piuttosto due mostruosità malvagie celate in corpi

umani. I loro occhi brillavano di quella verde fiamma aliena, e i loro

corpi, sotto abiti stracciati, erano spaventosamente bianchi. Uno di lo-

ro mi si avvicinò con un pezzo sfilacciato di corda, probabilmente un

frammento di laccio che avevano trovato di sopra.

Più tardi capii che quei due dovevano essere i meccanici provenienti

da Amarillo e che, come mi aveva detto Judson la notte del nostro viag-

gio fatale, erano stati assunti da mio padre. Non avevo ancora visto il

dottor Blake Jetton, il padre di Stella, che era stato l'assistente capo di

mio padre in varie indagini scientifiche... indagini che avevano avuto

un risultato terrificante!

Mentre la donna mi teneva contro la colonna, gli uomini mi a~ferra-

rono le braccia, le tesero dietro il pilastro e le legarono. Io scalciai, lot-

tai, li maledissi, ma invano. Il mio corpo sembrava stucco molle di

fronte alla loro terrificante forza. Una volta legate le mani, mi passaro-

no una seconda corda attorno alle caviglie, stringendola saldamente

contro la colonna color ebano.

Ero così del tutto impotente in quel misterioso tempio sotterraneo,

in balia di quelle quattro creature che sembravano possedere una su-

perintelligenza infernale unita alla forza e alla natura di lupi.

--Guarda lo strumento che noi dobbiamo costruire!--esclamò la

voce ringhiante di mio padre. Fermo di fronte a me con il rotolo di pro-

getti tra le mani cadaveriche, mi indicò un oggetto che non avevo fino-

ra scorto in quel macabro baluginio rossastro.

Al centro dell'alta navata principale, tra le file~gemelle di neri pila-

stri, c'era una lunga e bassa piattaforma di pietra d'ebano, da cui si er-

geva un'intelaiatura metallica simile a quella della macchina distrut-

ta che avevo visto di sopra, nella cantina.

Il telaio sosteneva verticalmente un enorme anello di rame, molto

più grande dell'anello appartenente all'apparecchio devastato. Il suo

diametro era di circa tre metri e mezzo, se non di più; la sua curva su-

periore si innalzava verso la buia volta del locale, luccicando strana-

mente nell'atmosfera sanguigna e spettrale. Dietro l'anello era stato si-

stemato un gigantesco specchio parabolico argenteo di metallo lucido.

Ma l'apparecchiatura era evidentemente incompleta.

Le complesse valvole termoioniche, le delicate bobine, i magneti e

l'intricata cablatura, di cui avevo osservato i resti inservibili nel rotta-

me dell'altra macchina, non erano ancora state installate.

--Guarda!--urlò di nuovo mio padre.--Lo strumento da cui verrà

sulla tua terra la grande vita che è nostra. Il progetto su questi fogli ab-

biamo fatto. Dal progetto abbiamo costruito la macchina piccola, e ab-

biamo condotto a noi stessi la vita, la forza, I'amore del sangue...

--L'amore del sangue!--Sussultai, lanciando un urlo angosciato, e

fui di nuovo quasi sopraffatto dall'orrore che incombeva in quello stra-

no posto. Mi accasciai contro le corde tremando di paura.

Negli occhi della cosa che un tempo era stata mio padre comparve

ancora quella luce d'astuzia.

--No, non temere--mi calmò con un tono lamentoso.--La tua lin-

gua è nuova per me, e io dico quello che non intendo. Non devi avere

paura... se farai il nostro volere. Se non lo farai, allora noi assaggeremo

il tuo sangue.

--Ma la nuova vita è giunta solo a pochi. Poi la macchina si è rotta,

per colpa di un uomo, e i nostri cervelli sono cambiati; così noi non ri-

cordiamo come leggere i progetti che abbiamo fatto un tempo. Il tuo

aiuto vogliamo nel ricostruire una nuova macchina. Per te e per tutta

la tua specie di vita!--Si avvicinò con gli occhi verdastri che brillava-

no di una luce malevola, e mi srotolò davanti uno dei fogli coi piani e le

caratteristiche degli strani tubi elettronici da montare intorno all'a-

nello di rame. Dalle labbra gli uscì il lamento sinistro, canino, con cui

quei mostri comunicavano tra loro. Uno dei meccanici mutati lo segui-

va, reggendo con mani di un pallore cadaverico i componenti di uno

dei tubi - il filamento, la lamina, la griglia, gli schermi, gli elettrodi

ausiliari e il tubo di vetro in cui quegli oggetti avrebbero dovuto essere

sigillati. Evidentemente i componenti erano stati fabbricati tentando

di obbedire alle specifiche dei fogli - almeno nella misura in cui quelle

creature potevano comprenderle, vista la loro tutt'altro che perfetta

conoscenza dell'inglese.

--Devi controllare la corrispondenza tra i pezzi e i piani--uggiolò

mio padre.--Se la corrispondenza non c'è, devi dire dov'è l'errore, e

spiegare come si può fare a ottenerla. Parla in fretta, o morirai lenta-

mente--concluse in tono minaccioso.

Pur non essendo affatto un fisico di vaglia, non ebbi difficoltà a con-

statare che molti pezzi erano inutilizzabili, nonostante fossero stati co-

struiti con estrema cura. Le creature sembravano ignorare completa-

mente i principi di fondo sui quali si basava il congegno che cercavano

di costruire; nello stesso tempo, il modo in cui erano stati fabbricati al-

cuni pezzi implicava il possesso di nozioni che, per il momento, erano

molto al di là delle possibilità della nostra scienza.

Il filamento era metallico, questo è vero - ma di tale spessore che

una corrente in grado di portarlo a incandescenza avrebbe danneggia-

to irreparabilmente il tubo che lo conteneva. La griglia era un piccolo

capolavoro- ma era di radio metallico! Valeva, da sola, una fortuna,

ma era del tutto inutile in un tubo elettronico. E la lamina mi sembrò

di quarzo puro fuso, lavorato con un'accuratezza che mi sbalordì; ma

anche quella era del tutto inservibile.

--Ci sono pezzi che non vanno bene?--chiese mio padre con voce

uggiolante. Evidentemente i suoi luccicanti occhi verdastri avevano

letto qualcosa nel mio viso.--Spiega dov'è lo sbaglio. Spiega come ri-

farli nel modo giusto!

Serrai le labbra, deciso a non dire nulla. Sapevo che proprio per mezzo

di quell'infame congegno mio padre e Stella erano stati ridotti nel loro

attuale stato. Per nessuna ragione al mondo ero disposto a far sì che al-

tri esseri umani subissero una così orribile metamorfosi. Se portata a

termine, la macchina alla quale erano destinati quei pezzi sarebbe sta-

ta un pericolo per tutta l'umanità: questo pensavo, anche se allora ero

ben lontano dall'aver compreso fino in fondo la portata di quel perico-

Mio padre ringhiò in direzione della donna.

Lei allora si gettò carponi e si scagliò contro di me come un lupo, con

terribili ululati!

Mi prese con i denti i calzoni, sulla metà della coscia destra, e diede

uno strappo verso il basso. Poi me li affondò nella carne e cominciò a

rosicchiare lentamente...

Non mi produsse una ferita profonda, ma il sangue, che appariva ne-

ro in quella luce terribile, prese a gocciolare lungo la mia gamba... san-

gue che di tanto in tanto lei leccava con gusto, smettendo momenta-

neamente di rosicchiare. Era chiaro che tutto ciò veniva fatto con il

preciso scopo di causarmi il massimo del dolore e della paura.

Per alcuni minuti, forse, io sopportai... minuti che sembravano seco-

Il dolore in sé era atroce, ma non quanto lo era il terrore del luogo e

della situazione in cui mi trovavo. Lo strano tempio delle tenebre, dal

pavimento nero, le pareti nere, i pilastri neri, il soffitto a volta nero. La

fioca luce color sangue, senza fonti apparenti, che lo pervadeva. Lo

spaventoso silenzio, rotto soltanto dai miei gemiti e dal lieve rumore

dei denti che rosicchiavano. Il mostro demoniaco che mi stava di fron-

te nel corpo di mio padre, che mi fissava tenendo in mano gli schemi e i

pezzi della valvola, e che aspettava che io parlassi. Ma la cosa più orri-

bile era che il demone che mi stava addentando possedeva il corpo del-

la cara, adorabile Stella!

La ragazza stava ora affondando i denti con un rumore scricchiolan-

te.

Mi dimenai, urlando per il dolore atroce e grondante di sudore. Die-

di strattoni furiosi ai legami che mi bloccavano, cercando di spezzare

la corda che imprigionava la mia gamba torturata.

Dalla gola di lei si levarono avidi e rabbiosi grugniti. Il suo viso di un

pallore cadaverico era di nuovo sporco di sangue, come la prima volta

che l'avevo visto. Ma lo strazio della mia gamba continuava interrotto

solo occasionalmente quando lei si fermava a leccarsi le iabbra con

un'orribile espressione di soddisfazione.

Alla fine non riuscii più a sopportare quella tortura. Anche se il destino

della terra dipendeva da me, come ero convinto, non potevo più resi-

stere.

--Basta! Basta!--gridai.--Parlerò.

Si avvicinò a me con uno sguardo in cui bruciava una verde fiamma

malvagia, e mi srotolò di fronte agli occhi uno dei fogli contenenti i di-

segni e i dati delle strane valvole che dovevano essere montate all'e-

sterno dell'anello di rame. Dalle sue labbra uscì il curioso lamento ani-

malesco con cui quei mostri comunicavano tra loro. Uno dei meccanici

mutati gli si avvicinò allora, portando in mano le parti di una valvola:

filamenti, placca, griglia, schermatura, elettrodi ausiliari e il tubo di

vetro in cui dovevano essere sigillate.

Le parti evidentemente erano state costruite con la massima confor-

mità possibile alle istruzioni scritte, permessa dalla imperfetta cono-

scenza dell'inglese di quegli esseri.

--Ci sono i piani di queste parti--disse mio padre.--Se sbagliate,

tu devi dire dove sbagliate. Descrivi come metterle assieme. Parla ra-

pido, o morirai con lentezza!--E ringhiò minaccioso.

Sebbene io non fossi assolutamente un esperto in fisica, vidi abba-

stanza facilmente che gran parte di quei pezzi erano inservibili, nono-

stante fossero stati fabbricati con sorprendente precisione. Sembrava

che quelle creature non possedessero alcuna conoscenza dei principi

fondamentali che erano alla base del funzionamento della macchina

che stavano tentando di costruire... eppure, nel fabbricare quei pezzi,

avevano compiuto realizzazioni che sarebbero state al di fuori della

portata della nostra scienza.

Il filamento era costruito in metallo, abbastanza bene... ma era trop-

po spesso, e la corrente che avrebbe condotto avrebbe fatto saltare la

valvola. La griglia era costruita in maniera eccellente... ed era di radio

metallico! Valeva una piccola fortuna, ma era del tutto inadatta a una

valvola termoionica. La placca era evidentemente di quarzo puro, fu-

so. Era modellata con una precisione che mi sorprese, ma anch'essa

era inservibile.

--Parti sbagliate?--latrò eccitato mio padre, avendomi senza dub-

bio letto qualcosa in faccia.--Indica quanto sono sbagliate! Descrivi

come farle corrette!

Io serrai le labbra, deciso a non rivelare nulla. Sapevo che la spaven-

tosa metamorfosi di mio padre e di Stella era avvenuta tramite la mac-

china ora distrutta, e non volevo collaborare alla trasformazione di al-

tri esseri umani in simili mostri diabolici. Ero certo che quell'apparec-

chiatura, una volta completata, avrebbe costituito una minaccia per

l'intera umanità.

Piuttosto riluttante la ragazza si alzò, leccandosi le labbra scarlatte.

Mio padre - io continuo sempre a chiamare il mostro con questo no-

me, ma quello non era mio padre - mi mise gli schemi sotto gli occhi,

mostrando nel palmo della mano le minuscole parti che componevano

la valvola.

Dovetti usare tutta la forza di volontà di cui disponevo per distoglie-

re la mente dal dolore pulsante della ferita alla gamba. Ma riuscii a

spiegare che il filamento avrebbe dovuto essere molto più sottile, che il

radio non era adatto per la griglia, e che la placca doveva essere co-

struita con un metallo conduttore, invece che con quel quarzo.

Fece fatica a comprendere i termini scientifici da me usati. Il nome

tungsteno, per esempio, non significava niente per lui, finché non gli

spiegai le caratteristiche e il numero atomico di tale metallo. Al che lo

indentificò immediamente, e parve possedere in proposito una cono-

scenza perfino superiore alla mia.

Per lunghe ore risposi alle sue domande e fornii spiegazioni. Alcune

volte fui tentato di rifiutare di farlo, ma il ricordo insopportabile dei

denti che mi rodevano la gamba finì sempre col costringermi a parla-

re.

La conoscenza scientifica e l'abilità dimostrate nella costruzione

delle parti della macchina, una volta capite correttamente le istruzio-

ni, mi sorpresero. Quei mostri, che avevano rubato quei corpi umani,

sembravano possedere una loro conoscenza scientifica notevole, spe-

cialmente nella chimica e in certi rami della fisica. Però l'elettricità, il

magnetismo, e le moderne teorie della relatività e dell'equivalenza,

sembravano nuove per loro, probabilmente perché quegli esseri prove-

nivano da un mondo i cui fenomeni naturali erano differenti dai nostri.

Da una delle cavità che si aprivano nella grande sala, portarono uno

strano congegno luccicante che consisteva in una serie di sfere e di bul-

bi collegati tra loro e costruiti con una specie di cristallo. Un blocco di

pietra calcarea, che doveva provenire dagli scavi del tempio sotterra-

neo, venne posto in una capiente sfera inferiore del macchinario e si

dissolse lentamente formando un denso gas iridescente color vioia.

Allora, quando mio padre o uno degli altri volevano costruire qual-

cosa - una placca o una griglia metallica, una bobina, un interruttore o

qualsiasi altro pezzo occorrente alla macchina - modellavano una pic-

cola copia dell'oggetto desiderato con una sostanza biancastra e molle,

simile a cera.

Il modello veniva quindi posto in uno dei bulbi di cristallo che veni-

va riempito con il gas violetto, probabilmente un derivato formato dai

protoni e dagli elettroni del calcare scisso.

L'operatore del congegno azionava un controllo, e al momento giu-

sto toglieva dal bulbo di cristallo... non il modello, bensì l'oggetto fini-

to, formato del materiale desiderato!

Non mi spiegarono il processo, ma sono certo si trattasse di formare

nuovi atomi partendo dagli elettroni e dai positroni originali- un pro-

cesso era esattamente l'opposto della disintegrazione. Si poteva parti-

re da atomi semplici come quelli dell'idrogeno o dell'elio e si ottene-

vano poi carbonio, silicio, o ferro. E poi argento, se si desiderava, op-

pure oro! E infine radio o uranio, i metalli più pesanti. L'oggetto veniva

tolto quando gli atomi avevano raggiunto il numero adatto per la for-

mazione dell'elemento richiesto.

Con quell'apparecchio meraviglioso, i cui risultati superavano i so-

gni più folli degli alchimisti, la realizzazione dell'enorme macchina al

centro della navata procedeva a una velocità impressionante, una ve-

locità che mi terrorizzava.

Pensai allora che avrei potuto ritardarne la costruzione escogitando

qualche espediente. Spremendo il mio cervello, stanco e offuscato dal

dolore, cercai un trucco che potesse sviare i miei astuti avversari. L'i-

dea migliore che mi si presentò fu quella di fomire una falsa interpre-

tazione della parola "vuoto". Se fossi riuscito a nasconderne il vero si-

gnificato a mio padre, lui avrebbe lasciato arie nelle valvole, che sareb-

bero saltate non appena data la corrente. Quando alla fine mi doman-

dò cosa volesse dire quella parola, io gli spiegai che indicava uno spa-

Zi0 chiuso.

Ma lui aveva consultato opere scientifiche, oltre a sfruttare la mia

povera consulenza tecnica. Quando quelle parole uscirono dalle mie

labbra, mi balzò addosso con un ringhio terrificante, cercando di gher-

mirmi la gola. Se non fosse stato per un'affrettata simulazione di ottu-

sità e di paura, la mia parte in quell'orribile avventura avrebbe potuto

giungere a una prematura conclusione. Protestai la mia sincerità, ad-

ducendo come scusa che la mia mente era sfinita e che non riuscivo più

a ricordare argomenti scientifici, che avevo ancora bisogno di mangia-

re e di dormire.

Poi mi accasciai contro le corde, con il capo penzolante, rifiutando di

rispondere anche di fronte alla minaccia di ulteriori torture. E, a dire il

vero, vi era ben poca finzione nella mia stanchezza, perché non avevo

mai passato una giornata così logorante, una giornata in cui gli orrori

si erano succeduti così di continuo.

Alla fine mi slegarono, e la ragazza, percorrendo il passaggio di pri-

ma, mi condusse di nuovo in casa; ero troppo esausto per camminare

da solo. Quando uscimmo nel cortile coperto di neve, il lontano lamen-

to del branco mi colpì un'altra volta i timpani.

A est, sulla sconfinata distesa di neve, il pallido disco della luna dai

freddi riflessi argentei stava sorgendo. Era di nuovo notte!

Ero rimasto nel tempio sotterraneo per più di ventiquattro ore.

Sfuggendo al branco

Ero di nuovo nella piccola stanza che un tempo era stata di Stella, tra i

suoi oggetti personali, cogliendo un occasionale sentore del suo profu-

mo. Era una cameretta ordinata e semplice, e io avevo la sensazione di

violare un luogo sacro. Ma non avevo scelta, del resto, poiché le fine-

stre erano bloccate e la porta era chiusa a chiave.

Stella, o meglio dovrei dire la donna lupo, mi aveva lasciato fermare

nell'altra stanza per mangiare e bere qualcosa, e mi aveva perfino con-

cesso di cercare il mobiletto dei medicinali da cui avevo prelevato una

bottiglia di disinfettante da applicare alla gamba ferita.

Ora, seduto sul letto in un freddo raggio di luce lunare, versai il li-

quido bruciante e fasciai la gamba con una benda ricavata da un len-

zuolo pulito.

Poi mi alzai e andai alla finestra: ero deciso a fuggire se la fuga fosse

stata possibile, o a farla finita definitivamente in caso contrario. Non

avevo alcuna intenzione di tornare vivo in quel tempio infernale.

Ma mentre raggiungevo la finestra udii debolmente il lugubre ulula-

to del branco, e cominciai a tremare inorridito, guardando quel biz-

zarro deserto di neve argentea che luccicava nella foschia opalescente

della luna.

Poi colsi di sfuggita due occhi verdi che si muovevano, e lanciai un

grido.

Un enorme lupo grigio stava andando avanti e indietro tranquilla-

mente sotto la finestra, alzando di tanto in tanto il muso e fissando le

mie finestre con occhi malvagi.

Una sentinella per controllarmi!

Alla mia disperazione assoluta si aggiunse allora il peso gravoso del-

la fatica Mi sentii improvvisamente stremato, fisicamente e mental-

mente. Mi accasciai barcollando sul letto e scivolai sotto le coperte

senza nemmeno spogliarmi, addormentandomi quasi all'istante.

Al risveglio trovai ad accogliermi una giornata fredda e grigia. Un ven-

to gelido sibilava inquietante attorno alla vecchia casa, e il cielo era

coperto da tetre nubi bluastre. Balzai dal letto provando un notevole

senso di ristoro dopo la lunga dormita. Per un istante, nonostante il

giomo cupo, avvertii uno straordinario senso di sollievo; per quell'at-

timo fuggevole mi sembrò che tutto quanto era accaduto fosse solo un

incubo orrendo da cui stavo risvegliandomi. Poi tornarono i ricordi

accompagnati da un dolore sordo alla gamba ferita.

Mi chiesi come mai non mi avessero riportato nell'orrido tempio

dalla luce rossastra prima dello spuntare del giomo; forse dovevo aver

dormito troppo profondamente perché mi svegliassero.

Ricordando il lupo grigio, guardai nervosamente dalla finestra. Se

n'era andato, ovvio. Sembrava proprio che i mostri non sopportassero

la luce del giomo, o qualsiasi altra luce che non fosse il terribile lucore

sanguigno del tempio.

Mi gettai una coperta sulle spalle, dato il freddo intenso, e cominciai

subito a studiare un sistema per fuggire. Ero deciso a conquistarmi la

libertà o a morire nel tentativo.

Per prima cosa esaminai ancora le finestre. Le traverse esteme

quantunque di legno, erano solidissime, e anche sforzandomi al massi-

mo non riuscii a spezzarle. Nella stanza non trovai niente che fosse

adatto a tagliarle o a spaccarle senza impiegare ore di duro lavoro

Alla fine mi concentrai sulla porta, ma pugni e calci non sortirono al-

cun effetto sui solidi pannelli. La serratura aveva un aspetto robusto, e

poi non avevo né le capacità, né gli attrezzi per forzarla.

Ma mentre ero lì a fissare la serratura, mì venne un'idea. Avevo an-

cora la piccola automatica e due caricatori pieni. I miei carcerieri ave-

vano mostrato solo disprezzo per quell'arma minuscolal e io non vi fa-

cevo più alcun affidamento dopo aveme constatato la sorprendente

inefficacia nell'uccidere quel lupo grigio.

Indietreggiai, presi la pistola e scaricai, senza fretta, tre colpi nella

serratura. Quando provai ancora ad aprire la porta, mi accorsi che

continuava a non cedere. Allora spinsi e girai la maniglia in continua-

zione finché, con un secco scatto, la porta si spalancò.

Ero libero. Se solo fossi riuscito a raggiungere un luogo al sicuro pri-

ma che l'oscurità spingesse allo scoperto quel branco misterioso!

Mi fermai nella vecchia sala da pranzo per bere e mangiare affrettata-

mente, poi uscii dalla porta anteriore perché non osavo avvicinarmi a

quell'infemale tana sotterranea nemmeno di giomo, e con una fretta

disperata mi incamminai nella neve.

Sapevo che il piccolo centro di Hebron distava quindici chilometri

in direzione nord. Sulla spessa coltre nevosa erano visibili ben pochi

punti di riferimento, e le nubi grigie nascondevano il sole. Ma io presi

ad arrancare lungo un reticolato che sapevo mi avrebbe guidato nella

direzione giusta.

Lentamente la casa colonica ingiallita dal tempo, una struttura mal

progettata e mal costruita dal tetto di assicelle grigiastre, rimpicciolì

sulla candida distesa alle mie spalle. I fabbricati annessi, piccoli, più

vecchi e in rovina della casa stessa, parvero raggrupparsi con l'abita-

zione, fino a formare un'unica macchia bruna sulla smisurata desola-

zione della prateria innevata.

La crosta superficiale, per quanto più ghiacciata e solida della notte

maledetta in cui ero arrivato, era ancora troppo fragile per sorreggere

il mio peso. A ogni passo si incrinava sotto i miei piedi, facendomi af-

fondare fino alla caviglia.

La mia avanzata era una lotta dolorosa e spietata. Gli orrori e gli

sforzi estenuanti degli ultimi giorni mi avevano svuotato di qualsiasi

energia. Ben presto mi ritrovai ansimante, con i piedi pesanti come

piombo e un dolore sordo alla gamba ferita, un dolore intollerabile.

Se la neve fosse stata abbastanza ghiacciata da sostenere il mio peso

e pemmettermi così di correre, avrei potuto arrivare a Hebron prima

dell'oscurità. Invece, affondando a ogni passo fino alla caviglia, non

riuscivo assolutamente a muovermi con rapidità.

Non avevo nemmeno coperto, a mio avviso, la metà della distanza

che mi separava da Hebron, quando le tenebre di quella giomata gri-

gia e deprimente sembrarono calare su di me. Mi resi conto, con un fre-

mito d'orrore, che la mia fuga non era iniziata di prima mattina. Avevo

l'orologio fermo, e poiché il sole era stato coperto da nubi plumbee,

non avevo la minima nozione del tempo.

Senza dubbio, sfinito per quell'intero giomo di torture trascorso nel

tempio, avevo dormito per più di mezza giornata. Ora la notte mi ave-

va sorpreso quando ero ancora lontanissimo dalla meta.

Ormai distrutto dalla fatica, mi ero trovato già diverse volte sul pun-

to di fermarmi e riposare. Ma il terrore mi infuse rinnovate energie e

continuai ad arrancare il più rapidamente possibile, evitando però di

mettermi a correre, cosa che avrebbe esaurito troppo presto le mie ul-

time forze.

Avevo forse percorso un altro chilometro e mezzo, quando sentii l'ag-

ghiacciante ululato del branco.

Dapprima lo sentii lontanissimo, basso e lamentoso, con quella sua

orrenda nota di voce umana. Poi però si fece più forte, divenne una se-

rie di guaiti striduli e avidi.

Capii allora che il branco che aveva assalito me e Judson si era lan-

ciato sulle mie tracce.

Il terrore che mi afferrò, un terrore pazzesco, assoluto e lacerante, è

inimmaginabile. Urlai perdendo ogni controllo. Il mio corpo passava

continuamente da ondate di calore febbricitante a brividi e sudori

freddi. Avevo la gola riarsa, vacillavo e sentivo il battito del cuore pul-

sare cupo in tutto il corpo.

Fuggii.

Selvaggiamente, come un forsennato. Corsi con tutte le mie forze

Ma dopo alcuni istanti, sembrò proprio che avessi dato fondo a ogni

mia energia.

Mi sentii di colpo nauseato dalla fatica e barcollai, quasi incapace di

reggermi in piedi. Una foschia rossastra, punteggiata da lampi di can-

dida fiamma, mi danzava di fronte agli occhi. La vasta piana di neve

mi roteava attorno in maniera assurda.

Continuai ad avanzare vacillando. Ogni passo mi costava un supre-

mo sforzo di volontà; sentivo che ero sul punto di crollare nella neve

ma lottavo disperatamente trovando la forza di alzare nuovamente ii

piede.

Intanto gli orribili latrati si facevano più vicini, finché il loro suono

lamentoso e caotico non mi martellò nel cervello.

Alla fine, incapace di muovere un altro passo, mi voltai a guardare.

Per alcuni istanti rimasi lì, barcollando e ansando concitato. Gli urli

innaturali e agghiaccianti del branco erano vicinissimi, ma io non riu-

scivo a scorgere nulla. Poi, attraverso le nubi, un ampio raggio spettra-

le di luce lunare sondò la distesa di neve dietro di me. Allora vidi il

branco.

Li vidi. Il massimo dell'orrore!

Lupi grigi che spiccavano balzi, animali scarni dagli occhi verdastri.

E tra di loro, in corsa con loro, strane figure umane. Pupille di smeral-

do che fissavano, gelide e spietate. Corpi di un pallore assurdo vestiti

solo di cenci. E Stella che balzava alla testa del branco!

Mio padre la seguiva. E pure altri uomini. Tutti con gli occhi verdi e

la pelle di un bianco immondo. Alcuni orrendamente mutilati.

Alcuni così malridotti che avrebbero dovuto essere già morti!

Judson, I'uomo che mi aveva condotto fuori da Hebron, era tra di lo-

ro La carne livida gli pendeva a brandelli dal corpo. Aveva perso un

occhio, e l'orbita vuota sembrava cauterizzata da una fiamma verde. Il

suo torace era lacerato in modo inconcepibile. Quell'uomo era stato

anche... completamente sventrato!

Eppure il suo corpo mostruoso balzava accanto ai lupi.

Altri erano in condizioni altrettanto orribili. Uno era privo di testa.

Una foschia scura sembrava concentrarsi sopra il livido moncone del

suo collo, e in essa splendevano malvagi due tizzoni verdi.

Nel gruppo c'era anche una donna. Le era stato strappato un braccio

e il suo petto nudo era dilaniato. Ma correva con gli altri componenti

del branco, latrando a bocca spalancata e con gli occhi verdastri che

brillavano.

Poi, in quella compagnia grottesca, scorsi anche un cavallo, un pos-

sente animale grigio che avanzava spiccando salti impressionanti. An-

che nei suoi occhi scintillava il fuoco malvagio di un'intelligenza mali-

gna che non apparteneva a questa terra. Si trattava dell'animale di

Judson, anch'esso vittima dell'orrida metamorfosi. Dalla sua bocca,

tra un luccichio di denti giallastri, uscivano urli terrificanti.

L'orda infernale, ringhiando, si avvicinò sempre di più, guizzando

velocissima verso di me da tutte le direzioni.

La mia mente non poté sopportare l'orrore della situazione. Una pie-

tosa ondata d'oscurità mi avvolse, mentre io, barcollando, cadevo sul-

la neve.

Attraverso il Disco delle Tenebre

Mi risvegliai nel silenzio assoluto di un sepolcro. Per un po' rimasi a

occhi chiusi, analizzando le sensazioni del mio corpo ghiacciato e do-

lente, avvertendo il dolore sordo e pulsante della ferita alla gamba.

Rabbrividii al ricordo delle esperienze spaventose vissute negli ultimi

giorni, soprattutto al ricordo dell'orrore opprimente nell'attimo in cui

il branco- lupi, uomini, cavalli, orrendamente mutilati e dai demo-

niaci occhi verdi - mi aveva raggiunto sulla prateria innevata. Per un

po' non osai aprire gli occhi.

Alla fine, facendomi forza e preparandomi a eventuali nuovi orrori

che avrebbero potuto attendermi in quel luogo, sollevai le palpebre.

Il mio sguardo si affacciò sul macabro lucore cremisi del tempio dai

pilastri d'ebano. Mi trovavo accanto a una di quelle pareti nere come

la notte, steso su un mucchio di stracci e coperto sommariamente da

un panno. Oltre la fila di massicce colonne cilindriche, vidi lo strano

macchinario con l'enorme anello di rame che emanava strani bagliori

nella fioca luce sanguigna. Lo specchio parabolico sembrava sprigio-

nare un rossore intenso di rubini fusi, e le numerose valvole termoioni-

che, ora montate sui loro supporti, irradiavano la stessa incandescen-

za. La macchina sembrava ormai completata- Iivide figure dagli occhi

verdi vi erano affaccendate, muovendosi con rapidità ed efficienza

meccanica. Fui subito impressionato dal fatto che si muovessero più

come macchine che come esseri umani. Si trattava di mio padre, di

Stella e dei due meccanici.

Restai immobile, a osservarli di nascosto, per parecchio tempo. Evi-

dentemente mi avevano portato in quella camera sotterranea per to-

gliermi qualsiasi possibilità di tentare una seconda fuga. Cominciai a

esaminare l'eventualità di strisciare lungo la parete verso il passaggio

che conduceva di sopra, e poi di imboccarlo a tutta velocità. Ma vi era-

no poche speranze che riuscissi a farlo senza essere visto. E poi non

avevo alcun modo di sapere se fosse giorno o notte; sarebbe stata una

follia darmi alla fuga nelle tenebre. Sentii che la piccola automatica

era ancora sotto il braccio; non si erano minimamente preoccupati di

togliermi quell'arrna di cui non avevano alcun timore.

All'improvviso, prima che avessi osato muovermi, vidi che mio pa-

dre mi si stava avvicinando. Alla vista ravvicinata della sua pelle cada-

verica e dei suoi malefici occhi verdastri, non riuscii a reprimere un

fremito. Mi immobilizzai, cercando di fingere di dormire.

Ma avvertii il glaciale contatto delle sue dita sulla spalla e fui trascina-

to in piedi in modo brusco.

--Altra assistenza ci devi dare--uggiolò la sua voce animalesca.

--E non più verrai riportato indietro vivo, se dovessi essere tanto

sciocco da fuggire!--E il tono lamentoso della voce si concluse con un

ringhio sinistro.

Mi trascinò verso quell'apparecchio fantastico che scintillava nel

macabro chiarore.

Al pensiero che mi legassero ancora alla colonna, mi persi completa-

mente d'animo.

--Vi aiuterò!--urlai.--Farò quello che vorrete. Ma non legatemi

per l'amor del cielo! Non fatemi azzannare da lei!--La mia voce dove-

va essersi mutata in un grido isterico. Mi sforzai di assumere un tono

più calmo, arrovellandomi il cervello in cerca di un appiglio.

--Se mi legate un'altra volta, morirò--implorai vigorosamente.

--E poi, se mi lasciate libero, potrò aiutarvi con le mie mani!

--Sarai libero da legami, allora--disse mio padre.--Ma ricorda!

Vattene, e noi non ti riporteremo vivo!

Mi condusse accanto alla grande macchina. Uno dei meccanici, a un

uggiolio di comando di mio padre, srotolò di fronte a me uno schema e

cominciò a rivolgermi parecchie domande riguardanti l'impianto di

cavi per collegare le numerose valvole, le bobine e i magneti disposti

intorno all'enorme anello di rame.

Pareva che il suo strano cervello non possedesse alcuna idea circa la

natura dell'elettricità; così mi toccò spiegargli i principi fondamenta-

li. Tuttavia afferrava ogni nuova nozione con una prontezza stupefa-

cente e sembrava vederne istintivamente le applicazioni pratiche.

Apparve così chiaro che la grande macchina era praticamente finita;

in un'ora circa, i collegamenti dei cavi vennero completati.

--E ora, cosa ancora dev'essere costruito?--domandb mio padre.

Mi resi conto che non si era provveduto affatto all'elettricità neces-

saria per il funzionamento delle valvole e dei magneti. Sembrava pro-

prio che quegli esseri ignorassero la necessità di una fonte energetica.

Un'altra possibilità di fermare l'esecuzione del loro piano diabolico,

pensai allora.

--Non lo so--risposi.--Da quel che posso vedere, la macchina se-

gue tutte le norme costruttive. Non saprei che altro fare.

Mio padre ringhiò qualcosa a uno dei meccanici, che prese subito il

pezzo di corda insanguinata con cui ero stato legato in precedenza.

Stella balzò verso di me, arricciando le labbra in un avido ringhio be-

stiale, con un luccichio di denti.

Un terrore incontrollabile mi scosse, e mi indebolì le ginocchia fino a

farmi barcollare.

--Aspettate, fermatevi!--urlai.--Ve lo dirò se non mi legherete!

Si fermarono.

--Parla!--latrò mio padre.--Presto, descrivi!

--Alla macchina occorre energia motrice. Elettricità, forse.

--E da dove proviene l'elettricità?

--C'è un generatore, su in cantina, presso l'altra macchina. Quello

potrebbe adattarsi allo scopo.

Mio padre e il mostro che un tempo era Stella mi spinsero lungo la

sala dai pilastri neri facendomi salire poi il passaggio che conduceva

in cantina. Arrivati, io indicai loro il generatore e tentai di spiegare

sommariamente come funzionava.

I due si chinarono e afferrarono la base metallica dell'apparecchio.

Con lá loro forza incredibile lo sollevarono e lo trasportarono verso il

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passaggio per trasferirlo nella sala della macchina, costringendomi

però a camminare davanti a loro e frustrando così un'altra mia speran-

za di tentare una fuga improvvisa verso l'esterno.

Proprio mentre stavano sistemando il generatore - il motore a ben-

zina e la dinamo, assieme, dovevano pesare diverse centinaia di chili -

sulla piattaforma nera accanto alla gigantesca macchina misteriosa si

verificò un'interruzione.

Dal passaggio giunse uno strusciare di piedi, seguito da quel misto

di suoni secchi e lamentosi che i mostri usavano apparentemente come

sistema di comunicazione. E nella vaga luce rossastra, tra le alte file di

colonne tenebrose, apparì il branco!

C'erano enormi lupi dal corpo scarno. Uomini orrendamente dila-

niati... Judson, e gli altri che avevo visto. Il cavallo. Tutti i loro occhi

erano di quel verde luminoso, accesi di un fuoco spaventoso e maligno.

Le labbra degli uomini, i musi dei lupi grigi e perfino quello del ca-

vallo erano macchiati di scarlatto. Portavano la preda!

Sulle spalle lacerate di Judson penzolava inerte e coperto di sangue

il corpo straziato di una donna... sua moglie! Uno dei lupi trasportava

sul dorso il corpo maciullato di un uomo, e lo teneva fermo con le fauci,

girando il muso di lato. Un altro portava un vitello chiazzato. Altri due

lupi stringevano nelle bocche grondanti di sangue i corpi inerti di due

coyote. E uno degli uomini reggeva in spalla i resti di un enorme lupo

grigio.

Quei corpi esanimi vennero gettati in un cumulo orribile sotto la na-

vata centrale del tempio, accanto alla strana macchina che pareva un

altare di morte. Il sangue si sparse sul pavimento nero, coagulandosi

in spessi grumi viscidi.

--A questi noi portiamo vita--ringhiò mio padre rivolto a me, in-

dicando con il capo lo spaventoso mucchio di corpi dilaniati.

Rabbrividendo e sconvolto dall'orrore, caddi per terra coprendomi

gli occhi. Ero in preda a una nausea insopportabile. La mia mente, ot-

tenebrata e confusa, stava vacillando e si rifiutava di prendere in con-

siderazione il significato di quella mostruosa scena.

L'essere demoniaco che si celava sotto le spoglie di mio padre mi sol-

levò violentemente in piedi, mi trascinò verso il generatore e cominciò

ad assediarmi con una serie di domande riguardanti il suo fimziona-

mento e il modo in cui collegarlo allo strano macchinario con l'anello

di rame.

Mi sforzai di rispondere ai suoi interrogativi, cercando, ma invano,

di dimenticare in questo modo il mio orrore.

Ben presto i collegamenti vennero completati. Sotto la sorveglianza

di mio padre, esaminai il motore e vidi che era già fornito di carburan-

te. Poi lui tentò di metterlo in moto, ma non sapeva come far funziona-

re correttamente il carburatore. Allora, sotto la costante minaccia del-

la corda insanguinata e delle fauci aguzze della donna-lupo, mi misi

all'opera attorno al piccolo motore finché, dopo aver tossicchiato alcu-

ne volte, non si accese con uno scoppio regolare.

Mio padre mi fece premere l'interruttore che forniva alla strana

macchina la corrente del generatore. Dalle bobine si sollevò un lieve

ronzio. Le valvole si accesero di una debole incandescenza.

E una cortina d'oscurità sembrò calare improvvisamente attraverso

l'anello di rame. Sembrava che un nero assoluto fluisse dallo strano tu-

bo catodico, sistemáto posteriormente, e che venisse poi riflesso dallo

specchio parabolico. Un disco di fitta e assoluta oscurità riempiva così

l'anello.

Per alcuni istanti fissai la scena sconcertato.

Poi, quando i miei occhi cominciarono lentamente ad assuefarsi,

scoprii che riuscivo a vedere attraverso il disco... a vedere in un orren-

do mondo da incubo.

L'anello era diventato un'apertura che si affacciava su un mondo

alieno, un mondo d'orrore e di tenebre.

Il cielo di quel mondo era di un nero indescrivibile e inconcepibile,

era più nero della notte più buia. Non aveva stelle, non aveva corpi ce-

lesti, non mostrava nemmeno un fievolissimo baluginio che ne spez-

zasse la terribile e opprimente intensità.

Oltre l'anello era visibile una vasta distesa della superficie di quel-

I'altro mondo. Basse colline, desolate e consumate dal tempo, che sem-

bravano nere al pari del lugubre cielo. Tra di esse scorreva un largo fiu-

me stagnante, le cui acque pigre e cupe brillavano di una vaga lumino-

sità spettrale, un pallido bagliore che aveva qualcosa di immondo e di-

sgustoso.

E sopra quelle basse e antiche colline, tondeggianti come il petto

gonfio di un cadavere, cresceva una vegetazione ripugnante. Orride,

oscene parodie di piante normali, dalle foglie lunghe e strette, simili a

serpi. Sembravano contorcersi animate da una vita spaventosa e con-

traria alla natura; coprivano le colline in grovigli disgustosi e si spin-

gevano fino alle fetide acque del fiume. I loro viticci tentacolari, simili

a rettili, emettevano una pallida luce spettrale, livida e verdastra.

E su una collina, sopra il fiume e la giungla oscena, sorgeva l'equiva-

lente di una città. Un ammasso caotico di marciume rossastro. Una

chiazza immonda di cupo inquinamento cremisi.

Non si trattava forse di una città... almeno, non nel senso che noi at-

tribuiamo alla parola. Sembrava una specie di nube di tenebre, orribi-

le e sfumata di sangue, che spingeva i suoi repellenti tentacoli stri-

scianti lungo la bassa collina; una chiazza di malvagia nebbia color

cremisi. Protuberanze ed escrescenze, folli e repellenti, si innalzavano

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intorno in una grottesca caricatura di guglie e torri. La città era immo-

bile. Io capii istintivamente che una sordida e abominevole forma di

vita senziente regnava all'interno di quella spaventosa contaminazio-

ne scarlatta.

Mio padre salì sullo scalino di pietra di fronte all'anello di rame, e

cominciò a lanciare un ululato misterioso in quel regno dell'oscuro.

In risposta, la caotica città d'incubo sembrò agitarsi leggermente. Co-

se scure, nere masse fetide, sembrarono muoversi strisciando dalle sue

disgustose protuberanze per sciamare verso di noi attraverso l'immon-

da vegetazione brulicante.

Le tenebre del male assoluto strisciavano da quel mondo d'incubo

per penetrare nel nostro!

Per lunghi istanti, un terrore folle mi paralizzò in un'impotenza to-

tale. Poi, di colpo, nacque in me il coraggio che mi portò alla disperata

decisione di ribellarmi ai miei mostruosi dominatori, incurante della

minaccia della corda insanguinata.

Strappai i miei occhi dalla terrificante attrazione che pareva trasci-

narli verso la ripugnante città, in quell'orrido mondo di male inconce-

pibile.

Mi accorsi che nessuno mi controllava più. I verdi occhi dei mostri

che mi stavano accanto erano fissi con avidità, ammaliati dall'anello

di rame attraverso il quale era visibile il mondo alieno. Sembravano

non rendersi conto della mia presenza.

Se solo fossi riuscito a distruggere la macchina, prima che quell'or-

rore strisciante penetrasse sulla terra! Avanzai istintivamente, ma mi

fermai, accorgendomi che sarebbe stato impossibile danneggiare se-

riamente la macchina a mani nude, prima che i mostri mi vedessero e

attaccassero.

Allora pensai alla piccola automatica che avevo ancora in tasca, e

che nessuno si era degnato di togliermi. Sebbene i proiettili fossero in-

nocui per i corpi dei mostri, avrebbero invece potuto arrecare seri dan-

ni al macchinario.

La estrassi rapidamente di tasca e cominciai a sparare con decisione

mirando alle valvole. Non appena la prima valvola si frantumò, I'im-

magine di quel mondo orrendo tremolò e svanì. Dietro l'anello di rame

tornò di nuovo visibile l'enorme specchio parabolico.

Almeno momentaneamente, le nere forme del male assoluto erano

state chiuse fuori dal nostro mondo!

Mentre continuavo a sparare, sbriciolando le valvole e le altri parti

più complesse e più delicate della macchina, un urlo agghiacciante si

levò dal gruppo di mostri umani e animali colti di sorpresa.

Le creature mi si scagliarono addosso lanciando spaventosi ululati.

La rivelazione ipnotica

Furono le lingue giallastre della fiamma della pistola a salvarmi. Dap-

prima quel branco di mutazioni si era gettato nella mia direzione, con

gridi di atroce sofferenza causata evidentemente dalla vista della luce.

Io avevo continuato a far fuoco deciso a danneggiare il più possibile la

macchina prima che mi fossero addosso.

Ma all'improvviso quelli indietreggiarono con guaiti agghiaccianti,

coprendosi gli occhi e scivolando al riparo dietro le massicce colonne

nere.

Quando la pistola fu scarica, alcuni ripresero ad avanzare verso di

me. Ma sembravano ancora scossi, deboli e incerti. Con gesti concitati

frugai nelle tasche in cerca di fiammiferi; prima non mi ero reso conto

degli effetti devastanti che aveva la luce su di loro.

Ne trovai solo tre. Pareva che non me ne fossero rimasti altri.

I mostri, dopo essersi ripresi dall'effetto dei bagliori della pistola, mi

stavano di nuovo balzando addosso nel tetro chiarore rossastro, men-

tre io tentavo disperatamente di creare altra luce.

Il primo fiammifero mi si spezzò tra le dita.

Ma il secondo avvampò con una vivida fiamma gialla. Le belve si ri-

trassero ancora con gemiti, mentre io reggevo alta la fiammella, e si ri-

pararono all'ombra tremolante dei pilastri.

La mia mente sconvolta e offuscata fu rischiarata dalla speranza di

poter fuggire, e riacquistò rapidamente la sua efficienza. Tenendoli a

distanza con la luce, avrei potuto raggiungere l'aria aperta. Senza con-

tare, mi resi improvvisamente conto che doveva essere già giorno, fuo-

ri. Sì, era mattino, e il branco era stato spinto a nascondersi nella tana

dalla luce del sole nascente!

Il più rapidamente possibile, senza spegnere la debole fiamma con

la corrente prodotta dai miei movimenti, avanzai lungo la grande sala

sotterranea, tenendomi nella navata centrale per paura che i miei ne-

mici mi seguissero strisciando all'ombra delle colonne.

Prima che raggiungessi il passaggio che portava in superficie, una fola-

ta d'aria colpì il fiammifero spegnendolo. Mi trovavo di nuovo immer-

so in quella foschia scarlatta in cui, all'estremità posteriore del tem-

pio g~uzzavano malvagie pupille verdastre. Un ululato di rabbia tornò

a fársi sentire, seguito dal rapido muoversi dei passi dei mostri.

Mi restava un solo fiammifero.

Mi chinai, lo strofinai con cautela sul pavimento nero e lo sollevai

sopra il capo...

Nuovi guaiti di dolore. Le belve batterono ancora in ritirata.

Trovai l'imboccatura del passaggio, che infilai in tutta fretta, pro-

teggendo la preziosa fiamma con la mano piegata a coppa.

Nel salone alle mie spalle si levarono gli urli agghiaccianti del bran-

co. Sentii i mostri riversarsi nel passaggio.

Quando raggiunsi la vecchia cantina, il fiammifero si era ormai con-

sumato. h~i voltai e lasciai che gli ultimi bagliori rischiarassero il tun-

nel. Altri urli di sofferenza e di terrore, e i mostri si ritirarono dal pas-

saggiO.

Improvvisamente il fiammifero si spense.

Nella folle fretta sbattei contro la parete, trovai gli scalini che porta-

vano fuori e mi precipitai disperatamente.

Il branco intanto stava risalendo il passaggio con una velocità che

non mi era assolutamente consentita.

Alla fine la mia mano si posò sulla porta che chiudeva la scala. Die-

tro quella porta c'era l'abbagliante luce del giorno.

E nel medesimo istante, dita fredde come quelle di un cadavere mi

serrarono la caviglia in una morsa stritolante.

Con un gesto incontrollato, io spinsi una mano verso l'alto.

La porta si spalancò, sbattendo rumorosamente. Sopra di me un vi-

vido cielo azzurro, il cui sole del mattino sfolgorava accecante. La sua

calda radiosità mi fece lacrimare gli occhi ormai abituati alla penom-

bra rossastra del tempio.

Alle mie spalle si levarono di nuovo atroci gemiti animali. La morsa

attomo alla mia caviglia si strinse in modo convulso, poi si allentò.

Voltandomi, vidi Stella ai miei piedi, rannicchiata e tremante come in

preda a spasimi insopportabili, che lanciava urli bestiali di sofferenza.

Sembrava che la luce abbagliante del sole l'avesse stroncata del tutto,

indebolendola a tal punto da non permetterle più di ritirarsi come ave-

vano invece fatto gli altri.

Improvvisamente mi trovai a vederla come un'adorabile fanciulla

che soffriva, e non come mostro demoniaco. Mi sentii lambire da una

tenera ondata di compassione per lei... forse perfino d'amore. Se avessi

potuto salvarla, e restituirle la sua vera personalità!

Mi precipitai giù dai gradini, I'afferrai per le spalle e cominciai a

portarla verso la luce del giorno. Il suo corpo aveva ancora quel pallore

e quel rigore cadaverici, e conservava tuttora un residuo della sua for-

za sovrumana.

La ragazza si dimenò tra le mie braccia, ringhiando e cercando di

addentarmi. Per un istante i suoi occhi lanciarono un ultimo guizzo

malvagio, ma non appena la luce li colpì, lei li chiuse, urlando e ten-

tando di ripararli con un braccio.

La portai su, sotto un sole sfolgorante.

Prima pensai di chiudere la porta della cantina e di cercare di bloc-

carla. Poi mi resi conto che la luce diurna, filtrando lungo la scala,

avrebbe tenuto lontani i mostri molto più effficacemente di qualsiasi

porta sbarrata.

Era ancora mattino presto. Il sole doveva esser sorto da un'ora circa,

e brillava nel cielo terso riflettendosi sulla neve in una miriade di acce-

canti bagliori prismatici. L'aria, comunque, era ancora fredda; non c'e-

ra il minimo accenno di disgelo, e non ci sarebbe stato finché la tempe-

ratura non avesse subito uno sbalzo considerevole.

Mentre stavo lì al sole, sorreggendo Stella, si verificò in lei uno strano

cambiamento. I suoi latrati lamentosi si spensero lentamente. Le sue

convulsioni di dolore si affievolirono, come se una marea di vita aliena

stesse defluendo, abbandonando il suo corpo.

Dopo un ultimo spasmo improvviso le sue membra si afflosciarono.

Notai quasi subito che stava mutando colore. L'orrido pallore cada-

verico stava lentamente cedendo il posto al normale colorito roseo di

una persona sana. Lo strano gelo soprannaturale era sparito; dove il

suo corpo era a contatto col mio, sentii una traccia di tepore.

Poi il suo petto si sollevò. Respirava. Sentivo il cuore pulsare lenta-

mente. I suoi occhi erano ancora chiusi, mentre lei giaceva inerte tra le

mie braccia come se stesse dormendo. Liberai una mano e delicata-

mente le sollevai una palpebra.

L'occhio era di un azzurro limpido... di nuovo normale. La sinistra

fiamma verdastra era scomparsa.

Per qualche ragione che io non capivo, la luce diuma aveva purifica-

to la ragazza, liberando il suo corpo dall'immonda e crudele forma di

vita che l'aveva posseduto.

--Stella! Svegliati!--gridai. La scossi leggermente, ma lei non si

mosse. Sembrava profondamente addormentata.

Comprendendo che ben presto lei sarebbe gelata per l'aria glaciale,

la portai allora in casa, nella sua stanza, dove io ero stato imprigiona-

to, e la distesi sul letto, coprendola con alcuni panni. Ma la ragazza

non accennò a riprendersi.

Per un'ora, forse, cercai con ogni mezzo che conoscevo, e che era di-

sponibile, di destarla da quel profondo stato di coma o di sincope in

cui versava. Ma lei continuava a non riacquistare conoscenza.

Era una situazione davvero sconcertante. Stella, la vera Stella, era

stata espropriata dal proprio corpo da un immondo essere alieno. Que-

sta fomma di vita malvagia era stata distrutta dalla luce, eppure la ra-

gazza non era ancora rientrata in possesso del proprio organismo.

Alla fine pensai di provare con un influsso ipnotico. Io sono un buon ip-

notizzatore e ho studiato a fondo quella tecnica e i fenomeni mentali

affini. Un'impresa disperata, forse, dato il profondo stato d'incoscien-

za di Stella, ma ero costretto a ricorrere anche al minimo appiglio.

Esercitando tutta la mia volontà per richiamarla, mettendole la ma-

no sulla morbida fronte o passandola lentamente sul suo bel viso esan-

gue, le ordinai ripetutamente di aprire gli occhi.

E all'improvviso, quando ero ormai sul punto di piombare di nuovo

nella disperazione, le sue palpebre si scossero leggermente e si apriro-

no. Naturalmente poteva essersi trattato di un risveglio naturale, seb-

bene molto insolito, e non del risultato dei miei sforzi. Ma i suoi occhi

azzurri si dischiusero e mi fissarono.

Però non aveva ancora riacquistato uno stato di coscienza normale.

Le sue pupille spente non rivelavano alcuna espressione di vita erano

annebbiate dal sonno e pareva che si fossero aperte in seguito a úna ri-

sposta meccanica ai comandi che le avevo impartito.

--Parla, Stella. Parla. Parlami!--gridai.

Le sue pallide labbra si mossero.

--Clovis.--Pronunciò il mio nome con voce debole e incolore, an-

cora impastata dalla narcosi del sonno.

--Stella, cos'è accaduto a te e a mio padre?--le urlai.

E questo è ciò che mi raccontò, con voce esile e inespressiva. Ho con-

densato il racconto, dato che spesso la sua voce stanca si affievolì e si

spense, cosicché dovetti incitarla, interrogarla, quasi costringerla a

continuare .

--Mio padre è venuto qui per aiutare il dottor McLaurin nel suo

esperimento--cominciò lei lentamente e con espressione monotona.

--Io non ho capito completamente di cosa si trattasse, ma so che cer-

cavano altri mondi esistenti accanto al nostro. Altre dimensioni inter-

dipendenti con la nostra. Il dottor McLaurin stava elaborando questa

sua teoria da molti anni, basando il suo lavoro sulle nuove matemati-

che di Weyl e di Einstein.

"Il nostro universo non è semplice. Mondi e mondi sono a fianco a

fianco, come le pagine di un libro... e ogni mondo è ignoto a tutti gli al-

tri... strani mondi che si toccano, girano affiancati, eppure sono divisi

da mura difficili da abbattere."

--Il segreto è nella vibrazione. Perché tutta la materia, la luce, il suo-

no, tutto il nostro universo, non è che vibrazione. Tutte le cose materia-

li sono formate da particelle vibranti di elettricità... gli elettroni. E

ogni mondo, ogni universo, ha il proprio ordine di vibrazione: attra-

verso ogni mondo vi sono miriadi di altri mondi, sconosciuti e invisibi-

li, che vibrano, ognuno secondo un proprio ordine.

4II dottor McLaurin sapeva tramite la matematica che questi uni-

versi dovevano esistere, ed era suo desiderio esplorarli. Venne qui, in

cerca di solitudine, perché nessuno curiosasse nei suoi segreti. Aiutato

da mio padre e da altri uomini, ha faticato per anni a costruire la sua

macchina.

"Una macchina che, se avesse funzionato, avrebbe cambiato la velo-

cità di vibrazione della materia e della luce, e avrebbe modificato la vi-

brazione della nostra dimensione portandola alla velocità vibrante di

altre. Con questa macchina il dottor McLaurin avrebbe potuto vedere

miriadi di altri mondi e anche visitarli.

"La macchina è stata completata. E attraverso il suo grande anello

di rame noi abbiamo visto un altro mondo. Un mondo di tenebre con

un cielo nerissimo. Sulle sue colline si contorcevano schifose piante

verdi dalla mostruosa forma di rettile. Ed era dominato da una vita

aliena e malvagia.

"Il dottor McLaurin è penetrato in quel mondo oscuro e l'orrore del

luogo ha distrutto la sua mente. E tornato pazzo, e cambiato in manie-

ra strana. Aveva gli occhi che brillavano di una luce verde, e la sua pel-

le era bianchissima.

"E da quel luogo portò con sé delle cose... cose striscianti e appicci-

cose di un nero disgustoso, che rubavano i corpi di uomini e di animali.

Esseri viventi e malvagi che sono i signori di quella dimensione delle

tenebre. Uno è strisciato in me, impossessandosi del mio corpo e domi-

nandolo. Ricordo ciò che ne ha fatto solo come un sogno confuso. Per

quella cosa io non ero che una macchina.

"Sogni confusi. Sogni terribili, in cui correvo sulla neve a caccia di

lupi, e tomavo con le prede perché quelle cose nere strisciassero in loro

facendole rivivere. Sogni in cui torturavo mio padre, che le creature

aliene non avevano soggiogato, in principio.n

--Mio padre è stato torturato, azzannato. E stato il mio corpo a farlo,

non io. Io ero lontana e vedevo tutto come in un brutto sogno.

aLe creature nere non conoscevano il nostro mondo. La luce le di-

strugge perché è una forza estranea alla loro dimensione. E dato che

non avevano alcuna difesa contro la luce, hanno scavato una tana pro-

fonda in cui ritirarsi di giorno.

"Per loro il nostro era un mondo completamente nuovo e non cono-

scevano niente, né la lingua, né le macchine... Hanno costretto mio pa-

dre a insegnare loro a parlare, a leggere i libri, ad azionare la macchi-

na con cui sono venute. Quelle cose stanno progettando di costruire

nubi nere che nascondano il sole per sempre, così il nostro mondo sarà

buio come il loro. Vogliono impadronirsi dei corpi di tutti gli uomini e

di tutti gli animali, e usarli come macchine per quello scopo.

''Quando mio padre ha saputo il loro piano, non ha più voluto rivela

re altro. E così il mio corpo lo ha azzannato... mentre io ero lontana,

mentre guardavo ma non potevo evitarlo. Lui ha finto di accettare le

loro richieste, e lo hanno lasciato libero. Con un'ascia, allora, lui ha di-

strutto la macchina, in modo che nessun'altra creatura maligna potes-

se passare in questa dimensione. Poi si è sparato un colpo alla testa, co-

sì non avrebbero più potuto torturarlo e costringerlo a collaborare.

"Le creature nere non sapevano da sole come riparare la macchina.

Ma in alcune lettere avevano appreso dell'esistenza di Clovis McLau-

rin, che sapeva qualcosa sulle macchine. Lo hanno mandato a chiama-

re, per torturarlo come era stato torturato mio padre. La mia mente

era di nuovo piena di dolore, perché Clovis mi era caro. Ma il mio cor-

po ha torturato anche lui perché aiutasse le creature aliene a costruire

una nuova macchina.

"Poi Clovis ha distrutto la macchina. E poi... poi..."

La debole voce di Stella si affievolì e i suoi occhi azzurri ancora an-

nebbiati da un sonno confuso, rimasero fissi nel vuoto. I; suo strano

stato di trance era davvero intenso.

Non ricordava nemmeno che stava parlando con me!

10

L'oscurità strisciante

La storia raccontata dalla ragazza era terribile e sorprendente. In par-

te, quasi incredibile. Eppure, per quanto volessi metterla in dubbio e

desiderassi ridimensionare la portata degli orrori che essa prometteva

al mondo, sapevo che doveva corrispondere al vero.

Eminenti scienziati hanno discusso abbastanza frequentemente cir-

ca la possibile esistenza di altri mondi, di altri piani di realtà stretta-

mente affiancati al nostro. Infatti non c'è niente di solido o impenetra-

bile nella materia del nostro universo. Si pensa che l'elettrone sia solo

una vibrazione nell'etere, e, con ogni probabilità, esistono campi di

forza vibranti che formano altri elettroni, altri atomi, altri soli e altri

pianeti, prospicienti il nostro mondo eppure non in grado di manife-

stare esplicitamente la loro esistenza. Solo un'esigua banda delle vi-

brazioni dello spettro è visibile ai nostri occhi come luce. Se i nostri oc-

chi fossero sintonizzati su altre bande, superiori all'ultravioletto o in-

feriori all'infrarosso, quali strani e nuovi mondi potrebbero affacciarsi

di prepotenza nel nostro campo visivo?

No, non potevo dubitare di questa parte del racconto di Stella. Mio

padre aveva compiuto, più di chiunque altro, studi circa l'esistenza di

questi mondi a noi invisibili, e aveva pubblicato le sue scoperte, com-

plete di prove matematiche, nel suo sorprendente lavoro intitolato

Universi interdipendenti. Se mai fossero stati scoperti questi mondi pa-

ralleli, a rigor di logica mio padre sarebbe stato l'uomo più adatto a ef-

fettuare la scoperta. E io non potevo dubitare che fosse riuscito nel suo

intento... perché avevo visto di persona quell'orrendo universo da in-

cubo, al di là dell'anello di rame!

E avevo visto, in quel mondo alieno e oscuro, la città delle striscianti

creature nere. Potevo quindi credere senza dubbio alcuno anche a

quella parte della narrazione che riguardava le entità maligne che ru-

bavano i corpi di uomini e di animali. Forniva una soluzione razionale

di tutti i fatti che avevo osservato fin dalla notte del mio arrivo a He-

bron.

All'improvviso pensai che ben presto gli esseri mostruosi avrebbero

riparato la macchina, senza il bisogno di alcun aiuto da parte mia. Do-

podiché nuove orde di nere creature avrebbero attraversato il varco

per impadronirsi del nostro mondo, per rendere schiava l'umanità. Co-

me aveva detto Stella, per servirsi di noi nella trasformazione della

terra in un pianeta di tenebre simili al loro repellente luogo d'origine.

Dovevo fare qualcosa per contrastarle. Combatterle... combatterle con

la luce! La luce era l'unica forza in grado di annientarle, la forza che

aveva liberato Stella dalla schiavitù. Ma dovevo trovare fonti lumino-

se più efficaci di una manciata di fiammiferi. Delle lampade si sareb-

bero adattate allo scopo; un riflettore, forse.

Ed ero deciso a portare Stella a Hebron, se lei fosse stata in condizio-

ni di muoversi. Dovevo raggiungere il villaggio per trovare ciò che mi

serviva, ma non riuscivo a sopportare l'idea di lasciarla in balìa dei

mostri una volta calata la notte, di lasciare che s'impadronissero anco-

ra del suo bel corpo per i loro fini immondi.

Vidi che su mio ordine la ragazza si muoveva, si alzava e riusciva a

camminare, per quanto lenta e rigida, come una sonnambula. Erava-

mo ancora di prima mattina e io pensai che, aiutandola a camminare,

avremmo potuto coprire la distanza che ci separava da Hebron, prima

che scendesse l'oscurità.

Cercai tra le sue cose e trovai degli indumenti adatti: calze di lana,

scarponcini, calzoni pesanti, maglione, guanti e berretto. I suoi tenta-

tivi di vestirsi furono lenti e impacciati, come quelli di un bimbo stan-

co che cercasse di togliersi i vestiti semi addormentato, e così dovetti

aiutarla.

Non sembrava che avesse fame, ma quando sostammo nella sala da

pranzo, dove gli avanzi del cibo erano ancora sul tavolo, le feci bere del

latte. Stella lo fece in modo meccanico. Io, invece, mangiai con voraci-

tà nonostante gli infausti presagi del ricordo del pasto consumato a

qúel tavolo alla vigilia del mio primo tentativo di fuga.

Poi ci incamminammo nella neve, seguendo il reticolato come la pri-

ma volta. Accanto alle mie vecchie impronte si notavano quelle del

branco di inseguitori composto da lupi, uomini, e dal cavallo. Adesso

comunque si avanzava con maggiore facilità, dato che la neve soffice

era stata pressata da tutti quei piedi.

Camminavo con un braccio attorno alla vita di Stella, e a volte dove-

vo quasi sorreggerla di peso. Le parlavo per incoraggiarla, ma lei rea-

giva con tentativi lenti e meccanici. La sua mente sembrava lontanis-

sima, e i suoi occhi erano velati da strani sogni.

Mentre le ore di faticosa avanzata passavano, stringendo il suo corpo

tiepido contro il mio mi accorsi di amare moltissimo quella ragazza.

Il sole raggiunse lo zenit e cominciò a calare lentamente verso ovest.

Mentre la sera si avvicinava, Stella parve stancarsi... o forse si trat-

tava solo di un intensificarsi del suo stato di trance. Comunque reagiva

sempre più lentamente ai miei incitamenti e quando la mia voce cessa-

va di spronarla lei rimaneva immobile, come persa in strane visioni.

La incitai dlsperatamente a proseguire, comandandole con decisio-

ne di tener duro. I miei occhi si posavano ansiosi sul sole ormai al tra-

monto. Sapevo che ci restava poco tempo per arrivare al villaggio pri-

ma di sera; era assolutamente necessario affrettarsi.

Alla fine, quando il sole affiorava ancora di poco sopra un bianco

orizzonte, avvistammo Hebron. Un gruppetto di macchie scure sulla

sconfinata distesa di neve. Dovevamo essere a circa quattro chilometri

dalla meta.

Sembrava però che Stella continuasse ad affondare sempre più nello

strano mare di sonno da cui solo l'influsso ipnotico era riuscito a levar-

la. Quando ci lasciammo alle spalle un altro chilometro, la ragazza ri-

fiutò di reagire alle mie parole. Respirava lentamente e con regolarità,

ma aveva chiuso gli occhi. Io non potei fare nulla per risvegliarla.

Il sole era calato sull'orizzonte innevato e tingeva la prateria occi-

dentale di pallide fiamme porpora. L'oscurità era ormai prossima.

Disperato, mi caricai il corpo inerte di Stella sulle spalle e avanzai

barcollando sotto quel nuovo fardello. Mancavano non più di tre chilo-

metri a Hebron, e io nutrivo una certa speranza di raggiungere il paese

con la ragazza prima che fosse buio.

Purtroppo la neve era tanto alta da rendere estenuante perfino l'a-

vanzata di una persona non carica, e il mio corpo era già stremato dal-

le terribili esperienze cui era stato sottoposto ultimamente. Prima di

avere coperto barcollando mezzo chilometro, mi resi conto dell'inutili-

tà dei miei sforzi.

Eravamo al crepuscolo. La luna non era ancora sorta, ma la neve

splendeva argentea sotto gli ultimi bagliori spettrali del tramonto che

inondavano ancora il cielo. Le mie orecchie erano tese per potere udire

subito la voce dello spaventoso branco, ma intorno a me si drappeggia-

va un sudario di silenzio assoluto. Continuai a procedere fiaccamente

con la fanciulla.

Di colpo notai che il suo corpo, a contatto delle mie mani, stava di-

ventando stranamente freddo. Preso dall'ansia, la deposi allora sulla

neve, per esaminarla... tremando per la premonizione dell'orrore im-

minente.

Il corpo di Stella era un pezzo di ghiaccio, e aveva pure assunto un

pallore assurdo. Era bianca come quando l'avevo vista correre sulla

neve in compagnia del lupo.

Ma le sue gambe e le sue braccia, stranamente, non si erano irrigidi-

te; erano ancora inerti, afflosciate. Non era dunque il gelo della morte

che stava fluendo in lei; era il gelo di quella vita aliena che, scacciata

dalla luce, stava impossessandosi nuovamente della ragazza con l'av-

vento dell'oscurità!

Capii che ben presto non sarebbe più stata una fanciulla umana,

bensì un'orrenda donna-lupo. Per alcuni istanti rimasi accovacciato

accanto al suo corpo inerte, implorandola di rispondermi e di seguir-

mi, e urlando quasi come un ossesso.

Poi mi resi conto che era inutile, e che mi trovavo in pericolo. Quella

forma di vita mostruosa sarebbe rifluita di nuovo in lei. E lei mi avreb-

be ricondotto a quella insopportabile prigionia nel tempio sotterra-

neo, per fare di me uno schiavo dei mostri... o forse un membro della

loro malvagia società.

Dovevo fuggire, per il bene stesso di Stella. E del mondo intero. Me-

glio abbandonarla adesso e proseguire da solo, che farmi riportare in-

dietro. Forse avrei avuto un'altra possibilità di salvarla.

Inoltre dovevo rendere la ragazza inoffensiva, in modo che non po-

tesse inseguirmi una volta schiava dell'orrida forma di vita aliena.

Mi sfilai il cappotto e la camicia. Freneticamente strappai la cami-

cia in tante strisce che attorcigliai, formando delle corde improvvisa-

te. Poi accostai le caviglie di Stella e le legai saldamente. La voltai boc-

coni, le incrociai le braccia inerti dietro la schiena e le bloccai i polsi

assieme. Dopo, come ultima precauzione, mi tolsi la cintura e gliela al-

lacciai stretta attorno ai fianchi sopra i polsi incrociati, immobilizzan-

doli definitivamente.

Per finire, allargai il cappotto sulla neve e vi deposi sopra Stella, per-

ché volevo che fosse il più comoda possibile. E ripartii verso Hebron,

un gruppetto di luci bianche che brillava nelle ombre del crepuscolo.

Non avevo mosso che pochi passi, quando qualcosa mi fece fermare e

guardare indietro spaventato.

rl corpo inerte e pallidissimo della ragazza era ancora steso sul cap-

potto. Poco più in là, intravidi una cosa strana e orripilante muoversi

con rapidità tra le ombre grigie della sera.

Era qualcosa di incredibile e di orrendo. Si trattava di una massa di

tenebra che scivolava sulla neve, una nube strisciante di nerezza im-

monda, informe e tentacolata. Era priva di arti e di tratti definiti... so-

lo quelle nere appendici simili a serpi, che estrofletteva per muoversi.

Ma all'interno della cosa brillavano due punti verdi... che sembravano

occhi ! Verdi pupille malefiche, infiammate di una malvagità demonia-

ca!

Era una creatura viva. Un ammasso vivente di tenebra, diverso da

qualsiasi forma di vita superiore, anche se in seguito ho pensato che

assomigliasse a un'ameba, una massa fluente di poltiglia protoplasmi-

ca, un animale unicellulare. Al pari dell'ameba, quell'essere alieno si

muoveva estroflettendo stretti pseudopodi dalla massa centrale. E gli

orribili occhi verdi, nei quali pareva concentrarsi la sua vita aliena,

forse corrispondevano ai vacuoli o nuclei dei protozoi.

Mi resi conto, paralizzato da un senso d'orrore indicibile, che si trat-

tava di un mostro proveniente dal nero mondo d'incubo che stava oltre

l'anello di rame. E che veniva a reclamare di nuovo il corpo di Stella, a

cui era ancora collegato da qualche vincolo.

Sebbene sembrasse solo strisciare o scivolare, il mostro si spostava

con una rapidità pazzesca... molto più veloce dei lupi stessi.

L'avevo scorto solo da un istante, e già aveva raggiunto il corpo di

Stella. Si fermò, rimanendo sospeso su di lei, in una fitta e viscida nu-

be in cui spiccavano quegli spaventosi occhi verdastri. Per un istante il

mostro celò il corpo della vittima con le sue appendici striscianti e in-

formi, che si contorcevano come orridi tentacoli.

Poi flut all'interno di Stella.

Sembrò penetrarle nelle narici e nella bocca. La nube nera sospesa

diminuì progressivamente. Le pupille verdi rimasero invece all'ester-

no fino all'ultimo, poi parvero affondare negli occhi della ragazza, che

di colpo si animò in modo terribile.

Stella si dimenò, lottando contro i legami con forza sovrumana, ro-

tolando dal cappotto nella neve in preda a tremende convulsioni. I suoi

occhi erano di nuovo aperti... e brillavano, non di vita propria, bensì

del terribile fuoco delle pupille malvagie che li avevano occupati.

Dalla gola di lei si levò l'agghiacciante ululato che ormai conoscevo

fin troppo bene, un urlo bestiale in cui risuonava una misteriosa eco

umana. Un latrato di richiamo per il branco.

Quel suono infuse vigore ai miei arti paralizzati. Nei pochi istanti oc-

corsi all'essere alieno per impadronirsi del corpo di Stella, io ero rima-

sto immobile, inchiodato sul posto dall'orrore della scena.

Mi voltai e corsi come un pazzo verso le luci tremolanti di Hebron.

Alle mie spalle la donna-lupo continuava a dimenarsi per rompere le

corde, ululando per chiamare a raccolta il branco!

Quelle luci baluginanti parevano farsi gioco di me. Sembravano vi-

cinissime sulla distesa innevata, eppure mentre correvo si allontana-

vano danzando. Sembravano muoversi come lucciole e si fermavano

finché non le avevo quasi raggiunte, per poi ritirarsi ancora, scintillan-

do remote sulla neve.

Dimenticai la mia estrema stanchezza, dimenticai il dolore pulsante

della ferita riaperta, e corsi disperatamente come mai avevo corso pri-

ma.

Non avevo ancora coperto metà della distanza, quando udii alle mie

spalle la voce dell'orda. Uno strano e remoto uggiolio che cresceva

d'intensità rapidamente. La donna-lupo aveva lanciato il richiamo, e

ora il branco veniva a liberarla.

Continuai a fuggire. I miei passi sembravano miseramente lenti. I pie-

di affondavano nella neve, che sembrava avvinghiarli con malefiche

dita demoniache. E le luci, in apparenza così vicine, sembravano fug-

gire da me in una danza beffarda.

Grondavo di sudore e i polmoni mi pulsavano attrocemente. Il cuore

sembrava martellarmi alla base del cervello. Avevo la mente sommer-

sa da un mare di dolore. E continuavo a fuggire.

Le luci di Hebron divennero fiammelle irreali, ingannevoli fuochi fa-

tui. Tremolavano dinanzi a me in un mondo deserto di grigia oscurità,

e io mi affannavo per raggiungerle in una foschia d'atroce sofferenza.

Non vedevo nient'altro, non sentivo altro che i lamenti del branco.

Ero talmente esausto da non riuscire a connettere. Ma mi resi conto

all'improvviso che i miei inseguitori erano vicinissimi. Forse girai il

capo e lanciai un rapido sguardo. Oppure può darsi che io ricordi il

branco solo come lo vedevo nella mia immaginazione. Comunque con-

servo un'immagine molto vivida di scarni lupi grigi che spiccavano

balzi ululando, affiancati nella loro corsa da pallide figure umane con

le pupille verdastre.

Tuttavia continuai la fuga, combattendo le nere nebbie della spossa-

tezza che mi offuscavano il cervello. Un'inerzia atroce sembrava op-

porsi ai miei sforzi, come se stessi nuotando contro corrente, e corsi...

corsi... non vedendo, non pensando che alle luci di Hebron, luci così vi-

cine, ma che fuggivano sempre dinanzi a me.

Poi improwisamente mi trovai steso sulla neve morbida, con gli oc-

chi chiusi. Quel dolce giaciglio era un'oasi di benessere per il mio cor-

po stremato. Rimasi là, inerte. Non tentai nemmeno di risollevarmi,

non mi rimaneva più una goccia di forza. L'oscurità calò su di me... uno

stato d'incoscienza che neppure gli ululati del branco potevano vince-

re. Quei sinistri latrati sembravano affievolirsi lentamente, poi tutto

scomparve.

Una battaglia tra luce e oscurità

--Direi che è proprio scoppiato, vero, signore?--Una voce aspra si in-

sinuò nella mia mente distrutta dalla stanchezza. Delle mani robuste

stavano sollevandomi in piedi Aprii gli occhi e mi guardai attomo,

confuso. Due uomini vestiti in modo trasandato stavano sorreggendo-

mi. E un terzo, che io riconobbi come il capostazione, teneva in mano

una lanterna.

Di fronte a me, vicinissime, c'erano le luci di Hebron che prima sem-

bravano sfuggirmi beffarde. Mi accorsi che ero crollato proprio ai bor-

di del villaggio, talmente vicino alle poche luci stradali che il branco

non aveva potuto avvicinarsi a me.

--Ah, è lei, McLaurin?--fece Connell sorpreso, riconoscendomi.

--Credevamo che avessero preso lei e Judson.

--Infatti--riuscii a rispondere.--Ma non mi hanno ucciso. Io sono

riuscito a fuggire.

Ero troppo spossato per rispondere alle loro domande. Ricordo solo

vagamente che mi portarono in una casa e mi spogliarono; mi addor-

mentai mentre stavano esaminando la ferita alla gamba, tra esclama-

zioni inorridite alla vista dei segni dei denti.

Mi svegliai il giorno dopo, verso mezzogiorno. Accanto al letto sede-

va un ragazzino irrequieto di forse dieci anni. Disse di chiamarsi Mar-

vin Potts, figlio di Jed Potts, proprietario di un emporio a Hebron. Suo

padre era uno degli uomini che mi avevano trovato quando la loro at-

tenzione era stata attirata dagli ululati del branco. Ora mi trovavo ap-

punto in casa dei Potts.

Il ragazzo chiamò sua madre. La donna, sentendo che avevo fame,

mi portò quasi immediatamente del caffè, biscotti, pancetta e patate

fritte. Mangiai con discreto appetito, sebbene fossi ancora lontano dal-

I'essermi ripreso completamente dalla mia disperata corsa per sottrar-

mi all'orda di belve. Mentre stavo mangiando, ancora a letto appog-

giato su un gomito, entrò il padrone di casa, accompagnato da Connell,

il capostazione e da altri due uomini.

Erano tutti ansiosi di conoscere la mia storia. Io la raccontai in breve,

tralasciando le parti che, a mio giudizio, sarebbero risultate incredibi-

li a quelle persone.

Mi spiegarono che il branco aveva mietuto altre vittime umane. Una

fattoria isolata era stata attaccata la notte prima e tre uomini erano

scomparsi. Mi dissero anche che le signora Judson, affranta per la per-

dita del marito, era uscita nella neve a cercarlo e non aveva più fatto ri-

torno. Dal canto mio, ricordavo benissimo che alla fine lo aveva trova-

to... Mi rimproverai, amareggiato, di aver spinto quell'uomo ad av-

venturarsi in quel viaggio notturno con me.

Mi informai se non si erano presi provvedimenti per dare la caccia al

branco.

Mi risposero che lo sceriffo aveva organizzato una squadra di citta-

dini che si era spinta fuori Hebron diverse volte. Si erano trovate nu-

merose tracce di lupi e di uomini che correvano affiancate, una pista

facile da seguire, dunque. Ma, mi parve di capire, i cacciatori non era-

no stati poi molto smaniosi di raggiungere la preda. La neve era alta e

impediva di muoversi rapidamente, e loro non avevano avuto alcuna

intenzione di incontrare il branco di notte. Le tracce non erano mai

state seguite per più di nove o dieci chilometri fuori da Hebron. Lo sce-

riffo era rientrato al comando di contea, diciotto chilometri lungo la

ferrovia, promettendo che sarebbe tornato quando la neve si fosse

sciolta a sufficienza per permettere spostamenti più agevoli. E i pochi

abitanti di Hebron, per quanto profondamente turbati dal destino dei

loro vicini che erano stati uccisi dal branco, erano troppo terrorizzati

per organizzare una battuta per proprio conto.

Quando accennai alla mia intenzione di trovare qualcuno che tor-

nasse con me al ranch, la mia proposta fu accolta in modo evasivo da

tutti. L'esempio della morte di Judson era impresso chiaramente nella

mente dei presenti, e nessuno voleva rischiare di farsi sorprendere lon-

tano dal paese di notte. Mi resi conto che dovevo agire da solo.

Per gran parte della giornata rimasi a letto, recuperando le forze, per-

ché sapevo che avrei dovuto disporre di tutte le mie energie per affron-

tare la dura prova che mi attendeva. Comunque, mi informai sui mezzi

che avrei trovato in paese, e preparai il piano per il mio folle tentativo

di abbattere la minaccia che incombeva sull'umanità.

Con l'aiuto del ragazzo, Marvin, che funse da mio rappresentante,

acquistai un calesse, completo di un ronzino e dei finimenti; i miei ten-

tativi di affittare un veicolo o di assumere qualcuno che mi conducesse

sul posto si erano rivelati un fallimento clamoroso. Il ragazzino si die-

de da fare anche per procurarmi altre attrezzature.

Gli feci comprare una dozzina di lanterne a benzina, con una scorta

abbondante di reticelle e due fustini di combustibile da venticinque li-

tri. Constatando che la scuola di Hebron vantava scarse forniture di at-

trezzature da laboratorio, mandai Marvin in cerca di nastri al magne-

sio e di zolfo. Il ragazzo tornò con un bel mazzetto di sottili strisce me-

talliche, tagliate in varie lunghezze. Per facilitarne l'accensione, io in-

tinsi quindi l'estremità di ogni fascetta dentro zolfo fuso.

Mi comprò anche due potenti torce elettriche con pile e lampadine

di scorta, delle munizioni per la mia automatica, e due dozzine di can-

delotti di dinamite con capsule e micce.

Il mattino seguente mi svegliai di buon'ora sentendomi molto me-

glio. La ferita alla gamba stava rimarginandósi rapidamente e aveva

cessato di causarmi forti sofferenze. Mentre sedevo con i Potts a consu-

mare una frugale colazione, li assicurai che quello stesso giorno mi ri-

promettevo di tornare nella tana del branco, da cui ero fuggito, per far-

la finita definitivamente con quelle belve.

Prima che avessimo finito di mangiare, sentii la chiamata del tipo da

cui avevo comprato il calesse, che veniva a consegnarlo e a riscuotere il

generoso prezzo che gli avevo garantito tramite la mediazione di Mar-

vin Potts. Il ragazzo uscì con me. Ritirammo il veicolo e facemmo il gi-

ro dei pochi negozi di Hebron, raccogliendo le cose che il ragazzo ave-

va acquistato per me il giorno prima: le lanterne, il combustibile, le

torce elettriche e la dinamite.

Era ancora prima mattina quando lasciai Marvin alla fine della stra-

da, ricompensandolo con una banconota, e mi spinsi da solo nella ne-

ve, verso il ranch isolato dove avevo vissuto orribili esperienze.

La giornata, sebbene limpida, era fredda. La neve non accennava a

sciogliersi ed era spessa come sempre. Il ronzino avanzava lento, men-

tre i suoi zoccoli e le ruote del calesse affondavano con un secco scric-

chiolio nella crosta superficiale ghiacciata.

Quando Hebron svanì alle mie spalle e mi trovai circondato soltanto

dallo sterminato deserto di neve luccicante, fui preso da un senso di

paura, da un violento desiderio di affrettarmi a raggiungere qualche

posto affollato di uomini. Nella mia immaginazione anticipai il terro-

re della notte, quando il branco sarebbe uscito di nuovo, lanciandosi

sulla prateria innevata.

Come sarebbe stato facile tornare indietro prendere il treno per

New York e dimenticare quel luogo orrido! Nó, sapevo che non avrei

mai potuto scordare la minaccia di quello spaventoso mondo, nero co-

me la notte, che si apriva oltre l'anello di rame, abitato da una razza

che progettava di impadronirsi della terra per farne una seconda sfera

di tenebra immonda.

E Stella ? Non sarei mai riuscito a dimenticarla. Ora sapevo di amar-

la, sapevo che dovevo salvarla o morire con lei.

Spronai il cavallo ad avanzare nella solitaria distesa.

Raggiunsi la fattoria poco dopo mezzogiorno, ma mi restava ancora

un buon margine di luce diurna. Mi misi all'opera immediatamente.

C'era parecchio da fare: vuotare le scatole ammucchiate sul calesse;

riempire le lanterne di combustibile, pompare l'aria all'interno e assi-

curarsi che funzionassero in modo soddisfacente; innescare i candelot-

ti di dinamite; provare le torce elettriche; caricare la pistola e riempire

i caricatori di riserva; sistemarmi nelle tasche in modo razionale i

fiammiferi, le munizioni, le pile per le torce, e i nastri di magnesio.

Il sole era ancora alto quando ultimai i preparativi. Allora misi il caval-

lo nella stalla dietro la casa, chiusi la porta a chiave e la barricai, per as-

sicurarmi che l'animale fosse completamente bloccato, nel caso qual-

che orrida metamorfosi lo mutasse in un mostro dalle pupille verdi.

Poi entrai in casa, portando con me una lanterna accesa. Era silen-

ziosa e deserta. Tutti i mostri erano evidentemente là sotto. La porta

della cantina era chiusa, e anche la minima fessura era stata ostruita

per impedire che filtrasse luce.

Accesi tutte le lanterne e le disposi a cerchio attorno all'ingresso del-

la scala.

Dopo di che spalancai la porta.

Dal passaggio sottostante si levò un ululato orribile! Sentii il rumore

dei piedi che si affrettavano a ritirarsi lungo il tunnel, tra latrati rab-

biosi e aspri gemiti selvaggi.

Un'ondata fisica di orrore nauseante mi inondò di brividi, al pensie-

ro di avventurarmi in quel tempio sotterraneo di lucore rossastro dove

ero stato testimone e vittima di orrori indicibili. Indietreggiai treman-

do. Ma al pensiero di mio padre e dell'adorata Stella, giù in quel covo e

posseduti dai mostri, riacquistai coraggio e mi avviai verso l'imbocca-

tura spalancata che conduceva nel tempio edificato dalle belve aliene.

Prima avevo pensato di lasciare le lanterne in cerchio attorno al-

l'imboccatura del passaggio, e di portarne una sola con me. Ora invece

mi resi conto che avrebbero impedito con maggiore efficacia la fuga

dei mostri se le avessi disseminate lungo il tragitto. Ne raccolsi sei, tre

per mano, e cominciai a scendere gli scalini.

I loro possenti raggi illuminarono la vecchia cantina con un chiarore

graditissimo. Ne deposi una lì, al centro del pavimento dello scantina-

to; altre tre le sistemai lungo iì cunicolo in pendenza che portava negli

scavi sotterranei.

Avevo intenzione di deporre le altre due lanterne sul pavimento del

tempio, e poi di tornare in superficie a prenderne altre. Speravo che la

luce liberasse l'intero branco dall'invasore alieno, come si era verifica-

to nel caso di Stella. Avrei approfittato del loro stato di incoscienza per

trasportare all'aperto Stella e mio padre, e gli altri uomini in condizio-

ne di poter riprendere a vivere normalmente. Poi avrei distrutto la

macchina e il tempio con la dinamite.

Giunsi in fondo al passaggio, sbucando nella vasta sala nera sorretta

dalla doppia fila di colonne. Il chiarore intenso proiettato dalle lanter-

ne, che ronzavano lievemente, disperse l'oscurità venata di quel lucore

rosso sangue. Udii un coro agghiacciante di urli animali da cui traspa-

riva una sofferenza atroce e, in fondo alla lunga sala dietro i massicci

pilastri, vidi forme dagli occhi verdastri che sgattaiolavano al riparo,

accalcandosi nell'ombra.

~eposi le due lanterne per terra ed estrassi dalla tasca una delle po-

tenti torce elettriche. Il suo fascio intenso e penetrante sondò le tene-

bre al di là delle poderose colonne nere. Forme umane e di lupi, urlanti

e spaventate, lanciarono gemiti acuti quando vennero raggiunte dal

raggio, e si accasciarono sul nero pavimento.

Fiducioso, io avanzai per frugare ogni angolo recondito con il bril-

lante specillo luminoso.

La mia fiducia si rivelò quasi fatale... Avevo sottovalutato l'astuzia e

l'abilità dei miei nemici. Quando mi accorsi del globo nero, il mio pie-

de vi era già appoggiato sopra. Era una sfera perfetta di tenebra pura

un globo di circa trenta centimetri che pareva tornito in un cristalló

nero come la notte.

Ormai non riuscii più a evitarlo, e quando lo toccai parve esplodere.

Si udii un sordo e minaccioso plop, poi la sfera sprigionò un'oscurità

fluttuante, un gas nero che mi avvolse nel suo buio sudario soffocante.

Mi voltai come impazzito, precipitandomi indietro verso il passag-

gio che conduceva alla luce del sole. Ero completamente accecato. Le

lanterne sfolgoranti erano assolutamente invisibili, e ne urtai una con

i piedi mentre avanzavo freneticamente.

Poi inciampai e sbattei contro la fredda parete del tempio. Tastai feb-

brilmente la superficie... ma in entrambe le direzioni fin dove riuscivo

a spingermi con le braccia, il muro era assolutamenté liscio. Dov'era il

passaggio? Avanzai barcollando per alcuni metri, tenendo sempre le

mani sulla parete. No, il cunicolo doveva trovarsi dalla parte opposta.

Mi girai. I latrati mostruosi e trionfanti del branco colpirono le mie

orecchie; sentii i loro piedi muoversi e attraversare il tempio. Allora

corsi lungo la parete, ma inciampai e caddi sopra una lanterna rovente.

Mi balzarono addosso...

Lo strano baluginio rossastro del tempio mi circondava di nuovo. Mi

trovavo ancora legato a uno di quei pilastri neri e massicci, impotente

e bloccato dalla medesima corda insanguinata.

Di fronte a me c'era lo strano macchinario che, cambiando le vibra-

zioni della materia, apriva una breccia comunicante con altri universi

continui... con la Dimensione Nera. La luce rossastra si rifletteva come

una sfumatura di sangue sull'anello di rame e sul grande specchio pa-

rabolico. Vidi con un certo sollievo che le valvole erano spente, il gene-

ratore silenzioso, e le tenebre scomparse dall'anello.

Di fronte, però, era stato eretto uno spaventoso altare, sui cui erano

deposti i corpi straziati e sanguinanti di uomini e donne, di lupi grigi,

di piccoli coyote e di altri animali. Il branco aveva fatto buona caccia

nelle due notti in cui ero stato assente!

Le cadaveriche e mostruose creature, i corpi orrendamente mutati

di mio padre e di Stella e degli altri, mi circondavano.

--Il tuo ritorno è una cosa buona--guaì in toni bestiali l'essere che

occupava il corpo di mio padre.--Il fabbricatore di elettricità non

funziona. Tu che torni lo farai muovere ancora. La strada deve essere

di nuovo aperta, perché nuova vita giunga a questi che attendono.--E

indicò il cumulo di cadaveri grondanti di sangue.

--Poi la nuova vita anche a te noi condurremo. Troppe volte sei fug-

gito. Tu diverrai uno di noi. E noi cercheremo un uomo che agisca co-

me noi diciamo. Ma prima deve la via essere aperta di nuovo.

Dal nostro mondo la vita verrà. Per prendere i corpi degli uomini co-

me macchine. Per fare un gas di tenebre come quello che hai trovato in

questa sala, per nascondere tutta la luce del tuo mondo e renderlo a

noi adatto.

La mia mente vacillò inorridita al pensiero dell'inconcepibile e as-

surda minaccia che si alzava come un orrido spettro a fronteggiare l'u-

manità, al pensiero che presto anch'io non sarei stato altro che una

semplice macchina. Il mio corpo, gelido e pallido come un cadavere,

avrebbe svolto compiti innominabili al comando delle creature delle

tenebre, e i loro occhi verdastri sarebbero divampati nelle mie orbite!

--Presto, spiega il metodo per far funzionare il fabbricatore di elet-

tricità--mi venne ordinato, con un ringhio malvagio e minaccioso

--o noi roderemo la carne dalle tue ossa, e cercheremo un altro che

eseguirà il nostro volere!

12

Emanazioni della Dimensione Nera

Acconsentii ad accendere il generatore, sperando che nel frattempo mi

si presentasse qualche opportunità di ribaltare nuovamente la situa-

zione. Ero più che certo che non avrei potuto fare niente finché rimane-

vo legato alla colonna... e la minaccia che avrebbero trovato un altro

uomo per sostituirmi come loro insegnante mi fece capire che dovevo

piazzare in fretta il colpo giusto.

I mostri erano convinti che, per azionare il generatore, avrebbero

avuto bisogno di qualcosa di più di un mio semplice aiuto verbale. Uno

dei meccanici mi slegò e mi accompagnò verso la macchina, stringen-

domi un braccio in una dolorosa morsa di dita fredde come ghiaccio.

Discretamente, io abbassai una mano per tastarmi le tasche. Erano

vuote!

--Non fare luce!--giunse il ringhio d'avvertimento di mio padre

che aveva intravisto il mio gesto.

I mostri si erano finalmente resi conto che era opportuno perquisir-

mi. Guardandomi attorno vidi le cose che mi avevano tolto, accatasta-

te alla base di un pilastro. L'automatica, i caricatori, le torce, le pile i

fiammiferi e le fascette di nastro al magnesio. C'erano anche le dúe

lanterne che avevo portato con me nel tempio, e che erano state evi-

dentemente spente dal gas nero che mi aveva accecato.

Due lupi grigi montavano di guardia accanto agli oggetti, fissando-

mi in maniera sinistra.

Dopo aver armeggiato per qualche istante attorno al motore, scoprii

che si era fermato per mancanza di carburante. Dopo che io avevo dan-

neggiato la macchina, i mostri avevano continuato a lasciarlo in fun-

zione finché non era finita la benzina.

Spiegai a mio padre che non avrebbe funzionato senza altra benzi-

na.

--Fallo girare e produrre elettricità--disse, ripetendo il ringhio

minaccioso--o roderemo la came dalle tue ossa e troveremo un altro

uomo.

Dapprima provai a insistere che non potevo trovare della benzina sen-

za recarmi in qualche luogo abitato, ma quando mi trascinarono verso

la corda insanguinata per sottopormi a nuove torture, confessai che

avrei potuto usare il combustibile delle lanterne.

Erano sospettosi. Mi frugarono ancora per accertarsi che non avessi

addosso altri mezzi per produrre luce. E controllarono attentamente

anche le lanterne in cerca di eventuali sistemi di accensione che non ri-

chiedessero l'uso di fiammiferi.

Alla fine mi portarono le lanterne. Con mio padre che mi stringeva a

un braccio, versai la benzina nel serbatoio del motore. Sarebbe stato

comunque difficilissimo travasarla senza rovesciame un po', e in ogni

modo mi preoccupai di versarne per terra il più possibile, senza desta-

re sospetti. Riuscii a formare una piccola pozzanghera di benzina sotto

lo scappamento, dove una scintilla avrebbe potuto incendiare i val~ori.

Poi mi fecero accendere il generatore. Le bobine tornarono a ronzare

e le valvole termoioniche si illuminarono. Lo strano tubo catodico cen-

trale sembrò produrre una massa oscura che lo specchio parabolico ri-

fletté nell'anello di rame.

Per la seconda volta, guardando attraverso l'anello, vidi la Dimen-

sione Nera.

Dinanzi a me si stagliava un cielo di oscurità assoluta, con luride ac-

que stagnanti in cui baluginava una luminescenza putrescente e basse

colline ammantate da quella vegetazione ripugnante che si contorceva

come un ammasso di serpi, sprigionando una fioca luce verdastra. E su

una di quelle colline c'era la città.

Una macchia caotica di rosso malvagio, una chiazza di tenebra cre-

misi, di corruzione rossastra. Si allungava sulla collina come un mo-

stro di rossa bruma dagli innumerevoli tentacoli. E dalla città si innal-

zavano orride appendici, verruche e protuberanze assurde, parodie

macabre di torri e minareti.

Era immobile. E all'intemo della sua fetida oscurità scarlatta si ce-

lavano cose nere e striscianti... innumerevoli orde di cose simili al-

I'abominevole mostruosità che io avevo visto fluire nel corpo di Stella.

Neri orrori viventi, informi e dalle pupille verdastre.

I mostri attorno a me ulularono attraverso l'anello, in quel mondo

nero... lanciando un richiamo!

E ben presto, dall'anello fluì un fiume di inconcepibile orrore infor-

me... Indescrivibili mostri di un universo alieno. Esseri ripugnanti che

dimoravano nelle tenebre... Ia razza della Dimensione Nera!

Spaventosi occhi verdi nuotavano in masse striscianti d'oscurità

maligna. Sciamarono ricoprendo il cumulo di cadaveri che giacevano

al suolo. E i morti risorsero a un'abominevole e assurda vita!

Cadaveri mutilati e corpi lacerati di lupi balzarono ritti ringhiando

e guaendo. E gli occhi di ognuno erano malvagi occhi di fiamma sme-

raldina delle cose che erano entrate in loro.

Io ero ancora accanto al piccolo motore scoppiettante. Mentre bal-

zavo indietro, alla vista dello spaventoso spettacolo di quei morti che

risorgevano a vita sacrilega, i miei occhi si posarono disperatamente

sulla pozza di benzina. Non si era ancora incendiata.

Accarezzai la fuggevole idea di cercare di impregnarmi la mano di

benzina e metterla di fronte allo scappamento per farne una torcia vi-

vente. Ma era troppo tardi, e le dita gelide e inflessibili di mio padre

continuavano a serrarmi dolorosamente un braccio.

Poi mio padre lanciò un ululato lamentoso.

Un'oscena e informe massa strisciante, dalle orbite scintillanti di

aliena fiamma verde, si staccò dal fiume nero che si riversava dall'a-

nello e avanzò verso di me.

--Ora tu diverrai uno come noi!--annunciò mio padre.

La cosa stava dunque venendo per fluire nel mio corpo, per rendermi

suo schiavo, per mutarmi nella sua macchina!

Urlai, lottai contro le mani crudeli che mi bloccavano. Folle di terro-

re, bestemmiai e implorai... promettendo di consegnare ai mostri il

mondo intero. E la cosa strisciante continuò ad avanzare. Crollai, in-

zuppato di sudore gelido, tremante, nauseato per l'orrore.

Proprio allora, come avevo sperato e pregato, il motore fece uno

scoppio irregolare. Dallo scappamento uscì una vampata di scintille

seguita da una cupa esplosione di vapori. Un improvviso lampo giallo

illuminò il tempio...

E una colonna di fiamma tremolante si levò dalla pozza di benzina

accanto al motore.

Le creature nere vennero distrutte dalla luce... e svanirono!

Il tempio si trasformò in un pandemonio di acuti ululati di dolore, di

corpi confusi che si dibattevano in preda al panico. La morsa attomo

al mio braccio cedette, e mio padre crollò al suolo, strisciando verso

l'ombra dei pilastri e riparandosi gli occhi.

Vidi che i lupi avevano abbandonato la sorveglianza alle cose che mi

avevano sequestrato, e mi precipitai in quella direzione.

In un istante le mie mani tremanti afferrarono una delle torce elet-

triche. Con gesti frenetici trovai l'interruttore e lo feci scattare. Con il

fascio abbagliante spazzai l'ampia sala e il coro infemale di lamenti

animali crebbe d'intensità.

Poi accesi la seconda torcia e, arraffando in fretta la pistola, le muni-

zioni, i fiammiferi e il nastro al magnesio, mi ritirai accanto alla pozza

di benzina incendiata.

Questa volta mi mossi con estrema precauzione, sondando con il

raggio luminoso di fronte a me per evitare di inciampare in un'altra

bomba d'oscurità. Credo comunque che la mia cautela fosse inutile.

Sono sicuro, da quanto ebbi modo di vedere in seguito, che ne fosse

stata preparata una sola.

Accostandomi al motore mi resi conto che stava ancora funzionando,

tenendo così aperto il varco che immetteva nella Dimensione Nera. In-

terruppi l'erogazione di carburante e il piccolo motore tossicchiò af-

fannato, spegnendosi. Il muro di tenebre svanì dall'anello di rame in-

terrompendo il collegamento con l'orrido mondo appartenente a un al-

tro universo.

Poi appoggiai frettolosamente le torce sul pavimento, mettendole in

modo che proiettassero i fasci di luce in direzioni opposte. Presi i fiam-

miferi, allora, e accesi l'estremità di una striscia di nastro al magnesio

a cui avevo aggiunto zolfo per facilitarne l'accensione.

Il nastro s'incendiò subito formando un bianco bagliore accecante

che pareva un sole in miniatura. Lo scagliai attraverso la sala. La sua

luce vivida descrisse una parabola, spezzando le ombre dietro i pila-

stri.

Le belve nascoste e impaurite ulularono in preda a nuove atroci sof-

ferenze e caddero sul nero pavimento, tremando e contorcendosi in

maniera convulsa.

Io continuai ad accendere sottili strisce metalliche e a gettarle in

ogni angolo della sala per scacciare l'oscurità grazie alla loro scintil-

lante fiamma candida.

Il latrati si fecero sempre più deboli, gli uggiolii lamentosi cessaro-

no. I lupi e gli uomini giacevano immobili. La loro violenta lotta con-

tro gli spasmi d'agonia era finita.

Dopo aver lanciato l'ultima striscia di magnesio, presi l'automatica

e sparai nel serbatoio del motorino, appiccando poi il fuoco al rivolo di

liquido che fuoriusciva. Mentre una nuova colonna di luce sfavillante

divampava verso l'alto, mi affrettai in direzione del passaggio che con-

duceva in superficie, attento a non calpestare un'altra di quelle sfere

che eruttavano tenebra.

Trovai le lanterne ancora accese, poiché i mostri evidentemente non

erano riusciti a spegnerle.

Corsi all'estemo, raccolsi le sei lanteme che avevo lasciato là e che

scintillavano ancora nel crepuscolo imminente, e tornai velocissimo

nel tempio.

I mostri erano ancora inerti e privi di conoscenza.

Sistemai le lanterne sul pavimento, disponendole in modo che ogni

recesso fosse rischiarato efficacemente.

Andai a prendere altre due lanterne e un fustino di combustibile, e

riempii anche quelle lampade da cui avevo tolto la benzina per versar-

la nel motorino del generatore.

Quindi girai per la sala sotterranea, sempre tenendo due lampade

vicine, e distesi i gelidi corpi rannicchiati, rivoltandoli in modo che

volgessero la faccia verso la luce. Trovai Stella. Il corpo della ragazza

era ancora integro, a parte il pallore impressionante e lo strano gelo.

Poi fu la volta di mio padre. C'era anche l'ammasso dilaniato che un

tempo era stato il corpo di Judson. E il cadavere decapitato di Blake

Jetton, il padre di Stella. Controllai pure molti altri corpi straziati di

esseri umani, e le carcasse gelide di lupi, di coyote, del cavallo e di al-

cuni altri animali.

In mezz'ora circa il cambiamento fu completo.

L'assurdo gelo della forma di vita aliena aveva abbandonato le vitti-

me. La ma~aior Parte dei corPi si irrigidirono rapidamente in un tardi-

vo rigor mortis. Anche mio padre era senza dubbio deceduto. Il suo cor-

po rimase freddo e immobile, nonostante lo strano gelo che l'occupava

fosse svanito.

Ma la squisita figura di Stella tornò a scaldarsi, pervasa di nuovo dal

tenue rossore della vita. La ragazza respirava e il cuore le pulsava len-

tamente.

La trasportai nella cantina e la deposi sul pavimento tra due lanter-

ne, per prevenire ogni eventuale ritorno dell'invasore alieno mentre fi-

nivo il macabro lavoro che mi attendeva di sotto.

Non c'è bisogno che mi addentri in inutili dettagli...

Quando ebbi usato metà della scorta di dinamite, non rimase alcun

frammento riconoscibile, né della macchina maledetta né dei corpi

posseduti dalla mostruosa forma di vita. Innescai l'altra dozzina di

candelotti accanto ai pilastri e nelle pareti del tunnel...

Nessuno metterà mai più piede nella grande sala sotterranea che io

ho chiamato a volte tempio.

Ultimato il lavoro, portai Stella in camera sua e la misi delicatamen-

te a letto. Vegliai con ansia tutta la notte, mantenendo una brillante il-

luminazione nella stanza, ma non si verificò alcun cenno di quanto te-

mevo. Stella dormì profondamente, ma in modo normale, e sembrava

ormai completamente libera da eventuali infestazioni residue della

mostruosità parassita che un tempo era in lei.

Dopo una nottata stressante giunse l'alba, e un chiarore rosato si dif-

fuse sulla neve.

La fanciulla si stiracchiò. Due profondi occhi azzurri si aprirono e

mi fissarono, occhi sorpresi e ansiosi, da cui trapelava un'espressione

interrogativa. Occhi non più offuscati come un tempo da strani sogni.

--Clovis!--esclamò Stella con la sua vera voce dal tono morbido.

--Clovis, cosa fai qui? Dov'è papà? Dov'è il dottor McLaurin?

--Stai bene?--le chiesi ansioso.--Stai bene, Stella?

--Bene?--fece lei, sollevando il suo stupendo viso sorpreso.--Ma

certo! Che cosa dovrei avere? Il dottor McLaurin tenterà il suo grande

esperimento oggi. Sei venuto ad aiutarlo?

Allora capii, e ne fui immensamente felice, che tutti gli orribili ricor-

di erano stati cancellati dalla sua mente. Stella non ricordava nulla di

quanto era accaduto a partire dalla vigilia dell'esperimento, causa di

quella catena di cose terrificanti.

Guardò improvvisamente dietro di me, verso la mia fotografia appe-

sa alla parete, con un'espressione curiosa, e arrossì leggermente acqui-

stando un aspetto ancor più attraente grazie a quel lieve rossore accen-

tuato.

--Non te l'ho data io quella foto--l'accusai. Volevo evitare, per

ora, qualsiasi domanda riguardante suo padre, o il mio, o l'esperimen-

to.

--L'ho avuta da tuo padre--confessò lei.

Ho scritto questo resoconto in casa del dottor Friedrichs, il famoso psi-

chiatra di New York, mio intimo amico. Mi recai da lui non appena io e

Stella raggiungemmo New York, e da allora mi ha tenuto presso di sé

sotto costante osservazione.

Mi assicura che in poche settimane io sarò perfettamente ristabilito.

Ma a volte dubito che riacquisterò del tutto il mio equilibrio normale,

poiché gli orrori di quell'invasione da un altro universo sono incisi

troppo profondamente in me. Ora non sopporto di restare solo al buio,

o perfino alla luce lunare: tremo ogni volta che sento il latrato di un ca-

ne, e cerco precipitosamente la presenza di luci vivide e la compagnia

di esseri umani.

Ho raccontato al dottor Friedrichs la mia storia, e lui mi crede: mi

sono deciso a scriverla in seguito alla sua insistenza. E una verità stori-

ca, sostiene il mio amico, il fatto che le leggende, i miti e il folclore si

basino su eventi reali. E non esistono leggende più diffuse di quelle ri-

guardanti la licantropia. E importante osservàre come non solo i lupi

siano oggetto di tali leggende, bensì gli animali più feroci di ogni pae-

se. In Scandinavia, per esempio, le leggende riguardano gli orsi; nel

continente europeo, i lupi; in Sudamerica, i giaguari; in Asia e in Afri-

ca i leopardi e le trigri. E pure importante notare come la credenza

neíla possessione da parte di spiriti maligni, e la credenza nei vampiri,

siano collegate alla diffusissima credenza dei lupi mannari.

Il dottor Friedrichs pensa che, in seguito a qualche incidente cosmi-

co, questi mostri della Dimensione Nera abbiano potuto accedere al

nostro mondo anche in precedenza; e che quelle leggende, stranamen-

te diffuse ovunque, siano ricordi popolari di orrori che hanno colpito la

terra quando quelle abominevoli mostruosità si impossessavano dei

corpi degli uomini e di animali feroci, e andavano a caccia nelle tene-

bre.

Si potrebbe aggiungere parecchio a sostegno di questa teoria, ma io

lascerò che la mia esperienza parli da sola.

Stella viene spesso a trovarmi, ed è più adorabile di quanto non mi

fossi mai reso conto. Il mio amico mi assicura che la mente della ragaz-

za è assolutamente normale. Sostiene che la sua amnesia è un fatto na-

turale, dal momento che la sua mente dormiva quando l'entità aliena

dominava il suo corpo. E afferma anche l'impossibilità che lei venga

posseduta di nuovo.

Io e Stella contiamo di sposarci entro poche settimane, non appena

il dottor Friedrichs stabilirà che sono sufficientemente guarito.

Titolo originale: Wolves of Darkness

Traduzione di Piero Anselmi


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