INTRODUZIONE
Tra il 1954 ed il 1955 usciva la trilogia di J.R.R. Tolkien,
The Lord of the Rings: il maggior studioso di letteratura anglosassone
e medievale aveva scritto a sua volta un'epopea secondo
le regole del genere cavalleresco, diventando il servitore
appassionato delle forze stesse che aveva sentito pulsare nei
versi di uomini morti da più d'un millennio.
Macpherson nel '700 aveva immaginato un bardo scozzese
vestendosi dei suoi ruvidi gaelici panni, ma la sua era una
frode, un fingersi antico, agitato da selvatiche furie e malinconie.
Altri avevano giocato con l'antico parodiandolo, Mark
Twain e J.B. Cabe" si erano rassicurati sulla loro eccellenza di
uomini evoluti e coscienti a cospetto delle leggende e dei cicli
cavallereschi dei loro compassionevoli avi. Tolkien con costoro
non ha niente da spartire, e nemmeno compone una favola
romantica, magari riatteggiata come gioco surreale, tanto da
mostrare di stare alle regole di buona creanza dell'avanguardia
che tanto intimidiscono i timidi.
Tolkien commise una lunga infrazione alle regole, specie a
quelle che presiedono all'ancora (per poco?) vigente studio accademico
delle letterature antiche. Esse vogliono che il filologo
o lo storico del gusto partecipi per la parte riservata al suo
ufficio all'opera di schedatura universale, nel quadro d'una
Burocrazia-come-Essere-che-si-svela-a-se-stesso. Guai a far rivivere
l'antico (uccidendo il moderne). In The Lord of the Rings
Tolkien viceversa riparla, in una lingua che ha la semplicità
dell'anglosassone o del medioinglese, di paesaggi che pare d'aver
già amato leggendo Beowulf o Sir Gawain o La Mort Arthur,
di creature campate tra il mondo sublunare ed il terzo cielo, di
6 Introduzione
essenze incarnate in forze fantastiche, di archetipi divenuti
figure.
Naturalmente le infrazioni di Tolkien non potevano che
suscitare le reazioni coatte, sonnamboliche e feroci che si sanno
di prammatica. «Non è la sua un'opera staccata dalla realtà?
Non è forse un'evasione?».
Vi sono momenti di noncuranza, di distrazione, nei quali
si tralascia l'ottimo consiglio di Nietzsche, che la vera critica
sia un distogliere lo sguardo, e si parla perfino alla massa dannata.
Avvenne a Tolkien in un saggio sulla fiaba' di replicare
che, certo, una fiaba è un'evasione dal carcere e aggiunse: chi
getta come un'accusa questa che dovrebbe essere una lode commette
un errore forse insincero, accomunando la santa fuga del
prigioniero con la diserzione del guerriero, dando per scontato
che tutti dovrebbero militare a favore della propria degradazione
a fenomeni sociali. «Non si possono ignorare le realtà
presenti, impellenti, inesorabili!», dicono ancora i custodi della
degradazione. Realtà transitorie, corregge Tolkien. Le fiabe parlano
di cose permanente: non di lampadine elettriche, ma di
fulmine. Autore o amatore di fiabe è colui che non si fa servo
delle cose presenti. Esiste una fiaba suprema, che non è una
sottocreazione, come altre, ma il compimento della Creazione,
il cui rifiuto conduce alla furia o alla tristezza: la vicenda evangelica,
in cui storia e leggenda si fondono.'
La fiaba e la religione sono state sciaguratamente scisse e
sempre vanno tentando di riabbracciarsi e rifondersi in uno (e
per religione Tolkien intende: «il divino, il diritto al potere,
distinto dal possesso del potere, l'obbligo di culto»). Le fiabe,
Tolkien insegna, hanno tre volti, quello mistico che guarda al
soprannaturale quello magico indirizzato alla natura, e infine lo
specchio di scorno e pietà che offrono all'uomo. La triade della
terra, del cielo e dell'essere in cui s'incontrano, definisce la
sottocreazione o microcreazione che è la fiaba.
Ma di fiabe, più o meno in questo senso, c'è una sporade
nell'Inghilterra recente.
Tree and Leaf, Londra 1964 (trad. it. di Francesco Saba Sardi, Albero e Foglia,
Rusconi, Milano 1976, pp. 75-77).
Ivi, pp. 89-91.
Introduzione 7
Robert Graves non ha rinarrato la vicenda degli Argonauti
con un empito che gioca nel contempo sui tre piani? E Chartes
Williams non ha voluto fondere una partita magica di tarocchi
con una vicenda quotidiana? E john Cowper Powys non ha
tessuto tante fiabe gallesi, non ha riraccontato quella di Ruggero
Bacone? E anche George Mac Donald non ha fatto accenni
esoterici tra invenzioni f 20320m1212u avolose per l'infanzia? E C.S.
Lewis non ha composte una trilogia fiabesca? Ma una differenza
sottile e radicale, come fra la notte e il giorno, discrimina Tolkien,
segnatamente da Graves e Williams e Powys: egli non
cerca la mediazione fra male e bene, ma soltanto la vittoria
sul male. I suoi draghi non sono da assimilare, da sentire in
qualche modo fratelli, ma da annientare.
In un Powys sempre ritorna l'immagine dell'ermafrodito,
come stato di mescolanza, d'ibridazione satanicamente fruttuosa,
sempre si assiste a una calata negli inferi non per debellarli
ma per farsi contagiare, sì da ricevere una diabolica energia.
In un Graves sempre si torna a venerare una Madre Bianca
che è sorgente di energia tutta terrestre. In breve, ci si ritrova
nell'atmosfera consueta, moderna, erotica, intrisa di confusione,
androgina, che fu inaugurata da Blake, che è stata nella scorsa
generazione formulata da jung.
La fascinazione che sprigiona da Tolkien proviene dal suo
completo ripudio di questa tradizione sinistra. La sua fiaba non
celebra il consueto signore delle favole moderne, Lucifero, ma
San Michele o Beowulf o San Giorgio. E accetta il destino di
sconfitta che è inevitabile per l'eroe solare: vincitore è l'Anarca,
come già nel Giardino, ma tanto maggiore è dunque la purezza
di chi lo combatte. Si è con lui agli antipodi di Powys che
esalta un venturo Messia dell'era dell'Acquario, goffo, violento,
puerile, svergognato, che oltraggia l'ordine dei sessi, della religione
e della famiglia stessa. Si è agli antipodi di tutto ciò che
in qualche modo si rifaccia anche a meno sinistre dottrine, anche
soltanto a quella «provvisoria accettazione delle energie e
delle passioni pericolose» che Keats suggeriva.'
3 I, passa in rassegna G. Wilson Kniglit in A Chart ot the Prose Torks of lobn
Cowper Powys, Londra 1964.
8 Introduzione
Come per Powys il numero sacro per eccellenza è il quattro,
per Tolkien è il tre, trinitario, che non accetta la presenza del
demonio.
Anche quei favolisti della mano sinistre sanno cose abbastanza
nascoste, conoscono il potere immenso dei puri pensieri,
anch'essi compongono fiabe e accedono ad archetipi, eppure
sono inconciliabili con la schiera dei favolisti della Tradizione
benigna e luminosa: Tolkien o C.S. Lewis. Non è esaltante che
pure in tempi dediti al culto del Caos, abbiano levato la voce
anche questi ultimi, e che la tradizione da loro cantata abbia
avuto anche un altro servitore, dedito a narrare le opere della
tenebra, Montagne Summers?
Qualcuno, a sentir parlare della creazione di una nuova
epopea cavalleresca, ha scosso la mano dicendo che preferiva
leggersi epopee antiche vere. Obiezione encomiabile, se Tolkien
non avesse scritto appunto qualcosa di uguale alle epopee
antiche, di altrettanto vero. Infatti ci vuol poco a sentire che
egli sta parlando di ci'o che tutti affrontiamo quotidianamente
negli spazi immutevoli che dividono la decisione dal gesto, il
dubbio dalla risoluzione, la tentazione dalla caduta o dalla salvezza.
Spazi, paesaggi uguali nei millenni, ma da lui riscoperti
in occasioni prossime a quelle che noi stessi abbiamo conosciuto.
Sull'elsa delle spade immemoriali dura ancora il calore
di un pugno, sull'erba immutevole è passata un'orma da poco,
e quella presenza così prossima potrebbe essere la sua o la nostra.
Non a caso The Lord of the Rings è diventato così popolare,
i bambini vi si ambientano subito e i dotti godono tanto a
decifrarlo quanto a restare giocati da certi suoi enigmi puramente
esornativi. Si rimane stretti in una maglia ben tessuta,
fatta dei nostri stessi tremiti, inconfessati sospetti, sospiri più
intimi a noi di noi stessi. Perché opera di così impalpabili for-
ze, The Lord of the Rings si divulgò smisuratamente, senza
bisogno di persuasioni o di avalli, perché parlava per simboli
e figure di un mondo perenne oltre che arcaico, dunque più
presente a noi del presente.
Introduzione 9
I personaggi sono come Melkitsedek, senza padre né madre
anche se si occupano intensamente di genealogie; non sai di
dove traggano sussistenza: sono fisionomie peraltro inconfondibili
in mondi senza data.
Il romanzo piglia inizio in una contrada abitata da esseri
abbastanza simili a villici inglesi con forte vena celtica piuttosto
che a uomini in genere; sono piccoli, come Celti. Tolkien
li chiama Hobbits, e si può pensare a gente che corra la cavallina
dei suoi estri o bobby-borse. Estri bonari e casalinghi, ispirati
dai Lari: gli Hobbits sono amabili, buffi, profondamente seri (e
la quiete domestica non è un modesto accenno a una quiete
divina?). Essi somigliano gli avventori di ideali locande di
un'ideale campagna inglese, o i membri di un club pickwickiano;
sono quasi deliberatamente svagati, dediti quasi per impuntatura
a privatissime frivolezze quando si trovino sull'orlo della
catastrofe, a celie e divagazioni nel cuore d'una tragedia, pronti
a sacrifici e ardimenti e dure resistenze, purché sia dato di affrontarli
con aria distratta e lievemente comica.
Ci aggiriamo dunque nera loro terra pettinata e pacifica;
uno di loro, apprendiamo, Bilbo, ebbe in tempi remoti un'avventura
con un sozzo abitatore di grotte, viscido divoratore di
pesci bianchicci che guazzano nelle melme sotterranee: Gollum,
cui involò un anello simile a quello dei Nibelunghi, che rende
anche invisibile chi lo infili. Un giorno Bilbo sparisce, lasciando
l'anello all'amico Frodo. A costui si presenta un mago, Gandalf,
che gli svela il destino nel quale egli è caduto o assurto.
Quello è l'anello della forza assoluta, della Tenebra che
Shakespeare avrebbe chiamata «l'universale lupo»; spetta infatti
al Signore del Male, il quale lo cercherà per poter radiare
dal mondo le ultime vestigia di incurante bellezza. E' l'anello
dell'abisso informe, dotato di un potere ben maggiore dei tre
anelli degli Elfi, la triade o trinità che suscita e nutre le forme
dell'universo. Sarà sconveniente spezzare l'atmosfera di dolce
e puerile semplicità rammentando la cosmogonia di Boehme
(che ebbe il suo maggior discepolato in Inghilterra) dove all'inizio
è il principio tenebroso e acre, dalla cui compressione gelida
emanerà la triade benefica del calore, della luce e dell'aria o
10 Introduzione
spirito (ovvero: la materia potenziale, il suo intimo succo animatore,
lo spirito o profumo che la soffonde, ovvero: il corpo,
l'anima e lo spirito; il Padre il Figlio e lo Spirito)? E sarà
necessario rammentare che così, in Boehme, riemergeva la cosmogonia
nordica che poneva all'inizio il gelo, e aveva la sua
Triade? Una delle poesie del romanzo insegna:
Tre anelli per i re degli Elfi sotto il cielo,
Sette per i signori dei nani nelle aule di pietra,
Nove per gli uomini votati alla morte,
Uno per il Signore tenebroso sul cupo trono
Nella terra di Mordor dove posano le ombre.
Un unico anello per reggerli tutti e trovarli
E adunarli e legarli nel buio,
Nella terra di Mordor dove posano le ombre.
Al tre, numero dello spirito e della germinazione d'ogni forma,
si aggiunga il quattro, numero della materia e si avrà la completezza,
il sette (il numero di Minerva sapiente e delle arti
liberali), proprio dei nani costruttori; il nove è il numero della
redenzione dell'uomo, seconde già Dante insegnava-
I significati d'un simile unico anello sono quanti si voglia.
Può ben essere il segreto terribile cui accenna Lollis-Claude de
Saint-Martin nella prefazione all'Aurora di Boehme, dove presagisce
che le scienze naturali scisse dalle divine troveranno il
modo di far dellagrare il fuoco essenziale d'ogni cosa. Potrebbe
essere anche un segreto più sinistro, la conoscenza della plasmabilità
assoluta dell'uomo sociale, una capacità di rendersi invisibile,
nel regno delle forze infere, per dominare, di lì, gli
uomini.
Frodo è iniziato a questi sgomenti da un Merlino redivivo,
Gandalf, cui sono note le forze che reggono e si disputano la
terra. Molti i suoi antenati, stando anche alla sola Inghilterra
ottocentesca: il Saladino del Talisman di Sir Walter Scott, Zanoni
e Mejnour nello Zanoni di Sir Bulwer Lytton. Fuor d'Inghilterra,
s'intende, lo larno del Wilhelm Meister. Per tornare
a tempi prossimi, a Yeats parve d'incontrarne qualche replica
a Londra. Ed il fratello di Jivago gli somigliava.
Introduzione 11
L'anello conferisce una vita perpetua e infonde un tedio
sconfinato al mortale che lo infili al dito, il quale però non
cresce, non ottiene maggior vita, prosegue soltanto, in un mondo
di larve, in un crepuscolo sotto l'occhio del Maligno che
lo divorerà, dunque è l'elisir del Septimius Felton di Hawthorne.
Quali segreti, per un povero Hobbit! Frodo non desidera
capirli, ma Gandalf incalza con verità vieppiù intollerabili.
Il Male s'incarna di ciclo in ciclo in forme diverse, ma resta
uguale e mira alla schiavitò universale. «E perché vorrebbe
aver tutti schiavi?», geme Frodo. «Per mera malizia e oscura
vendetta», replica Gandalf.
Il potere del Male si va dilatando via via, un tempo gli
Elfi reggevano robusti, gli uomini ancora non s'erano straniati
da loro, ma ormai ogni traccia elfica è per svanire.
W.H. Auden non ha sopportato la visione, e in un articolo
comparso sul «Critical Quarterly» ha protestato: non esistono
esseri che ubbidiscano al Male assoluto, la loro presenza nell'opera
di Tolkien gli spiace, «non mi rallegrano, perché la loro
esistenza sembra significare che è possibile che una specie dotata
di parola e perciò capace di scelta morale sia maligna per
natura».
Se le concezioni di Tolkien fossero meno velate, questa
voce di protesta diventerebbe un coro: un'umanità dagli occhi
quasi spenti non regge a luci troppo gagliarde: non tollera l'idea
che esistano santi, carismatici che perseguano il bene (il divino,
non le buone azioni) fine a se stesso, perciò nemmeno può ammettere
l'esistenza d'un satanico, consapevole esecutore di un
male senza secondi fini. Che qualcuno ami la degradazione, si
voti ad essa inilessibilmente, ne ordisca la trama con dissimulazione,
sofferenza e prudenza, questo è troppo per l'umanità
che assiste affascinata, come uno scoiattolo sotto lo sguardo del
serpente, alla demolizione sistematica dell'arte, della grazia contemplativa,
della vegetazione stessa, di tutto ciò che è elfico
al mondo. L'intelligenza maligna che conduce quest'opera di
rovina è non meno sovrumana di quella divina che s'infuse nel
genio degli edificatori.
Ma per conoscere sperimentalmente la presenza del Male
m
12 Introduzione
è necessario aver fatto almeno qualche passo sulla strada della
purificazione.
Auden discerne dunque il criptogramma dell'affresco di Tolkien
e torce lo sguardo. Come mai il gran stuolo di lettori
viceversa gode a farsi insinuare nel cuore un messaggio così
ostico alla moderna miseria? Non se ne accorge? O forse se
ne accorge, e perciò ama la storia dell'anello, che parla d'una
verità repressa, ma ben nota nel profondo dei cuori, anche a
coloro che ripetono come intontiti le consuete e le stolte negazioni
del peccato originale e del suo artefice, anche se voci
macchinali ripeteranno che nessuno è del tutto maligno, che perfino
in Lucifero brilla un filo di bontà. Ma bando al ricordo
di menzogne, se il destino propizio concede invece di occuparci
dell'Anello.
Gandalf narra a Frodo come l'anello forgiato col fuoco dell'abisso
cadde in mano di Gollum, come costui in tempi remoti
fosse un essere attratto verso le radici, gli inizi, verso le profondità
dove covano i semi delle piante. Era dunque dannato
alla conoscenza tutta materiale, incapace di comprendere come
le forme siano l'essenza delle cose, come nella foglia e nella
radice si sveli la verità della pianta, la sua integra figura; i
rami nelle nervature, le fronde nei lobi, le radici nell'attaccatura.
Gollum aveva scordato le foglie, le cime, i bocci che si
aprono all'aria, cioè la destinazione delle cose che ne sono il
principio, l'entelechia. La forma s'incarna e plasma, non è
sprigionata dalla materia, insegnava ancora Goethe. Gollum è
al polo opposto, non immagina nemmeno più che sia l'imperfetto
a rinviate alla perfezione, che il fiore sia l'immanente,
invisibile, dominante destino nel ruvido seme materiale.
Benché uomo tutto assorto nelle scienze naturali e perciò
dimentico del primato delle forme sulle sostanze, Gollum ha
in sé un cantuccio ancora del tutto indenne, dove filtra come
per una fessura un fioco lume, dalla luce del passato: «as
througli a chink in the dark; liglit out of the past». Non è il
servo assoluto del Male.
Gollum è troppo meschino; il destino dell'Anello non può
Introduzione 13
coniluire nel suo destino: tende al Male totale. Il fato dell'Anello
s'intreccia si con quello dei suoi detentori, ma, insegna
Gandalf, di là da essi vige una forza maggiore, la Provvidenza,
cui si può alludere dicendo che Bilbo e Frodo dovevano impadronirsi
dell'Anello, e non per volontà di chi l'aveva forgiato.
Gandalf sa congiungere gli eventi come perle su un filo, e la
luce che glielo consente è la nozione del Male assoluto, incarnato,
operoso. Dinanzi agli ometti che non intendono questa
logica egli è ansioso e spazientito. Con Frodo ha un momento
di furia, quando questi gli domanda se tiri a indovinare o
veramente sappia, e gli risponde che non verrà a rendere conto
proprio a lui delle proprie azioni. Eppure è reso immensamente
mite dal carico di conoscenza che si è addossato e, quando Frodo
esclama che Gollum meriterebbe la morte, esclama che forse
sì la meriterebbe, ma quanti che muoiono meriterebbero di
vivere, e chi non è padrone di rendere la vita ai morenti non
presuma di largire la morte ai vivi, essendo i fini ultimi celati
alla vista perfino del più saggio. Anche Gollum è connesso al
destino dell'Anello, il cuore avverte che quel vincolo si rifarà
sentire, che Gollum rientrerà nella vicenda, in modi che non
si possono prevedere fausti o deleteri.
Frodo parte per distruggere l'Anello e scopre che gli amici
bonaccioni che lo accompagnano per la prima parte del tragitto
(dove si sente inseguito già da certi foschi cavalieri inviati dal
Male) hanno tutto indovinato e sono decisi a scortarlo fino in
capo al mondo, al vulcano maledetto. E' una compagnia di
Hobbits dunque che varca la frontiera e s'inoltra in una temibile
foresta per non seguire la strada maestra, dove scorrazzano i
cavalieri infausti. Un albero li attrae sotto le sue ombre e all'improvviso
li rinserra nelle sue radici; resterebbero schiacciati
se non comparisse il genio del luogo, un ilare Silvano: Tom
Bombadil, che cantando disincanta la morsa di legno, liberandoli.
Egli è il padrone della contrada, non il suo proprietario,
perché la proprietà sarebbe un peso da cui la sua leggera e
leggiadra natura rifuggirebbe. Conosce i segreti delle piante e
delle pietre, e svela ai viandanti che l'albero che li ha ghermiti
ha un cuore marcio ma una forza verde, e con il suo spirito
14 Introduzione
assetato e grigio dirama le sue filiformi radici per tutta la terra
del bosco, irretendo ogni pianta. Un altro pericolo incombe:
le pietre fredde cattureranno a loro volta i compagni e soltanto
i canti solari di Bombadil varranno nuovamente a liberarli.
Di là della foresta si stende la marca di frontiera, il paese
di Bree, dove l'ultima locanda si apre ad accogliere gli Hobbits.
In essa Frodo si lascia andare alla baldoria della compagnie
che gremisce il salone (o non sono gli sguardi pesanti di certi
forestieri a squilibrarlo?) e si infila l'Anello, sparendo, gettando
in tutti l'allarme. La notte i cavalieri del Nemico metteranno
in libertà i muli degli Hobbits, i quali fuggiranno tra gli improperi
degli abitanti. Hanno però acquistato uno strano, cupo
compagno, Aragorn. Con lui s'avventurano nelle lande desolate
e grazie a lui sopravvivono a un primo atroce attacco dei cavalieri.
In che consiste l'attacco? In un trasognato piombare nel
male: Frodo non per speranza di fuggire, non nella convinzione
di compiere checchessia di bene o di male, ma come sentendo
semplicemente di doverlo fare, si infila l'anello. Quale rappresentazione
perfetta della tentazione! I cavalieri neri non
sono forse uguali al maggiordomo e alla governante sinistra di
The Turn of the Screw? Frodo rimane ferito alla spalla, attraversato
da un terribile gelo, che soltanto le erbe di Aragorn
attenueranno; Aragorn così entra nella sua piena fiducia; è
stato finora tenuto in sospetto, come è naturale che desti un
lieve allarme chi percorra le terre pericolose sul confine tra
l'umano e il soprannaturale.
Ancora un altro assalto di cavalieri nemici viene respinto,
ma sulle soglie oramai del reame di Rivende", un luogo esente
da ogni ombra, un riparo di estasi e leggiadria. Frodo vi
sarà assistito da Gandalf, vi ritroverà Bilbo, che vi si è ritirato
per comporre poemi e annali.
Nelle conversazioni fra gli abitatori di Rivendeil affiorano
altre verità. Aragorn osserva che «i semplici sono esenti
da preoccupazione e timore, e semplici vogliono restare, e noi
dobbiamo restare segreti affinché essi restino come sono». Gandalf
annuncia che il capo dell'ordine dei maghi, Saruman, è
diventato ligio al Nemico: i suoi manti che sono sempre parsi
Introduzione 15
candidi si sono svelati contessuti di tutti i colori dell'iride,
ed egli ha proclamato: «Il bianco! Serve per incominciare.
Ma il panno bianco si può tingere. La pagina bianca si può
coprire di scrittura, e la luce bianca si può spezzare». Come il
capitolo sul bianco, colore dell'innocenza che si ribalta in lebbra
e morte, in Moby Dick, questa rivelazione minaccia di far cadere
nella terribile confusione onde male e bene si fondono,
l'uno e l'altro paiono intrecciati in modi inestricabili. Ma Gandalf
avverte che se il bianco non è più tale vuol dire che è
sparito, non già che sia confuso e infuso nel suo opposto, e
chi infrange una cosa per scrutarla (analizzi il candore per
scoprirvi altre cose) ha abbandonato la strada della sapienza.
Che resta degli inganni così cari ai mediatori di bene e male,
di salute e malattia, di divino e diabolico, così frequenti nel
secolo scorso e in questo? Infatti Saruman non perdona a
Gandalf d'aver smascherato la sua falsa sapienza di mediatore
fra bene e male, fra virtò e vizio, ha tentato di imprigionarlo,
e soltanto per la sua amicizia con le aquile (col puro spirito?)
Gandalf ha potuto mettersi in salvo ed è ora qui con gli amici.
Saruman s'illude di poter collaborare con il Signore del Male,
fatale dominatore della nuova era, e suggerisce di tener segreti
i pensieri , deplorando nel cuore le nefandezze inevitabili, confidando
che sotto qualsiasi regime del Male i sapienti potranno
sopravvivere e lentamente giungere alle leve di comando, poiché
infine anche la dominazione del Male si dovrà proporre
«Conoscenza, Legge, Ordine, le cose che finora abbiamo procurato
invano di attuare, ostacolati piuttosto che assistiti com'eravamo
dai nostri deboli o inerti amici. Non è necessaria, non
ci sarà un'alterazione dei nostri fini, ma solo nei mezzi».
Eppure, una volta salvi dalle lusinghe del Male, dalla voce
di Saruman, che si potrà mai fare contro un futuro schiacciante?
Gandalf mette in guardia dal voler affrontare il male con
le sue armi, dall'usare l'Anello; l'unico modo di vincere sarà
di perseguire un fine che il Maligno non potrà mai credere,
che non ha nulla a vedere con l'acquisto del potere, che per il
16 introduzione
Maligno è dunque pura follia. Se ci si propone di distruggere
l'Anello si sarà sotto un ammanto che coprirà perfettamente
ogni mossa, renderà del tutto enigmatici. La «follia secondo il
mondo» è pur l'unico scudo.
La furbizia di Saruman, con le sue arie da complotto di
maghi, non è poi di qualità meno misera di quelle battute della
protagonista di Rosemary's Baby di Ira Levin, la quale, guardando
il mostricino partorito dopo il connubio con Satana, il
cui occhio felino è esattamente uguale a quello del Male assoluto
di The Lord of the Rings, sussurra: «Non può essere tutto
malvagio, non potrebbe esserlo. Anche se mezzo Satana, era
pure per metà suo, per metà un essere umano decente, ordinario,
sensato... Se ella avesse operato contro di loro, esercitando
un'iniluenza buona per contrastare la loro, maligna...».
Sarà senza speranza che Frodo, in una compagnia accresciuta
dalla presenza di un principe, Boromir, d'un nano, d'un elfo
e di Gandalf, si metterà in cammino.
Anzi, non solo senza speranza, ma con certezza di ineluttabili
scadimenti, poiché se l'Unico Anello sarà catturato dal
Male, tutti ne saranno schiavi, ma anche se si riuscirà a farlo
sparire nelle fiamme del magma, i tre anelli degli elfi che
comprendono, fanno, curano, mantengono le cose della vita,
perderanno vigore.
Il percorso è aspro, per valichi di montagna infestati dai
lupi, a fianco d'un lago dove un mostro è in agguato, dentro
una caverna e dentro le radici della montagna infestate dagli
Orc, gli esseri più completamente satanici. Per uscire nuovamente
all'aperto Gandalf deve lottare contro un immane mostro
e nella lotta pare soccombere, cadendo con quello in uno
strapiombo. Priva della sua guida, la compagnia raggiunge infine
la terra degli Elfi, dove la regina Galadriel mostra a Frodo
lo specchio magico di certe acque, dove si palesano con
cose desiderate anche altre, non richieste, che furono, sono e
forse avverranno. E' la distesa della propria fantasia epurata e
resa oggettiva, profetica, mondo d'immagini non più soggettive.
In essa appare, a sgomento e orrore, l'Occhio del Male, cerchia-
Introduzione 17
to di fiamma, giallo, attento, con una fessura nel mezzo, pupille
spalancata su un nero abisso, sul nulla.
Anche la regina degli Elfi vede quell'occhio e leva un
braccio candido e allarga la mano verso l'Oriente come a respingere
lo sguardo orribile; intanto splende in cielo la stella Vespero
(Earendil la chiama Tolkien, con il suo nome anglosassone)
e il suo raggio cade sul dito della regina, inargentando
l'anello d'oro, facendone luccicare la pietra, quasi a dire che
lui, Vespero, vi è incastonato. P, uno dei tre anelli elfici.
I compagne si congedano dal paese di canti e di estasi, ripigliando
il cammino insidiato. E l'insidia maggiore è celata
nel loro mezzo: «in nulla si manifesta più chiaramente il potere
del Signore Tenebroso che nello straniamento che divide l'un
dall'altro coloro che ancora lo contrastano». Boromir, il principe,
propone a Frodo di usare l'anello per combattere il Male, e,
avutone un rifiuto, lo assalta. Boromir morirà, mentre Frodo
fugge, solo, lasciando alle spalle la compagnia. Lo raggiungerà
il suo amico Sam, semplice e devoto, e insieme si avvieranno
verso i reami della desolazione.
Il secondo libro della trilogia, The Two Towers, narra come
la compagnia così ridotta debba inseguire una masnada di
Orc i quali hanno rapito due degli Hobbits, come questi si
salvino in una antica foresta e vi incontrino Treebearci, un
pastore d'alberi, un'anima puramente e possentemente vegetale;
come la compagnia che IA va cercando s'imbatta, in quella
medesima foresta, in Gandalf redivivo e con lui vada a liberare
il re di Rohan dai sortilegi del suo consigliere Grima, asservito
a Saruman. Grima ha isolato il re, l'ha persuaso di non essere
capace di fare più nulla, facendogli sentire un invincibile languore.
Gandalf lo scioglie da quella soggezione: «Ecco! Sei
giunto a un pericolo ancor maggiore di quello che l'ingegno di
Grima intesseva nei tuoi sogni. Eppure ecco! Non sogni più.
Vivi». Il re vive e assume la sua parte nella lotta contro le forze
preponderanti del Male. Gli appaiono ora leali amici coloro che
durante l'infatuazione maligna gli sembravano irritanti («a occhi
che guardano di sbieco, la verità può mostrare un volto
distorto»).
18 Introduzione
La battaglia contro gli Orc è aspra, ma la vittoria arride
su quella truppa ghignante e turpe allorquando Treebearci
giunge in soccorso con i suoi alberi secolari, simili alla foresta
che atterrisce Macheth. Saruman è imprigionato, Gandalf ne
spezza il potere, ma le lusinghe dello stregone sono state temibili
fino all'ultimo, poiché la sua voce è quella d'un buon cuore
ferito da offese immeritate, e chi la ascolta di rado saprebbe
riferirne le parole, ci si ricorda solamente che essa è deliziosa
ad ascoltarsi, pare dir cose sagge e razionali, destando il desiderio
di mostrarsi, senza esitazione, altrettanto razionali, consentendo.
Frodo e Sam s'inerpicano intanto per le montagne che cingono
il regno del Male assoluto. C'è un essere che da tempo li
sta inseguendo, Gollum, affascinato ancora e sempre dall'Anello.
Frodo lo affronta e soggioga, obbligandolo a scortarli fino a
una galleria nella montagna che cinge il temibile regno. Il mostro
delle caverne, Shelob, piomba sui due amici e ferisce Frodo;
una pattuglia di Orc s'impadronisce di lui. Sam, rimasto
solo, si mette, invisibile grazie all'Anello, a inseguirli.
Frattanto il Signore del Male ha scatenato le sue truppa
innumerevoli contro il reame di Numenor, retto dal vecchio
re Denethor. Soltanto l'arrivo tempestivo delle truppe di Rohan
potrebbe salvarlo. Questa incerta battaglia sospesa al filo d'un
momento decisivo è il tema della terza parte della trilogia,
The Return of the King.
e re: Numenor è un mago decaduto, la sua stirpe regale prese
a cercare i segreti delle arti nere o si stemprò nell'ozio, e fu
sostituita dalla stirpe dei maestri di palazzo. Il re Denethor impazzirà
nel colmo della mischia, isolato nera sua rocca. Soltanto
la presenza di Gandalf evita il crollo e dopo la vittoria che
vede congiungersi sul campo i cavalieri di Rohan, la compagnie
capeggiata da Aragorn e gli uomini di Numenor assediata, una
nuova dinastia, con Aragorn, salirà sul trono. La designazione
è semplice: Aragorn mostra di saper guarire i feriti: «Le mani
del Re sono mani di guaritore. E così sempre si è potuto stabilire
chi fosse il legittimo sovrano».
Introduzione 19
Una spedizione capeggiata da Aragorn e Gandalf va incontro
al Nemico, senza speranza alcuna, nell'unico intento di
distrarlo mentre Frodo tenta d'accostarsi al vulcano.
La disperata impresa riesce: crollano le difese del Male,
Frodo giunge, dopo essere stato liberato da Sam, a far sparire
nelle fiamme l'Anello. P, in iscacco (per poco, certamente) il
Male, la potenza che può parodiare ma non sa costruire, che si
regge sull'odio e sulle gradazioni dell'odio (talché le sue creature,
che vivono odiandosi, tuttavia odiano ancor di più il
bene).
Sarebbe finita l'avventura, se, per simmetria, Tolkien non
avesse aggiunto, come Omero una lotta contro i Proci all'Odissea,
un funesto ritorno alla terra degli Hobbits, dove Saruman
è riuscito a ispirare una tirannide che spegne tutte le virtò naturali
del popolo. La lugubre atmosfera, l'organizzazione cupa
d'ogni atto, sono perfette rappresentazioni dei tanti regimi oppressivi
che il secolo ha prodotto. Poiché la fiaba deve concludersi
per il bene, l'arrivo dei reduci scioglie l'incantesimo; la
vita ripiglia a scorrere nel modo usato, anche se la dolcezza di
vivere non tornerà mai più qual era prima.
ELMIRE ZOLLA
NOTIZIA
John Ronald Reul Tolkien nacque il 3 gennaio 1892 a Bloemfontein,
nel Sudafrica, da genitori inglesi originari di Birmingham. Morto il padre
nel 1896, la famiglia si trasferì in Inghilterra, nel villaggio di Sarehole
presso Birmingham. Dalla madre, Tolkien ereditò l'amore per le
lingue e per le antiche leggende e fiabe. Dopo la morte di lei nel 1904,
fu educato da P. Francis Xavier Morgan, un sacerdote cattolico degli
Oratoriani. Studiò all'Exeter College di Oxford, ove ottenne il titolo di
Bachelor of Arts nel 1915. Combattente nella prima guerra mondiale, ritornò
ad Oxford ove divenne Master of Arts nel 1919, e collaborò all'Oxford
English Dictionary. Insegnò lingua e letteratura anglosassone
ad Oxford dal 1925 al 1945, e poi lingua e letteratura inglese fino al suo
ritiro dall'attività didattica. Morì a Bournemouth, nello Hampshire, il
2 settembre 1973.
Tolkien pubblicò The Hobbit, la prima delle invenzioni narrative
che lo hanno reso celebre, nel 1936; W.H. Auden ha definito quel libro
«la più bella storia per fanciulli scritta negli ultimi cinquant'anni»,
anche se Tolkien è scrittore per adulti capaci di ritrovare nei suoi libri,
più che non i fanciulli, il fascino sottile della fiaba. Intorno al nucleo
originario di The Hobbit ha preso forma il mondo fantastico di Tolkien
con il successivo Farmer Giles of Ham (1949), e soprattutto con la trilogia
The Lord of the Rings, composta nell'arco di quattordici anni e
pubblicata nel 1954-1955. Dopo The Adventures of Tom Bombadil
(1962), Tolkien pensa alla possibilità di mettere in musica le molte canzoni
di cui si dilettano i suoi personaggi: nel 1968, il musicista Donald
Swann ha pubblicato un ciclo di liriche su testi di Tolkien, dal titolo
The Road goes ever on. I libri di Tolkien sono stati tradotti in una decina
di lingue, con una tiratura complessiva di milioni di copie.
Gli scritti principali di Tolkien sono:
The Hobbit, 1936. Trad. it., Lo Hobbit, Adelphi, Milano 1973.
On Fairy-Stories, 1938.
Leal by Niggle, 1939.
Nota del Curatore 21
Farmer Giles of Ham, 1949. Trad. it., Il cacciatore di draghi Einaudi,
Torino 1975.
The Fellowsbip of the Ring, 1954.
The Two Towers, 1954.
The Return of the King, 1955 (che insieme con i precedenti forma la trilogia
The Lord of the Rings; trad. it.: Il Signore degli Anelli, che
qui si pubblica).
Tree and Leal, 1955 (riunisce On Fairy-Stories e Leal by Niggle).
The Adventures of Tom Bombadil, 1962,
Smith of Wootton Major, 1967.
The Homecoming of Beorhtnoth Beorhtbelm's Son, 1975.
Tree and Leal. Smii of Wootton Major. The Homecoming of Beorhtnoth
Beorhtbelm's Son, 1975. Trad. it., Albero e Foglia, Rusconi,
Milano 1976.
Tutte le opere citate sono state pubblicate da George Allen & Unwin,
Londra.
Nel 1968 la «Caedmon Records» ha inciso un disco in cui J.R.R.
Tolkien legge alcune poesie tratte da The Lord of the Rings e da the
Adventures of Tom Bombadil.
NOTA DEL CURATORE
La principale difficoltà incontrata nel tradurre The Lord of the Rings
riguarda i nomi propri di persone e di luoghi. Il romanzo ha un centro
geografico, la Contea (the Shire popolata dagli Hobbit, i quali, nel testo
inglese, portano nomi che vanno da un'intonazione comune, quotidiana,
borghese (Baggins, Sackville-Baggins, Bottin) a toni più fiabeschi o addirittura
da fiaba comica (Brandybuck, Bracegirdle). I personaggi che vivono
fuori della Contea, o che vi vengono da fuori, recano nomi in genere
sonori e leggendari, da saga nordica o da poema cavalleresco (Gandalf,
Aragorn, Glorfindel, Galadriel, ecc.). Si noti, però, che in tutti, o in
quasi tutti i nomi, c'è un'allusione, più o meno evidente o nascosta.
Se si volesse che l'allusione avesse significato pieno anche nella traduzione
italiana, i nomi dovrebbero essere tutti tradotti ricalcando il significato
cui alludono nella lingua originale. Il traduttore, d'altra parte, ha
voluto evitare stonature stridenti. Perciò, anche se Baggins richiama bag
(sacco, borsa), e così Sackville richiama sack (con significato simile), chia-
22 Nota del Curatore
re allusioni alla prosperità e all'abbondanza in cui i Baggins vivono e
in cui i Sackville-Baggins vorrebbero vivere, ai miti di tesori nascosti,
alla felice allegria che domina a Hobbiville (Hobbiton in inglese), il traduttore
ha conservato la forma originale, scansando così una traduzione
«fuori tono», come sarebbe potuto essere Sacconi, o Borsi-Sacconi, o
qualcosa del genere. In altri casi, sono state adattate certe grafie (ingl.
Took, it. Tuc; ingl. Brandybuck, it. Brandibuck), per accentuare l'intonazione
fiabesca di certi nomi. In certi rari casi, è stata adottata una vera
e propria traduzione italiana, ricalcata sull'originale, o scelta come interpretazione
dell'originale (es.: ingl. Rivendell, it. Gran Burrone; ingl.
Bywater, it. Lungacque); e ciò per evitare, ove fosse possibile, un affastellamento
di nomi esotici, soprattutto toponimi, difficili ad essere ricordati
per il lettore italiano, e anche per accentuare, ove l'orecchio lo suggerisse,
un tono familiare, «di casa» (es. Lungacque), da porre in contrasto
con il tono leggendario di altri luoghi o personaggi incontrati durante
l'«avventura»; nonché per accentuare i valori visivi impliciti in
certi toponimi (es. Gran Burrone). In tutti gli altri casi si è conservata
la forma originale.
Il risultato, che è una gamma di forme linguistiche, da un plausibile
inglese «quotidiano», all'italiano, al nome esotico, antico o cavalleresco,
a forme ibride, non tradisce, crediamo, i rapporti che tra i nomi intercorrono
nell'originale, in cui, si ricordi, è descritto un mondo immaginario
in un'epoca immaginaria.
Q.P.
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