Le piante medicinali: tradizione e realtà.
Ciò che è nuovo non è necessariamente vero
e
ciò che è vero non è necessariamente nuovo
(Lewis ed Elvin-Lewis, 1977)
Le piante si distinguono dagli animali perché:
- utilizzano la luce sia per convertire le sostanze inorganiche in biomassa che per la loro morfogenesi;
- sintetizzano molti metaboliti secondari, che interferiscono nell'ambiente con altre specie;
- pur avendo un habitus statico si adattano alle variazioni ambientali;
- possono essere moltiplicate e trasformate a partire da singole cellule.
I nostri antenati compresero che molte piante erano innocue e potevano nutrirli, poche erano gradite al palato, un discreto numero di esse li faceva star male, diverse altre alleviavano il dolore e la sofferenza, poche li uccidevano all'istante, e pochis 313b11d sime avevano effetti magici e soprannaturali sul loro corpo e sulla loro mente (1, 2).
L'uso delle piante medicinali cominciò in Eurasia, specialmente nella Regione Mediterranea ed in Cina, e ci è pervenuto grazie ai pittogrammi egiziani, gli ideogrammi babilonesi ed il sanscrito dei Veda. Lo studio delle piante in senso moderno iniziò in Asia Minore nel VI secolo a.C., dopodiché si diffuse verso Occidente in Grecia e nelle colonie greche dell'Italia meridionale.
Il fondatore della botanica occidentale fu Teofrasto (370-285 a.C.), filosofo del Liceo di Atene ed allievo dì Aristotele. Le opere botaniche di Teofrasto Historia Plantarum e Cause Plantarum, entrambe pervenuteci intatte, trattano quasi ogni aspetto della moderna botanica, dalla morfologia alla fisiologia, dalla tassonomia alla farmacognosia. Esse rappresentano il meglio delle conoscenze degli antichi nel campo della botanica.
Nei secoli successivi, la botanica fu sempre più considerata come lo studio delle piante medicinali, se si eccettua la Naturalis Historia scritta da Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), che dedicò alla botanica la parte centrale della sua opera enciclopedica, citando gli insegnamenti di Teofrasto. In sedici (dal XII al XXVII) dei trentasette libri di cui è composta l'opera pliniana, l'autore espone tutto il sapere sul mondo vegetale al tempo dei romani, dalla profumata flora alpina a quella lussureggiante dei tropici, dal calendario dei lavori agricoli agli usi alimentari e medicinali delle piante coltivate e selvatiche (3).
La conoscenza della farmacognosia greca è stata conservata nel libro De Materia Medica scritto intorno al 60 d.C. dal medico greco Dioscoride, contemporaneo di Plinio, anche se sembra che i due non si conoscessero; tale libro, in cui le piante venivano classificate secondo le loro proprietà curative, rappresentò per secoli la farmacopea dei paesi occidentali. Dopo Dioscoride, fu Galeno (131-200 d.C.) a dare un importante contributo alla conoscenza delle piante medicinali, riportando più di 450 specie con i loro usi ed effetti terapeutici. Dal secondo secolo in poi, per un periodo di circa mille anni, vi furono pochi progressi sia nella scienza medica che in botanica. Fu solo alla fine dei Medioevo che la botanica cominciò a separarsi dalla medicina e diventare oggetto di un rinnovato interesse.
Con l'invenzione della stampa durante il Rinascimento, furono prodotti molti libri riguardanti le piante medicinali ed aumentò così il numero delle specie conosciute; le descrizioni e le iconografie delle piante divennero meno fantasiose, più accurate e rispondenti alla realtà. I testi classici di medicina nel periodo rinascimentale erano consultati con molto rispetto, ma forse proprio per questo in maniera acritica; per molti medici l'esperienza delle precedenti generazioni doveva essere necessariamente assimilata se si voleva ottenere un effettivo progresso (4, 5). Tale considerazione verso l'antica medicina cambiò radicalmente nella seconda metà del XIX secolo, quando, sotto l'impulso del positivismo, si sviluppò una nuova scienza medica che, privilegiando gli aspetti sperimentali, conseguì rapidamente notevoli progressi. Improvvisamente la storia della medicina apparve agli occhi dei medici come la storia degli errori: niente poteva essere imparato da essa, per cui leggere e studiare le opere degli antichi luminari, era considerato solo una perdita di tempo (6).
All'inizio dello scorso secolo, la scoperta dei composti sulfamidici, degli antibiotici come la penicillina e di altre sostanze biologicamente attive, portò ad un netto declino della popolarità delle piante medicinali nella terapia medica. Attualmente le cose stanno cambiando ed un rinnovato interesse per lo studio e gli usi delle piante medicinali ha preso corpo negli ultimi venti anni. Infatti, l'importanza di farmaci derivati dalle piante è suffragata dai seguenti dati:
l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che l'80% della popolazione mondiale sia assistito dalla medicina tradizionale;
la maggior parte delle terapie tradizionali fa uso di estratti vegetali o dei loro costituenti attivi;
il 25% di tutte le prescrizioni mediche negli USA tra il 1959 ed il 1990 contenevano estratti o principi attivi di origine vegetale. Percentuali simili (22-25%) sono state riportate per alcuni paesi europei.
I consumatori statunitensi, nel solo 1999, hanno speso 12 miliardi di dollari per prescrizioni contenenti principi attivi ottenuti da piante. È da sottolineare che la combinazione dei dati empirici sull'uso di alcune piante con le tecnologie più avanzate e la sperimentazione clinica, ha permesso di ottenere alcuni principi attivi di origine vegetale che sono dei farmaci di primaria importanza. Alcuni esempi ben noti sono:
Atropa belladonna L. Atropina (Anticolinergico)
Digitalis purpurea L. Digitossina (Cardiotonico)
Colchicum autumnale L. Colchicina (Antigottoso)
Cinchona offìcinalis L. Chinino (Antimalarico)
E' necessario salvare la conoscenza delle piante che sono state tradizionalmente usate nella terapia medica. Tali piante rappresentano un'utile fonte per effettuare ricerche chimiche e cliniche miranti ad ottenere nuove sostanze medicinali naturali. Infatti, se si eccettua i casi sopra menzionati, l'etnofarmacobotanica è ingiustamente ignorata in campo biotecenologico, sia medico che botanico. Il miglioramento genetico delle piante medicinali attualmente coltivate è stato ottenuto grazie ai tradizionali metodi di selezione ed incroci controllati, ma recentemente i biologi vegetali hanno acquisito la capacità di alterare il patrimonio genetico delle piante in modo preciso e mirato; ciò grazie ai progressi della biologia molecolare, in particolare della tecnica del DNA ricombinante, ovverosia l'insieme delle tecniche di clonazione, analisi, manipolazione dei geni e loro reimpianto nelle cellule, per cui effettuando la coltura di piante transgeniche si può facilitare la produzione di sostanze vegetali biologicamente attive. Considerando che oggi le sostanze diuretiche ottenute per sintesi chimica sono tra i farmaci più usati nella terapia clinica (7), è auspicabile un dialogo tra coloro che operano nei due sistemi di cura considerati finora distinti: il tradizionale ed il moderno.
Per facilitare tale dialogo occorre censire le più importanti piante tradizionalmente usate nella terapia medica, precisando se esse siano state studiate di recente su base scientifica. Per quanto concerne il primo aspetto, l'opera di Joseph Jacob Plenek: Icones Plantarum Medicinalium pubblicata dal medico ungherese, in più periodi, a partire dal 1788 (6). Tale opera rappresenta uno dei primi riusciti tentativi di presentare le piante medicinali con i loro nomi, origini, descrizione, habitat ed usi, sulla base della classificazione e nomenclatura proposta da Linneo (1707-78).
A questo punto riteniamo necessario riassumere brevemente i più importanti tentativi di classificazione delle piante. Come è stato detto precedentemente, le piante medicinali erano state classificate secondo le loro proprietà curative indicate da Dioscoride, medico greco in servizio presso l'esercito romano. Dioscoride viaggiò moltissimo ed acquisì un enorme patrimonio di informazioni sulle piante utilizzate dall'uomo. Grazie all'autorità riconosciuta a Dioscoride, il De Materia Medica fu il testo guida della botanica per un millennio e mezzo, particolarmente per quanto riguarda le piante medicinali. Nondimeno, come nel caso dell'anatomia di Galeno, la tradizione divenne sempre più conoscenza dei testi, allontanandosi progressivamente dalla natura e dagli organismi reali.
A partire dal secolo XIII, tuttavia, vennero pubblicati diversi erbari in cui si nota un ritorno all'osservazione diretta della natura, tendenza che si accentuò notevolmente dopo l'invenzione dell'arte della stampa. Una traduzione latina di Dioscoride fu pubblicata nel 1478, e una di Teofrasto nel 1483, e molti degli erbari manoscritti dei secoli precedenti furono stampati per la prima volta in quel periodo. L'interesse crescente per l'identificazione delle piante, la scoperta di ricche flore di specie locali, sconosciute da Dioscoride, così come la ricerca di nuove proprietà medicinali in piante scoperte di recente, portarono alla fondazione di cattedre di botanica nelle scuole mediche europee, la prima delle quali venne istituita a Padova nel 1533.
Una nuova era iniziò con il lavoro dei "padri tedeschi della botanica": Brunfels (1488-1534), Bock (1489-1554) e Fuchs (1501-1566). Questi naturalisti segnano pienamente il ritorno alla natura e all'osservazione diretta; i loro resoconti non sono un insieme di complicazioni né una trascrizione senza fine di miti e allegorie, ma sono descrizioni basate su piante reali, osservate in natura, dal vero. Essi rappresentano anche un tentativo di descrivere e illustrare le fiore locali; le illustrazioni eseguite da eccellenti disegnatori e intagliatori raggiunsero un livello di accuratezza e di abilità artigianale insuperati per generazioni. Queste illustrazioni ebbero in botanica lo stesso ruolo che le illustrazioni di Vesalio avevano avuto in anatomia. Il titolo dell'opera di Brunfels, Herbarum vivae eicones (1530) sottolinea il fatto che le piante erano state disegnate dal vivo (da Hans Weiditz). Tutti e tre gli erbari descrivono e illustrano molte specie dell'Europa centrale che erano del tutto ignote ai botanici antichi. Brunfels illustrò 260 piante, Fuchs nella sua Historia stirpium (1542) non meno di 500. Un aspetto che manca in tali opere è un tentativo coerente di classificazione delle piante, poiché i loro autori non erano affatto interessati alla classificazione, ma soltanto alle proprietà delle singole specie (4).
Fu Linneo a proporre un sistema di classificazione che metteva il botanico in grado di "riconoscere" le piante, cioè di assegnare loro un nome rapidamente e con certezza.
Tale scopo poteva essere raggiunto utilizzando, come caratteri discriminanti, solamente quelli stabili e ben definiti. Linneo, come struttura basilare per il suo sistema, scelse il fiore dove le caratteristiche di stami e pistilli (ed anche di altri organi) rimangono costanti in gruppi di piante affini, in quanto risultato di adattamenti, che facilitano l'impollinazione e non dipendenti dal tipo di habìtat. Ciò è evidente nelle piante succulente che mostrano notevoli somiglianze dovute a fenomeni di convergenza biologica per quanto concerne la forma di organi vegetativi quali fusto e foglie ma non per i fiori (es. cacti ed euforbie).
Linneo chiamò il suo metodo "sistema sessuale" e lo espose per la prima volta nel Systema naturae del 1735. I criteri fondamentali della suddivisione logica linneana in 24 classi (tante, quante le lettere dell'alfabeto latino!) erano: presenza o assenza dei fiori, il numero degli stami, fusione o meno di stami e pistilli, presenza o assenza di stami e pistilli nello stesso fiore. Le classi, a loro volta, furono suddivise in ordini con l'aiuto di caratteri addizionali; le altre due categorie gerarchiche usate da Linneo furono il genere e la specie. Il genere era la pietra angolare della classificazione linneana, ogni genere era definito con una caratteristica particolare che gli era propria ed esclusiva. Linneo ammise tanti generi quanti sono i diversi gruppi di specie che si presentano simili nella struttura degli organi riproduttori, inoltre articolò il suo concetto di specie affermando che: "si contano tante specie quante sono le forme differenti create da Dio". Quindi Linneo, al pari di altri scienziati del suo tempo, riteneva che il numero delle specie viventi era stato fissato all'atto della creazione e che la loro classificazione avrebbe svelato il modello divino della creazione.
Per quanto artificiale fosse il sistema linneano, esso fu assai utile per scopi pratici di identificazione e per l'immagazzinamento e il recupero dell'informazione. Utilizzando il sistema sessuale qualsiasi botanico sarebbe arrivato agli stessi risultati di Linneo; tutto ciò che doveva fare era imparare un numero limitato di nomi di parti del fiore e del frutto, e in tal modo era in grado di identificare qualsiasi pianta. Non vi è da meravigliarsi che tutti adottassero tale sistema dal momento che al tempo di Linneo (e anche per molti anni dopo) i botanici erano molto spesso medici praticanti o farmacisti ai quali le piante interessavano soprattutto per le proprietà medicinali; quello di cui avevano bisogno era quindi una classificazione che permettesse l'identificazione rapida e sicura delle piante medicinali.
Un'altra importante innovazione dovuta a Linneo è la cosiddetta nomenclatura binomia che individua ogni specie con due nomi (es. Valeriana offìcinalis L.). Il nome generico viene sempre riportato prima di quello specifico e con l'iniziale maiuscola; il nome specifico (quasi sempre un aggettivo) non viene mai indicato da solo senza quello generico. Al binomio segue, a volte abbreviato a seconda della notorietà, il nome del botanico che ha denominato la specie (es. L. =Linneo) (8).
A differenza della nomenclatura binomia che è valida ancora oggi, il sistema di classificazione linneano risultò essere pratico ma inadeguato via via che si scoprirono nuove specie. La pubblicazione dell'Origine delle specie di Charles Darwin nel 1859 gettò le basi teoriche della classificazione filogenetica o naturale, secondo la quale gli organismi sono raggruppati non solo sulla base delle affinità generali, ma soprattutto tenendo conto di tutti quegli elementi che possono indicare una origine genealogica comune. Il sistema proposto da Alfred Engler, botanico tedesco della fine dell'ottocento, prevede di raggruppare piante con ascendenza comune delle specie e considera come categorie sistematiche superiori al genere:
la famiglia (alla quale è attribuita particolare importanza), l'ordine, la classe e la divisione. Tali categorie, o taxa, sono definite non solo riferendosi alla morfologia del fiore, ma anche a quella dell'embrione, all'aspetto erbaceo o legnoso della pianta, come pure all'anatomia del fusto e della foglia (9, 10).
Il nostro tentativo di aggiornare l'opera di Plenck, almeno per quanto concerne le piante utili nella terapia renale, ha rilevato che:
a) i nomi scientifici di molte piante proposte da Linneo sono cambiati perché non rispondenti alle regole della moderna tassonomia previste dal Codice Internazionale di Nomenclatura Botanica. Come esempio consideriamo il prezzemolo, il cui nome assegnatogli da Linneo, Apium petroselinum, è ora cambiato in Petroselinum crispum (L.) Miller. È da notare che la seconda parte del suo vecchio nome, l'epiteto specifico, è diventato il nome di un nuovo genere e che il nome dell'autore che propose il vecchio nome (Linneo) è posto tra parentesi ed è seguito dal nome dell'autore che ha proposto il cambio.
b) gli effetti farmacologici di molte piante riportate da Plenck non sono stati valutati appieno, benché l'uso delle stesse è citato nelle farmacopee di molti paesi. Come si è detto precedentemente solo poche piante tradizionalmente considerate medicinali sono state analizzate per isolare i loro principi attivi e non sempre ciò mirava a valutarne gli effetti nella terapia renale. In alcuni casi, però, come ad esempio per i flavonoidi esperidina e rutina, si sono dimostrati gli effetti diuretici di queste sostanze e la loro capacità di abbassare il flusso sanguigno nei capillari. I flavonoidi sono composti fenolici presenti particolarmente in alcune famiglie vegetali, quali Rutaceae ed Umbelliferae, e meritano particolare attenzione da parte dei chimici impegnati nella sintesi di sostanze diuretiche. La produzione e l'uso di sostanze diuretiche, ottenute per sintesi chimica, può essere valutata in periodi distinti a partire dal 1919, quando Alfred Vogl, un giovane viennese studente in medicina, osservò le proprietà diuretiche del merbafene, un composto mercuriale organico usato in precedenza contro la sifilide. Ai mercuriali organici seguirono prima l'uso dei diureticisulfonamidici (es. tioazide), poi degli antikaliuretici e degli aspecifici che causano saluresi ed uricosuria. Nell'effettuare la sintesi di tali composti, che non sono privi di controindicazioni, raramente ci si è riferiti ai principi attivi delle piante medicinali (11, 12).
È auspicabile che i botanici, i chimici ed i medici lavorino insieme per la ricerca di sostanze diuretiche efficaci e prive di tossicità.
BIBLIOGRAFIA
1)
ALI0TTA G., 1987 - Edible wild plants of
2) SCHULTES R.E., HOFMAN A., 1983 - Botanica e chimica degli allucinogeni. Edizioni Cesco Ciapanna, Roma.
3) PLINIO, 1982 - Storia naturale. 6 volumi, Torino: Edizioni Einaudi.
4) MAYR E., 1990 - Storia del pensiero biologico. Ed. Bollati-Boringhieri, Torino.
5) PLENCK J.J., 1788-1812 - Icones plantarum medicinalium, secundum sistema Linnaei digestarum cum enumeratione virium et usus medici, chirurgici atque diaetetici. Apud Rudolphum Graeffer et Soc. Viennae. 8 volumi.
6) MORTON
A.G., 1981 - History of botanical
science. Academic Press,
7) AKERELE O., 1992 - W.H.O. Guidelines for the assessment of herbal medicines. Fitoterapia (2): 99-104.
8) STEARN W.T., 1971 - Linnean classification, nomenclature and method. In: BLUNT W. (ed): The complete naturalist. life of Linnaeus. London.
9) ENGLER A., 1964 - Syllabus der pflanzenfamilien. Ed. Gebruder Bomtraeger, Berlin.
10) LANT A.., 1986 - Diuretic drugs. Progress in Clinical Pharmacology. Drugs 31(4): 40-55.
11) LAUNERT
E., 1981 - Edible and medicinal plants of
LEWIS WH, ELVIN-LEWIS P.F., 1977
- Medical botany. Wiley-Intersciences Publications,
Aliotta G., De Santo N.G., Pollio A. e Strumia S.
Il Policlinico - sez. Pratica (2000); 107:641-648.
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