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Luna d'inverno che dal melograno
per i vetri di casa filtri lenta
sui miei sonni veloci, di ladro,
sempre inseguito e sempre per partire.
Come un velo di lacrime t'appanna
e presto l'ora suonerà...
Lontano,
oltre le nostre sponde, oltre le magre
stagioni che con moto di marea
mortalmente stancandoci ci esaltano
e ci umiliano poi, splenderai lieta
tu, insegna d'oro all'ultima locanda,
lampada sopra il desco incorruttibile
al cui chiarore ad uno ad uno
i visi in cerchio rivedrò, che un turbine
vuoto e crudele mi cancella.
Natale altro non è che quest'immenso
silenzio che dilaga per le strade,
dove platani ciechi
ridono con la neve,
altro non è che fondere a distanza
le nostre solitudini,
sopra i molli sargassi
stendere nella notte un ponte d'oro.
Sono qui, col tuo dono che mi illumina
di dieci stelle-lune,
trasognata guidandomi per mano
dove vibra un riverbero
di fuochi e di lanterne (verde e viola),
di girandole e insegne di caffè.
Van Gogh, Parigi azzurra...
Un pino a destra
per appendervi quattro nostalgie
e la mia fede in te, bianca cometa
in cima.
Fetido e allegro il Mouff scende fra ritmi
gregoriani e lamenti di moschea.
Buca il geranio la maceria, rissa
un ventoso fondale d'Algeria
oltre i tetti decrepiti, fra i cento
occhi in agguato a Contrescarpe.
Stoccafissi, incunaboli, archibugi,
lardo di foca, cembali, damasci
sopra il fiume di paprike e cannella.
Al tramonto una febbre sottile
sconvolge il labirinto, grida al fuoco
il formicaio. Quieti i Patriarchi
nelle fonde necropoli d'argilla
incidono i millenni con la daga
sulla tenera luna.
Il cadente rifugio di Verlaine
scuotono a notte rumbe negre.
La bronchite stanotte mi trasforma
in una quercia carica di neve.
Crocifissa alla terra con radici
di debolezza e brividi,
sento i rami che grevi si curvano
sotto il peso di mille cristalli.
Conobbi un giorno un ragazzetto, molto
più malato di me.
Respirava a fatica, ed un veliero
insabbiato pareva nel suo letto,
ma il suo pensiero in alto era il rigogolo
sulla cima dell'olmo fulminato.
Questa notte lo penso, io che so bene
che presto guarirò.
E simile mi sento a quel fedele
che vidi a Bruges nel suo manto di lontra.
Guardava una via Crucis e si sforzava
di immaginare il fiele e ogni tormento.
E forse oscuramente anche sentiva
che non soltanto il Cristo delle icone
il passo sterminato delle tenebre
lo varca in nostro nome.
Passa il tempo nel fuoco del tuo sguardo.
«Non vedo ponti per tornare indietro
né l'angelo mi prende sulle ali.»
Comunque si è deciso: rifiutare
tetri pedaggi al passatore.
Ma oggi siamo ancora più mortali
se la gloria s'intreccia alla vergogna.
Lo speaker (senti?) ardevi ardevo ardo
ardendo ardete il rapido a Bologna
ha tre anni e due mesi di ritardo.
I passi del passato, senti che s'allontanano
con un rumore gracile di risa e sonagliere?
I giacinti falciati, calpestati,
violentano di essenze l'azzurro delle sere.
E la luna si gonfia, più rossa del pallone
che stringevo bambina, custode del San Gral.
Abbraccio tutto ciò che viene, il nome
che non conosco et ce petit peu de mal.
Anche l'estate morirà, sontuoso
strascico acceso d'occhi di pavone,
e le stecche spiumate intrecceranno
graticci di prigione.
Con lamento di corni udrò il richiamo
dei boschi (addio per sempre) e dell'altura,
e gli occhi fisseranno eternamente
dietro le spalle, oltre la paura.
L'arido muschio che fra porta e porta
su mobili e tappeti in fretta cresce,
ben presto coprirà l'antico nido.
Non l'anima più un palpito né un grido.
Ruggì l'incendio ed ora tutto tace,
ché anche la fiamma muore in aria morta.
Ci scambiammo tesori senza prezzo.
Sprecai genio e speranze, notti e fede
per lanciare quel ponte luminoso.
Raggiungerti è impossibile a ritroso.
Ogni passo s'impiglia - o serpe, o fogna -
nella fitta gramigna del disprezzo.
La mia vita sarà tabula rasa.
Dove fiorì il roseto di parole
sprofonda un fosso di filo spinato.
Sul male nessun bene è radicato.
E tu hai voluto, o cùcula loquace,
sulle macerie altrui farti la casa.
Pensavo: è una mimosa che profuma
e dà colore e vita al mio deserto.
Eri fragile, allegra e fantasiosa.
Ginestra sei. La tua radice odiosa
sembra carezzi il muro. E cerca crepe,
e tutto umilia, sbriciola, frantuma.
Quantum est spatium diei sempre ti penso
ma questa lotta no, non è gloriosa.
La sera piego il capo, ortica stanca.
Ti ricordi la luna così bianca
del quattordici luglio? No, perdona.
Per me sola esalava quell'incenso.
Sera di Carnevale. Mi capivi
nell'ombra accanto alla finestra? Il pianto
mi sfrangiava i colombi, astratte lune.
Ti chiedevo pietà. Sognai la fune
che nel pozzo si getta anche al lebbroso.
Credevo nei miracoli... Sentivi?
La tua lettera giunse quando l'orto
volgeva al colmo dell'estate. Il pesco
maturava fra grappoli sontuosi.
Tutto m'hanno strappato i tuoi marosi,
fiori, frutti, talenti, amore e fede.
E il tempo è fermo come sangue morto.
Mi destava la tortora a Torino.
O allegro balzo all'alba, o l'avventura!
Il cielo, ampia vetrata cattedrale,
sfumava adagio fra turchese e opale.
Ora il risveglio è orrendo. Il cappio esiste
e forse questo è l'ultimo mattino.
Ritentando d'uscir dal labirinto
contemplavo montagne, aprivo libri,
coglievo ombre fuggenti di bellezza.
Solo tu scioglieresti l'amarezza
ma sei balsamo e scure. E il resto è inerte,
e il mondo intero m'è fuoco dipinto.
Ci ripensi, regina di Palmira,
a quelle nostre antiche mascherate?
Emily, Saffo, Buckingham, Giovanna,
Gaspara, Amleto, Caterina e Anna.
Spenta è la luminaria, o esatta mira:
ombra più ombra di fatica e d'ira.
Il Babuino è una caverna lunga,
fredda sovente anche d'estate, e ulula
a perdifiato se la tramontana
la scudiscia e la infila come un piffero.
È la mia grotta primordiale, serba
sepolte sotto il lastrico le mie
catacombe private, i miei ricordi
vivi o morti, e ne sprizzano fiammelle
di fuochi fatui a fior del pavimento.
Ha carogne di gatti, e fiori spenti
e calpestati e intrisi d'ogni pioggia,
e io ogni giorno ci cammino e sento
i miei millenni fremere, la lenta
putrefazione che nel buio, è certo,
nuovi fermenti appresta, nuovi inganni.
Passano popi dalle lunghe barbe
nella strada che abito. La chiesa
(Sant'Atanasio, rito greco) manda
su dal buio cortile un gregoriano
tinto di nenie arabe, di suoni
ilari e gutturali che il capraio
greco fa risuonare ancora oggi
nelle valli d'Arcadia. Scoppia il sole
di Maratone e il sale dell'Eubea
dentro quei ritmi esotici. Ma quieto
li tempera l'incenso, e il suo cristiano
memento sale fino alle finestre
ed è un freddo d'ogiva, un ancestrale
limite che ci spenna, un fiotto nero
che fino all'alto pino ora s'innalza
e lo tinge di morte.
Il sogno che mi tenta, che di notte
ostinato rapace va raspando
contro i vetri nebbiosi e forza i cardini
della segreta agli avatar (già sibila
l'eterna sinusoide che costellano
astri defunti e crisantemi spenti),
chi chiama, chi risveglia da quell'altro
sonno sotto le croci, quali fili
tira, intricati, dalla cassapanca
delle dormienti marionette?
Eppure - e fosse azzardo il suo richiamo
verso quei nomi abissalmente estranei -
stanotte insieme formavamo, stretti
sotto quella tettoia di mercato,
un'unica famiglia. E mai più dolce
edera avvinse alberi stranieri
né più tiepido sangue mai discorse
dalle mie vene (strano!) ad altre vene,
quanto in quell'ora che un vento maligno
mulinava i rifiuti - o forse i volti.
Non so quale inquietudine posandosi
a scialle sopra i rami,
sopra le altane che nel vuoto sporgono
come prue di porti insabbiati,
non so che maleficio o ammonimento
o bilico dell'anima
gridano i corvi al baluardo dei platani.
Oggi è scirocco giallo di coriandoli,
già verzica la scorza, in capriole
vanno nubi arlecchine. Incombe nera
solo l'ambigua sonnolenza sua,
del fusto tutto spine, enigma al buio
che il suo vermiglio liquame trasuda,
che ultimo esploderà, sigillo infausto
di primavera, l'albero di Giuda.
Il rumore soffoca il canto
ma il canto è uno spillo che attraversa il pagliaio,
cercalo se puoi con torce e calamite
lui ti punge e trafigge quando vuole -
Voce clamante nel deserto, gemito,
ultrasuono, anno-luce, urlo di tribù riscattata,
inconsùtile varchi i deserti del tempo,
le inutili matasse dello spazio
Lo so che il suo racimolo l'ulivo
oggi mi porge a mia salvezza. Sento
salire dalla terra un gregoriano
intessuto di vento, e non si espanse
in ritmi e pause mai sotto il mio cielo
più viva musica, più vera e segreta.
Ancora ieri questa irsuta landa
- isola dentro l'isola - stringevano
invisibili mura. Più chiostrata
ero di Chiara, di Teresa d'Avila,
Gertrude e Caterina. Urlava il mare
su dalle gole profonde dei pozzi.
Mi porge il suo racimolo a salvezza
quell'ulivo dell'Arca. Sorgeranno
borghi a Levante. O suoneranno trombe,
trascinando con tonfi di vetrata
le opache mura. Schiodo la tua effige,
la brucio in voto per la luna nera.
La tua triplice effige di baccante,
di santa e di sparviera.
Il miele notturno che plana dalle ali del Pincio
fruga scompiglia le mie remote nebulose,
agita defunte bandiere, impollina controsperanza
le immagini-idee che hanno per stemma il tuo nome.
E tu, mia disturbata sinfonia, affresco che la lebbra corrode,
béviti quest'orgia silenziosa, affronta la confessione.
Sei stato vivo, sei stato vero, hai respirato un giorno?
Potevano morderti i cani, hai bevuto a sorgenti terrene?
Tutto è bianco su bianco, fantasma, leggenda o follia,
fata morgana, Amleto, delirio di febbre ventenne.
Non fa ombra il tuo corpo più del vento di marzo,
e lasci sul cuore orme più leggere della faina.
Nell'odore dei fieni c'è il passato
stratigrafato, un Céroli di te.
L'inebriarsi ingenuo, il ricordarlo,
il ricordare che l'hai ricordato.
Ogni anno il profumo è diverso,
a poco a poco l'olfatto svaniva.
Più eroica la memoria si accaniva,
più forte si aggrappava.
Nell'odore dei fieni ancora transita
mia madre (e i nostri successivi cuori).
Si trasforma la vita nell'immenso
salone di un museo senza odori.
Quando ti amavo sognavo i tuoi sogni.
Ti guardavo le palpebre dormire,
le ciglia in lieve tremito.
Talvolta
è a sipario abbassato che si snoda
con inauditi attori e luminarie
- la meraviglia
su quella tomba immensamente nevico,
la mia carezza è fitta e non finisce -
perdo piango tutti i miei petali che rispuntano
senza tregua ad avvolgere un nome
Quel crisantemo mi ha rimessa in crisi,
lo temo e non lo temo -
gomitolo lilla, promessa di lunghe nozze -
ci sono paesi dove il sole non fa che nascere
ramaglia assordante del pino
rantolando s'impiglia in musiche -
o sgretolato greto d'autunno,
macilenta memoria di ciò che è
Tu ti cancelli e subito in altre forme ti annunci,
falsetto sapienziale di nebbia allegra,
antica palma adolescente, tremula
in un bemolle di acque strane.
La tua scomparsa è scandalo, è messaggio
che sconvolge interiori meridiani,
coinvolge il futuro e trascina
pitósfori, bufere e termitai -
Potrà mai dileguarsi il tuo passo
per chi eredita quegli impervi segreti?
Il meglio della seppia è l'osso.
Il resto è per i cuochi.
Se faccio un sogno, e poi
me ne nascono versi,
quei versi sono il sogno
che sognate con me.
Attenti ad incarnarvi
nel sogno giusto. Nascono
da una pagina scritta, in fitta schiera,
mostri, presagi o angeli.
Fa' che non le somigli
anche se m'innamora.
L'arco che abbraccia il niente
nel fitto delle ortiche,
il cardine divelto
su un baratro di spini.
Fu una città, si dice. Donne ardevano
in stanze ora abitate da un ciliegio.
In questo buio fisso della notte
àlacri andivenivano dei lumi.
Poi l'ultima delle anime si spense.
Il tempo pazientò secoli e secoli.
Bastò l'aria spostata da una rondine.
Ne sprofondò anche il nome.
Amarti è solo intuire la tua distanza.
Scoprire il lusso che traspare
insostenibile da una linea nuda.
Così rispondo a grandi lontananze
qui vibrando con nero su bianco,
così mi fondo agli eventi che taci,
barche filanti sull'onda del tuo nome.
Rispondo a misteriose lontananze
come l'alta marea che in silenzio
ogni volta risponde alla luna.
Vedrai, occhio di terra? So che avrò
una struggente fame
del colore dell'aria -
Mano di terra, sfiorerai
a marzo una radice che si sveglia?
Giungerà fin laggiù, del primo merlo
quel ciao un po' confuso
con gli strilli degli angeli?
Vengo a bruciare fra i tuoi rami neri,
mio salmastro paese di neve,
in te rinasco uccello del miracolo
nei silenzi scordati.
Ci fu un tempo di tregue e campane,
di sangue rosso, nettare e roveti.
Scendo viva nel pozzo della favola,
pietà di me, scivolose pareti.
Tu ti concedi a lampi, lo so bene,
come ogni crudele assoluto.
Ma in una goccia ruotano dei mondi,
perfino il sole è una pupilla cieca -
Ci fu un tempo di risse e campane,
di germogli e di verdi profeti.
Io vivo nello spazio se lo spazio si arrende.
La campana mi ritma ogni altrove.
Tu che rastremi in te ogni profondo
della mia mente-cuore,
che fai vergini e chiare le parole
quotidiane, le dracme corrose,
accogli le mie lettere: così
con la zattera è pietosa la riva.
Ti scriverò nei giorni fulgidissimi
e in giorni maledetti,
i giorni del cuore trionfante
e i giorni del cuore zitto
quando striscia e ci inchioda quel sospetto:
Tutto è già stato scritto?
La parola che odio se il ferro non si piega,
se la fucina interna langue,
la parola che transita, cadavere
sopra l'acqua stagnante -
la parola, la figlia notarile
di cento dizionari, la farina
vergine d'acqua e lievito, lontana
dal farsi pane -
E lui mi aspetterà nell'ipertempo,
sorridente e puntuale, con saluti
e storie che alle poverette orecchie
dell'arrivata parranno incredibili.
Ma riconoscerà, lui, ciò che gli dico?
In poche note o versi qui raccolgo
i messaggi essenziali. Un altro raggio,
aria diversa glieli tradurrà.
Fa' lievitare il verso come il pane
nel forno al suo calore giusto. Senti
che anche il verso emette il misterioso
profumo della cosa riuscita.
Vocali e consonanti si alleano,
s'incatenano e fondono. Ne esce
lo spiritello d'Aladino e danza
su e giù per la stanza.
Troverò in paradiso le parole non dette,
capitelli di colonne rimaste a metà.
Scaglie di stelle esplose, private di ogni luce,
antiche fontane secche che ritrovano il canto.
Troverò in paradiso quel macilento tralcio di rosa
che a Mauthausen fiorì dietro la baracca quattordici.
Avrà i suoi occhi ogni cosa capace di durare,
miracolata, innocente, ostinata e radiosa.
Troverò in paradiso la tua e la mia pazienza.
Ne faremo un collage con rendez-vous mancati,
e velieri arenati, e brandelli di scienza,
bandiere intrise di pianto, ostinate a sventolare.
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