Tu fischi, o cuculo,
la mia calmissima gioia
di questa notte amorosa.
Sul letto spoglio
l'addormentata ha lasciato
il suo corpo a giacere
insieme con tutti i miei sensi.
Lo so guardare
ora che mi si è sciolto
in bocca.
Tu cuculo gocciando
allunghi il tempo
della mia gioia.
Nelle vastissime notti
io sento
il rumore dell'ossatura delle cose,
gli alberi che battono sulle strade.
La terra tesa con spasimo
che potrebbe schiantarsi
come il ghiaccio di un lago.
Io debbo reagire
per non farmi sovrastare
dal rumore
per non farmi tendere
come la pelle della terra.
Cerco di spezzare quelle corde
che stirano ogni cosa.
Ho sentito lo spaventevole
dialogo dei morti,
fatto di tarli
nei legni scuri delle sacrestie;
di colpi di piedi scalzi
in grandi camere vuote,
dove il lucore della candela
si fissa egli angoli
delle porte aperte,
delle cornici d'oro degli specchi;
di zirli di tordi
saliti dai laghi di nebbia.
D'autunno è con noi
ogni foglia e ghianda
ed è raggiunto il cielo.
Fra le avellane svolazza
la palomba ferita,
freme il sottobosco
agli scoppi
dei ricci di castagna.
Dolcissima è l'ultima uva
celata fra i pampini rossi,
sul fianco dei monti sale
il fumo delle carbonaie.
A sera
io provo il caldo smemorato
delle castagne,
del torbido vino,
il più nudo corpo
della mia donna.
Ogni canto si arrestò,
e si distinsero i salti gialli
delle cavallette.
L'acqua nelle fonti
gorgogliò più forte.
Noi ora troviamo le cicale
che la pioggia ha scosso
dagli alberi,
gli insetti neri
sventrati sulla strada.
Stanotte
i rospi profumeranno
al chiaro della luna.
Precipitosi cieli
delle notti di marzo,
al cui fiato s'incrina
ogni cristallo invernale.
Come un'antica moneta
la luna dissepolta
affiora.
Dalla tenera terra
i piedi svegliano
giovani fiumi
e già le vipere compagne
lasciano i nidi
dei tesori nascosti
col ventre d'oro.
Ora le vergini
s'aprono negli orti
come radici all'acqua,
con timore
dell'uomo che passa,
delle dolci api
a sciami nelle orecchie.
Sortilegi d'olio e di corallo
trarrà la zingara
con l'orso ballerino.
Marzo spenderemo,
rotonda moneta,
nelle feste dei paesi.
È una notte
facile ed inconsueta,
così luminosa
che una cometa s'indovina
dietro l'orizzonte.
Tu sei di vetro,
io vedo le mie mani
dietro la tua nuca.
Dagli alberi d'aprile
scendono luna e vento
e dolce ne trema
la rossa lupinella.
I galli sulle colline
hanno rostri d'argento.
Bene che sia caduta
dal platano la foglia più alta,
che ricoprano il fiume
tenerissime nebbie
e la macchiola resti
greve di pioggia;
o che una fila di quaglie
ricerchino mute
il margine ombroso del bosco,
fuori della rovente stoppia
dove giace la serpe falciata;
sempre io amo queste colline
della terra di mia madre.
Casa di Monlione,
per prima ti vedo
sul fianco della collina
sotto l'albero di noce.
Incontro gli uomini
che portano giacche di velluto
odorose di polvere da sparo e di tabacco.
Il puledro visto nascere
scavalca la siepe della strada;
sul pozzo fiorisce il rosaio
delle rose nuziali.
La goccia di sangue
nel becco del fringuello
raggela al davanzale
Sono scesi i passeri a branchi
dai calanchi di neve;
si sono posati tutt'insieme
sulle peste davanti a casa
come se la tua veste
tenessero per gli orli,
sfrenati nel volo
quasi per una pena del cuore.
È solo il tuo sguardo, amore,
che li tiene in vita,
o il loro stesso timore
di presto morire.
Se appena ti chiamo,
altri volano dai pagliai:
l'inverno si spalanca
nel tuo grembiule celeste,
un filo d'oro di paglia
resta a metà nell'aria.
È d'oro la tua medaglia
ogni sabato d'inverno
e bianca è la tua pelle
nel nido sopra il ginocchio.
Salendo lentamente a germinare,
la stagione mantiene
il seme del tuo pudore:
l'una e l'altro maturano insieme
e cantano in silenzio
come il vento e la neve
nel tuo piccolo paesaggio
che arriva appena a domani.
Anche i passeri al tramonto
tremando sui rami,
vivi uno per uno
e tutt'insieme come le stelle,
ti chiamano in silenzio
per arrivare a domani.
La nemica figura che mi resta,
l'immagine di Urbino
che io non posso fuggire,
la sua crudele festa,
quieta tra le mie ire.
Questo dovrei lasciare
se io avessi l'ardire
di lasciare le mie care
piaghe guarire.
Lasciare questo vento collinare
che piega il grano e l'oliva,
che porta sbuffi di mare
tra l'arenaria viva.
Lasciare questa luna tardiva
sul diamante degli edifici,
questa bianca saliva
su tutte le terrazze,
dove amici e ragazze
stendono le soffici tele
del loro amore infedele.
Lasciare il caldo respiro
del sole sulle mura,
la lunga tortura delle case,
lo stesso temporale
che ritorna da anni,
pur se la vita non è uguale nel giro
e s'abbandona ogni ora.
Antica sulle mura
è la mia casa;
immobile e non sicura
sembra veleggiare
tra le nuvole come riviere
nel fluviale nembo
delle selvagge sere.
Il cielo a forma di grembo
divora la città;
allora si sente morire
ogni cosa d'intorno
e ognuno sta per sortire
dal proprio cuore.
È il vento, al confine del giorno,
che mormora tra i colli,
che a me di fronte sgombra la campagna
o con la nera ombra delle nubi
la fa sparire;
che con me giuoca
fingendo di fuggire
e poi con aria fioca
torna a imbiancare i colli.
Il vento d'incerta natura
che passa come un ragazzo
dietro le siepi o le mura,
senza niente,
come chi si allontani d'un passo
o per sempre;
niente più d'un rimorso
o d'un sorso d'acqua nei campi.
La città trema nel cuore dei suoi cortili,
apre il suo dorso alle congiure vili
del tempo, e giace morente
sopra di noi.
Allora i giardini pensili
piegano l'ombra ostile dei pini
verso quel punto dell'orizzonte,
nuovo ogni sera,
dove io non giungerò mai
libero dai miei cattivi pensieri,
dalla sorte nemica
che il mio amore castiga.
Agli amici Leonetti, Pasolini, Roversi
La funivia per il Santuario di San Luca,
tutta di ferro e cruda,
oscilla al limite dei campi:
insieme a voi, amici,
m'affido al miracolo volgare
di un gruppo di gente che vola.
Ai finestrini l'Appennino sale
sopra il portico umano, fermo;
la nuvola che gira sulle valli
mi fa temere della sua pazzia.
Sappiate che ho paura di volare,
d'essere chiuso tra questa gente adulta;
ho paura del vento che non sceglie,
d'essere ancora guidato per la mano
nelle strade di passeggiate domenicali.
Sopra un vigneto ancora poco verde,
nano, bagnato di solfato,
la navicella quasi scende,
poi il declino riprende verso il paesaggio;
oltre il mio terrore che non guarda
l'occhio vede Bologna che s'arrende,
sciolta la cintura di mattoni,
alla campagna, a una monotona calura
che sbianca di caligine i confini,
che corrompe le ville,
i casolari distanti
sotto platani, tigli, ippocastani.
M'aiuta nella paura di volare
la vostra cordiale presenza, la vacanza,
la piccola valle che rompe la clausura
con il solco di terra familiare,
con la foglia del tempo corrente
nell'intreccio fresco di verdure,
nate ieri e sempre,
dove il mio occhio ritorna adolescente.
[...]
Queste folle ignoranti di San Luca
sembrano di sfollati;
la collina è ferma nel suono irreale
delle alte scale del santuario.
Così erano percorsi ed abitati
i monti innocenti della guerra;
così miracolosa l'aria
dei casolari armati
delle giornate di sole.
C'erano momenti in cui un miele
colava dalle case abbandonate:
i frutti parlavano per noi,
gli insetti nelle messi, sulle mani,
sui calzoni di noi seduti.
Lontane le piazze e i campi
e sempre di ieri o di domani
- salvo il momento quotidiano
nel cuore di chi era salvo, lontano -
dove giungeva in festa
la pazzia perfetta dei tedeschi,
quasi un fuoco artificiale
che non dovesse far male.
Trepida ai colpi di mitraglia,
come per un volo troppo affollato di uccelli,
anche la macchiola d'avellani e lecci
si riempiva di fumo tra le fronde;
piangeva da ogni foglia,
vergine di poca neve mattutina
devastata di sangue.
Di quel bosco noi altri pensavamo
più alla terra forte,
la terra che d'inverno vuol dire
asilo e pane,
più agli alberi che d'inverno vogliono dire
vita sino a primavera,
che al mucchio umano dei morti.
Così fummo forti a vivere.
Vedo nel paesaggio
che non avevamo abbastanza segreti,
paesi uno dietro l'altro,
uomini tutt'insieme,
fummo espugnati cuore per cuore,
fummo resi lieti,
nei balli militari, nelle sbornie,
nelle vicende delle ladrerie.
Un esercito innocente
sciolse senza parlare
le sue bandiere d'affetto
sul geloso silenzio familiare.
Amò le nostre donne, le sorelle:
mostrò a noi stessi il verso naturale,
il lembo puro della loro veste.
Cadeva allora l'onta del peccato
e per la stessa sorte, come un fiato,
cresceva la forza del dolore.
Guardo la navicella scendere
mentre un vento sicuro sfiocca dal crinale
la nuvola, la spinge verso la terra
a vestire la caligine serale;
così la paura ridiscende nel mio cuore
e ricompone il giuoco diletto del male,
la libertà della contraddizione
che porta al dolore le parole.
[...]
Domani è già marzo e la strada
scopre tra i frutteti il petto della contrada.
A marzo il contadino
riordina gli attrezzi e libera i confini.
A marzo i contadini
scendono verso i paesi;
si fermano nelle piazze mercatali
davanti alle osterie, ai forni, ai falegnami
che odorano sotto i portali di pietra fiorita,
davanti ai negozi di ferramenta,
davanti a tutti gli spacci
con un sentore d'acqua muffita.
I vecchi si fermano alle porte;
i giovani salgono le vie cittadine.
Ormai li mischia aprile,
mese senza paura,
e salgono insieme i mezzadri e i garzoni,
i mietitori, i braccianti, i legnaioli,
i muratori di campagna, gli innestatori,
gli scavatori di pozzi e di vigna,
i cercatori d'acqua e i cacciatori.
Il giorno nella città non ha paura,
stretto tra le mura è sempre luminoso,
e sempre vive di qualche cosa, ora per ora;
preso alla mattina presto nei mercati,
nella profonda luce che rispecchiano
le facciate nobiliari o i porticati;
guidato per le vie al suono dei selciati
sino ai vertici gentili dei rioni;
alzato a mezzogiorno in fronte alle chiese
su tutte le piazze, una sopra l'altra,
di mattone o di pietra;
non è vinto dalla foglia incerta,
non predato dalle fratte di spini,
non morto nella morte degli insetti;
non arato, seminato, sarchiato,
faticato ora per ora,
dalla mattina alla sera.
Il giorno gira nella città il suo dolce sole,
muove il ventaglio alto delle nubi,
e chiama dal mare l'amorosa luce serale
che si stende su tutte le terrazze,
sui giardini pensili, sull'arcate
dalle quali soffia l'Appennino.
Si congiunge alla notte per le strade,
quando vicino s'odono risate di ragazze
e verso i torrioni e voci da tutti i portoni.
Quando mutano le stagioni
specie agli estremi dell'anno
molti cani volano abbaiando
tra i portoni del cielo notturno;
ne tremano le carovane di smalto
sopra gli scaffali e gli ottoni
della stufa spenta: il cinico volo
sbatte sulle gobbe dei cammelli
nella vetrina e sopra gli anelli
degli scoperchiati fornelli;
a guisa di cane la tubatura
e la porta finestra; canina dentatura
di coltelli e chiodi, tale la tintura
del vano verso le stanze:
un tremore senza approdi
che mugula e trasvola una dura
coda rasa o pelosa recisa
sul piatto o sotto la tavola
esangue, bianca e scura;
le bave e i guaiti ad andatura
più veloce del suono:
più soffice e scomposta orma
lasciano sulle pareti e sul cuscino
unta e unghiata dell'orrido fetore
come fuori da una piscina
zuppa la pelliccia canina
pioggia che non lava il colore,
e dove un aquilone di cane
a bocca aperta e nemico per onore
latrando trasportava nel cielo
la scritta melacholia
sopra un grande fiordo tessitore
di luce ostile, senza calore,
dentro un rotondo spazio
brulicante di vele, insazio
di sponde numeri e del soffitto
scala e trapezio,
ossesso minuto dritto
segno dell'aria dei corpi e della ratio
malversa, insonnia palla meditatio
algida esterrefatta cepitatio
di ali, vista inchiostro
quadrato vetro solo vetro
del vetro nella moltiplicatio
che trema perfido precipizio
che tende dietro;
come ne rompono supplizio per supplizio
i cani volando
di notte dall'uno all'altro vizio.
All'alba vengono a leccare la tazza
ansanti e feriti anelando
di bere proprio davanti alla cassa
in cui era custodita la stampa;
la stagione era adatta
con quella notte di latta
immensa e tesa di cacofonia
proprio canina come fatta
apposta per il volo dei cani
e delle porte e della putrefatta
compagnia
d'ogni alito e lenzuolo;
via vattene via vola
disse Dürer al suo cane
che dalla bocca colava
il lezzo e la bava della melanconia.
Muoiono e non da ora quegli amici
con i quali conducevo la vita
ormai in silenzio e da lontano
come la riga mattutina ordita
nel cielo che pareggia il giorno,
sempre sorprendente e nuova invano,
come perenne scorrere insieme e vano
riemergere nel sereno sia nel maltempo
prossimo e lontano
dentro e ovunque intorno...
come camminando quella volta che insieme
ci dicemmo tutto e per sempre, uno per uno
di sé e del mondo, la promessa rivolta
di non dire più niente, ormai ciascuno
la medesima sorte intesa e accolta.
L'alba ancora non lascia
l'ultima onda notturna;
ancora trattiene l'ambascia
di persistere sola, recisa
ogni corda l'aria stessa, la fascia
del proprio lucore indivisa
dalla tela nera che s'accascia
non dietro, ma sotto tra l'intrisa
minuta rena della sua diaccia
incerta orma, alterna, lisa
dalla sua labile irriverente traccia.
La direzione è opposta
al verso del piede che frena
e dello sguardo che accosta
trepido la prima spalla terrena
libera, non tesa una mano apposta
per indicare una scena
seppure piccola, appena opposta
alla nera matassa, alla vulva oscena
della notte, incinta, non deposta...
Ma spinta di fronte alla vista di sé
pallida stenderà la colpa
lucente alta sopra la testa
e si scioglierà in vapore dentro
l'imprendibile sabbia.
Niente l'assorbe né la desta
e solo l'onda notturna
più larga sotto la chiglia
della luna dentro la nuova urna
le toccherà un gomito e le ciglia
ancora lucide del rimpianto:
perla della conchiglia
dell'amore di sé.
a Gualtiero de Santi
Un passero nero e marrone
come Attigliano sotto Giove
e un altro piu chiaro, della pietra
che detta dal tetto di Santa Croce di Cagli.
Credevo che i passeri rappresentassero
una claustrale democrazia comunale
uguali e insieme. Severo il passero
nella piena estiva o invernale
convinto nel patire sulla neve
e sui tetti dell'impenetrabile
gennaio, tinto tra i pollini o greve
tra le paglie aguzze e i mosti,
vero attento su tutti i posti
di marrone e di penne, di nero
liquido degli occhi e duro becco
cosciente utile compagno sincero
lavoratore e parco alato inventore
di terre scoperte lingue teoria.
Scrivono invece gli ornitologhi
che è uccello invadente vorace cattivo
che aggredisce e guasta luoghi,
reca flagelli e un rivo
sempre di sangue raspa mentre dai potenti
pigola protezione: bovi cani oche
incoscienti e malvagi greggi o imitatori
dell'uomo. bestie belve snaturate, mentre
contro ogni altro uccello bruco fiore seme
con fobica ossessione e infetto preme
cinico padronale, mischia, detta
dispone prende.
Credevo che i passeri avessero antico cretto
sul dorso e sul petto e ancora più stretto
sul capo come un brano di Margarito d'Arezzo:
più largo e tessuto sull'oro del fondo
e più minuto e congiunto
sulle terre stemperate dei manti
o sull'ocra sottile distesa a chiara
d'ovo e in dura cornea confitta di ovale
perla e cristallo sulle figure d'oliva
sul collo virginale, cilestrina genga calanchiva
sui tratti verso l'ombra porpora marina
nei sensi del gesto alla votiva
novella ed invenzione
bianca o rosa conchiglia coccinella calcina
di gessi farina di ghiande e frumenti,
pellicola di acini nocciole sementi
ripassati a mano scaldati e raffreddati
a contatto presa fiati frementi
con erba cera miele e vino,
masticati unti e accompagnati
con il cerume e lo sputo lucidati, affidati.
Credevo che amassero davvero i muri
di pietra o di mattone le torri i campanili
quadrati e larghi dolci di muschi
di cimici di pulci conventuali di nidi
e covacci carichi dei guani e sali
d'altri continenti, che si ponessero a guardare
dalle fessure non più alte dei portali
gli arditi voli delle rondini ammirati
e non per tendere agguati,
che venissero negli orti per confidenza
dietro i lavori e le crescite per compagnia
per confortare la fatica mostrando pazienza
e miseria affidamento terrestre un sereno
consolante nutriente ritmato senso mortale,
un leggero piumato soccorrevole e sufficiente
corpo piumaggio e calore materiale,
un piccolo sangue veloce e trasparente
non affollato e spinto dalla paura,
che tra le colture aiutassero
beccando i parassiti rinnovando gli umori
delle zolle e delle piante penetrando
con il becco valente e giusto di misura
che non trafigge né taglia la scorza
dei bulbi o il ceppo delle foglie o la verdura
il getto delle patate utilmente e in corsa
spulciandosi e smerdandosi tra le insalate.
Che sapessero comprendere e comunicare
nel branco e invece stanno insieme
per la forza del numero per sopraffare
da prepotenti e sempre con la trista
sorte di servire la morte fascista
decorata armata usata dal più forte
incatenata ai tratti e ai banchi
del lavoro e del sistema capitalista.
Che fossero contadini operai poeti,
progettisti fervorosi umili e lieti,
anche troppo uniti e convinti sui progetti
di ogni volo o discesa punti e alfabeti
di precisi intrecciati rapporti di concreti
compiti umani della fine della traversata
da una collina all'altra, boschi o rivi
carestia siccità invernata obiettivi
della loggia, scorta, nuovi e nativi
prati e muri al vento di galaverna
contro la furente calata dei corvi
e al riparo dalle lune lacrimose delle civette:
invece si fissano nell'organizzazione dei pagliai,
accatastata franta ma sicura,
nei cortili delle caserme addirittura
nei giardinetti artificiali dei quartieri
apposta costruiti e detti operai
tra gli spiazzi e i capannoni degli opifici
accanto ai densi rivoli degli scoli
lungo le pensiline smemorate e ostili
cariche di legacci abbandonati e di pani
smozzicati e smessi per la pena e i salini
dolori, scatole sacchetti lattine bibite
tovaglioli di carta pacchi spaghi nelle stazioni
delle metropoli industriali o soste comitive
spiazzi per la raccolta degli emigranti.
Dunque alati capi prezzolati
e duri spietati carrieristi
collaudatori allenatori attrezzisti
anziani e devoti protetti e distinti
con le dispense in casa sui regnanti e sugli istinti
della fortuna, bibbia vangeli storia
dei faraoni di Mussolini del regno animale
di tutti gli oceani le foto dei calciatori
il salotto moderno di acrilico violetto
e turchino nella plastica scintillante
nuova fresca al tatto rassicurante
nella perfezione che anche
illumina giusto davanti alla televisione.
Allora se non i passeri quali altri
uccelli della terra e del cielo
poter guardare e confidarsi?
Averle capinere verzolini
ansiosi renitenti fringuelli
timidi celati usignoli lucherini
allodole migranti o stanziali ai confini
degli altipiani oppure canarini
variegati e domestici dottorali e fini
merli dell'India pappagalli brasiliani tordini
dell'Equatore tortore africane colibrini
oppure gufi o cuculi solitari
civette colombi del grano pettirossi
babussini delle piccole pinete e dei fossi
prossimi alle mura merli clienti
tra i giardini delle ville e dei parchi
o i vigili schedati piccioni urbani?
Quaglie starne pernici fagiani
che pure cantano amorosi
espansi e ripetuti nel maggio dei grani
o nelle boschine vicine o nei terrosi
scavi, oggi solo nelle liste
preferenziali delle riserve fra il Ticino
e i contrafforti monferrini e alpini
in gabbia o in cella frigorifera
nel menù dei ristoranti di lusso
o nelle contropartite commerciali con i paesi dell'est
boscosi agricoli secondari?
Falco è solo un nome topografico
di altura o antico borgo,
falco è un dirigente accanito e pronto,
aquila è nel linguaggio industriale
l'imprenditore il presidente il capo
il più potente e scaltro a cui vale
il cinismo e il potere nel calcolo brutale
di principio e ragione imprenditoriale:
Harvard Francoforte Torino
capitali e successo congiunzioni
prezzi tassi investimenti mercati
sistema democratico integrato e fidato
mano d'opera e costo del lavoro.
Aquila nell'industria è anche colui
che superiore o concorrente parigrado
o dipendente ambizioso mangia il fegato
di Prometeo incatenato,
onesto dirigente dalla cultura stessa fregato,
dall'ardimento di sottrarre il fuoco
all'unica fascina: altare luce fato.
Interna ed interiore la rima con duce
ogni duce piccolo medio grande amato
imprenditore e condottiero industriale
di rango di scuola di gavetta sempre
teschio fiamma manganello del capitale,
quale altro uccello ha l'ale?
Quella che si segue è una rotta lineare.
Solo misure di consigli e comitati.
Documenti legalmente discussi e approvati
e nei dovuti termini messi a verbale.
Il giorno prima o solo a dieci minuti
dall'ora della partenza l'ufficio viaggi
assai precise affida
le solite istruzioni biglietto valute
credenziali indirizzi scali
e un'altra volta premuroso ripete
stia ben attento alla vaccinazione
contro il colera e la febbre gialla ed anche
alla coincidenza degli orari...
sì, quelli che la mancano si bloccano
tornano indietro a riportare la valigetta
o si perdono fra Beirut e Atene
molli sul cabotaggio dei tappeti volanti
o accolti dai battelli romani di travertino
dei pubblici assistenziali posti ed istituti
oppure rifatti tessere sacramenti e denti
nei pubblici industriali energetici
consorzi fondi enti.
I branchi degli uccelli non viaggiano
e spesso ai margini infuocati delle piste
degli aeroporti sulle coste oceaniche
appena alzandosi sul lago e sui miasmi
finiscono risucchiati e disintegrati
dentro i gironi roventi dei reattori,
è rinnovata e senza ali la forma
della natura e dell'amore, dell'erogazione
del lavoro e anche della memoria.
Non ali né alberi né distanze e storia
vuole il capitale viaggiatore volante
ma solo nella rotta del suo calcolatore
e dell'unica sua gloria
scientifica ma anche poetica
di non vedere mai e non per boria
sorgere o tramontare il sole,
mai farsi cogliere da un'ora comune
e sempre tenere fissa la luna
dietro il ghiaccio scintillante e il lume
asciutto inconsumabile frusciante
del proprio drink e del nume
mondiale dell'oro e dollaro pagante.
Nessuno può più opporsi
alle partenze e ai ritorni del costume
e del cocktail padronale
come soccorrere i salmoni
sotto le rotte tra i flutti mentre gli orsi
li aspettano tra gli scogli e le secche
prima delle correnti millenarie ed esclusive
del polo impraticabile fisso e stellare
del pack del capitale mondiale.
Costume cocktail volo pack
sono ormai stagione e tempo. Il tempo
delle borse è la ragione
che fonda l'istituzione
principio strutture funzioni
delle umane statali economiche stazioni.
Il cimitero degli uccelli e delle avanguardie
è negli aeroporti e nelle pubblicazioni.
Costole e coste ali poesie
scienze arti mestieri canzoni.
Dentro i corpi e le borse dei viaggiatori
dentro i bagagli i containers i motori
dei frullatori dell'hostess o dei reattori
dentro le scarpe e i calzetti
dentro i vassoi e i sacchetti
dentro le pillole tranquillanti
o le polveri rallegranti nei fazzoletti
di seta o protette in stagnola
impregnati di colonia nella gola...
Nessuno che del sepolcro oda
cigolare il cancello e le casse
nessuno che ne roda
il languente stomacale sapore:
oppure non è un odore
che scenda dalla scansia superiore
delle sciarpe guanti cuscini
o da un vecchio sepolto pensiero
da un'ancestrale ma colta memoria
di un istinto un moto un'abitudine
un po' come Proust con la madeleine
un odore e un sapore congiunti nel filo
che appare sbagliato sopra la maglia
vellutata della coscienza
o che scende dall'impazienza
che fluttua nell'aria o nel tattile
gas che pervade la mente
verso il naso la lingua il cancello
proprio come un andito la bocca
di morte terra e sepoltura:
ma è un vizio fiutare la paura.
Niente ali né avanguardie
perché i passeri non hanno cura
di nessuna guardia
della torre arte architettura.
Non avvertirono sciamando e deviando
in stretto branco il volo volando
a piombo accaniti e a raso
del rapace presidenziale naso?
Adesso un ornitologo cattedratico
parla dentro un'insonnia mondana
della loro brutta natura enfatico
nel piccolo divano superstite tra la liana
del glicine alla finestra e il pratico
carrello dei liquori e la nana
tavola del pranzo, della nocività
della specie ostile naturale
indicando a esempio la tavola
della cattiveria perseguita
quale era imbandita
e come ridotta e devastata
tavola di porfido e d'oro spogliata
scomposta sbriciolata segnata
di creme intrisa di misture
di vino whisky estratti menta
caffè fors'anche di sterco
di vasche d'argento steli di alzate africane
marrane di coppe e di gelati striscio
di cristalli bicchieri lume di mercurio neve
di sali zucchero borotalco
rupe di tovaglioli e di biglietti
strappati con un nome cicche di sigari cubani
picchi di centrini sotto coppe
di champagne caviale ecc. ecc.
«Ecco disse qui è proprio come
se fossero passati una diecina di passeri
e per non più di mezz'ora.
Se ci fosse stato un canarino
l'avrebbero soffocato beccato nel capo
fino a spappolargli tutto il capino
e poi gettato nella vasca dei cocktail champagne
o nella guantiera del caviale.
Essi sanno fare soltanto male».
Ah passeri passeri passerotti che non capiscono
e si diffuse intorno la paura che chissà come
potessero entrare... capita in certe notti...
ma si compatiscono i superstiti dotti
nel conforto della sicurezza dei sistemi
e della vigilanza dei guardiani
e arrivano a compiacersi che i passeri
esistano nocivi vivendo e seminando
in luoghi distanti e zone sottoposte,
abitate con rancori e abitudine da altri,
quasi tutti gli altri da quelle croste
infette della società così ribalde
che stessero pure con le ali accoste...
Sognare passeri passere passera passerà
sempre come misurando il dolore pennuto
ma senza destarsi per continuare a passare
sopra i passeri tra quei passeri e passero
passera che tanto doveva passare passerà.
Sempre sognare passeri per arrivare
a vedere il recinto che li schiva
la siepe le finestre le difese e dietro
la fiamma elettronica che arriva
ovunque a dominare e controllare
impastare di sé servi strumenti ogni votiva
chiave cassetta cartella tastiera;
anche fuori il lucido delle ringhiere,
perfino il colore spessore ordine delle foglie
dei nespoli e delle magnolie
perfino il battito sui muri delle sfere
dell'orologio solare e delle sere.
Pasolini da cinque anni è morto.
L'anno che lo conobbi ne aveva 30.
Subito mi sono accorto
della sua età senza date
di tutte le sue infinite giornate
senza fiato e di continuo illuminate
da tante luci diverse,
tolte o gettate
intorno a lui;
le ciglia, le ondulate
chiome di studente, gli zigomi larghi dove appoggiate
sempre stavano le mani, strette o allentate
nella compassione, l'una o l'altra riprese, riguardate
una per volta, con uguali alternate
indulgenze, riconsolate, fortissime e affidate
a una tavola, una ringhiera: alle posate
del pranzo in trattoria, all'aperto d'estate,
con paterna consapevolezza lasciate
libere, discretamente, da istinti controllate
che non provassero tante svoltate
oltre i margini delle colorate
tovaglie, sulle stagge, tra le punte scheggiate
dell'indecente, impudica miseria, sotto le apparecchiate
convenienze, salvietta, bicchiere, inargentate
ampolline dell'olio e dell'aceto: saliere e pepiere traforate
sul coperchietto a vite: freschezza e igiene preservate
da usi, giacenze, passaggi di mano come da sventate
maniere: sale e pepe salvi nelle incontaminate
mucchiette: regali spezie ormai volgarizzate,
possesso di chiunque, irrilevante pur tra le spogliate
assi: sguarnite tavole nude, sporche allisciate
di febbrili umori; tali altre fiondate
di luce dalla sua fronte, dalle affollate
tempie, dalle labbra finalmente toccate
dalla voce, prima che dalle parole, liberate
da un sigillo ancestrale, dalle fitte, serrate
cuciture di ansie, ammonizioni, rivolte, erogate
penitenze, dal pallore di tante accolte e sopportate
ed esaudite pestilenze dentro le dimore murate
sopra i letti disfatti, colmi, fondi di spietate
immagini di amore, allacci, contatti, traversate
da un nudo ventre a un altro ove marcate
opposte sensualità, nere, immense, sfondate
fino nel più profondo pozzo, putride, navigate
in superficie e dentro da una pupilla, chiuse o dilatate
dalla stessa inaccostabile barca, senza fondo né fiancate
rotonda, galleggiante, volante, a capofitto tra le insensate
voragini di acqua: acqua non acqua, tutte negate
le proprietà, le sostanze, le misure, le appagate
copule, gravidanze, creature, nascite, snaturate,
forme, fonti, fiumane, sponde scompagnate
di parenti, piscine, macchie, foreste mai districate
da chi pure più volte traversate
manomesse, incendiate, interrate
le ha...
Tutto nelle luci impaginate
di Pier Paolo era scritto: tutte ben spiegate
le mancanze, le fobie, le ossessioni ormai recitate
come quotidiana salvezza, nella coscienza accompagnate
al divieto di sé, alla colpa, alle incarnate, consegnate
lettere ed istruzioni, doti e qualità, le spietate
virtù dell'animo infallibile, sconfinate, senza date
appunto... traverso le giornate, a fiore delle nottate.
«Caro Pier Paolo, tante le tue ben studiate
bravure che riesci a riempire le tue giornate
di laboriosa felicità, di poesia anche sopra queste cartate
ignoranti ... »
«Tu - m'interruppe - tu, anche tu sei bravo
che riesci a sentire cosa pensano
quel sale e quel pepe nei loro finti cristalli.
Ecco tu sapresti dirmi con precisione,
semplicemente bene cosa pensano e sentono
e che immaginano tra loro... sì ci credo,
quel sale e quel pepe. Anche tu quindi prevedo
che scriverai un romanzo vero, onesto.
Basta che tu non abbia paura, ma la timidezza
di scrivere proprio con la medesima chiarezza
con la quale ti parlano quel sale e quel pepe».
«Caro Pier Paolo ancora non ho tutta la pienezza
della tua mancanza, anche se cerco... ma solo crepe
arrivo a tastare di disastri, di una lurida fortezza
tutt'intorno... e solo l'innocenza del pepe
e del sale mi ravviva di una globale, demente ebbrezza,
di un solo sentimento di purezza
del pepe del sale e di ogni altra spezia
tritata... tutte le guardo e anche solo un'inezia
del loro valore mi equivale e mi screzia
la mente: l'ultima volta davanti all'amb. di Svezia
come due ministeriali entrambi nella delusa specie
dei non prediletti... anche se la tua era compiacente
confortevole comunanza... fraternale menzione:
non assoluzione, grazia...»
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