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PAOLO VOLPONI 1924-1994

Italiana


Paolo Volponi 1924-1994

da Il ramarro

IV

Tu fischi, o cuculo,

la mia calmissima gioia

di questa notte amorosa.

Sul letto spoglio

l'addormentata ha lasciato



il suo corpo a giacere

insieme con tutti i miei sensi.

Lo so guardare

ora che mi si è sciolto

in bocca.

Tu cuculo gocciando

allunghi il tempo

della mia gioia.

VI

Nelle vastissime notti

io sento

il rumore dell'ossatura delle cose,

gli alberi che battono sulle strade.

La terra tesa con spasimo

che potrebbe schiantarsi

come il ghiaccio di un lago.

Io debbo reagire

per non farmi sovrastare

dal rumore del mio corpo,

per non farmi tendere

come la pelle della terra.

Cerco di spezzare quelle corde

che stirano ogni cosa.

VII

Ho sentito lo spaventevole

dialogo dei morti,

fatto di tarli

nei legni scuri delle sacrestie;

di colpi di piedi scalzi

in grandi camere vuote,

dove il lucore della candela

si fissa egli angoli

delle porte aperte,

delle cornici d'oro degli specchi;

di zirli di tordi

saliti dai laghi di nebbia.

da L'antica moneta

D'autunno è con noi

D'autunno è con noi

ogni foglia e ghianda

ed è raggiunto il cielo.

Fra le avellane svolazza

la palomba ferita,

freme il sottobosco

agli scoppi

dei ricci di castagna.

Dolcissima è l'ultima uva

celata fra i pampini rossi,

sul fianco dei monti sale

il fumo delle carbonaie.

A sera

io provo il caldo smemorato

delle castagne,

del torbido vino,

il più nudo corpo

della mia donna.

Ogni canto si arrestò

Ogni canto si arrestò,

e si distinsero i salti gialli

delle cavallette.

L'acqua nelle fonti

gorgogliò più forte.

Noi ora troviamo le cicale

che la pioggia ha scosso

dagli alberi,

gli insetti neri

sventrati sulla strada.

Stanotte

i rospi profumeranno

al chiaro della luna.

Antica moneta

Precipitosi cieli

delle notti di marzo,

al cui fiato s'incrina

ogni cristallo invernale.

Come un'antica moneta

la luna dissepolta

affiora.

Dalla tenera terra

i piedi svegliano

giovani fiumi

e già le vipere compagne

lasciano i nidi

dei tesori nascosti

col ventre d'oro.

Ora le vergini

s'aprono negli orti

come radici all'acqua,

con timore

dell'uomo che passa,

delle dolci api

a sciami nelle orecchie.

Sortilegi d'olio e di corallo

trarrà la zingara

con l'orso ballerino.

Marzo spenderemo,

rotonda moneta,

nelle feste dei paesi.

Serenata

È una notte

facile ed inconsueta,

così luminosa

che una cometa s'indovina

dietro l'orizzonte.

Tu sei di vetro,

io vedo le mie mani

dietro la tua nuca.

Dagli alberi d'aprile

scendono luna e vento

e dolce ne trema

la rossa lupinella.

I galli sulle colline

hanno rostri d'argento.

da Le porte dell'Appennino

Casa di Monlione

Bene che sia caduta

dal platano la foglia più alta,

che ricoprano il fiume

tenerissime nebbie

e la macchiola resti

greve di pioggia;

o che una fila di quaglie

ricerchino mute

il margine ombroso del bosco,

fuori della rovente stoppia

dove giace la serpe falciata;

sempre io amo queste colline

della terra di mia madre.

Casa di Monlione,

per prima ti vedo

sul fianco della collina

sotto l'albero di noce.

Incontro gli uomini

che portano giacche di velluto

odorose di polvere da sparo e di tabacco.

Il puledro visto nascere

scavalca la siepe della strada;

sul pozzo fiorisce il rosaio

delle rose nuziali.

La goccia di sangue

nel becco del fringuello

raggela al davanzale

La ballata della neve

Sono scesi i passeri a branchi

dai calanchi di neve;

si sono posati tutt'insieme

sulle peste davanti a casa

come se la tua veste

tenessero per gli orli,

sfrenati nel volo

quasi per una pena del cuore.

È solo il tuo sguardo, amore,

che li tiene in vita,

o il loro stesso timore

di presto morire.

Se appena ti chiamo,

altri volano dai pagliai:

l'inverno si spalanca

nel tuo grembiule celeste,

un filo d'oro di paglia

resta a metà nell'aria.

È d'oro la tua medaglia

ogni sabato d'inverno

e bianca è la tua pelle

nel nido sopra il ginocchio.

Salendo lentamente a germinare,

la stagione mantiene

il seme del tuo pudore:

l'una e l'altro maturano insieme

e cantano in silenzio

come il vento e la neve

nel tuo piccolo paesaggio

che arriva appena a domani.

Anche i passeri al tramonto

tremando sui rami,

vivi uno per uno

e tutt'insieme come le stelle,

ti chiamano in silenzio

per arrivare a domani.

Le mura di Urbino

La nemica figura che mi resta,

l'immagine di Urbino

che io non posso fuggire,

la sua crudele festa,

quieta tra le mie ire.

Questo dovrei lasciare

se io avessi l'ardire

di lasciare le mie care

piaghe guarire.

Lasciare questo vento collinare

che piega il grano e l'oliva,

che porta sbuffi di mare

tra l'arenaria viva.

Lasciare questa luna tardiva

sul diamante degli edifici,

questa bianca saliva

su tutte le terrazze,

dove amici e ragazze

stendono le soffici tele

del loro amore infedele.

Lasciare il caldo respiro

del sole sulle mura,

la lunga tortura delle case,

lo stesso temporale

che ritorna da anni,

pur se la vita non è uguale nel giro

e s'abbandona ogni ora.

Antica sulle mura

è la mia casa;

immobile e non sicura

sembra veleggiare

tra le nuvole come riviere

nel fluviale nembo

delle selvagge sere.

Il cielo a forma di grembo

divora la città;

allora si sente morire

ogni cosa d'intorno

e ognuno sta per sortire

dal proprio cuore.

È il vento, al confine del giorno,

che mormora tra i colli,

che a me di fronte sgombra la campagna

o con la nera ombra delle nubi

la fa sparire;

che con me giuoca

fingendo di fuggire

e poi con aria fioca

torna a imbiancare i colli.

Il vento d'incerta natura

che passa come un ragazzo

dietro le siepi o le mura,

senza niente,

come chi si allontani d'un passo

o per sempre;

niente più d'un rimorso

o d'un sorso d'acqua nei campi.

La città trema nel cuore dei suoi cortili,

apre il suo dorso alle congiure vili

del tempo, e giace morente

sopra di noi.

Allora i giardini pensili

piegano l'ombra ostile dei pini

verso quel punto dell'orizzonte,

nuovo ogni sera,

dove io non giungerò mai

libero dai miei cattivi pensieri,

dalla sorte nemica

che il mio amore castiga.

La paura

Agli amici Leonetti, Pasolini, Roversi

La funivia per il Santuario di San Luca,

tutta di ferro e cruda,

oscilla al limite dei campi:

insieme a voi, amici,

m'affido al miracolo volgare

di un gruppo di gente che vola.

Ai finestrini l'Appennino sale

sopra il portico umano, fermo;

la nuvola che gira sulle valli

mi fa temere della sua pazzia.

Sappiate che ho paura di volare,

d'essere chiuso tra questa gente adulta;

ho paura del vento che non sceglie,

d'essere ancora guidato per la mano

nelle strade di passeggiate domenicali.

Sopra un vigneto ancora poco verde,

nano, bagnato di solfato,

la navicella quasi scende,

poi il declino riprende verso il paesaggio;

oltre il mio terrore che non guarda

l'occhio vede Bologna che s'arrende,

sciolta la cintura di mattoni,

alla campagna, a una monotona calura

che sbianca di caligine i confini,

che corrompe le ville,

i casolari distanti

sotto platani, tigli, ippocastani.

M'aiuta nella paura di volare

la vostra cordiale presenza, la vacanza,

la piccola valle che rompe la clausura

con il solco di terra familiare,

con la foglia del tempo corrente

nell'intreccio fresco di verdure,

nate ieri e sempre,

dove il mio occhio ritorna adolescente.

[...]

Queste folle ignoranti di San Luca

sembrano di sfollati;

la collina è ferma nel suono irreale

delle alte scale del santuario.

Così erano percorsi ed abitati

i monti innocenti della guerra;

così miracolosa l'aria

dei casolari armati

delle giornate di sole.

C'erano momenti in cui un miele

colava dalle case abbandonate:

i frutti parlavano per noi,

gli insetti nelle messi, sulle mani,

sui calzoni di noi seduti.

Lontane le piazze e i campi

e sempre di ieri o di domani

- salvo il momento quotidiano

nel cuore di chi era salvo, lontano -

dove giungeva in festa

la pazzia perfetta dei tedeschi,

quasi un fuoco artificiale

che non dovesse far male.

Trepida ai colpi di mitraglia,

come per un volo troppo affollato di uccelli,

anche la macchiola d'avellani e lecci

si riempiva di fumo tra le fronde;

piangeva da ogni foglia,

vergine di poca neve mattutina

devastata di sangue.

Di quel bosco noi altri pensavamo

più alla terra forte,

la terra che d'inverno vuol dire

asilo e pane,

più agli alberi che d'inverno vogliono dire

vita sino a primavera,

che al mucchio umano dei morti.

Così fummo forti a vivere.

Vedo nel paesaggio

che non avevamo abbastanza segreti,

paesi uno dietro l'altro,

uomini tutt'insieme,

fummo espugnati cuore per cuore,

fummo resi lieti,

nei balli militari, nelle sbornie,

nelle vicende delle ladrerie.

Un esercito innocente

sciolse senza parlare

le sue bandiere d'affetto

sul geloso silenzio familiare.

Amò le nostre donne, le sorelle:

mostrò a noi stessi il verso naturale,

il lembo puro della loro veste.

Cadeva allora l'onta del peccato

e per la stessa sorte, come un fiato,

cresceva la forza del dolore.

Guardo la navicella scendere

mentre un vento sicuro sfiocca dal crinale

la nuvola, la spinge verso la terra

a vestire la caligine serale;

così la paura ridiscende nel mio cuore

e ricompone il giuoco diletto del male,

la libertà della contraddizione

che porta al dolore le parole.

L'Appennino contadino

[...]

Domani è già marzo e la strada

scopre tra i frutteti il petto della contrada.

A marzo il contadino

riordina gli attrezzi e libera i confini.

A marzo i contadini

scendono verso i paesi;

si fermano nelle piazze mercatali

davanti alle osterie, ai forni, ai falegnami

che odorano sotto i portali di pietra fiorita,

davanti ai negozi di ferramenta,

davanti a tutti gli spacci

con un sentore d'acqua muffita.

I vecchi si fermano alle porte;

i giovani salgono le vie cittadine.

Ormai li mischia aprile,

mese senza paura,

e salgono insieme i mezzadri e i garzoni,

i mietitori, i braccianti, i legnaioli,

i muratori di campagna, gli innestatori,

gli scavatori di pozzi e di vigna,

i cercatori d'acqua e i cacciatori.

Il giorno nella città non ha paura,

stretto tra le mura è sempre luminoso,

e sempre vive di qualche cosa, ora per ora;

preso alla mattina presto nei mercati,

nella profonda luce che rispecchiano

le facciate nobiliari o i porticati;

guidato per le vie al suono dei selciati

sino ai vertici gentili dei rioni;

alzato a mezzogiorno in fronte alle chiese

su tutte le piazze, una sopra l'altra,

di mattone o di pietra;

non è vinto dalla foglia incerta,

non predato dalle fratte di spini,

non morto nella morte degli insetti;

non arato, seminato, sarchiato,

faticato ora per ora,

dalla mattina alla sera.

Il giorno gira nella città il suo dolce sole,

muove il ventaglio alto delle nubi,

e chiama dal mare l'amorosa luce serale

che si stende su tutte le terrazze,

sui giardini pensili, sull'arcate

dalle quali soffia l'Appennino.

Si congiunge alla notte per le strade,

quando vicino s'odono risate di ragazze

e verso i torrioni e voci da tutti i portoni.

da Con testo a fronte

Melancholia

Quando mutano le stagioni

specie agli estremi dell'anno

molti cani volano abbaiando

tra i portoni del cielo notturno;

ne tremano le carovane di smalto

sopra gli scaffali e gli ottoni

della stufa spenta: il cinico volo

sbatte sulle gobbe dei cammelli

nella vetrina e sopra gli anelli

degli scoperchiati fornelli;

a guisa di cane la tubatura

e la porta finestra; canina dentatura

di coltelli e chiodi, tale la tintura

del vano verso le stanze:

un tremore senza approdi

che mugula e trasvola una dura

coda rasa o pelosa recisa

sul piatto o sotto la tavola

esangue, bianca e scura;

le bave e i guaiti ad andatura

più veloce del suono:

più soffice e scomposta orma

lasciano sulle pareti e sul cuscino

unta e unghiata dell'orrido fetore

come fuori da una piscina

zuppa la pelliccia canina

pioggia che non lava il colore,

e dove un aquilone di cane

a bocca aperta e nemico per onore

latrando trasportava nel cielo

la scritta melacholia

sopra un grande fiordo tessitore

di luce ostile, senza calore,

dentro un rotondo spazio

brulicante di vele, insazio

di sponde numeri e del soffitto

scala e trapezio,

ossesso minuto dritto

segno dell'aria dei corpi e della ratio

malversa, insonnia palla meditatio

algida esterrefatta cepitatio

di ali, vista inchiostro

quadrato vetro solo vetro

del vetro nella moltiplicatio

che trema perfido precipizio

che tende dietro;

come ne rompono supplizio per supplizio

i cani volando

di notte dall'uno all'altro vizio.

All'alba vengono a leccare la tazza

ansanti e feriti anelando

di bere proprio davanti alla cassa

in cui era custodita la stampa;

la stagione era adatta

con quella notte di latta

immensa e tesa di cacofonia

proprio canina come fatta

apposta per il volo dei cani

e delle porte e della putrefatta

compagnia

d'ogni alito e lenzuolo;

via vattene via vola

disse Dürer al suo cane

che dalla bocca colava

il lezzo e la bava della melanconia.

Ettore

Muoiono e non da ora quegli amici

con i quali conducevo la vita

ormai in silenzio e da lontano

come la riga mattutina ordita

nel cielo che pareggia il giorno,

sempre sorprendente e nuova invano,

come perenne scorrere insieme e vano

riemergere nel sereno sia nel maltempo

prossimo e lontano

dentro e ovunque intorno...

come camminando quella volta che insieme

ci dicemmo tutto e per sempre, uno per uno

di sé e del mondo, la promessa rivolta

di non dire più niente, ormai ciascuno

la medesima sorte intesa e accolta.

L'amore di sé

L'alba ancora non lascia

l'ultima onda notturna;

ancora trattiene l'ambascia

di persistere sola, recisa

ogni corda l'aria stessa, la fascia

del proprio lucore indivisa

dalla tela nera che s'accascia

non dietro, ma sotto tra l'intrisa

minuta rena della sua diaccia

incerta orma, alterna, lisa

dalla sua labile irriverente traccia.

La direzione è opposta

al verso del piede che frena

e dello sguardo che accosta

trepido la prima spalla terrena

libera, non tesa una mano apposta

per indicare una scena

seppure piccola, appena opposta

alla nera matassa, alla vulva oscena

della notte, incinta, non deposta...

Ma spinta di fronte alla vista di sé

pallida stenderà la colpa

lucente alta sopra la testa

e si scioglierà in vapore dentro

l'imprendibile sabbia.

Niente l'assorbe né la desta

e solo l'onda notturna

più larga sotto la chiglia

della luna dentro la nuova urna

le toccherà un gomito e le ciglia

ancora lucide del rimpianto:

perla della conchiglia

dell'amore di sé.

Detto dei passeri

a Gualtiero de Santi

I

Un passero nero e marrone

come Attigliano sotto Giove

e un altro piu chiaro, della pietra

che detta dal tetto di Santa Croce di Cagli.

Credevo che i passeri rappresentassero

una claustrale democrazia comunale

uguali e insieme. Severo il passero

nella piena estiva o invernale

convinto nel patire sulla neve

e sui tetti dell'impenetrabile

gennaio, tinto tra i pollini o greve

tra le paglie aguzze e i mosti,

vero attento su tutti i posti

di marrone e di penne, di nero

liquido degli occhi e duro becco

cosciente utile compagno sincero

lavoratore e parco alato inventore

di terre scoperte lingue teoria.

Scrivono invece gli ornitologhi

che è uccello invadente vorace cattivo

che aggredisce e guasta luoghi,

reca flagelli e un rivo

sempre di sangue raspa mentre dai potenti

pigola protezione: bovi cani oche

incoscienti e malvagi greggi o imitatori

dell'uomo. bestie belve snaturate, mentre

contro ogni altro uccello bruco fiore seme

con fobica ossessione e infetto preme

cinico padronale, mischia, detta

dispone prende.

Credevo che i passeri avessero antico cretto

sul dorso e sul petto e ancora più stretto

sul capo come un brano di Margarito d'Arezzo:

più largo e tessuto sull'oro del fondo

e più minuto e congiunto

sulle terre stemperate dei manti

o sull'ocra sottile distesa a chiara

d'ovo e in dura cornea confitta di ovale

perla e cristallo sulle figure d'oliva

sul collo virginale, cilestrina genga calanchiva

sui tratti verso l'ombra porpora marina

nei sensi del gesto alla votiva

novella ed invenzione

bianca o rosa conchiglia coccinella calcina

di gessi farina di ghiande e frumenti,

pellicola di acini nocciole sementi

ripassati a mano scaldati e raffreddati

a contatto presa fiati frementi

con erba cera miele e vino,

masticati unti e accompagnati

con il cerume e lo sputo lucidati, affidati.

Credevo che amassero davvero i muri

di pietra o di mattone le torri i campanili

quadrati e larghi dolci di muschi

di cimici di pulci conventuali di nidi

e covacci carichi dei guani e sali

d'altri continenti, che si ponessero a guardare

dalle fessure non più alte dei portali

gli arditi voli delle rondini ammirati

e non per tendere agguati,

che venissero negli orti per confidenza

dietro i lavori e le crescite per compagnia

per confortare la fatica mostrando pazienza

e miseria affidamento terrestre un sereno

consolante nutriente ritmato senso mortale,

un leggero piumato soccorrevole e sufficiente

corpo piumaggio e calore materiale,

un piccolo sangue veloce e trasparente

non affollato e spinto dalla paura,

che tra le colture aiutassero

beccando i parassiti rinnovando gli umori

delle zolle e delle piante penetrando

con il becco valente e giusto di misura

che non trafigge né taglia la scorza

dei bulbi o il ceppo delle foglie o la verdura

il getto delle patate utilmente e in corsa

spulciandosi e smerdandosi tra le insalate.

Che sapessero comprendere e comunicare

nel branco e invece stanno insieme

per la forza del numero per sopraffare

da prepotenti e sempre con la trista

sorte di servire la morte fascista

decorata armata usata dal più forte

incatenata ai tratti e ai banchi

del lavoro e del sistema capitalista.

Che fossero contadini operai poeti,

progettisti fervorosi umili e lieti,

anche troppo uniti e convinti sui progetti

di ogni volo o discesa punti e alfabeti

di precisi intrecciati rapporti di concreti

compiti umani della fine della traversata

da una collina all'altra, boschi o rivi

carestia siccità invernata obiettivi

della loggia, scorta, nuovi e nativi

prati e muri al vento di galaverna

contro la furente calata dei corvi

e al riparo dalle lune lacrimose delle civette:

invece si fissano nell'organizzazione dei pagliai,

accatastata franta ma sicura,

nei cortili delle caserme addirittura

nei giardinetti artificiali dei quartieri

apposta costruiti e detti operai

tra gli spiazzi e i capannoni degli opifici

accanto ai densi rivoli degli scoli

lungo le pensiline smemorate e ostili

cariche di legacci abbandonati e di pani

smozzicati e smessi per la pena e i salini

dolori, scatole sacchetti lattine bibite

tovaglioli di carta pacchi spaghi nelle stazioni

delle metropoli industriali o soste comitive

spiazzi per la raccolta degli emigranti.

Dunque alati capi prezzolati

e duri spietati carrieristi

collaudatori allenatori attrezzisti

anziani e devoti protetti e distinti

con le dispense in casa sui regnanti e sugli istinti

della fortuna, bibbia vangeli storia

dei faraoni di Mussolini del regno animale

di tutti gli oceani le foto dei calciatori

il salotto moderno di acrilico violetto

e turchino nella plastica scintillante

nuova fresca al tatto rassicurante

nella perfezione che anche

illumina giusto davanti alla televisione.

Allora se non i passeri quali altri

uccelli della terra e del cielo

poter guardare e confidarsi?

Averle capinere verzolini

ansiosi renitenti fringuelli

timidi celati usignoli lucherini

allodole migranti o stanziali ai confini

degli altipiani oppure canarini

variegati e domestici dottorali e fini

merli dell'India pappagalli brasiliani tordini

dell'Equatore tortore africane colibrini

oppure gufi o cuculi solitari

civette colombi del grano pettirossi

babussini delle piccole pinete e dei fossi

prossimi alle mura merli clienti

tra i giardini delle ville e dei parchi

o i vigili schedati piccioni urbani?

Quaglie starne pernici fagiani

che pure cantano amorosi

espansi e ripetuti nel maggio dei grani

o nelle boschine vicine o nei terrosi

scavi, oggi solo nelle liste

preferenziali delle riserve fra il Ticino

e i contrafforti monferrini e alpini

in gabbia o in cella frigorifera

nel menù dei ristoranti di lusso

o nelle contropartite commerciali con i paesi dell'est

boscosi agricoli secondari?

II

Falco è solo un nome topografico

di altura o antico borgo,

falco è un dirigente accanito e pronto,

aquila è nel linguaggio industriale

l'imprenditore il presidente il capo

il più potente e scaltro a cui vale

il cinismo e il potere nel calcolo brutale

di principio e ragione imprenditoriale:

Harvard Francoforte Torino

capitali e successo congiunzioni

prezzi tassi investimenti mercati

sistema democratico integrato e fidato

mano d'opera e costo del lavoro.

Aquila nell'industria è anche colui

che superiore o concorrente parigrado

o dipendente ambizioso mangia il fegato

di Prometeo incatenato,

onesto dirigente dalla cultura stessa fregato,

dall'ardimento di sottrarre il fuoco

all'unica fascina: altare luce fato.

Interna ed interiore la rima con duce

ogni duce piccolo medio grande amato

imprenditore e condottiero industriale

di rango di scuola di gavetta sempre

teschio fiamma manganello del capitale,

quale altro uccello ha l'ale?

Quella che si segue è una rotta lineare.

Solo misure di consigli e comitati.

Documenti legalmente discussi e approvati

e nei dovuti termini messi a verbale.

Il giorno prima o solo a dieci minuti

dall'ora della partenza l'ufficio viaggi

assai precise affida

le solite istruzioni biglietto valute

credenziali indirizzi scali

e un'altra volta premuroso ripete

stia ben attento alla vaccinazione

contro il colera e la febbre gialla ed anche

alla coincidenza degli orari...

sì, quelli che la mancano si bloccano

tornano indietro a riportare la valigetta

o si perdono fra Beirut e Atene

molli sul cabotaggio dei tappeti volanti

o accolti dai battelli romani di travertino

dei pubblici assistenziali posti ed istituti

oppure rifatti tessere sacramenti e denti

nei pubblici industriali energetici

consorzi fondi enti.

I branchi degli uccelli non viaggiano

e spesso ai margini infuocati delle piste

degli aeroporti sulle coste oceaniche

appena alzandosi sul lago e sui miasmi

finiscono risucchiati e disintegrati

dentro i gironi roventi dei reattori,

è rinnovata e senza ali la forma

della natura e dell'amore, dell'erogazione

del lavoro e anche della memoria.

Non ali né alberi né distanze e storia

vuole il capitale viaggiatore volante

ma solo nella rotta del suo calcolatore

e dell'unica sua gloria

scientifica ma anche poetica

di non vedere mai e non per boria

sorgere o tramontare il sole,

mai farsi cogliere da un'ora comune

e sempre tenere fissa la luna

dietro il ghiaccio scintillante e il lume

asciutto inconsumabile frusciante

del proprio drink e del nume

mondiale dell'oro e dollaro pagante.

Nessuno può più opporsi

alle partenze e ai ritorni del costume

e del cocktail padronale

come soccorrere i salmoni

sotto le rotte tra i flutti mentre gli orsi

li aspettano tra gli scogli e le secche

prima delle correnti millenarie ed esclusive

del polo impraticabile fisso e stellare

del pack del capitale mondiale.

Costume cocktail volo pack

sono ormai stagione e tempo. Il tempo

delle borse è la ragione

che fonda l'istituzione

principio strutture funzioni

delle umane statali economiche stazioni.

Il cimitero degli uccelli e delle avanguardie

è negli aeroporti e nelle pubblicazioni.

Costole e coste ali poesie

scienze arti mestieri canzoni.

Dentro i corpi e le borse dei viaggiatori

dentro i bagagli i containers i motori

dei frullatori dell'hostess o dei reattori

dentro le scarpe e i calzetti

dentro i vassoi e i sacchetti

dentro le pillole tranquillanti

o le polveri rallegranti nei fazzoletti

di seta o protette in stagnola

impregnati di colonia nella gola...

Nessuno che del sepolcro oda

cigolare il cancello e le casse

nessuno che ne roda

il languente stomacale sapore:

oppure non è un odore

che scenda dalla scansia superiore

delle sciarpe guanti cuscini

o da un vecchio sepolto pensiero

da un'ancestrale ma colta memoria

di un istinto un moto un'abitudine

un po' come Proust con la madeleine

un odore e un sapore congiunti nel filo

che appare sbagliato sopra la maglia

vellutata della coscienza

o che scende dall'impazienza

che fluttua nell'aria o nel tattile

gas che pervade la mente

verso il naso la lingua il cancello

proprio come un andito la bocca

di morte terra e sepoltura:

ma è un vizio fiutare la paura.

Niente ali né avanguardie

perché i passeri non hanno cura

di nessuna guardia

della torre arte architettura.

III

Non avvertirono sciamando e deviando

in stretto branco il volo volando

a piombo accaniti e a raso

del rapace presidenziale naso?

Adesso un ornitologo cattedratico

parla dentro un'insonnia mondana

della loro brutta natura enfatico

nel piccolo divano superstite tra la liana

del glicine alla finestra e il pratico

carrello dei liquori e la nana

tavola del pranzo, della nocività

della specie ostile naturale

indicando a esempio la tavola

della cattiveria perseguita

quale era imbandita

e come ridotta e devastata

tavola di porfido e d'oro spogliata

scomposta sbriciolata segnata

di creme intrisa di misture

di vino whisky estratti menta

caffè fors'anche di sterco

di vasche d'argento steli di alzate africane

marrane di coppe e di gelati striscio

di cristalli bicchieri lume di mercurio neve

di sali zucchero borotalco

rupe di tovaglioli e di biglietti

strappati con un nome cicche di sigari cubani

picchi di centrini sotto coppe

di champagne caviale ecc. ecc.

«Ecco disse qui è proprio come

se fossero passati una diecina di passeri

e per non più di mezz'ora.

Se ci fosse stato un canarino

l'avrebbero soffocato beccato nel capo

fino a spappolargli tutto il capino

e poi gettato nella vasca dei cocktail champagne

o nella guantiera del caviale.

Essi sanno fare soltanto male».

Ah passeri passeri passerotti che non capiscono

e si diffuse intorno la paura che chissà come

potessero entrare... capita in certe notti...

ma si compatiscono i superstiti dotti

nel conforto della sicurezza dei sistemi

e della vigilanza dei guardiani

e arrivano a compiacersi che i passeri

esistano nocivi vivendo e seminando

in luoghi distanti e zone sottoposte,

abitate con rancori e abitudine da altri,

quasi tutti gli altri da quelle croste

infette della società così ribalde

che stessero pure con le ali accoste...

Sognare passeri passere passera passerà

sempre come misurando il dolore pennuto

ma senza destarsi per continuare a passare

sopra i passeri tra quei passeri e passero

passera che tanto doveva passare passerà.

Sempre sognare passeri per arrivare

a vedere il recinto che li schiva

la siepe le finestre le difese e dietro

la fiamma elettronica che arriva

ovunque a dominare e controllare

impastare di sé servi strumenti ogni votiva

chiave cassetta cartella tastiera;

anche fuori il lucido delle ringhiere,

perfino il colore spessore ordine delle foglie

dei nespoli e delle magnolie

perfino il battito sui muri delle sfere

dell'orologio solare e delle sere.

[Pasolini da cinque anni è morto]

Pasolini da cinque anni è morto.

L'anno che lo conobbi ne aveva 30.

Subito mi sono accorto

della sua età senza date

di tutte le sue infinite giornate

senza fiato e di continuo illuminate

da tante luci diverse,

tolte o gettate

intorno a lui;

le ciglia, le ondulate

chiome di studente, gli zigomi larghi dove appoggiate

sempre stavano le mani, strette o allentate

nella compassione, l'una o l'altra riprese, riguardate

una per volta, con uguali alternate

indulgenze, riconsolate, fortissime e affidate

a una tavola, una ringhiera: alle posate

del pranzo in trattoria, all'aperto d'estate,

con paterna consapevolezza lasciate

libere, discretamente, da istinti controllate

che non provassero tante svoltate

oltre i margini delle colorate

tovaglie, sulle stagge, tra le punte scheggiate

dell'indecente, impudica miseria, sotto le apparecchiate

convenienze, salvietta, bicchiere, inargentate

ampolline dell'olio e dell'aceto: saliere e pepiere traforate

sul coperchietto a vite: freschezza e igiene preservate

da usi, giacenze, passaggi di mano come da sventate

maniere: sale e pepe salvi nelle incontaminate

mucchiette: regali spezie ormai volgarizzate,

possesso di chiunque, irrilevante pur tra le spogliate

assi: sguarnite tavole nude, sporche allisciate

di febbrili umori; tali altre fiondate

di luce dalla sua fronte, dalle affollate

tempie, dalle labbra finalmente toccate

dalla voce, prima che dalle parole, liberate

da un sigillo ancestrale, dalle fitte, serrate

cuciture di ansie, ammonizioni, rivolte, erogate

penitenze, dal pallore di tante accolte e sopportate

ed esaudite pestilenze dentro le dimore murate

sopra i letti disfatti, colmi, fondi di spietate

immagini di amore, allacci, contatti, traversate

da un nudo ventre a un altro ove marcate

opposte sensualità, nere, immense, sfondate

fino nel più profondo pozzo, putride, navigate

in superficie e dentro da una pupilla, chiuse o dilatate

dalla stessa inaccostabile barca, senza fondo né fiancate

rotonda, galleggiante, volante, a capofitto tra le insensate

voragini di acqua: acqua non acqua, tutte negate

le proprietà, le sostanze, le misure, le appagate

copule, gravidanze, creature, nascite, snaturate,

forme, fonti, fiumane, sponde scompagnate

di parenti, piscine, macchie, foreste mai districate

da chi pure più volte traversate

manomesse, incendiate, interrate

le ha...

Tutto nelle luci impaginate

di Pier Paolo era scritto: tutte ben spiegate

le mancanze, le fobie, le ossessioni ormai recitate

come quotidiana salvezza, nella coscienza accompagnate

al divieto di sé, alla colpa, alle incarnate, consegnate

lettere ed istruzioni, doti e qualità, le spietate

virtù dell'animo infallibile, sconfinate, senza date

appunto... traverso le giornate, a fiore delle nottate.

«Caro Pier Paolo, tante le tue ben studiate

bravure che riesci a riempire le tue giornate

di laboriosa felicità, di poesia anche sopra queste cartate

ignoranti ... »

«Tu - m'interruppe - tu, anche tu sei bravo

che riesci a sentire cosa pensano

quel sale e quel pepe nei loro finti cristalli.

Ecco tu sapresti dirmi con precisione,

semplicemente bene cosa pensano e sentono

e che immaginano tra loro... sì ci credo,

quel sale e quel pepe. Anche tu quindi prevedo

che scriverai un romanzo vero, onesto.

Basta che tu non abbia paura, ma la timidezza

di scrivere proprio con la medesima chiarezza

con la quale ti parlano quel sale e quel pepe».

«Caro Pier Paolo ancora non ho tutta la pienezza

della tua mancanza, anche se cerco... ma solo crepe

arrivo a tastare di disastri, di una lurida fortezza

tutt'intorno... e solo l'innocenza del pepe

e del sale mi ravviva di una globale, demente ebbrezza,

di un solo sentimento di purezza

del pepe del sale e di ogni altra spezia

tritata... tutte le guardo e anche solo un'inezia

del loro valore mi equivale e mi screzia

la mente: l'ultima volta davanti all'amb. di Svezia

come due ministeriali entrambi nella delusa specie

dei non prediletti... anche se la tua era compiacente

confortevole comunanza... fraternale menzione:

non assoluzione, grazia...»



Diamo la prima e le ultime due strofe.

Del poemetto, che descrive una vicenda annuale, diamo la strofa dedicata ai mesi di marzo e aprile.


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