Vicina agli occhi e ai capelli sciolti
sopra la fronte, tu piccola luce,
distratta arrossi le mie carte.
Adolescente ardevo fino a notte
col tuo smunto chiarore, ed era strano
udire il vento e gl'isolati grilli.
Allora, nelle stanze, smemorati
dormivano i parenti, e mio fratello
oltre un sottile muro era disteso.
Ora dove egli sia tu, rossa luce,
non dici, eppure illumini; e sospira
per le campagne inanimate il grillo;
e mia madre si pettina allo specchio,
usanza antica come la tua luce,
pensando a quel suo figlio senza vita.
Come un naufrago incolume mi volgo
e vedo, inteneriti dal passato,
alle mie spalle, oceani di rare
viole, di silenziose primule.
È già un sogno lontano più del cielo
il paesaggio di germogli azzurri
che il trasparente Aprile intiepidiva.
Il tempo è dileguato senza moto:
le farfalle che volano pudiche,
i fiori violenti, l'irta quiete...
E so ancora atterrirmi ad un accento
che disaccordi con la fioca musica
dei campi? Alzare il capo, puerilmente,
angosciato dai baratri celesti
tra i veli tranquilli delle nuvole?
Se l'iroso usignolo nell'azzurro
arido, esala i suoi canti diurni,
lo ascolto ardente, ma non ho speranza.
Io non sogno, non veglio...
Cristo nel corpo
sente spirare
odore di morte.
Ah che ribrezzo
sentirsi piangere!
Marie, Marie,
albe immortali,
quanto dolore...
Io fui fanciullo
e oggi muoio.
Cristo, il tuo corpo
di giovinetta
è crocifisso
da due stranieri.
Sono due vivi
ragazzi e rosse
hanno le spalle,
l'occhio celeste.
Battono i chiodi
e il drappo trema
sopra il Tuo ventre...
Ah che ribrezzo
col caldo sangue
sporcarvi i corpi
color dell'alba!
Foste fanciulli,
e per uccidermi
ah quanti giorni
d'allegri giochi
e d'innocenze.
Cristo alla pace
del Tuo supplizio
nuda rugiada
era il Tuo sangue.
Sereno poeta,
fratello ferito,
Tu ci vedevi
coi nostri corpi
splendidi in nidi
di eternità!
Poi siamo morti.
E a che ci avrebbero
brillato i pugni
e i neri chiodi,
se il Tuo perdono
non ci guardava
da un giorno eterno
di compassione?
Cristo ferito,
sangue di viole,
pietà degli occhi
chiari dei Cristiani!
Fiore fiorente
sul monte lontano
come possiamo
piangerti, o Cristo?
Il cielo è un lago
che mugge intorno
al muto Calvario.
O Crocifisso,
lasciaci fermi
a contemplarti.
Cristo, ai tuoi poveri
figli dispersi
nell'infinito
cielo del vivere,
ecco, morendo
Tu lasci questa
finita Immagine.
Soave fanciullo,
corpo leggero,
ricci di luce...
è San Giovanni.
Perduti in nubi
d'indifferenza
in Sé ci chiama
e a Sé ci informa
questo Tuo Corpo.
Cristo si abbatte
dentro il Suo corpo.
Da sé remote
in quali ardenti
campagne ha sguardo
la Sua pupilla?
Qui è ben cieco,
fermo sull'ossa:
un uccelletto
insanguinato
su una proda.
Dietro, la luce
marcisce il cielo.
Per le vallate
e per le vette
non suona voce:
ultimo e dolce
fruscio la serpe
che si rintana.
O Dio che ombre
dentro il chiarore
delle saette!
La Samaria
annega al buio,
la morte tuona
s'un cimitero
di fresche aiuole!
Polvere e fronde
echi di voci
riversi al vento
nel mesto buio.
Ah siamo uomini
dimentichiamo.
Dietro di Cristo
sui monti morti
il cielo fugge,
è un cieco fiume.
Domeniche dei vivi!
L'alba della festa
fa tremare nel seno
del fresco giovinetto
un filo d'erba fresca.
Domeniche dell'anima!
Che febbre, che dolore
esser vivi e mostrarsi
al sole che risplende
sopra i freschi capelli.
Domeniche d'amore!
Egli è tutto vergogna
per l'amore scoperto
nella bianca camicia
e le pupille ardenti.
Domeniche di Dio!
O amore materno
straziante, per gli ori
di corpi pervasi
dal segreto dei grembi.
E cari atteggiamenti
inconsci del profumo
impudico che ride
nelle membra innocenti.
Pesanti fulgori
di capelli... crudeli
negligenze di sguardi...
attenzioni infedeli...
Snervato da pianti
ben soavi rincaso
con le carni brucianti
di splendidi sorrisi.
E impazzisco nel cuore
della notte feriale
dopo mille altre notti
di questo impuro ardore.
Eccomi dunque in piena
eccelsa confidenza
con la mia presenza,
angelo impuro ch'amo.
Quanto sterile occorre
urge se tocco il corpo
che da ragazzo amavo
perché certo d'amore.
Ma non so inorridire,
non so abbandonarmi...
Al Dio che non dà vita
chiedo di non morire.
Improvviso il mille novecento
cinquanta due passa sull'Italia:
solo il popolo ne ha un sentimento
vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove - nuove al vecchio canto -
a ripetere ingenuo quello che fu.
Scotta il primo sole dolce dell'anno
sopra i portici delle cittadine
di provincia, sui paesi che sanno
ancora di nevi, sulle appenniniche
greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
i nuovi colori delle tele, i nuovi
vestiti come in limpidi roghi
dicono quanto oggi si rinnovi
il mondo, che diverse gioie sfoghi...
Ah, noi che viviamo in una sola
generazione ogni generazione
vissuta qui, in queste terre ora
umiliate, non abbiamo nozione
vera di chi è partecipe alla storia
solo per orale, magica esperienza;
e vive puro, non oltre la memoria
della generazione in cui presenza
della vita è la sua vita perentoria.
Nella vita che è vita perché assunta
nella nostra ragione e costruita
per i nostro passaggio - e ora giunta
a essere altra, oltre il nostro accanito
difenderla - aspetta - cantando supino,
accampato nei nostri quartieri
a lui sconosciuti, e pronto fino
dalle più fresche e inanimate ère -
il popolo: muta in lui l'uomo il destino.
E se ci rivolgiamo a quel passato
ch'è nostro privilegio, altre fiumane
di popolo ecco cantare: recuperato
è il nostro moto fin dalle cristiane
origini, ma resta indietro, immobile,
quel canto. Si ripete uguale.
Nelle sere non più torce ma globi
di luce, e la periferia non pare
altra, non altri i ragazzi nuovi...
Tra gli orti cupi, al pigro solicello
Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
d'Ivrea gridano, e, pei valloncelli
di Toscana, con strilli di rondinini:
Hor atorno fratt Helya! La santa
violenza sui rozzi cuori il clero
calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
feroce nel feudo provinciale l'Impero
da Iddio imposto: e il popolo canta.
Un grande concerto di scalpelli
sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
suona, giganteggiando il travertino
nel nuovo spazio in cui s'affranca
l'Uomo: e il manovale Dov'andastù
jersera... ripete con l'anima spanta
nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
resta nel popolo. E il popolo canta.
Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
e trepidi nel vento napoleonico,
all'Inno dell'Albero della Libertà,
tremano i nuovi colori delle nazioni.
Ma, cane affamato, difende il bracciante
i suoi padroni, ne canta la ferocia,
Guagliune 'e mala vita!, in branchi
feroci. La libertà non ha voce
per il popolo cane. E il popolo canta.
Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l'antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare?
Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria...
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.
Qui è più puro, e colmo di quieto
terrore - se le sere ormai fonde
tremano agli ultimi brusii, poetici
di mera vita - l'incontro delle gronde
urbane con il buio del cielo.
E muri impalliditi, infeconde
aiuole, magri cornicioni, nel mistero
che li imbeve dal cosmo, familiare
e gaio fondono il loro. Ma stasera
un improvviso rovescio sulle ignare
fantasie del passante frana, e gela
il suo trasporto per le calde, care
pareti sconsacrate...
Non più, come un androne, di passi sonori
perché rari, di voci trasparenti
perché quiete, tra splendori
d'umile pietra, la piazza negli spenti
angoli trasale: né solitarie
frusciano le macchine dei potenti,
sfiorando il fianco del giovane paria
che inebbria coi suoi fischi la città...
Una smorta folla empie l'aria
d'irreali rumori. Un palco sta
su essa, coperto di bandiere,
del cui bianco il bruno lume fa
un sudario, il verde acceca, annera
il rosso come di vecchio sangue. Arista
o tetro vegetale guizza cerea
nel mezzo la fiammella fascista.
Il dolore, inatteso, mi respinge
indietro, quasi a non voler vedere.
E invece con le lacrime che stingono
intorno il mondo così vivo, a sera,
nella piazza, mi sospingo come
disincarnato in mezzo a questa fiera
di ombre. E guardo, ascolto. Roma
intorno è muta: è il silenzio, insieme,
della città e del cielo. Non risuona
voce su queste grida; il caldo seme
che il maggio germoglia pur nel fresco
notturno, un greve e antico gelo preme
sui muri preziosi, fatti mesti
come nei sensi di un fanciullo
angosciato... E più qui crescono
gli urli (e in cuore l'odio), più brullo
si fa intorno il deserto
dove il consueto, pigro sussurro
s'è stasera sperduto...
Ecco chi sono gli esemplari vivi,
vivi, di una parte di noi che, morta,
ci aveva illuso d'esser nuovi - privi
d'essa per sempre. E invece, scorta
d'improvviso, in questa lieve piazza
orientale, ecco la sua falange, folta,
urlante - coi segni della razza
che nel popolo è oscura allegria
e in essa triste oscurità - che impazza
cantando la salute. E l'energia
sua non è che debolezza, offesa
sessuale, che non ha altra via
per essere passione, nella mente accesa,
che azioni troppo lecite od illecite:
e qui urla soltanto la borghese
impotenza a trascendere la specie,
la confusione della fede che
l'esalta, e disperatamente cresce
nell'uomo che non sa che luce ha in sé.
Resto in piedi tra questa folla quasi
il gelo, che da Trinità dei Monti,
dai duri vegetali del Pincio, rasi
contro le stelle e i chiusi orizzonti,
spegne la città - mi spegnesse il petto
rendendo puro stupore i monchi
sentimenti, pietà, amarezza. Getto
intorno sguardi che non mi sembran miei,
tanto sono diverso. Non è l'aspetto
di gente viva con me, questo, nei
suoi visi c'è un tempo morto che torna
inaspettato, odioso, quasi i bei
giorni della vittoria, i freschi giorni
del popolo, fossero essi, morti.
Per chi è andato avanti, ecco, intorno,
il passato, i fantasmi, i risorti
istinti. Questi visi giovanili
precocemente vecchi, questi storti
sguardi di gente onesta, queste vili
espressioni di coraggio. La memoria
era dunque così smorta e sottile
da non ricordarli? Tra i clamori
cammino muto, o forse sono muti
essi, nella tempesta che ho nel cuore.
E nel senso di perdita del proprio
corpo, che dà un'angoscia improvvisa,
in silenzio al fianco mi si scopre
un compagno. Con me, intento e indeciso,
si muove tra la ressa, con me guarda
nei visi questa gente, con me il misero
corpo trascina tra petti che coccarde
colmano di vile orgoglio. Poi su me
posa lo sguardo. Tristemente gli arde
col pudore che ben conosco; ed è
così mio quello sguardo fraterno!
così profondamente familiare, nel
pensiero che dà a questi atti senso eterno!
E in questo triste sguardo d'intesa,
per la prima volta, dall'inverno
in cui la sua ventura fu appresa,
e mai creduta, mio fratello mi sorride,
mi è vicino. Ha dolorosa e accesa,
nel sorriso, la luce con cui vide,
oscuro partigiano, non ventenne
ancora, come era da decidere
con vera dignità, con furia indenne
d'odio, la nuova nostra storia: e un'ombra,
in quei poveri occhi, umiliante e solenne...
Egli chiede pietà, con quel suo modesto,
tremendo sguardo, non per il suo destino,
ma per il nostro... Ed è lui, il troppo onesto,
il troppo puro, che deve andare a capo chino?
Mendicare un po' di luce per questo
mondo rinato in un oscuro mattino?
Ah, rondini, umilissima voce
dell'umile Italia! Che festa
alle pasquali fonti, alle foci
dei fiumi padani, alla mesta
luce della piazzetta, dei noci,
dei filari a festoni da gelso
a gelso, che ai vostri garriti
verdeggiano più umani! che eccelso
significato in quel vostro perso
groviglio, nuovo, di gridi antichi.
È dentro il tempo dato al puro,
allo struggente passare che
lanciate con sopita furia
quei vostri gridi: in sé,
quieto, li accoglie un già scuro
cielo primaverile, o un'alba,
o un lieto mezzogiorno... E passa,
con lo stupendo tempo che gli alberi
ingemma e spoglia, le ore scialbe
accede, raggela i caldi sassi.
È nel tempo puramente umano,
accoratamente umano, che
s'incide il vostro guizzo vano
di animale dolcezza, è
- insieme prossimo e lontano -
nel tempo che non torna, e torna
sempre sopra il mondo che non ha
rimpianti, a sprofondar la gorna
solatia, l'acre aia, l'adorna
campagna, quasi in perdute età.
È indifferenza o nostalgia
il sentimento - anch'esso umano
e fuggitivo - di chi vi spia,
in quel meriggio, in quel gramo
vespro, perse in turchine scie...
La natura vi dà e la natura
vi esprime nel cuore che stordite.
Il tempo che uguale s'infutura
con sé vi trasporta nell'oscura
monotonia che rinnova le vite.
Ah, non è il tempo della storia,
questo, della vita non perduta,
non sono questi gli alti, incolori
luoghi di una patria divenuta
coscienza oltre la memoria.
Ma dove meglio riconoscerli
che in questi antichissimi incanti
in cui son più vicini? Fossili
d'un'esistenza che ai commossi
occhi, non si svela, si canta?
Dove meglio capire, intera,
la natura che deve farsi
nazione, l'ombra che s'avvera
nella chiarezza? Ah dolci intarsi
che nella vellutata sera
della Venezia, della Lombardi,
- terrorizzata quasi nella
troppa ebbrezza, nella pazzia
che troppo la trascina - pia
la rondine intreccia sulla terra.
Più è sacro dov'è più animale
il mondo: ma senza tradire
la poeticità, l'originaria
forza, a noi tocca esaurire
il suo mistero in bene e in male
umano. Questa è l'Italia, e
non è questa l'Italia: insieme
la preistoria e la storia che
in essa sono convivano, se
la luce è frutto di un buio seme.
Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l'abbaglia
con cieche schiarite... questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio... Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,
tra le vecchie muraglie l'autunnale
maggio. In esso c'è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo...
Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,
quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padri - non padre, ma umile
fratello - già con la tua magra mano
delineavi l'ideale che illumina
(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell'umido
giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia
patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d'incudine
dalle officine di Testaccio, sopito
nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
la sua giornata, mentre intorno spiove.
Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo.
Scelte, dedizioni... altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo 11111s184l
e nobile, in cui caparbio l'inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno
che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grige pietre, corte
e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni
più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell'urne sparse
inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti
uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo
a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà
questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la sera
rasserenando spegne in disadorni
sentori d'alga... quest'erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda
l'atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta
trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda
altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
- familiari da latitudini e
orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come
smeraldi: «And O ye Fountains...» - le pie
invocazioni...
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l'urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci... Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d'adolescente di sesso con morte...)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
- qui nella quiete delle tombe - e insieme
quale ragione - nell'inquieta sorte
nostra - tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme
non ancora disperso dell'antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d'incudini, in sordina,
soffocato e accorante - dal dimesso
rione - ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso... povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in vetrine
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo
l'odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
- con te - il mondo, oggetto non appare
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio - nella sua miseria
sprezzante e perso - per un oscuro
scandalo della coscienza...
Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un'ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell'estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originaria
dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,
a darle l'ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia...
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante
dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
ma a che serve la luce?
Non dico l'individuo, il fenomeno
dell'ardore sensuale e sentimentale...
altri vizi esso ha, altro è il nome
e la fatalità del suo peccare...
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale
oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna
delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce all'inganno.
Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche
le manìe con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza... e ironico ardore
liberale... e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute... Fino alle infime minuzie
in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia... Ben protetto
dall'impura virtù e dall'ebbro peccare,
difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza!, vive l'io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto
il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento... Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio
del vento, qui dov'è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l'anima il cui graffito suona
Shelley... Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico
villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell'avventura, estetica
e puerile: mentre prostrata l'Italia
come dentro il ventre di un'enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,
sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme
col membro gonfio tra gli stracci un sogno
goethiano, il giovincello ciociaro...
Nella Maremma, scuri, di stupende fogne
d'erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciòlo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.
Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,
le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,
dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa... Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico
di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii
del mare... E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza
ne è l'Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome
del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,
in luride spiaggette...
Mi chiederai tu, morto disadorno,
d'abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?
Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea
che al quartiere in penombra si rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende
di una vita smaniosa che del roco
rotolìo dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco
e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami
caseggiati dove si consuma l'infido
ed espansivo dono dell'esistenza -
quella vita non è che un brivido;
corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza
- forse più lieta della vita - come
d'un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione
che per l'operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l'umile corruzione. Quanto più è vano
- in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace -
ogni ideale, meglio è manifesta
la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua
nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine...
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande
lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina... Manca poco alla cena;
brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d'operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,
verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d'immondizia
nell'ombra, rintanate zoccolette
che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti
di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa
vespertina; e scrosciano le saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci
e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.
È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi
eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce... Ma io, con il cuore cosciente
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
Solo l'amare, solo il conoscere
conta, non l'aver amato,
non l'aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L'anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato
della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,
scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche
le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d'esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri
piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti
agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare
ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri - in tuta o coi calzoni
di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori
chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.
Stupenda e misera città,
che m'hai insegnato ciò che allegri e feroci
gli uomini imparano bambini,
le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa
delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato
con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d'estate;
a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire
che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono
fratelli proprio nell'avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi
vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare
esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognuno, era il mondo.
Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra
muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette
lassù, un po' di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell'estate.
Trastevere, in un odore di paglia
di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide
risuonano d'incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
- sotto festoni di luci ormai sole -
verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l'anima era invasa
quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.
Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città
e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno
era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
lunghi crepuscoli davanti alle carte
ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infissi, con tende per porte...
Passavano l'olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l'impolverata merce che pareva
frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.
Rinnovato dal mondo nuovo,
libero - una vampa, un fiato
che non so dire, alla realtà
che umile e sporca, confusa e immensa,
brulicava nella meridionale periferia,
dava un senso di serena pietà.
Un'anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo sconfinato,
cresceva, nutrita dall'allegria
di chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava, a questo amore.
Forse ancora di ragazzo, eroicamente,
e però maturato dall'esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondo
di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,
venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall'agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondo
che poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,
bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali.
Le cartacce e la polvere che cieco
il venticello trascinava qua e là,
le povere voci senza eco
di donnette venute dai monti
Sabini, dall'Adriatico, e qua
accampate, ormai con torme
di deperiti e duri ragazzini
stridenti nelle canottiere a pezzi,
nei grigi, bruciati calzoncini,
i soli africani, le piogge agitate
che rendevano torrenti di fango
le strade, gli autobus ai capolinea
affondati nel loro angolo
tra un'ultima striscia d'erba bianca
e qualche acido, ardente immondezzaio...
era il centro del mondo, com'era
al centro della storia il mio amore
per esso: e in questa
maturità che per essere nascente
era ancora amore, tutto era
per divenire chiaro - era,
chiaro! Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vita
nella sua luce più attuale:
vita, e luce della vita, piena
nel caos non ancora proletario,
come la vuole il rozzo giornale
della cellula, l'ultimo
sventolio del rotocalco: osso
dell'esistenza quotidiana,
pura, per essere fin troppo
prossima, assoluta per essere
fin troppo miseramente umana.
E ora rincaso, ricco di quegli anni
così nuovi che non avrei mai pensato
di saperli vecchi in un'anima
a essi lontana, come a ogni passato.
Salgo i viali del Gianicolo, fermo
da un bivio liberty, a un largo alberato,
a un troncone di mura - ormai al termine
della città sull'ondulata pianura
che si apre sul mare. E mi rigermina
nell'anima - inerte e scura
come la notte abbandonata al profumo -
una semenza ormai troppo matura
per dare ancora frutto, nel cumulo
di una vita tornata stanca e acerba...
Ecco Villa Pamphili, e nel lume
che tranquillo riverbera
sui nuovi muri, la via dove abito.
Presso la mia casa, su un'erba
ridotta a un'oscura bava,
una traccia sulle voragini scavate
di fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia
di distruzione - rampa contro radi palazzi
e pezzi di cielo, inanimata,
una scavatrice...
Che pena m'invade, davanti a questi attrezzi
supini, sparsi qua e là nel fango,
davanti a questo canovaccio rosso
che pende a un cavalletto, nell'angolo
dove la notte sembra più triste?
Perché, a questa spenta tinta di sangue,
la mia coscienza così ciecamente resiste,
si nasconde, quasi per un ossesso
rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?
Perché dentro in me è lo stesso senso
di giornate per sempre inadempite
che è nel morto firmamento
in cui sbianca questa scavatrice?
Mi spoglio in una delle mille stanze
dove a via Fonteiana si dorme.
Su tutto puoi scavare, tempo: speranze
passioni. Ma non su queste forme
pure della vita... Si riduce
ad esse l'uomo, quando colme
siano esperienza e fiducia
nel mondo... Ah, giorni di Rebibbia,
che io credevo persi in una luce
di necessità, e che ora so così liberi!
Insieme al cuore, allora, pei difficili
casi che ne avevano sperduto
il corso verso un destino umano,
guadagnando in ardore la chiarezza
negata, e in ingenuità
il negato equilibrio - alla chiarezza
all'equilibrio giungeva anche,
in quei giorni, la mente. E il cieco
rimpianto, segno di ogni mia
lotta col mondo, respingevano, ecco,
adulte benché inesperte ideologie...
Si faceva, il mondo, soggetto
non più di mistero ma di storia.
Si moltiplicava per mille la gioia
del conoscerlo - come
ogni uomo, umilmente, conosce.
Marx o Gobetti, Gramsci o Croce,
furono vivi nelle vive esperienze.
Mutò la materia di un decennio d'oscura
vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò
che più pareva essere ideale figura
a una ideale generazione;
in ogni pagina, in ogni riga
che scrivevo, nell'esilio di Rebibbia,
c'era quel fervore, quella presunzione,
quella gratitudine. Nuovo
nella mia nuova condizione
di vecchio lavoro e di vecchia miseria,
i pochi amici che venivano
da me, nelle mattine o nelle sere
dimenticate sul Penitenziario,
mi videro dentro una luce viva:
mite, violento rivoluzionario
nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva.
Mi stringe contro il suo vecchio vello,
che profuma di bosco, e mi posa
il muso con le sue zanne di verro
o errante orso dal fiato di rosa,
sulla bocca: e intorno a me la stanza
è una radura, la coltre corrosa
dagli ultimi sudori giovanili, danza
come un velame di pollini... E infatti
cammino per una strada che avanza
tra i primi prati primaverili, sfatti
in una luce di paradiso...
Trasportato dall'onda dei passi,
questa che lascio alle spalle, lieve e misero,
non è la periferia di Roma: «Viva
Mexico!» è scritto a calce o inciso
sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,
decrepiti, leggeri come osso, ai confini
di un bruciante cielo senza un brivido.
Ecco, in cima a una collina
fra le ondulazioni, miste alle nubi,
di una vecchia catena appenninica,
la città, mezza vuota, benché sia l'ora
della mattina, quando vanno le donne
alla spesa - o del vespro che indora
i bambini che corrono con le mamme
fuori dai cortili della scuola.
Da un gran silenzio le strade sono invase:
si perdono i selciati un po' sconnessi,
vecchi come il tempo, grigi come il tempo,
e due lunghi listoni di pietra
corrono lungo le strade, lucidi e spenti.
Qualcuno, in quel silenzio, si muove:
qualche vecchia, qualche ragazzetto
perduto nei suoi giuochi, dove
i portali di un dolce Cinquecento
s'aprano sereni, o un pozzetto
con bestioline intarsiate sui bordi
posi sopra la povera erba,
in qualche bivio o canto dimenticato.
Si apre sulla cima del colle l'erma
piazza del comune, e fra casa
e casa, oltre un muretto, e il verde
d'un grande castagno, si vede
lo spazio della valle: ma non la valle.
Uno spazio che tremola celeste
o appena cereo... Ma il Corso continua,
oltre quella familiare piazzetta
sospesa nel cielo appenninico:
s'interna fra case più strette, scende
un po' a mezza costa: e più in basso
- quando le barocche casette diradano -
ecco apparire la valle - e il deserto.
Ancora solo qualche passo
verso la svolta, dove la strada
è già tra nudi praticelli erti
e ricciuti. A manca, contro il pendio,
quasi fosse crollata la chiesa,
si alza gremita di affreschi, azzurri,
rossi, un'abside, pèsta di volute
lungo le cancellate cicatrici
del crollo - da cui soltanto essa,
l'immensa conchiglia, sia rimasta
a spalancarsi contro il cielo.
È lì, da oltre la valle, dal deserto,
che prende a soffiare un'aria, lieve, disperata,
che incendia la pelle di dolcezza...
È come quegli odori che, dai campi
bagnati di fresco, o dalle rive di un fiume,
soffiano sulla città nei primi
giorni di bel tempo: e tu
non li riconosci, ma impazzito
quasi di rimpianto, cerchi di capire
se siano di un fuoco acceso sulla brina,
oppure di uve o nespole perdute
in qualche granaio intiepidito
dal sole della stupenda mattina.
Io grido di gioia, così ferito
in fondo ai polmoni da quell'aria
che come un tepore o una luce
respiro guardando la vallata
.......... ..... ...... ...................
Un po' di pace basta a rivelare
dentro il cuore l'angoscia,
limpida, come il fondo del mare
in un giorno di sole. Ne riconosci,
senza provarlo, il male
lì, nel tuo letto, petto, coscie
e piedi abbandonati, quale
un crocifisso - o quale Noè
ubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro
dell'allegria dei figli, che
su lui, i forti, i puri, si divertono...
il giorno è ormai su di te,
nella stanza come un leone dormente.
Per quali strade il cuore
si trova pieno, perfetto anche in questa
mescolanza di beatitudine e dolore?
Un po' di pace... E in te ridesta
è la guerra, è Dio. Si distendono
appena le passioni, si chiude la fresca
ferita appena, che già tu spendi
l'anima, che pareva tutta spesa,
in azioni di sogno che non rendono
niente... Ecco, se acceso
alla speranza - che, vecchio leone
puzzolente di vodka, dall'offesa
sua Russia giura Krusciov al mondo -
ecco che tu ti accorgi che sogni.
Sembra bruciare nel felice agosto
di pace, ogni tua passione, ogni
tuo interiore tormento,
ogni tua ingenua vergogna
di non essere - nel sentimento -
al punto in cui il mondo si rinnova.
Anzi, quel nuovo soffio di vento
ti ricaccia indietro, dove
ogni vento cade: e lì, tumore
che si ricrea, ritrovi
il vecchio crogiolo d'amore,
il senso, lo spavento, la gioia.
E proprio in quel sopore
è la luce... in quella incoscienza
d'infante, d'animale o ingenuo libertino
è la purezza... i più eroici
furori in quella fuga, il più divino
sentimento in quel basso atto umano
consumato nel sonno mattutino.
Nella vampa abbandonata
del sole mattutino - che riarde,
ormai, radendo i cantieri, sugli infissi
riscaldati - disperate
vibrazioni raschiano il silenzio
che perdutamente sa di vecchio latte,
di piazzette vuote, d'innocenza.
Già almeno dalle sette, quel vibrare
cresce col sole. Povera presenza
d'una dozzina d'anziani operai,
con gli stracci e le canottiere arsi
dal sudore, le cui voci rare,
le cui lotte contro gli sparsi
blocchi di fango, le colate di terra,
sembrano in quel tremito disfarsi.
Ma tra gli scoppi testardi della
benna, che cieca sembra, cieca
sgretola, cieca afferra,
quasi non avesse meta,
un urlo improvviso, umano,
nasce, e a tratti si ripete,
così pazzo di dolore, che, umano,
subito non sembra più, e ridiventa
morto stridore. Poi, piano,
rinasce, nella luce violenta,
tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,
urlo che solo chi è morente,
nell'ultimo istante, può gettare
in questo sole che crudele ancora splende
già addolcito da un po' d'aria di mare...
A gridare è, straziata
da mesi e anni di mattutini
sudori - accompagnata
dal muto stuolo dei suoi scalpellini,
la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco
sterro sconvolto, o, nel breve confine
dell'orizzonte novecentesco,
tutto il quartiere... È la città,
sprofondata in un chiarore di festa,
- è il mondo. Piange ciò che ha
fine e ricomincia. Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch'è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera
di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch'è spento dolore.
Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante
di ferirci: è qui, che brucia
in ogni nostro atto quotidiano,
angoscia anche nella fiducia
che ci dà vita, nell'impeto gobettiano
verso questi operai, che muti innalzano,
nel rione dell'altro fronte umano,
il loro rosso straccio di speranza.
Buio è quasi il meriggio nel lucore
terreo del coppedè vivace
e del marmo fascista, già incolore
quasi disusata divisa d'orbace
di cinici antemarcia non più di primo pelo,
in una sporca fotografia; giace
schermato il sole come in un velo
di grassi, di carta carbone,
di polvere alzata dagli urti sul nero
fondo dei tricicli, dalle gomme
dei filobus che ansando ai semafori
scendono soffici in una pressione
avara, pazzi per mafia
o nevrastenia: e svoltano verdi
per via Quattro Novembre, nell'afa...
È la sera che scende, ancor lontana:
come una tempesta, quando addensa
a un tratto le nuvole, ma le dipana
poi lentamente - della sua violenza
abbandonando in cielo la minaccia.
Scolorato il sole fa più intensa
la sua luce, e ogni strada, ogni piazza
quasi in silenzio brulica al frastuono
d'una gente, ch'è solo folla, razza.
«L'ora è confusa, e noi come perduti
la viviamo...», mi mormoravi, amaro,
disilluso di ciò che hai avuto
per dieci anni dentro, così chiaro
che tra mondo e mente quasi era un idillio:
e ha la tua stanchezza - un po' volgare -
una smorfia di vecchio figlio
di immigrati meridionali
affamati e vili dietro il cipiglio
di poveri arrivati, d'ingenui dottrinari.
Hai voluto che la tua vita fosse
una lotta. Ed eccola ora sui binari
morti, ecco cascare le rosse
bandiere, senza vento. Hai
quarant'anni, con sorriso e mosse
- come quelle di chi non spegne mai
il vecchio fuoco - giovanili.
E, spento, regredito ai padri, ti dai
a me, con la confidenza dei febbrili
moti dell'amicizia, e con il calcolo
di chi, inconscio, invano non si umili.
E io... io cedo: posso soltanto
appassionarmi, come sempre: pazzo,
ché dovrei tacere, non offrire il fianco,
non confessare che sono un ragazzo,
ancora, eternamente indifeso;
che non sempre la passione è grazia.
Lo so, spesso ciò che ho avuto ho reso
con un atto che non è diverso
dall'arsione del lampo al magnesio.
Ho fissato col mio occhio inesperto
diventato atrocemente esperto - umile
fotografo che la notte inerte
batte dietro l'immoto miraggio del costume -
gli inutili angoli sperduti
del mondo, con qualche grido, qualche lume,
qualche parola di uomini venduti
nei più scuri mercati della vita.
Ne ho riportato attestati muti
d'allegria in cuore a una città nemica.
Grande, di questa città, è la notte,
e misera: mille fiati di scheletrita
luce getta il flash su file dirotte
di gioventù, torrenti di motori,
laghi d'angoli bui tra palpitanti grotte
e inanimati grattacieli. Ma, in cuore,
ognuno dei mille atti è lo stesso.
Uno, delle mille allegrie, il dolore.
Muti attestati di un popolo oppresso
e non conscio, diviso in scantinati,
tuguri, lotti - proletariato che il sesso
e il terrore tengono attaccato
alle sue strade di fango: ma, per strade
nuove - ancora ignote - a lui segnato
da avidità e cinismo, l'anima invade
la fame della storia. È già vecchio
il piano di lotta di ieri, cade
a pezzi sui muri il più fresco manifesto.
Muta, in una qualunque notte, il congegno
che fa la conoscenza luce dell'oggetto.
E la vita riappare più viva: segno
che qualcosa, in chi la viveva, muore.
Essa è proceduta nel disegno
che non ha fine: ma il vostro dolore
di non esserne più sul primo fronte,
sarebbe più puro, se nell'ora
in cui l'errore, anche se puro, si sconta,
aveste la forza di dirvi colpevoli.
Ma troppo fonda è, in voi, l'impronta
della lotta compiuta, nel grande e breve
decennio: vi siete assuefatti,
voi, servi della giustizia, leve
della speranza, ai necessari atti
che umiliano il cuore e la coscienza.
Al voluto tacere, al calcolato
parlare, al denigrare senza
odio, all'esaltare senza amore;
alla brutalità della prudenza
e all'ipocrisia del clamore.
Avete, accecati dal fare, servito
il popolo non nel suo cuore
ma nella sua bandiera: dimentichi
che deve in ogni istituzione
sanguinare, perché non torni mito,
continuo il dolore della creazione.
Come altri compagni di strada,
il mistico rigore d'un'azione
sempre pari all'idea, non vi chiedo: si paga,
anche questo, con l'aridità. Chi è ossesso
dal timore di essere ciò che fu nei gradi
del suo cammino, ciò che espresse
in ingenui ritorni al popolo, in amori
d'inerme umanitario, in regressi
alla carità - non è. È all'errore
che io vi spingo, al religioso
errore... Si riapre, nel rosso sole
del meriggio d'autunno ancora afoso,
in un'aria di morte, la vostra
festa. Misero e fazioso
è il brusio. Sparge in una chiostra
fra i tronchi freddi falsamente vivace,
le superfici candide la mostra
dei dieci anni d'ingiallite audacie.
Cento baracchette - dove quanto più
ciò che al popolo umilmente piace
cinicamente appare inattuale virtù
di plebe, tanto più è esaltato,
con ingenua ipocrisia, - su
per le misere gobbe, i bagnati
pendii di Villa Glori, empiono l'aria
primaverile della morente estate
di antichi frastuoni di sagra
alla deriva... A migliaia gli iscritti,
piovendo dai rioni dei paria,
vengono all'assalto, si accampano, fitti,
animosi. Snodati i ragazzi
dentro i panni festivi, ricchi
di nastri, fazzoletti, sono come pazzi
di pregustata gioia sotto i cappelli
messicani, rossi come sangue, e tra spiazzi
e albereti, si muovono in drappelli
disordinati, in branchi, soli,
masticando gomma americana, nella
loro generosità senza pudore.
Gli uomini, già perduti in un'abbietta
ubriachezza, nascosta come un dolore,
si portano dietro la famiglia, stretta
intorno alla sporta della merenda,
quasi guide verso la povera vetta...
E là in cima, sotto una tenda
investita dall'incendio senza calore
di cui metà del cielo risplende,
il palco, vuoto. Nulla accora
più di questa innaturale festa.
Tra i gridi più alti, affiora
fondo il silenzio. Nulla resta
di vivo: neanche i colpi acerbi
dei giovincelli pugili, in questa
arena tra i pini, improvvisata, superbi
sopra il piccolo ring, ai gridi
del pubblico accecato da diverbi
ironici e cattivi, allegri e infidi.
Eppure all'appressarsi del momento
più atteso della sera, ha un brivido
umano questo irretimento
di morte: ma non sai ancora
se a più intenso dolore o a più intenso
amore. D'improvviso, nell'aria ormai viola,
la folla nel parco sfigurato
è perduta in silenzi ed in clamori
d'altra vita, di sterminato
esercito, acclamante o in disfatta,
nell'ombra, di un vespro dimenticato.
Come un tremito o una cieca risacca
passa sulla folla. disordinata tra i clivi,
i prati senza erba, le baracche,
una musica intonata dalle bande
sparse qua e là, luccicando l'ottone
tra magliette e coccarde rosse,
nell'ingorgo del fiume senza nome.
Ed ecco, incerto, un vecchio si leva
dalla testa bianca il berretto,
afferra nella nuova ventata di passione
una bandiera retta sulle spalle
da uno che gli è davanti, al petto
se la stringe, e poi mentre cantano
tutti, affratellati intorno alle gialle
trombe paesane, si pianta
sulle vacillanti gambe, e scuote
al tempo la bandiera a lui santa
sopra le teste, cantando con voce
rauca, di povero manovale ubriaco.
Poi il canto, che s'era levato
gioioso, disperato, cessa, e il vecchio
lascia cadere la bandiera, e lento,
con le lacrime agli occhi,
si ricalca in capo il suo berretto.
Su questa baraonda della Villa, il buio
che sommerge la disperata allegria,
è, forse, più l'ombra del dubbio
che la precoce notte. È la nostalgia
dei vecchi tempi, la paura, pur bandita,
dell'errore, che spira tanta malinconia
- non l'aria d'autunno, o una sopita
pioggia - sulla sfiorita festa.
Ma in questa malinconia è la vita.
Dove vai per le strade di Roma,
sui filobus o i tram in cui la gente
ritorna? In fretta, ossesso, come
ti aspettasse il lavoro paziente
da cui a quest'ora gli altri rincasavano?
È il primo dopocena, quando il vento
sa di calde miserie familiari
perse nelle mille cucine, nelle
lunghe strade illuminate,
su cui più chiare spiano le stelle.
Nel quartiere borghese, c'è la pace
di cui ognuno dentro si contenta,
anche vilmente, e di cui vorrebbe
piena ogni sera della sua esistenza.
Ah, essere diverso - in un mondo che pure
è in colpa - significa non essere innocente...
Va, scendi, lungo le svolte oscure
del viale che porta a Trastevere:
ecco, ferma e sconvolta, come
dissepolta da un fango di altri evi
- a farsi godere da chi può strappare
un giorno ancora alla morte e al dolore -
hai ai tuoi piedi tutta Roma...
Scendo, attraverso Ponte Garibaldi,
seguo la spalletta con le nocche
contro l'orlo rosicchiato della pietra,
dura nel tepore che la notte
teneramente fiata, sulla svolta
dei caldi platani. Lastre d'una smorta
sequenza, sull'altra sponda, empiono
il cielo dilavato, plumbei, piatti,
gli attici dei caseggiati giallastri.
E io guardo, camminando per i lastrici
slabbrati, d'osso, o meglio odoro,
prosaico ed ebbro - punteggiato d'astri
invecchiati e di finestre sonore -
il grande rione familiare:
la buia estate lo indora,
umida, tra le sporche zaffate
che il vento piovendo dai laziali
prati spande su rotaie e facciate.
E come odora, nel caldo così pieno
da esser esso stesso spazio,
il muraglione, qui sotto:
da ponte Sublicio fino sul Gianicolo
il fetore si mescola all'ebbrezza
della vita che non è vita.
Impuri segni che di qui sono passati
vecchi ubriachi di Ponte, antiche
prostitute, frotte di sbandata
ragazzaglia: impure traccie
umane che, umanamente infette,
son lì a dire, violente e quiete,
questi uomini, i loro bassi diletti
innocenti, le loro misere mete.
Vanno verso le Terme di Caracalla
giovani amici, a cavalcioni
di Rumi o Ducati, con maschile
pudore e maschile impudicizia,
nelle pieghe calde dei calzoni
nascondendo indifferenti, o scoprendo,
il segreto delle loro erezioni...
Con la testa ondulata, il giovanile
colore dei maglioni, essi fendono
la notte, in un carosello
sconclusionato, invadono la notte,
splendidi padroni della notte...
Va verso le Terme di Caracalla,
eretto il busto, come sulle natìe
chine appenniniche, fra tratturi
che sanno di bestia secolare e pie
ceneri di berberi paesi - già impuro
sotto il gaglioffo basco impolverato,
e le mani in saccoccia - il pastore migrato
undicenne, e ora qui, malandrino e giulivo
nel romano riso, caldo ancora
di salvia rossa, di fico e d'ulivo...
Va verso le Terme di Caracalla,
il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
che il feroce Frascati ha ridotto
a una bestia cretina, a un beato,
con nello chassì i ferrivecchi
del suo corpo scassato, a pezzi,
rantolanti: i panni, un sacco,
che contiene una schiena un po' gobba,
due coscie certo piene di croste,
i calzonacci che gli svolazzano sotto
le saccocce della giacca pese
di lordi cartocci. La faccia
ride: sotto le ganasce, gli ossi
masticano parole, scrocchiando:
parla da solo, poi si ferma,
e arrotola il vecchio mozzicone,
carcassa dove tutta la giovinezza,
resta, in fiore, come un focaraccio
dentro una còfana o un catino:
non muore chi non è mai nato.
Vanno verso le Terme di Caracalla
.......... ..... ...... .................
Sesso, consolazione della miseria!
La puttana è una regina, il suo trono
è un rudere, la sua terra un pezzo
di merdoso prato, il suo scettro
una borsetta di vernice rossa:
abbaia nella notte, sporca e feroce
come un'antica madre: difende
il suo possesso e la sua vita.
I magnaccia, attorno, a frotte,
gonfi e sbattuti, coi loro baffi
brindisini o slavi, sono
capi, reggenti: combinano
nel buio, i loro affari di cento lire,
ammiccando in silenzio, scambiandosi
parole d'ordine: il mondo, escluso, tace
intorno a loro, che se ne sono esclusi,
silenziose carogne di rapaci.
Ma nei rifiuti del mondo, nasce
un nuovo mondo: nascono leggi nuove
dove non c'è più legge; nasce un nuovo
onore dove onore è il disonore...
Nascono potenze e nobiltà,
feroci, nei mucchi di tuguri,
nei luoghi sconfinati dove credi
che la città finisca, e dove invece
ricomincia, nemica, ricomincia
per migliaia di volte, con ponti
e labirinti, cantieri e sterri,
dietro mareggiate di grattacieli,
che coprono interi orizzonti.
Nella facilità dell'amore
il miserabile si sente uomo:
fonda la fiducia nella vita, fino
a disprezzare chi ha altra vita.
I figli si gettano all'avventura
sicuri d'essere in un mondo
che di loro, del loro sesso, ha paura.
La loro pietà è nell'essere spietati,
la loro forza nella leggerezza,
la loro speranza nel non avere speranza.
Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c'è come l'aria d'un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n'hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce piene.
Se lavorano - lavoro di mafiosi macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani - avviene
che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene...
Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un'anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati...
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l'angosciosa scommessa,
a dirsi: «È fatta,» con un ghigno di re...
La nostra speranza è ugualmente ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
Ma che colpo al cuore, quando, su un liso
cartellone... Mi avvicino, guardo il colore
già d'un altro tempo, che ha il caldo viso
ovale, dell'eroina, lo squallore
eroico del povero, opaco manifesto.
Subito entro: scosso da un interno clamore,
deciso a tremare nel ricordo,
a consumare la gloria del mio gesto.
Entro nell'arena, all'ultimo spettacolo,
senza vita, con grige persone,
parenti, amici, sparsi sulle panche,
persi nell'ombra in cerchi distinti
e biancastri, nel freddo ricettacolo...
Subito, alle prime inquadrature,
mi travolge e rapisce... l'intermittence
du coeur. Mi trovo nelle scure
vie della memoria, nelle stanze
misteriose dove l'uomo fisicamente è altro,
e il passato lo bagna col suo pianto...
Eppure, dal lungo uso fatto esperto,
non perdo i fili: ecco... la Casilina,
su cui tristemente si aprono
le porte della città di Rossellini...
Ecco l'epico paesaggio neorealista,
coi fili del telegrafo, i selciati, i pini,
i muretti scrostati, la mistica
folla perduta nel daffare quotidiano,
le tetre forme della dominazione nazista...
Quasi emblema, ormai, l'urlo della Magnani,
sotto le ciocche disordinatamente assolute,
risuona nelle disperate panoramiche,
e nelle sue occhiate vive e mute
si addensa il senso della tragedia.
È lì che si dissolve e si mutila
il presente, e assorda il canto degli aedi.
Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano,
l'analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
Vengo da te e torno a te,
sentimento nato con la luce, col caldo,
battezzato quando il vagito era gioia,
riconosciuto in Pier Paolo
all'origine di una smaniosa epopea:
ho camminato alla luce della storia,
ma, sempre, il mio essere fu eroico,
sotto il tuo dominio, intimo pensiero.
Si coagulava nella tua scia di luce
nelle atroci sfiducie
della tua fiamma, ogni atto vero
del mondo, di quella
storia: e in essa si verificava intero,
vi perdeva la vita per riaverla:
e la vita era reale solo se bella...
La furia della confessione,
prima, poi la furia della chiarezza:
era da te che nasceva, ipocrita, oscuro
sentimento! E adesso,
accusino pure ogni mia passione,
m'infanghino, mi dicano informe, impuro
ossesso, dilettante, spergiuro:
tu mi isoli, mi dai la certezza della vita:
sono nel rogo, gioco la carta del fuoco,
e vinco, questo mio poco,
immenso bene, vinco quest'infinita,
misera mia pietà
che mi rende anche la giusta ira amica:
posso farlo, perché ti ho troppo patita!
Torno a te, come torna
un emigrato al suo paese e lo riscopre:
ho fatto fortuna (nell'intelletto)
e sono felice, proprio
com'ero un tempo, destituito di norma.
Una nera rabbia di poesia nel petto.
Una pazza vecchiaia di giovinetto.
Una volta la tua gioia era confusa
con il terrore, è vero, e ora
quasi con altra gioia,
livida, arida: la mia passione delusa.
Mi fai ora davvero paura,
perché mi sei davvero vicina, inclusa
nel mio stato di rabbia, di oscura
fame, di ansia quasi di nuova creatura.
Sono sano, come vuoi tu,
la nevrosi mi ramifica accanto,
l'esaurimento mi inaridisce, ma
non mi ha: al mio fianco
ride l'ultima luce di gioventù.
Ho avuto tutto quello che volevo, ormai:
sono anzi andato anche più in là
di certe speranze del mondo: svuotato,
eccoti lì, dentro di me, che empi
il mio tempo e i tempi.
Sono stato razionale e sono stato
irrazionale: fino in fondo.
E ora... ah, il deserto assordato
dal vento, lo stupendo e immondo
sole dell'Africa che illumina il mondo.
Africa! Unica mia
alternativa .......... ..... ...... ...................
.......... ..... ...... .......... ..... ...... .....
Io sono un debole, non lo sa nessuno.
C'è una Forza, e io la eleggo a sola
forza del mondo: Dio. La mia storia,
la nostra storia, è soltanto un fumo.
Per il nemico non posso avere amore.
Democratico, sei un debole uomo,
e, per mano mia, sarai vinto:
dovrà tacere in te l'atroce istinto
alla libertà. Forse avrai da Dio perdono:
da me no: io uccido, non convinco.
Io sono un nano, e non voglio saperlo.
C'è una grandezza, e in essa m'identifico.
La grandezza è la patria. Mi magnifico
in essa, lapide sopra il mio inferno.
Non ho odio pel nemico, io: ne ho schifo.
Sei un nano, democratico! Io, io,
io so, io ho la luce: tu no.
Per questo io ti impiccherò,
sacrilega coscienza del mio
amore per la grandezza che non ho.
Io sono un mediocre, e non c'è prova.
Per questo è sublime la mia idea
della Famiglia, l'umile epopea
del corso increato che mi giova
ogni giorno. Ho disprezzo per chi crea.
Tu sei un mediocre, democratico!
Per questo, se ne ho l'ordine, ti ammazzo.
Eh già! uno del plotone, uno del mazzo!
La finirai di fare il fanatico
idealista, ti leverai dal c....!
Io sono un fallito: posso ammetterlo?
No, certo! Perciò con la paglietta
di traverso, compio la vendetta
con umorismo, con umiltà dialettica:
so l'Ideale, e detesto chi lo infetta.
Quanto a te, democratico fallito,
guarda che io, scherzando, so sparare:
reduce dai fronti d'Oltremare,
là dove tu, vigliacco, ci hai tradito,
posso uccidere in te l'Anti-ideale.
Io sono anormale, e, saperlo, non devo.
Isterico e ricattatore mi richiamo
alla Norma. Quanto più mi allontano
da me, in un cursus honorum ch'è sollievo
tragico, tanto più ripudio ciò che amo.
La tua diversità, democratico, è anormale:
io ti condanno alle buie zone
della schizofrenia, nella mia funzione
di Magistrato o Uomo d'Ordine: tremare
devi, tremare!, tu, scandalo e passione.
Io sono un servo: ma dirmelo è reato.
E chi può entrare nella mia coscienza?
Un servo è un mistero: vive senza
vita, fin da piccolo: figlio dedicato
all'Autorità, per antica obbedienza.
So che tu sei, democratico, un servo,
un servo di altri idoli o nazioni.
Non crederai che io te la perdoni!
Un servo umile uccide quello superbo:
aspetta solo un cenno dei padroni.
Io sono un decadente, e lo rifiuto.
C'è un livello stupendo, dove canta
il soldato, e la massaia è santa:
il livello dove splende la salute.
Chi non è sano rovina la pianta.
Marcio democratico, col bisturi
ti resecherò come cancrena:
dolce è la pianta della vita serena
e tu co'l negar tuo la rattristi.
Sì, ti schiaccerò: D'Annunzio insegna.
Io sono un mite: ma ne ho il pudore.
Fin da ragazzo nella mia cittadina
di provincia, la mia era una vita bizantina.
E così oggi che sono professore.
Il Conformismo è la mia medicina.
Democratico, illuso conformista
di altre idee, tu sei un me stesso
rovesciato, ma ugualmente ossesso.
Perciò ti ucciderò, quasi per mistica
elezione, Pindaro buffone del progresso!
Io sono un immorale, e lo nascondo.
Con questo vizio, benché nato bene
- nonni ex leoni e nonne ex iene,
perciò padre ricco - son venuto al mondo.
È la Morale, così, che mi sostiene.
Democratico, che tu sia un immorale
mi pare ovvio, dato che tu critichi
la mia morale. Ti si deve azzittare,
vai condannato ad un carcere a vita:
e lì magari diventa immortale.
Io sono un porco, ma privatamente.
Piccolo borghese, una posizione
discreta, certamente! Diciamo generone,
con negozio al Tritone... Per frenare la gente
occorre il Buon Costume: è mia convinzione.
Porco democratico, sta attento!
'Na cortellata in panza, si sta poco
a dartela, zozzone: col fuoco
non si scherza, non c'è argomento
pel piccolo borghese: il gioco è gioco.
Io sono un povero, e ne sono umiliato.
Odio la povertà, e covo, traditore,
la religione del Possesso in cuore.
Attendo il giorno che sarò rispettato,
fuori dagli altri, fuori dalla storia.
Anche tu, democratico, sei povero:
perché mi togli l'interiore speranza?
Ma il popolo sa il pericolo che avanza:
vai liquidato, tu e le tue nuove
filosofie: noi ci teniamo l'ignoranza.
Io sono un capitalista, e lo so.
Deboli, nani, mediocri, falliti,
anormali, servi, decadenti, miti
immorali, porci, miseri: li do
al tuo Brecht, nuove maschere politiche.
Democratico classista, tu che sai
che non sanno ciò che sono, e sono
ciò che non sanno, non avrai perdono:
in quale nuovo Buchenwald morrai,
fetide ossa senza luce e nome.
Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d'esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate, a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete?
Madri vili, con nel viso il timore
antico, quello che come un male
deforma i lineamenti in un biancore
che li annebbia, li allontana dal cuore,
li chiude nel vecchio rifiuto morale.
Madri vili, poverine, preoccupate
che i figli conoscano la viltà
per chiedere un posto, per essere pratici,
per non offendere anime privilegiate,
per difendersi da ogni pietà.
Madri mediocri, che hanno imparato
con umiltà di bambine, di noi,
un unico, nudo significato,
con anime in cui il mondo è dannato
a non dare né dolore né gioia.
Madri mediocri, che non hanno avuto
per voi mai una parola d'amore,
se non d'un amore sordidamente muto
di bestia, e in esso v'hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore.
Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l'antico, vergognoso segreto
d'accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice.
Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi!
Ecco, vili, mediocri, servi,
feroci, le vostre povere madri!
Che non hanno vergogna a sapervi
- nel vostro odio - addirittura superbi,
se non è questa che una valle di lacrime.
È così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.
Ci vediamo in proiezione, ed ecco
la città, in una sua povera ora nuda,
terrificante come ogni nudità.
Terra incendiata il cui incendio
spento stasera o da millenni,
è una cerchia infinita di ruderi rosa,
carboni e ossa biancheggianti, impalcature
dilavate dall'acqua e poi bruciate
da nuovo sole. La radiosa Appia
che formicola di migliaia di insetti
- gli uomini d'oggi - i neorealistici
ossessi delle Cronache in volgare.
Poi compare Testaccio, in quella luce
di miele proiettata sulla terra
dall'oltretomba. Forse è scoppiata,
la Bomba, fuori dalla mia coscienza.
Anzi, è così certamente. E la fine
del Mondo è già accaduta: una cosa
muta, calata nel controluce del crepuscolo.
Ombra, chi opera in questa èra.
Ah, sacro Novecento, regione dell'anima
in cui l'Apocalisse è un vecchio evento!
Il Pontormo con un operatore
meticoloso, ha disposto cantoni
di case giallastre, a tagliare
questa luce friabile e molle,
che dal cielo giallo si fa marrone
impolverato d'oro sul mondo cittadino...
e come piante senza radice, case e uomini,
creano solo muti monumenti di luce
e d'ombra, in movimento: perché
la loro morte è nel loro moto.
Vanno, come senza alcuna colonna sonora,
automobili e camion, sotto gli archi,
sull'asfalto, contro il gasometro,
nell'ora, d'oro, di Hiroscima,
dopo vent'anni, sempre più dentro
in quella loro morte gesticolante: e io
ritardatario sulla morte, in anticipo
sulla vita vera, bevo l'incubo
della luce come un vino smagliante.
Nazione senza speranze! L'Apocalisse
esploso fuori dalle coscienze
nella malinconia dell'Italia dei Manieristi,
ha ucciso tutti: guardateli - ombre
grondanti d'oro nell'oro dell'agonia.
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile...
[...]
Di quel biancore fu il sole vero,
di quel biancore furono i muri delle fabbriche,
di quel biancore
fu la stessa polvere (nei pomeriggi secchi, quando
il giorno prima è un poco piovuto),
di quel biancore furono gli stracci di lana,
le giacchettacce bige e i calzoni sfilacciati
degli operai
che avrebbero potuto essere ancora partigiani:
di quel biancore
fu la calura della nuova primavera,
oppressa dal ricordo di altre primavere
sepolte da secoli
in quegli stessi sobborghi e paesi,
- e pronte, Dio!,
pronte a rinascere,
su quei muretti, su quelle strade.
Su quei muretti, su quelle strade,
imbevuti di strano profumo,
dove fiorivano rossi nel tepore
i meli, i ciliegi: e il loro colore rosso
aveva una brunitura, come
se fosse immerso in un'aria di caldo temporale,
un rosso quasi marrone, ciliege come prugne,
pometti come susine, che occhieggiavano,
tra le brune, intense
trame del fogliame, calmo, quasi la primavera
non avesse fretta,
volesse godersi quel tepore in cui fiatava il mondo
ardente, nella vecchia speranza, d'una speranza nuova.
E, su tutto, lo sventolio,
l'umile, pigro sventolio
delle bandiere rosse. Dio!, belle bandiere
degli Anni Quaranta!
A sventolare una sull'altra, in una folla di tela
povera, rosseggiante, di un rosso vero,
che traspariva con la fulgida miseria
delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie
- e col fuoco delle ciliege, dei pomi, violetto
per l'umidità, sanguigno per un po' di sole che lo colpiva,
ardente rosso affastellato e tremante,
nella tenerezza eroica d'un'immortale stagione!
(Stesura, in «cursus» di linguaggio «gergale» corrente, dell'antefatto: Fiumicino, il vecchio castello e una prima idea vera della morte).
Come in un film di Godard: solo
in una macchina che corre per le autostrade
del Neo-capitalismo latino - di ritorno dall'aeroporto -
[là è rimasto Moravia, puro fra le sue valige]
solo, «pilotando la sua Alfa Romeo»
in un sole irriferibile in rime
non elegiache, perché celestiale
- il più bel sole dell'anno -
come in un film di Godard:
sotto quel sole che si svebaa immobile
unico,
il canale del porto di Fiumicino
- una barca a motore che rientrava inosservata
- i marinai napoletani coperti di cenci di lana
- un incidente stradale, con poca folla intorno...
- come in un film di Godard - riscoperta
del romanticismo in sede
di neocapitalistico cinismo, e crudeltà -
al volante
per la strada di Fiumicino,
ed ecco il castello (che dolce
mistero, per lo sceneggiatore francese,
nel turbato sole senza fine, secolare,
questo bestione papalino, coi suoi merli,
sulle siepi e i filari della brutta campagna
dei contadini servi)...
- sono come un gatto bruciato vivo,
pestato dal copertone di un autotreno,
impiccato da ragazzi a un fico,
ma ancora almeno con sei
delle sue sette vite,
come un serpe ridotto a poltiglia di sangue
un'anguilla mezza mangiata
- le guance cave sotto gli occhi abbattuti,
i capelli orrendamente diradati sul cranio
le braccia dimagrite come quelle di un bambino
- un gatto che non crepa, Belmondo
che «al volante della sua Alfa Romeo»
nella logica del montaggio narcisistico
si stacca dal tempo, e v'inserisce
Se stesso:
in immagini che nulla hanno a che fare
con la noia delle ore in fila...
col lento risplendere a morte del pomeriggio...
La morte non è
nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi.
E questo bestione papalino, non privo
di grazia - il ricordo
delle rustiche concessioni padronali,
innocenti, in fondo, com'erano innocenti
le rassegnazioni dei servi -
nel sole che fu,
nei secoli,
per migliaia di meriggi,
qui, il solo ospite,
questo bestione papalino, merlato
accucciato tra pioppeti di maremma,
campi di cocomeri, argini,
questo bestione papalino blindato
da contrafforti del dolce color arancio
di Roma, screpolati
come costruzioni di etruschi o romani,
sta per non poter più essere compreso.
«Dio mio, ma allora cos'ha
lei all'attivo?...»
«Io? - [un balbettio, nefando
non ho preso l'optalidon, mi trema la voce
di ragazzo malato] -
Io? Una disperata vitalità.»
Torno, ritrovo il fenomeno della fuga
del capitale, l'epifenomeno (infimo)
dell'avanguardia. La polizia tributaria
(quasi accertamento filosofico
sugli incartamenti di un poeta)
fruga in quel fatto privato che sono i soldi,
contaminati da carità, dolenti
di inspiegabili consunzioni, e pieni
di senso di colpa, come il corpo da ragazzi:
però con mia gongolante leggerezza perché qua,
non c'è da accertare nulla, se non la mia ingenuità.
Torno, e trovo milioni di uomini occupati
soltanto a vivere come barbari discesi
da poco su una terra felice, estranei
ad essa, e suoi possessori. Così nella vigilia
della Preistoria che a tutto ciò darà senso,
riprendo a Roma le mie abitudini
di bestia ferita, che guarda negli occhi,
godendo del morire, i suoi feritori...
[...]
Io sono distrutto, o almeno trasformato
fino a non riconoscermi, perché in me
è distrutta la legge, che -
fino a questo momento -
mi aveva reso fratello agli altri:
un ragazzo normale, o almeno non anormale,
o anormale come tutti... Anche se
(c'è bisogno di dirlo?) pieno
di tutti gli errori che la mia classe
e il mio livello sociale in essa,
porta con sé - e che comunque il privilegio risarcisce.
Nonostante questo,
io, prima che tu entrassi nella mia vita -
rimettendola in discussione
e trasformandola in un cumulo di macerie -
ero come tutti i miei compagni.
È dunque attraverso la distruzione di tutto ciò
che mi rendeva uguale agli altri,
che io divento
- cosa inaudita e inaccettabile - un diverso.
Questa diversità, mi si rivela d'improvviso:
fino a questo momento essa era stata nascosta
dall'instabile ebbrezza che avevo raggiunto
(illudendomi, di potermi tacere
tutto per sempre), con la tua presenza.
Chi mi ha reso diverso (cosa meravigliosa!) mi è stato vicino.
E mi ha distratto così con l'intensità e il sapore
inesprimibile che il suo sesso
aveva dato alla mia vita.
La paura e l'ansia di non averti più vicino
a soddisfare il mio desiderio di vederti e toccarti
dove tu mi sei compagno, ma più giovane e fresco,
come un bambino, e più maturo e potente,
come un padre che non sa quanto sia divino
il suo semplice membro -
è ben diversa dalla coscienza
di dover perderti per tanto tempo, forse per sempre.
È la coscienza della perdita
che mi dà la coscienza della mia diversità.
Che cosa succederà da questa notte in poi?
Il dolore dell'addio sconfina
con questo senso tragico di un futuro
da passarsi in compagnia di un nuovo Pietro,
completamente diverso da me.
E cosa rispondono, in silenzio, a tutto questo
i tuoi occhi seri, amici e oscuramente spietati
(o già lontani)? La tua intenzione
è forse quella di spingermi sulla strada della diversità
fino in fondo e senza compromessi?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Vuoi dire che se questo amore è nato
è inutile tornare indietro,
è inutile sentirlo come una pura e semplice distruzione?
Che, quanto al dolore della separazione,
io potrei trovare qualcuno che potrebbe sostituirti,
e ricreare in me quei sentimenti
di ridicola tenerezza e bestiale passività
nati così da poco e interrotti così bruscamente?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E se tu sei stato un padre senza rughe e senza capelli grigi,
un padre com'egli era quando aveva poco più della mia età,
non potrebbe essere un padre come questo
a sostituirti? Anche se
ciò è inconcepibile e spaventoso,
anzi, proprio per questo?
Non sono le cose che sembrano più giuste e semplici
che si rivelano, in conclusione, le più oscure e difficili?
Non è la vita stessa, nella sua naturalezza,
che è misteriosa - e non le sue complicazioni?
L'addio tra te, che te ne vai, e me, una ragazzetta
che solo fra un anno o due potresti sposare,
è la cosa più tragica che possa succedere al mondo.
E poi...
Fino al tuo arrivo io ero vissuta
tra persone - scusa l'eterna parola - normali:
io invece non lo ero; e dovevo proteggermi
(ed essere protetta), per nascondere
i penosi sintomi della mia malattia di classe,
ossia del vuoto in cui vivevo (sinistra salute).
Quella malattia minacciava di continuo,
in me, di venire alla luce,
di smascherare me e tutto.
La cosa, allora, andava presa... con umorismo -
come un vanto, come un'aristocratica abitudine
da coltivare, fioricino di serra, al caldo della casa.
Addirittura (pensa!) come se si trattasse
di una buffa e imperterrita apertura
verso idee anarchiche, o un po' sovversive, luoghi gelati
certamente non visitati da nessuna delle mie pari...
Tu mi hai riportato alla normalità.
Mi hai fatto trovare la soluzione giusta
(e benedetta) alla mia anima e al mio sesso.
La presenza miracolosa del tuo corpo
(che racchiude uno spirito troppo grande)
di giovane maschio e padre,
ha sciolto la mia selvaggia e pericolosa
paura di bambina... Ma adesso,
in questo addio, non soltanto
riprecipito indietro,
ma vado ancora più indietro.
Il dolore è causa di una ricaduta
molto più grave del male
che ha preceduto la breve guarigione.
Le carezze che tu mi dai in silenzio,
forse per consolarmi, forse
- con la crudeltà di ogni atto conseguente,
per spingermi più in fondo e più in dentro
nel mio dolore - hanno un senso
assolutamente oscuro.
Cosa vuoi suggerirmi e propormi, misteriosamente?
Forse qualcuno che possa sostituirti?
E questo qualcuno potrebbe essere qualcuno
che, come te, sostituisca per me il padre,
il padre di Pietro, il Primo Padre?
E perché non addirittura mio padre stesso?
Vuoi forse suggerirmi, attraverso
terribili e mute parole di giustizia,
l'identificazione tra una verità,
sempre inimmaginabile e incestuosa,
con tutta l'intera realtà?
L'interesse di mio marito per la sua industria
era nato con lui, non si distingueva da lui,
faceva un tutt'uno con qualcosa di inesprimibile
che era la sua vita col suo lavoro.
Se egli fosse nato contadino,
avrebbe avuto lo stesso interesse per la terra
e gli arnesi che servono a lavorarla;
se fosse nato marinaio (fino a un secolo fa)
avrebbe avuto lo stesso interesse per il mare e la barca.
Insomma, egli ha lavorato tutta la vita
a una grande industria ereditata dal padre
(suo creatore) spinto da un interesse... naturale.
Come ogni epoca storica, anche la nostra
ha ricostruito la natura, e quindi la naturalezza.
Da grande borghese dell'Alta Italia,
mio marito Paolo ha vissuto la sua natura con naturalezza
(quasicché appunto la sua fabbrica
fosse come la terra o il mare).
Il suo interesse per il proprio lavoro
e per il proprio guadagno (enorme,
e, come i nostri nemici lo definiscono, ingiusto)
è lo stesso che spinge ad agire nei sogni.
Necessario e indistinto. Insomma, egli
non ha mai avuto un interesse oggettivo,
puro e culturale per l'esistenza.
Quanto a Odetta, sono degli interessi
oggettivi, puri e culturali
i suoi culti famigliari?
Ne hanno sì, forse, l'ingenuità,
l'intensità, la mancanza di ogni tornaconto:
ma sono in fondo come esorcismi
rispetto a una vera religione,
o giochi rispetto a un vero lavoro.
Essa si è costruita dei calchi di tali interessi,
e con quei calchi si trastulla
(sentendone però forse il vuoto,
e non rendendosene conto che attraverso l'angoscia).
Pietro, lui, studia: è costretto ad avere
sia pure tra i muri del nostro migliore Liceo cittadino,
qualche obbligatorio interesse per qualcosa...
In questi giorni
sta leggendo il Convito... Può farlo
del tutto impunemente?
Insomma, nella mia famiglia, tutti viviamo
nell'esistenza come essa deve essere;
le idee attraverso cui giudichiamo noi stessi
e gli altri, i valori e gli avvenimenti,
sono, come si dice, un patrimonio comune
a tutto il nostro mondo sociale.
Io, in questo senso, ero peggiore di tutti.
È difficile dire come vivessi;
come, per vivere, mi bastasse la naturalezza del vivere;
occuparmi della mia casa, dei miei affetti,
quasi fossi una contadina, nel suo covo famigliare,
che lotta coi denti e con le unghie per l'esistenza!
Come potevo vivere in tanto vuoto? Eppure ci vivevo.
E quel vuoto era, a mia insaputa,
pieno di convenzioni, ossia
di una profonda bruttezza morale.
La mia grazia naturale (pare) mi salvava:
ma era una grazia che andava perduta.
Come un giardino in un posto dove nessuno passa.
Stava... nei miei occhi barbarici (pare),
nella mia bocca, nei miei zigomi alti e dolci...
nelle forme piene di una magrezza (ahi) di adolescente
manieristica... e probabilmente, sì, stava anche
nel mio cuore, timido, ma capace di sentimenti.
Tuttavia, lì, inaridiva.
Assomigliava all'invecchiare
(ai primi eccessivi pallori, alle prime
maledette rughe, ancora invisibili). Sarebbe inaridito
fino a seccarsi - coincidendo con la fine
di una vita inutile - se tu non fossi giunto.
Tu hai riempito di un interesse puro
e pazzo, una vita priva di ogni interesse.
E hai districato dal loro oscuro nodo
tutte le idee sbagliate di cui vive una signora borghese:
le orrende convenzioni, gli orrendi umorismi,
gli orrendi principi, gli orrendi doveri,
le orrende grazie, l'orrenda democraticità, l'orrendo
anticomunismo, l'orrendo fascismo,
l'orrenda oggettività, l'orrendo sorriso.
Ah, quante cose so di me - dirai. È una coscienza
acquisita per magia - e parlo come nel monologo
del personaggio di una tragedia!
Strano, il mio dolore ha gli accenti
della naturalezza e della verità,
che si hanno normalmente nei momenti mortali della vita:
non sembra contestarla. Forse perché ciò
che in me è stato distrutto dal tuo amore
altro non è che la mia reputazione di borghese casta...
Eppure, mentre tu mi accarezzi, comprensivo e spietato,
mi chiedo: A cosa vuoi spingermi?
A qualcosa che se da una parte può, in qualche modo,
risarcirmi e consolarmi, dall'altra non può, invece,
che ricacciarmi sempre più verso il precipizio
che ho cominciato a guadagnare
decidendo il mio adulterio con te?
Vuoi dirmi, forse, ragazzo come sei, che è possibile
la sostituzione del tuo corpo e della tua anima
col corpo e con l'anima di un ragazzo che ti somigli?
Che i suoi occhi abbiano per me la luce
azzurrina della libidine mescolata alla tenerezza?
E le sue grosse mani il peso rozzo e venerante
di chi, accarezzando, fa male senza accorgersene?
Che sia, insomma, un uomo cresciuto sotto i miei occhi...
come un figlio... fino a diventare
il giovane barbaro che non vuole ostacoli alla sua monta?
E perché, se dev'essere, per età, come mio figlio
(la sua nudità il sacrilegio, la sua erezione l'impossibile),
perché non addirittura mio figlio?
Questa scelta assolutamente estrema -
e senza più alcuna possibilità di tornare indietro -
è l'unico atto che può salvare una vita
dalla mancanza di ogni interesse
e dal vuoto riempito di valori tutti sbagliati?
Una vergogna morale spinta fino al punto
di toccare e concedersi al ragazzo più ragazzo di tutti,
- il proprio figlio divenuto uomo -
è l'unico modo per rovesciare ogni falsa giustizia,
e vivere, sia pure ingiustamente, nella verità?
Ma sono queste cose che io posso
anche solamente immaginare?
Tu sei dunque venuto in questa casa per distruggere.
Che cosa hai distrutto in me?
Hai distrutto, semplicemente,
- con tutta la mia vita passata -
l'idea che io ho sempre avuto di me stesso.
Se dunque da molto tempo
io avevo assunto la forma che dovevo assumere
e la mia figura era, in qualche modo, perfetta,
ora, che cosa mi rimane?
Non vedo niente che possa reintegrarmi
nella mia identità. Ti guardo: non mi ascolti
con imparzialità - perché tu non ti dividi in parti -
ma con dedizione - perché tu ti dai tutto a ognuno.
Come può, tuttavia, la tua presenza consolatrice
essere così pura, tanto da manifestare,
quasi, una chiara volontà di distacco?
A che serve consolarmi, se tu, volendolo,
potresti rinviare, anche magari per sempre,
la tua partenza? Invece tu partirai:
su questo non c'è il minimo dubbio.
La tua pietà è dunque subordinata
a qualche altro misterioso disegno.
Vuoi forse dirmi (non parlando, ma semplicemente
attraverso il fatto che sei un ragazzo)
che tu potresti essere sostituito, ora,
da mio figlio o da mia figlia?
Proposta completamente folle (preordinata,
forse, da qualche mia oscura volontà)
eppure giusta, se, benché realizzata
(il membro nudo di mio figlio, la vulva nuda di mia figlia),
non fosse che un simbolo: e se, attraverso essa,
tu mi esortassi alla perdizione più totale,
a mettere la vita fuori di se stessa,
e mantenerla una volta per sempre
fuori dall'ordine e dal domani,
facendo di tutto questo la sola reale normalità.
Forse perché chi ti ha amato deve
(come del resto ogni uomo - che non lo sa)
poter riconoscere a tutti i costi la vita,
in ogni momento? Riconoscerla, e non soltanto
conoscerla, o soltanto viverla?
Sono - dici generosamente, nel mio banale linguaggio borghese -
le eccezionalità più impensabili,
più intollerabili, più lontane dalla possibilità
di essere concepite e addirittura nominate,
che si presentano come i mezzi più efficaci
per riconoscere la vita?
Eccezionalità che, tuttavia, non possono
essere che dei simboli
- se nella realtà, come ogni cosa reale,
sono fatte di nulla e destinate al nulla?
Ti saluto per ultima, proprio
cinque minuti prima di partire,
che già le valigie sono pronte,
e il taxi è stato mandato a chiamare.
Per ultima e in fretta: perché? Forse perché
la tua povertà e la tua inferiorità sociale
hanno per me qualche valore?
E quindi io con te mi spendo meno,
come se il tuo corpo fosse di seconda qualità,
e il tuo spirito avesse il guizzare inquieto,
stupido, angelico e torpido di una bestia?
No, niente di tutto questo.
Ti saluto male, in fretta e per ultima,
perché io so che il tuo dolore è inconsolabile
e non ha neanche bisogno di chiedere consolazione.
Tu vivi tutta nel presente.
Come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi,
tu non ci pensi, al domani. Del resto,
ci siamo mai parlati? Noi non abbiamo
scambiato parole, quasi gli altri
avessero una coscienza, e tu no.
Invece, evidentemente, anche tu,
povera Emilia, ragazza di basso costo,
esclusa, spossessata del mondo,
una coscienza ce l'hai.
Una coscienza senza parole.
E di conseguenza anche senza chiacchiere.
Non hai un'anima bella, tu. Per tutto questo
la rapidità e la mancanza di solennità
nei nostri saluti, non sono che l'indice
di una misteriosa complicità tra noi due.
Il taxi è arrivato...
Tu sarai l'unica a sapere, quando sarò partito,
che non tornerò mai più, e mi cercherai
dove dovrai cercarmi: non guarderai nemmeno
la strada per dove mi allontanerò e scomparirò,
e che tutti gli altri, invece, vedranno, stupiti,
come per la prima volta, piena di un senso nuovo,
in tutta la sua ricchezza e la sua bruttezza,
emergere nella coscienza.
Poesia su ordinazione è ordigno.
Il costruttore di ordigni può produrne molti
(nient'altro procurandosi che stanchezza per il lavoro manuale).
L'oggetto può essere, talvolta, ironico:
l'ordigno lo è sempre.
Sono passati i tempi in cui, vorace economizzatore,
spendevo tutto, investendo i miei soldi (molti,
perché erano il mio seme: e io ero sempre in erezione)
nell'acquisto di aree di bassissimo valore
che sarebbero state valorizzate da lì a due tre secoli.
Ero tolemaico (essendo un ragazzo)
e contavo l'eternità per l'appunto, in secoli.
Consideravo la terra il centro del mondo;
la poesia il centro della terra.
Tutto ciò era bello e logico.
Del resto, che ragioni avevo di non credere
che tutti gli uomini non fossero come me?
Poi, invece, si sono rivelati tutti di me molto migliori;
e io son risultato essere, piuttosto, uomo di razza inferiore.
Ricambiai l'apprezzamento
e capii che non volevo più scrivere poesie. Ora, però,
ora che la vocazione è vacante
- ma non la vita, non la vita -
ora che l'ispirazione, se viene, versi non ne produce -
vi prego, sappiate che son qui pronto
a fornire poesie su ordinazione: ordigni.
Ho un affetto più grande di qualsiasi amore
su cui esporre inutilizzabili deduzioni -
Tutte le esperienze dell'amore
sono infatti rese misteriose da quell'affetto
in cui si ripetono identiche.
Sono legato ad esso
perché me ne impedisce altri.
Ma sono libero perché sono un po' più libero da me stesso.
La vita perde interesse perché si è ridotta a un teatro
in cui le fasi di questo affetto si svolgono:
e così ho perso l'ebbrezza di avere strade sconosciute
da prendere ogni sera
(al vecchio vento che annuncia cambiamenti di ore e stagioni).
Ma che ebbrezza nel poter dire: «Io non viaggio più.»
Tutto è monotono perché in tutto non c'è altro
che un certo luccichio di occhi,
un certo modo di correre un po' buffo,
un certo modo di dire «Paolo», e un certo modo
di straziare a causa della rassegnazione.
Ma tutto è messo in forse dal terrore che qualcosa cambi.
In ogni amore c'è una fusione tra la persona che si ama
e qualcun altro: ma ciò è naturale. Nell'affetto
ciò sembra invece così innaturale:
la fusione avviene a tali profondità
che non è possibile darne spiegazioni, trarne motivi
per congratularsi, comunque essa sia, della propria sorte.
La tenerezza che tale affetto impone
al profondo, non conduce né a fecondare
né a essere fecondati, anche se per gioco;
eppure si soccombe ad esso
con lo stesso senso di precipitare nel vuoto
che si prova gettando il seme, quando si muore
e si diventa padri. Infine (ma quante altre
cose si potrebbero ancora dire!),
benché sembri assurdo, per un simile affetto,
si potrebbe anche dare la vita. Anzi, io credo
che questo affetto altro non sia che un pretesto
per sapere di avere una possibilità - l'unica -
di disfarsi senza dolore di se stessi.
Oh, un terribile timore;
La lietezza esplode
contro quei vetri sul buio
Ma tale lietezza, che ti fa cantare in voce
è un ritorno dalla morte: e chi piò mai ridere -
Dietro, sotto il riquadro del cielo annerito
Riapparizione ctonia!
Non scherzo: ché tu hai esperienza
di un luogo che non ho mai esplorato, un vuoto
nel cosmo
È vero che la mia terra è piccola
Ma ho sempre affabulato sui luoghi inesplorati
con una certa lietezza, quasicché non fosse vero
Ma tu ci sei, qui, in voce
La luna è risorta;
le acque scorrono;
il mondo non sa di essere nuovo e la sua nuova giornata
finisce contro gli alti cornicioni e il nero del cielo
Chi c'è, in quel vuoto del cosmo,
che tu porti nei tuoi desideri e conosci?
C'è il padre, sì, lui!
Tu credi che io lo conosca? Oh, come ti sbagli;
come ingenuamente dài per certo ciò che non lo è affatto;
fondi tutto il discorso, ripreso qui, cantando,
su questa presunzione che per te è umile
e non sai invece quanto sia superba
essa porta in sé i segni della volontà mortale della maggioranza -
L'occhio ilare di me mai disceso agli Inferi,
ombra infernale vagolante
nasconde
E tu ci caschi
Tu conosci di ciò che è realtà solo quell'Uomo Adulto
ossia ciò che si deve conoscere;
lei, la Donna Adulta, stia all'Inferno
o nell'Ombra che precede la vita
e di là operi pure i suoi malefizi, i suoi incantesimi;
odiala, odiala, odiala;
e se tu canti e nessuno ti sente, sorridi
semplicemente perché, per ora, intanto, sei vittoriosa -
in voce come una giovane figlia avida
che però ha sperimentato la dolcezza;
Parigi calca dietro alle tue spalle un cielo basso
con la trama dei rami neri; ormai classici;
questa è la storia -
Tu sorridi al Padre -
quella persona di cui io non ho alcuna informazione,
che ho frequentato in un sogno che evidentemente non ricordo -
strano, è da quel mostro di autorità
che proviene anche la dolcezza
se non altro come rassegnazione e breve vittoria;
accidenti, come l'ho ignorato; così ignorato da non saperne niente -
cosa fare?
Tu doni, spargi doni, hai bisogno di donare,
ma il tuo dono te l'ha dato Lui, come tutto;
ed è un Nulla il dono di Nessuno;
io fingo di ricevere;
ti ringrazio, sinceramente grato;
Ma il debole sorriso sfuggente
non è di timidezza;
è lo sgomento, più terribile, ben più terribile
di avere un corpo separato, nei regni dell'essere -
se è una colpa
se non è che un incidente: ma al posto dell'Altro
per me c'è un vuoto nel cosmo
un vuoto nel cosmo
e da là tu canti.
Se arrivo in una città
oltre l'oceano
Molto spesso arrivo in una nuova città, portato dal dubbio.
Divenuto da un giorno all'altro pellegrino
di una fede in cui non credo;
rappresentante di una merce da tempo svalutata,
ma è grande, sempre, una strana speranza -
Scendo dall'aeroplano col passo del colpevole,
la coda tra le gambe, e un eterno bisogno di pisciare,
che mi fa camminare un po' ripiegato con un sorriso incerto -
C'è da sbrigare la dogana, e, molto spesso, i fotografi:
comune amministrazione che ognuno cura come un'eccezione.
Poi l'ignoto.
Chi passeggia alle quattro del pomeriggio
sulle aiuole piene di alberi
e i boulevards d'una disperata città dove europei poveri
sono venuti a ricreare un mondo a immagine e somiglianza del loro,
spinti dalla povertà a fare di un esilio la vita?
Con un occhio alle mie faccende, ai miei obblighi -
Poi, nelle ore libere,
comincia la mia ricerca, come se anch'essa fosse una colpa -
La gerarchia però è ben chiara nella mia testa.
Non c'è Oceano che tenga.
Di questa gerarchia gli ultimi sono i vecchi.
Sì, i vecchi alla cui categoria comincio ad appartenere
(non parlo del fotografo Saderman che con la moglie
già amica della morte mi accoglie sorridendo
nello studiolo di tutta la loro vita)
Sì, c'è qualche vecchio intellettuale
che nella Gerarchia
si pone all'altezza dei più bei marchettari
i primi che si trovano nei punti subito indovinati
e che come Virgili conducono con popolare delicatezza
qualche vecchio è degno dell'Empireo,
è degno di star accanto al primo ragazzo del popolo
che si dà per mille cruzeiros a Copacabana
ambedue son lo mio duca
che tenendomi per mano con delicatezza,
la delicatezza dell'intellettuale e quella dell'operaio
(per lo più disoccupato)
la scoperta dell'invariabilità della vita
ha bisogno di intelligenza e di amore
Vista dall'hotel di Rua Resende Rio -
l'ascesi ha bisogno del sesso, del cazzo -
quella finestrella dell'hotel dove si paga la stanzetta -
si guarda dentro Rio, in un aspetto dell'eternità,
la notte di pioggia che non porta il fresco,
e bagna le strade miserabili e le macerie,
e gli ultimi cornicioni del liberty dei portoghesi poveri
sublime miracolo!
E dunque Josvé Carrea è il Primo nella Gerarchia,
e con lui Harudo, sceso bambino da Bahia, e Joaquim.
La Favela era come Cafarnao sotto il sole -
Percorsa dai rigagnoli delle fogne
le baracche una sull'altra
ventimila famiglie
(egli sulla spiaggia chiedendomi la sigaretta come un prostituto)
Non sapevamo che a poco a poco ci saremmo rivelati,
prudentemente, una parola dopo l'altra
detta quasi distrattamente:
io sono comunista, e: io sono sovversivo;
faccio il soldato in un reparto appositamente addestrato
per lottare contro i sovversivi e torturarli;
ma loro non lo sanno;
la gente non si rende conto di nulla;
essi pensano a vivere
(mi parla del sottoproletariato)
La Favela, fatalmente, ci attendeva
io gran conoscitor, egli duca -
i suoi genitori ci accolsero, e il fratellino nudo
appena uscito di dietro la tela cerata -
eh sì, invariabilità della vita, la madre
mi parlò come Lìmardi Maria, preparandomi la limonata
sacra all'ospite; la madre bianca ma ancor giovane di carne;
invecchiata come invecchiano le povere, eppur ragazza;
la sua gentilezza con quella del suo compagno,
fraterno al figlio che solo per sua volontà
era ora come un messo della Città -
Ah, sovversivi, ricerco l'amore e trovo voi.
Ricerco la perdizione e trovo la sete di giustizia.
Brasile, mia terra,
terra dei miei veri amici,
che non si occupano di nulla
oppure diventano sovversivi e come santi vengono accecati.
Nel cerchio più basso della Gerarchia di una città
immagine del mondo che da vecchio si fa nuovo,
colloco i vecchi, i vecchi borghesi
ché un vecchio popolano di città resta ragazzo
non ha da difendere niente -
va vestito in canottiera e calzonacci come Joaquim il figlio.
I vecchi, la mia categoria,
che vogliano o non vogliano -
Non si può sfuggire al destino di possedere il Potere,
esso si mette da solo
lentamente e fatalmente in mano ai vecchi,
anche se essi hanno le mani bucate
e sorridono umilmente come martiri satiri -
Accuso i vecchi di avere comunque vissuto,
accuso i vecchi di avere accettato la vita
(e non potevano non accettarla, ma non ci sono
la vita accumulandosi ha dato ciò che essa voleva -
accuso i vecchi di avere fatto la volontà della vita.
Torniamo alla Favela
dove o non si pensa nulla
o si vuole diventare messi della Città
là dove i vecchi sono filo-americani -
Tra i giovani che giocano biechi al pallone
di fronte a cucuzzoli fatati sul freddo Oceano,
chi vuole qualcosa e lo sa, è stato scelto a sorte -
inesperti di imperialismo classico
di ogni delicatezza verso il vecchio Impero da sfruttare
gli Americani dividono tra loro i fratelli superstiziosi
sempre scaldati dal loro sesso come banditi da un fuoco di sterpi -
È così per puro caso che un brasiliano è fascista e un altro sovversivo;
colui che cava gli occhi
può essere scambiato con colui a cui gli occhi sono cavati.
Joaquim non avrebbe potuto mai essere distinto da un sicario.
Perché dunque non amarlo se lo fosse stato?
Anche il sicario è al vertice della Gerarchia,
coi suoi semplici lineamenti appena sbozzati
col suo semplice occhio
senz'altra luce che quella della carne
Così in cima alla Gerarchia,
trovo l'ambiguità, il nodo inestricabile.
O Brasile, mia disgraziata patria,
votata senza scelta alla felicità,
(di tutto son padroni il denaro e la carne,
mentre tu sei così poetico)
dentro ogni tuo abitante mio concittadino,
c'è un angelo che non sa nulla,
sempre chino sul suo sesso,
e si muove, vecchio o giovane,
a prendere le armi e lottare,
indifferentemente, per il fascismo o la libertà -
Oh, Brasile, mia terra natale, dove
le vecchie lotte - bene o male già vinte -
per noi vecchi riacquistano significato -
rispondendo alla grazia di delinquenti o soldati
alla grazia brutale.
Coi tuoi occhi infossati
i capelli leggeri,
il volto deciso
il riso impetuoso
e il silenzio insistente...
Tu non chiedevi altro che meritare
le più alte delle nostre parole:
e adesso è chiaro
quel tuo pudico tacere e gridare,
quel tuo umiliarti
e adirarti.
Tu cercavi in noi, inutilmente,
il tuo cuore...
È chiaro il tuo volto sofferente,
è chiaro il tuo riso
è chiaro il tuo pudore,
è chiara la tua innocenza,
e il tuo darti agli altri
smanioso di offrirti,
di testimoniare
con forza giovanile
il tormento,
con la violenza la pietà.
Nei tuoi ritratti,
le tue vesti, i tuoi libri,
non sentiremo più la tua vita
La tua giovinezza
non splende per noi chinata
sulla terra dell'orto
e non splendono i tuoi capelli.
Fu un vento ignoto a spirare
sul tuo mondo, su te,
e vi ha tutto sconvolto.
Libertà, la tua bocca ridente,
Libertà, la tua fronte pallida,
Libertà, le tue spalle leggere.
Poi il vento è caduto.
Dispersa la tua vita,
stringi nel pugno la tua fede.
Dai silenzi della tua vita
torna solo la voce
della tua fede silenziosa.
Possiamo noi pronunciare le parole
per cui hai dato il tuo corpo
temendo di non dare troppo?
Italia, Libertà...
e parole più umane, amore,
imprudenza, sacrificio...
E a chi non vi creda
mostrale mutate
nel terribile sangue
che era di tua madre.
Fu questo il tuo gioco
per cui tua madre attende
d'essere morta,
nient'altro,
in questa estranea terra.
Ma che cosa ci hai dato?
Qualcosa di immenso,
e tu lo sapevi,
ragazzo,
lo sapevi morendo solo
sotto gli alberi testimoni
e la neve calpestata dai piedi
che andavano alla morte
Qui in Italia
le nubi possono ora solcare il cielo
e il vento scuotere gli alberi,
l'Isonzo e gli altri fiumi
correre al mare...
Nella nostra Italia
gli uccelli possono cantare,
esser verdi le foglie
e giocare i ragazzi.
Il sole può illuminare le acque
e la pioggia cadere
e sui monti brillare la neve.
Tu non puoi essere,
tu che ci hai dato la neve
la pioggia, la luce,
i venti, le nubi...
Gridiamo: Amore,
gridiamo forte: Amore,
che ne risuonino i monti,
e le valli,
e tuoni nelle orecchie: Amore!
C'è un ragazzo,
un candido morto,
che vive in quel grido.
Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro ai fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,
e si mette addosso le loro sciarpette,
tocca non vista i loro libri, i loro coltellini,
tu sorellina più piccola,
quella bellezza l'avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.
Sparì, come un pulviscolo d'oro.
Il mondo te l'ha insegnata.
Così la tua bellezza divenne sua.
Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre così facilmente nudo.
E per questo era bellezza, la stessa
che hanno le dolci mendicanti di colore,
le zingare, le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Roma.
Sparì, come una colombella d'oro.
Il mondo te l'ha insegnata,
e così la tua bellezza non fu più bellezza.
Ma tu continuavi ad essere bambina,
sciocca come l'antichità, crudele come il futuro,
e fra te e la tua bellezza posseduta dal potere
si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente.
Te la portavi sempre dietro, come un sorriso tra le lacrime,
impudica per passività, indecente per obbedienza.
L'obbedienza richiede molte lacrime inghiottite.
Il darsi agli altri,
troppi allegri sguardi, che chiedono la loro pietà.
Sparì, come una bianca ombra d'oro.
La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne così un male.
Ora i fratelli maggiori finalmente si voltano,
smettono per un momento i loro maledetti giochi,
escono dalla loro inesorabile distrazione,
e si chiedono: «È possibile che Marilyn,
la piccola Marilyn ci abbia indicato la strada?»
Ora sei tu, la prima, tu sorella più piccola,
quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,
sei tu la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte.
Sono uno
che è nato in una città piena di portici nel 1922.
Ho dunque quarantaquattro anni, che porto <molto> bene
(soltanto ieri due o tre soldati, in un boschetto di puttane,
me ne hanno attribuiti ventiquattro - poveri ragazzi
che hanno preso un bambino per un loro coetaneo);
mio padre è morto nel '59,
mia madre è viva.
Piango ancora, ogni volta che ci penso,
su mio fratello Guido,
un partigiano ucciso da altri partigiani, comunisti
(era del Partito d'Azione, ma su mio consiglio:
lui, aveva cominciato la Resistenza come comunista),
sui monti, maledetti, di un confine
disboscato con piccoli colli grigi e sconsolate prealpi.
Quanto alla poesia, ho cominciato a sette anni:
ma non ero precoce se non nella volontà.
Sono stato un «poeta di sette anni» -
come Rimbaud - ma solo nella vita.
Ora, in un paese tra il mare e la montagna,
dove scoppiano grandi temporali, d'inverno piove molto,
in Febbraio si vedono le montagne chiare come il vetro,
appena al di là dei rami nudi, e poi nascono le primule sui fossi
inodore, e d'estate gli appezzamenti, piccoli, di granoturco
alternati a quelli verdecupo dell'erba medica
si disegnano contro il cielo sfumato
come un paesaggio misteriosamente orientale -
ora, in quel paese,
c'è una cassapanca piena dei manoscritti di uno dei tanti ragazzi poeti.
La cosa più importante della mia vita è stata mia madre
(le si è aggiunto, solo ora, Ninetto).
Nel '42 in una città dove il mio paese è così se stesso
da sembrare un paese di sogno, con la grande poesia dell'impoeticità,
formicolante di gente contadina e piccole industrie,
molto benessere,
buon vino, buona tavola,
gente educata e grossolana, un po' volgare ma sensibile,
in quella città ho pubblicato il primo libriccino di versi,
col titolo, per allora, conformista di «Poesie a Casarsa»,
dedicato, per conformismo, a mio padre,
che l'ha ricevuto nel Kenia.
Era là prigioniero, vittima ignara e senza critica
della guerra fascista.
Gli ha fatto un immenso piacere, lo so, riceverlo:
eravamo grandi nemici,
ma la nostra inimicizia faceva parte del destino, era fuori di noi.
E segno di quel nostro odio, segno ineluttabile,
segno per un'indagine scientifica che non sbaglia,
- che non può sbagliare -
quel libro dedicato a lui
era scritto in dialetto friulano!
Il dialetto di mia madre!
Il dialetto di un mondo
piccolo, ch'egli non poteva non disprezzare,
- o comunque accettare con la pazienza di un padre...
E ciò per una precedente contraddizione:
una di quelle, ancora, che non possono tradire gli scienziati!
Là dove si parlava quel dialetto, egli si era infatti innamorato.
Innamorato di mia madre.
Così, attraverso lei, il mondo piccolo, inferiore,
contadino, quasi negro, ch'egli disprezzava
l'aveva reso schiavo:
ma anche stavolta, lui non lo sapeva.
Non sapeva che il suo padrone era quell'amore
che attraverso una donna bambina (mia madre!)
bella, dalla bella gola, dall'anima troppo innocente
di angelo inadatto a vivere fuori dai paesi, appunto, dai campi,
aveva vanificato tutte le sue certezze morali
di misero uomo fatto per essere lui, il padrone.
Così ora, quel dialetto,
era una cosa diabolica.
Era il centro di mille altre contraddizioni.
Di cui la più cocente consisteva nel fatto che non poteva essere ammessa:
<perché> era consacrata dalla stampa
e dalle candide pagine di un libro di poesia
di cui il figlio ventenne era l'Autore.
Dunque non si poteva nemmeno cominciare l'esame,
dato che non erano ammissibili,
di quelle contraddizioni: che furono così come nubi nere,
con spaventosi tuoni, indice di totale sconfitta e di morte,
in fondo all'orizzonte luminoso dell'orgoglio di un padre prigioniero.
Bene, alla fine della guerra
è tornato in Italia, con quel libretto di versi friulani
nella valigia.
Cimelio sacro, ricordo di famiglia, attestato di grandezza
anche futura.
Devo aggiungere che mio padre approvava il fascismo.
<E qui c'è la seconda contraddizione, quella pubblica:
il fascismo non tollerava i dialetti, segni
dell'irrealizzata unità di questo paese dove sono nato,
inammissibili e spudorate realtà nel cuore dei nazionalisti.>
Per questo quel mio libro non fu recensito nelle riviste ufficiali.
E Gianfranco Contini dovette inviare la sua recensione
(la gioia letteraria, quella, più grande della mia vita)
ad un giornale di Lugano.
Con la fine del fascismo, cominciò la fine di mio padre.
Questo del fascismo è un alibi, con cui pure giustifico il mio odio,
ingiusto, per quel povero uomo: e devo dire tuttavia ch'è un odio,
orrendamente misto a compassione.
Ora che ho immeritatamente quarantaquattro anni,
circa l'età che lui aveva al tempo delle mie prime poesie,
lo vedo fuori dalla mia storia,
in una vicenda che mi è totalmente estranea,
in cui io sono un colpevole eroe oggettivo.
Perché devo ricordare
che, col mio amore iniziale per mia madre,
c'è stato un amore anche per lui: e dei sensi.
Devo ricordare i miei passetti di ragazzino di tre anni,
in una città perduta miseramente tra i monti,
dall'aria già un po' austriaca,
quasi alle sorgenti di un fiume dal nome di museo e di guerra
e di miseria,
un fiume celeste fra grandi ghiaie pedemontane -
i miei passetti lungo il ciglio di una strada
colpita da un sole che non era della mia vita
ma di quella dei miei genitori,
verso il ciglio dove mio padre, uomo giovane,
stava orinando...
Devo aggiungere, ancora, per finire questa storia -
molto irregolare nell'insieme del mio poema -
che quei miei versi friulani sono i miei più belli
(insieme a quelli scritti fino a ventitré, ventiquattro anni,
pubblicati più tardi col titolo «La meglio gioventù»,
e insieme anche ai coevi versi italiani,
nati da quella profonda elegia friulana
di autolesionista, esibizionista e masturbatore,
tra i gelsi e le vigne viste con l'occhio più puro del mondo;
si chiamano, quei versi, «L'Usignolo della Chiesa Cattolica»,
e il loro «falsetto» è ancora una musica atroce
e sottile che, da laggiù, mi affascina e mi attira indietro.
Non posso dirvi altre cose
del mio soggiorno
in quel paese di temporali e primule,
un po' d'Oriente ai confini piccolo borghesi con l'Austria:
s'incaricheranno magari dei giornalisti italiani fascisti
o semplicemente anticomunisti.
Fuggii con mia madre e una valigia e un po' di gioie che risultarono false,
su un treno lento come un merci
per la pianura friulana coperta da un leggero e duro strato di neve.
Andavamo verso Roma.
Avevamo dunque, abbandonato mio padre
accanto a una stufetta di poveri,
col suo vecchio pastrano militare
e le sue orrende furie di malato di cirrosi e sindromi paranoidee.
Ho vissuto <...>
quella pagina di romanzo, l'unica della mia vita:
per il resto, <che volete,>
son vissuto dentro una lirica, come ogni ossesso.
Avevo tra i miei manoscritti anche il mio primo romanzo:
erano quelli i tempi di «Ladri di biciclette»
e i letterati stavano scoprendo l'Italia.
(Ora io non sono più un letterato,
evito gli altri, non ho niente a che fare
coi loro premi e le loro stampe.)
Arrivammo a Roma,
aiutati da un mio dolce zio,
che mi ha dato un po' del suo sangue:
io vivevo come può vivere un condannato a morte
sempre con quel pensiero come una cosa addosso,
- disonore, disoccupazione, miseria.
Mia madre si ridusse per qualche tempo a fare la serva.
E io non guarirò mai più di questo male.
Perché io sono un piccolo borghese, e non so sorridere...
come Mozart...
In un film - che ho chiamato «Uccellacci e uccellini» -
ho tentato sì è vero l'opera buffa, suprema ambizione di uno scrittore,
- ma ci sono riuscito solo in parte,
perché io sono un piccolo borghese
e tendo a drammatizzare tutto.
Come sono diventato marxista?
Ebbene... andavo tra fiorellini candidi e azzurrini di primavera,
quelli che nascono subito dopo le primule,
- e poco prima che le acacie si carichino di fiori,
odorosi come carne umana, che si decompone al calore sublime
della più bella stagione -
e scrivevo sulle rive di piccoli stagni
che laggiù, nel paese di mia madre, con uno di quei nomi
intraducibili si dicono «fonde»,
coi ragazzi figli dei contadini
che facevano il loro bagno innocente
(perché erano impassibili di fronte alla loro vita
mentre io li credevo consapevoli di ciò che erano)
scrivevo le poesie dell'«Usignolo della Chiesa Cattolica»:
questo avveniva nel '43:
nel '45 <fu tutt'un'altra cosa>.
Quei figli di contadini, divenuti un poco più grandi,
si erano messi un giorno un fazzoletto rosso al collo
ed erano marciati
verso il centro mandamentale, con le sue porte
e i suoi palazzetti veneziani.
Fu così che io seppi ch'erano braccianti,
e che dunque c'erano i padroni.
Fui dalla parte dei braccianti, e lessi Marx.
[...]
Grande è il tuo spiritualismo, America!
Ma sarà ancora più grande quando sarà sfatata la sua innocenza!
Io amo Ginsberg:
era tanto che non leggevo poesie di un poeta fratello -
credo dai tempi, in quel paese di temporali e di primule,
in cui ho letto i canti greci di Tommaseo, e Machado.
Nessun artista in nessun paese è libero.
Egli è una vivente contestazione.
Pound va in prigione come Siniavskij e Daniel,
e il Sig. Lennon ha scandalizzato tutti, credo anche i Russi.
[...]
<Quanto a me,
un innocente non è mai creduto,
ed egli del resto è troppo occupato a pensare
a un fiume celeste tra grandi ghiaie pedemontane,
che scorre nel sole dei suoi genitori,
in altre vite,
in vite interpretate in altro modo,
in un significato diverso della vita,
che non è neanche quello dei sogni,
se la nostra vita non è che un'ombra
sulla nostra vera vita che non conosciamo.>
<A Roma>, dal '50 a oggi, Agosto del 1966,
non ho fatto altro che soffrire e lavorare voracemente.
Ho insegnato, dopo quell'anno di disoccupazione e fine della vita,
in una scuoletta privata, a ventisette dollari al mese:
frattanto mio padre
ci aveva raggiunto
e non parlammo mai della nostra fuga, mia e di mia madre.
Fu un fatto normale, un trasferimento in due tempi.
Abitammo in una casa senza tetto e senza intonaco,
una casa di poveri, all'estrema periferia, vicino a un carcere.
C'era un palmo di polvere d'estate, e la palude d'inverno.
Ma era <l'Italia, l'Italia> nuda e formicolante,
coi suoi ragazzi, le sue donne,
i suoi «odori di gelsomini e povere minestre»,
i tramonti sui campi dell'<Aniene>, i mucchi di spazzature:
e, quanto a me,
i miei sogni integri di poesia.
Tutto poteva, nella poesia, avere una soluzione.
Mi pareva che l'Italia, la sua descrizione e il suo destino,
dipendesse da quello che io ne scrivevo,
in quei versi intrisi di realtà immediata,
non più nostalgica, quasi l'avessi guadagnata col mio sudore.
<Certo, quanto conta, anche nel senso più misero
una condizione economica:>
non aveva peso il fatto ch'io fossi ricco di cultura e amore,
aveva molto più peso il fatto che io, certi giorni,
non spendessi nemmeno le cento lire per farmi radere la barba dal barbiere:
la mia figura economica, benché instabile e folle,
era in quel momento, per molti aspetti,
simile a quella della gente tra cui abitavo:
in questo eravamo proprio fratelli, o almeno pari.
Perciò, credo, ho molto potuto capirli.
<E per capire i miei romanzi intraducibili,
leggete la prefazione di Oscar Lewis al suo romanzo registrato:
si tratta di quello.>
[...]
Anche il borghese italiano può essere, dunque, razzista.
Non ne ha avuto finora occasione,
la prima occasione minima,
i miei romanzi,
l'hanno scatenato.
Ho provato quello che può provare un negro a Chicago,
il terrore.
Ma io dimentico presto,
e tutti i terrori
non sono divenuti che una cosa
sopra e addosso a me, una cosa speciale, quella cosa,
e così l'ho accantonata e sofferta nelle viscere:
mi si è aperta un'ulcera,
di cui certamente prima o poi morirò.
Brutto colpo per il sogno interrotto della mia giovinezza!
La borghesia italiana intorno a me è una torma di assassini.
Non spero certo migliore accoglienza dalla borghesia americana.
Nel mondo del capitale la vita è una scommessa
da vincere o da perdere:
è la condizione umana del laicismo borghese.
Chi si scopre, o si confessa, o non teme il ridicolo,
finisce male: è la legge.
Cari Americani, non pacifisti e non spiritualisti,
ossia enorme maggioranza benpensante,
il vostro Dio è un idiota
come ogni cittadino medio
che desidera con tutte le sue forze e con tutto il suo spirito
di essere come tutti gli altri:
ed è per questo suo amore folle per l'uguaglianza, che la odia.
Chi di voi ha pianto
per il ragazzo greco condannato a morte
per obiezione di coscienza?
Fate un breve esame di coscienza:
chi non ha versato queste lacrime è un porco.>.
[...]
Ma io non sto facendo che un poema
bio-bibliografico, torniamo all'argomento:
«Ragazzi di vita» e «Una vita violenta»
sono i titoli di quei miei due romanzi
che hanno <spiato> l'odio razzista italiano.
Scritti nel cuore degli Anni Cinquanta.
Mentre i titoli dei miei libri di versi,
scritti in gestione contemporanea, sono:
«Le ceneri di Gramsci»,
«La religione del mio tempo»,
«Poesia in forma di rosa».
È in quest'ultimo che qualcosa si è rotto:
forse era la presenza, ancora a me non direttamente nota,
della nuova sinistra americana, <e l'operare lontano di Ginsberg.
Vi ho falsamente abiurato dall'impegno,
ma perché so che l'impegno è inderogabile,
e oggi più che mai.>
E oggi, vi dirò, che non solo bisogna impegnarsi nello scrivere,
ma nel vivere:
bisogna resistere nello scandalo
e nella rabbia, più che mai,
<ingenui come bestie> al macello,
torbidi come vittime, appunto:
bisogna dire più alto che mai il disprezzo
verso la borghesia, urlare contro la sua volgarità,
sputare sopra la sua irrealtà che essa ha eletto a realtà,
non cedere in un atto e in una parola
nell'odio totale contro di esse, le sue polizie,
le sue magistrature, le sue televisioni, i suoi giornali:
e qui
io, piccolo borghese che drammatizza tutto,
così bene educato da una madre nella dolce e timida anima
<...> della morale contadina,
vorrei tessere un elogio
della sporcizia, della miseria, della droga e del suicidio:
io privilegiato poeta marxista
che ha strumenti e armi ideologiche per combattere,
e abbastanza moralismo per condannare il puro atto di scandalo,
io, profondamente perbene,
faccio questo elogio, perché, la droga, lo schifo, la rabbia,
il suicidio
sono, con la religione, la sola speranza rimasta:
contestazione pura e azione
su cui si misura l'enorme torto del mondo <...>.
Non è necessario che una vittima sappia e parli.
Nel '60 ho poi girato il mio primo film, che,
come ho detto, s'intitola «Accattone».
Perché sono passato dalla letteratura al cinema?
Questa è, nelle domande prevedibili in un'intervista,
una domanda inevitabile, e lo è stata.
Rispondevo dunque ch'era per cambiare tecnica,
che io avevo bisogno di una nuova tecnica per dire una cosa nuova,
o, il contrario, che dicevo la stessa cosa, sempre, e perciò
dovevo cambiare tecnica: secondo le varianti dell'ossessione.
Ma ero solo in parte sincero nel dare questa risposta:
il vero di essa era in quello che avevo fatto fino allora.
Poi mi accorsi
che non si trattava di una tecnica letteraria, quasi
appartenente alla stessa lingua con cui si scrive:
ma era, essa stessa una lingua...
E allora dissi le ragioni oscure
che presiedettero alla mia scelta:
quante volte rabbiosamente e avventatamente
avevo detto di voler rinunciare alla mia cittadinanza italiana!
Ebbene, abbandonando la lingua italiana, e con essa,
un po' alla volta, la letteratura,
io rinunciavo alla mia nazionalità.
Dicevo no alle mie origini piccolo borghesi,
voltavo le spalle a tutto ciò che fa italiano,
protestavo, ingenuamente, inscenando un'abiura
che, nel momento di umiliarmi e castrarmi,
mi esaltava. Ma non ero del tutto
sincero, ancora.
<Poiché il cinema non è solo un'esperienza linguistica,
ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un'esperienza filosofica.>
Un giorno andavo, come un pesce fuori dalla rete,
nell'aria secca
nei dintorni di un promontorio vacante d'anime, malato
nell'azzurro,
e ora vi dirò cosa mi successe e come realmente andarono le cose.
Andavo, quel giorno, per una strada secca,
con le mani altrettanto secche e così il cervello - vi dirò
che solo il ventre era vivo, come quel promontorio nell'inutile azzurro.
Tutti i miti erano crollati e decomposti ma almeno nel promontorio
qualcuno viveva.
Insomma, spinto dal ventre vivente e dalla mia miopia,
mi pilotai nel sole secco,
su un po' d'asfalto,
tra alcuni cespugliacci d'autunno ancora estivi,
contro un casale solo al sole,
con disegni vivaci di vecchie pareti e vecchi paletti e vecchie
reti e vecchie stecconate, azzurro e bianco,
- siamo in Italia - dove il sole misto alla pioggia dolcemente puzzava.
Là dentro c'era un ragazzo torvo, col grembiule (credo di ricordare), i capelli
fitti da donna,
la pelle pallida e tirata, una certa folle innocenza negli occhi,
di santo ostinato, di figlio che si vuole uguale alla buona madre.
<In pratica - lo vidi subito - un povero ossesso:
cui l'ignoranza dava tradizionali sicurezze,
trasformando la sua cadaverica nevrosi in rigore
d'obbediente figlio identificato coi padri.>
Come ti chiami, che fai, vai a ballare, hai la ragazza,
guadagni abbastanza,
furono gli argomenti con cui retrocessi dal primo impeto
della vecchia libidine della controra come un pesce seccato,
prendendo la coca cola.
Voi avete visto il mio Vangelo.
Avete visto i volti del mio Vangelo.
Non potevo sbagliare, perché talvolta, quando si gira, le decisioni
[dovevano avvenire
in pochi minuti:
non ho sbagliato mai, nei volti,
nei volti <...>
perché la mia libidine e la mia timidezza
mi hanno costretto a conoscere bene i miei simili.
Conobbi subito in pochi minuti anche lui,
il misero indemoniato del casale assediato dal sole.
L'inverno veniva,
a contraddire il superstite sole <...> alle avventure,
e l'inverno veniva
ed era lì nel suo volto,
con le sue tenebre le sue case silenziose, la sua <...> castità.
Mi ritirai.
Ma non in tempo perché egli non sentisse, come una donna,
il terrore per il padre non simile ai padri
che avevano costituito, per la sua obbedienza, il mondo.
Ebbene, prima non so che piccola autorità
di quel promontorio abbandonato dagli uomini e assalito
dai borghesi <calanti> da Roma, idioti e consacrati alla norma,
gli credette.
Gli credette poi non so che comandante,
dal viso pestato da un <destino poveramente mondano>.
Gli credette un giudice istruttore
con negli occhi la stessa espressione
di bianco caprone dei palazzetti novecento di quel borgo assurdo,
dove operava.
Gli credette infine il Presidente del tribunale
che mi condannò,
sia pure a venti o trenta giorni, formali.
Il ragazzo dal pallore di santo aveva raccontato
che era entrato nella sua bottega, quel giorno di sole,
un bandito, con un cappello nero,
il quale si era infilato un paio di guanti neri,
aveva caricato una pistola con una pallottola d'oro,
gli aveva intimato la resa
e aveva sottratto dal suo cassetto circa tre dollari.
Andandosene, poi, lo aveva minacciato,
poiché lui, l'aggredito, aveva afferrato, per difendersi, un coltello.
Ti ho raccontato queste cose
in uno stile non poetico
perché tu non mi leggessi come si legge un poeta.
Esisteva poi in Italia un certo Salvatore Pagliuca,
senatore di non so che partito,
esisteva giù, nel sud di Levi, tra villaggi
secchi al sole delle alluvioni,
dove crescono splendidi ulivi
e splendide ginestre.
A digiuno di ulivi e di ginestre,
come io ero a digiuno della sua esistenza,
questo Signor Salvatore Pagliuca,
vide la mia storia sopra Accattone, e sentì
che un moro dai denti scintillanti, come un lupo feroce
dal calcio prezioso,
si chiamava Salvatore Pagliuco.
Si ritenne offeso, mi fece querela, vinse il processo
e ottenne molti milioni di danni.
Ti ho raccontato questa cosa
in uno stile non poetico
perché tu non mi leggessi come si legge un poeta.
Un giorno dei primi Anni Sessanta
(il periodo in cui tutto questo accadde)
consegnai a un piccolo re del cinema di nome Amato e al suo compare Amoroso
una sceneggiatura che porta l'agreste titolo di:
«Ricotta».
Forse avrete visto questo mio film
al Festival di New York di qualche anno fa.
In quello scenario
scritto come scrive uno scrittore,
c'era qualche parola non lieve,
e poca grazia verso la religione della borghesia cattolica
del mio paese.
Per una delle tante ragioni che tu, critico cinematografico conosci bene,
il film andò a monte, Loved morì,
e Loving,
<mi intentò> un processo
accusando il mio copione
<scabroso> per il pubblico medio
di avergli impedito di fare il suo film.
Sarebbe <...> come se il Sig. Crawther
consegnasse a Levin, per richiesta dello stesso Levin,
un manoscritto troppo roseo, buono solo per educande,
e il Sig. Levin, non trovandolo buono,
per ragioni sue,
gli facesse un processo perché l'eccessivo color roseo
del copione di Crawther, del dolce Crawther,
gli aveva impedito di realizzare il film ch'egli voleva.
Ho perso anche questo processo e non so quante decine di milioni
dovrei sborsare <a quella perla del> signor Loving
rovinato da quella mia prima stesura
di un copione inadatto agli italiani medi.
<...>
Anche questa cosa te l'ho raccontata
in uno stile non poetico
perché tu non mi leggessi come si legge un poeta.
Così è decaduta la stima per la poesia, tipica
delle infanzie che credono nell'eterno; illusione
che non affossa i nazionalismi, inconsciamente, credendo
(con infantile passione) nell'assolutezza
della lingua di una nazione; nel suo uso di canto o musica
(ch'è assolutamente assurda
appena passata la dogana); illusione
che non affossa neanche la logica e il classicismo
(un misero filologo può ricostruire tra parola e parola
- isolata e confitta nel silenzio - il discorso tagliato,
un povero discorso
senza idee, senza religione se non il culto
assai poco religioso, infine, della poesia nella letteratura).
Ma non solo è caduta
la stima per questa poesia
che è della storia <piccola> del mio tempo
(in cui mi trovo <incastrato>,
senza potervi sfilare un solo volto, anche il più estraneo,
un solo libro, anche il più dimenticato);
ma per la poesia stessa. Non è essa, dunque, che conta, mai.
<Almeno se concepita> come poesia.
La lingua dell'azione, della vita che si rappresenta
è così infinitamente più <affascinante>!
È essa che si ricostituisce - appena chiuso -
da un libro di versi: essa è prima e dopo:
in mezzo c'è un <veicolo espressivo>
che la evoca, ecco tutto. Opera di stregoni.
Solo l'amore per quella lingua del non-io che si esprime
con pari diritto, pari forza dell'io,
dà al poeta
l'abilità.
Ma la professione di poeta in quanto poeta
è sempre più insignificante. È proprio necessario
immettere quella lingua vivente in una lingua di convenzione,
perché poi si liberi, tornando quella che è, vivente, nel lettore?
Non sa, egli, dialogare con la realtà?
L'umile valore del poeta
è rievocarla così come egli la vede? Ma ciò è serio?
Perché non la contempla in silenzio,
- santo, e non letterato?
Tuttavia i giovani, cosa fanno,
nelle sere delle loro città di provincia,
o anche nelle grandi metropoli,
se non parlare di letteratura?
Coi loro passi <faziosi>, lungo le vie appena scoperte
cariche di sensi segreti e di storia?
Scoprendo i letterati, come le puttane o i misteri
di un quartiere, o le abitudini di una vita sociale
ch'è ormai loro, mentre è ancora dei padri
(che perciò preparano una guerra per mandarli a morire)?
Interrogandomi
alla luce del sole di Agosto a Manhattan deserto (come vi dicevo),
vengo a sapere che
io (che solo attraverso la letteratura ho potuto essere poeta)
non sono più un letterato.
Io ho in sorte
di ricordare brevi colli, su un fiume anch'esso
con acque blu molto trasparenti sui piccoli sassi,
tra ghiaie come ossari prima tra i magredi,
tristemente verdi, poi tra i vigneti
(folli l'estate, di umido, sfumato silenzio quasi orientale)
dei colli,
e infine tra bonifiche il cui odore
basta a scatenare, per due occhi selvaggi
e un grembo selvaggiamente puro, lo sfinimento che attanaglia
e fa venir voglia di morire.
Su quei grami colli - veri cimiteri, senza fiori -
si lottò contro i fascisti e i Tedeschi, e mio fratello,
come vi ho detto, vi ha lasciato i suoi diciannove anni,
come un falco che sapeva appena volare, e volava così bene.
Quello che voi, con una piega di ironico ma antipatico sorriso
(che vi sforma il volto falsamente sicuro, di malati)
chiamate, vistosamente sottolineandolo, l'«impegno»,
è, per una quindicina d'anni,
vissuto da parassita sulla gloria e il dolore di quei cimiteri.
Cioè, non è stato.
È ora, che esso comincia a essere.
Ora che quei cimiteri senza fiori
hanno anch'essi la loro fioritura.
<Per un'ansia d'impopolarità forse,
Anche il mio amico Moravia ha paura,
quando non vuol comprendere questo. E con lui,
e molto peggio di lui (che arcanamente è teso
in una imperterrita volontà di capire) tutti gli altri
che in Italia
hanno il nome e la funzione di «letterati».>
Tutti rinnegano quell'impegno con la taciuta,
nevrotica volontà di adularvi: chi lo fa con contrizione,
chi gonfiando il petto come una puttana.
Io non voglio ritornare a quei colli,
né come turista né come visitatore di tombe, sia chiaro.
Anch'io, anch'io li ho dimenticati.
E a ragione! Nella loro azione e nell'ideologia
che la dettava, come una forma di sublime catechismo,
ebbi la mia ribellione di giovane.
Vi ho preso forse
anche abitudini indelebili
di moralismo e dignità.
Ma non ci torno, in quei luoghi che ci sono ma <sono invisibili>.
...
A questo punto, <...> Non voglio commuovermi sulle mie ragioni,
cioè sul fatto
che non solo, l'«impegno»,
non è finito, ma che anzi, incomincia.
Mai l'Italia fu più odiosa.
<Oltretutto con il tradimento degli intellettuali,
con questo revisionismo del Partito Comunista, lupo
che stavolta veramente è agnello, - il compagno
Longo allo Spiegel aveva una faccia adulatrice di letterato
che si finge disperatamente in pari coi tempi,
respingendo così ogni violenza palingenetica del comunismo:
sì, anche il comunista è un borghese.
Questa è ormai la forma razziale dell'umanità.>
Forse, impegnarsi contro tutto questo
non vuol dire scrivere, da impegnati,
direi, ma vivere.
Quanto alle mie opere future, <...>
vedrai <...> un giovane arrivare un giorno
in una bella casa
dove un padre, una madre, un figlio e una figlia,
vivono da ricchi, in uno stato che non critica se stesso,
quasi fosse un tutto, la vita pura e semplice;
c'è anche una serva (di paesi sottoproletari); viene,
il giovane,
bello come un americano,
e subito, per prima, la serva si innamora di lui,
e si tira su le sottane. Egli <le dà la dolce
pesante rabbia del suo membro>. S'innamora, poi,
di lui, il figlio; dormono i due, nella stessa camera
del ragazzo, coi resti dell'infanzia; ed anche al figlio
egli dona il suo membro di seta, più adulto e potente;
e lo stesso dono, accondiscendente e generoso,
perché egli è colui che dà, egli farà alla madre,
adoratrice delle sue vesti, i calzoni, la maglietta,
gli slip, lasciati in uno chalet
in un caldo giorno d'estate, sul Tirreno;
e ancora lo stesso dono egli farà al padre, divenendo
padre del padre - poiché egli con ambigua dolcezza materna,
e, per nome, padre -
al padre svegliato all'alba
da un dolore che lo taglia a metà,
alla pancia, e scopre, alzandosi per andare in bagno
la bellezza muta delle quattro del mattino
col sole già folgorante... e scoprirà il suo amore
con la stessa meraviglia
con cui ha scoperto quel sole:
un amore come quello di Ilja Ilic per il suo servo
contadino e ragazzo; ma cosciente, e drammatico
perché egli il vecchio industriale con la faccia
di Orson Welles, è un piccolo borghese, e drammatizza tutto.
Lo stesso dono del membro, durante le ore
della malattia del padre - e prima che al padre -
egli farà alla figlia quattordicenne, innamorata
di suo padre, e che lo scopre, il giovane tutto amore,
attraverso gli occhi innamorati, appunto, del padre. Poi
il giovane se ne va:
la strada in fondo a cui scompare
resta deserta per sempre.
E ognuno, nell'attesa, nel ricordo,
come apostolo di un Cristo non crocefisso ma perduto,
ha la sua sorte.
È un teorema:
e ogni sorte è un corollario.
Le sorti sono quelle che sai,
quelle del mondo dove tu col tuo antipatico
sorriso anticomunista, e io col mio infantile odio
antiborghese, siamo fratelli:
ne sappiamo tutto!
Come prende una nevrosi d'ansia
e come una piccola vittima femmina di quattordici anni,
finisca nel letto di una clinica,
coi pugni così stretti che nemmeno uno scalpello
potrebbe scalzarli,
come un ragazzo parli tra sé come un matto
dipingendo e inventando nuove tecniche,
fino a diventare
un Giacometti, un Bacon,
con lo spettacolo dei suoi spettri figurativi
simboli della tragedia del mondo in un'anima malata
maleodorante del livore meschino del male; come
una donna di mezza età, bella ancora, e curata
non sappia dimenticare il Cristo della Chiesa
e insieme, una volta perduta,
non sappia resistere al desiderio di perdersi, ancora,
e così viva tra ragazzi facili e angoscie cristiane;
e come infine un padre
che aveva confuso la vita con il possesso,
una volta posseduto,
perda la vita, la butti via: doni cioè il suo possesso
- una fabbrica alla periferia della grande città -
ai suoi operai; e si perda nel deserto,
come gli Ebrei.
Casi di coscienza, tutti questi.
Ma la serva diventa, invece, una santa matta,
<...>
va nel cortile della sua vecchia casa sottoproletaria,
tace, prega, e fa miracoli,
guarisce gente,
mangia ortiche soltanto, finché i capelli le divengono verdi,
e infine, per morire,
si fa seppellire piangendo da una scavatrice,
e le sue lacrime rampollando dal fango
divengono una fonte miracolosa.
Prima del Padre e della Madre,
nel paradiso terrestre, c'era un Primo Padre,
è nella sua intimità che, <primamente>, siamo vissuti.
Ma poi, l'importante è stato l'amore della madre
con cui ci siamo identificati
perché non possiamo vivere
se non identificandoci con qualcuno. Non possiamo, quindi,
concepire amore che non abbia la dolcezza materna.
Quel primo Padre ha così dolcezza di Madre.
Ma in una famiglia borghese
egli non è più in grado
<che di scatenare drammi morali.
La religione, la religione del rapporto diretto con Dio
è ancora nel mondo anteriore a quello borghese>.
Gli operai stanno a guardare.
...
Ti tacerò, amico, quello che, in stasimi e episodi,
e cori al luogo delle dissolvenze
scriverò sul silenzio di Pilade,
che diverrà rivolta,
e tradimento,
contro l'amico della <sensuale> adolescenza, dal membro eretto,
Oreste, il principe socialista,
e il degenerare di alcune delle Furie purificate
e segregate sui monti festosi nel cielo e nel cielo perduti:
il ritorno di queste Furie regredite al vecchio stato
nella città liberata, con loro, dalla monarchia;
la regressione di Elettra,
lei figlia, che amò il padre Re, e ora è fascista come
si è fascisti nel cupo rimpianto di errate origini;
la fuga di Pilade nei monti delle Furie divenute Eumenidi,
le dee dei partigiani
e dell'amore improvviso che lega un partigiano a un altro partigiano;
la preparazione della lotta,
e il ritorno a capo di un esercito irregolare,
- il misterioso esercito dei monti;
l'alleanza tra Elettra fascista e Oreste liberale
e fautore di riforme,
nella città divenuta opulenta;
l'intervento di Atena
che protegge Elettra e Oreste figli della ragione
e li unisce, mettendo a tacere l'ululato
delle Furie antiche che vagano per la nuova città;
l'incertezza di Pilade
di fronte alla città arricchita
che non ha più bisogno di lui;
il suo incontro
nella notte della vigilia che precede la battaglia
col vecchio amico dell'adolescenza,
rimasto giovane,
bello come ai tempi dei loro primi amori
quando le donne erano sconosciute;
e il loro abbandonarsi a discorsi sull'amore e sull'anima
che nulla hanno a che fare con la realtà presente,
e che li accomuna;
e, infine, la solitudine di Pilade,
alla fine della notte,
che, prima dell'alba, dovrà pur prendere una decisione.
E poi, tu credi,
che si possa fare un sogno, non ricordarlo,
e avere da questo sogno, mutata la vita?
Tu credi che un padre possa fare un sogno, in cui
veda se stesso amare suo figlio,
non so sotto che vesti,
se del padre stesso ragazzo, o di un estraneo
che è il padre del padre (ragazzo)
o <l'identificazione> a sé della propria madre... Nessuno,
neanche io, saprà mai quel sogno.
Ma il padre ne avrà mutata tutta la vita.
Ricordi Eracle
che chiede al figlio di chiamare tutti i suoi compagni
più forti, e <di portarlo sulle spalle,
in cima al monte vicino alla città,
il monte della città>
quello ch'è meta di pellegrinaggi e di avventure di ragazzi
come succede nei mondi <preindustriali>?
E giunti lì in cima, il figlio e gli altri ragazzi,
avrebbero dovuto preparargli il rogo,
e farlo morire?
Entra in quel sogno, se sei padre.
Tu, padre, che magari innocentemente, sei complice
dei padri
<che vogliono liberarsi dei figli
mandandoli a morire in guerre che si combattono
nei luoghi dell'Alibi, l'estremo Oriente della storia>.
Qui, per una volta,
il padre non vuole la morte del figlio, ma il suo amore.
Diviene lui il figlio, e nel figlio, ragazzo, vede forse il padre,
e lo ama, non vuole ucciderlo, ma esserne ucciso,
non possederlo, ma esserne posseduto.
Sì, ma quel padre è un uomo borghese del nostro mondo,
ha un'industria sotto i monti della Brianza (festosi nel cielo
e nel cielo perduti):
come potrà accettare le conseguenze di quel sogno, del resto,
non ricordato?
Le accetterà <stravolgendole>. Sapendo e non sapendo.
Si farà cogliere dal figlio nudo sopra la madre.
Cercherà dei pretesti per colpire il figlio,
e, quindi, farsi colpire.
Aggredirà il figlio
per attirarlo su lui,
per essere il centro della sua vita.
Finché il figlio, il lieve figlio <mozartiano>,
<pacifista> e obiettore di coscienza, se ne andrà
dalla casa ricca,
avendo ascoltato dal padre delirante una dichiarazione d'amore.
Non lo odierà - ti dico - il ragazzo
(uno di quei ragazzi nuovi, tanto migliori di noi),
e, se avesse potuto farlo,
avrebbe dato al padre mendicante tutto il suo oro,
l'avrebbe posseduto come il ragazzo del popolo
possiede, per pochi dollari, colui che non ha forza d'essere uomo
e lo invoca dunque come un salvatore...
Se ne va, per le vie del mondo,
con una ragazza,
nient'altro che una puttana, e un amico:
né si saprà mai a chi vada il suo amore
benché egli, certamente, profonda il suo oro
sul grembo della ragazza.
Viene il padre, spia, lo trova, corrompe la ragazza,
sta a guardare dietro alla porta il loro amore,
scopre quello che il figlio
ha senza mistero, come ognuno ha,
eppure è in lui <orrendamente insopportabilmente misterioso>.
Non può il padre, vivere dopo aver visto quell'amore,
entra e colpisce a morte il figlio,
che esce piangendo e salutando la vita
dalla stanza di uno dei mille <...> coiti della sua vita.
Muore. E su lui morto il padre si china ad abbottonare
i calzoni aperti sul fulgore immacolato della canottiera.
<Il padre, dopo tanti anni>, come nei romanzi d'appendice,
conclude il lungo sogno della sua vita
sognando sul terrapieno di una stazione
come in un verso di Ginsberg.
Ecco.
Ecco, queste sono le opere che vorrei fare,
che sono la mia vita futura - ma anche passata
- e presente.
Tu sai, tuttavia te l'ho detto, anziano amico, padre
un po' intimidito dal figlio, ospite
alloglotta potente dalle umili origini,
che nulla vale la vita.
Perciò io vorrei soltanto vivere
pur essendo poeta
perché la vita si esprime anche solo con se stessa.
Vorrei esprimermi con gli esempi.
Gettare il mio corpo nella lotta.
Ma se le azioni della vita sono espressive,
anche l'espressione è azione.
Non questa mia espressione di poeta rinunciatario,
che dice solo cose,
e usa la lingua come te, povero, diretto strumento;
ma l'espressione staccata dalle cose,
i segni fatti musica,
la poesia cantata e oscura,
che non esprime nulla se non se stessa,
per una barbara e squisita idea ch'essa sia misterioso suono
nei poveri segni orali di una lingua.
Io ho abbandonato ai miei coetanei e anche ai più giovani
tale barbara e squisita illusione: e ti parlo brutalmente.
E, poiché non posso tornare indietro,
a fingermi un ragazzo barbaro,
che crede la sua lingua l'unica lingua del mondo,
e nelle sue sillabe sente misteri di musica
che solo i suoi connazionali, simili a lui per carattere
e letteraria follia, possono sentire
- in quanto poeta sarò poeta di cose.
Le azioni della vita saranno solo comunicate,
e saranno esse, la poesia,
poiché, ti ripeto, non c'è altra poesia che l'azione reale
(tu tremi solo quando la ritrovi
nei versi, o nelle pagine in prosa,
quando la loro evocazione è perfetta).
Non farò questo con gioia.
Avrò sempre il rimpianto di quella poesia
che è azione essa stessa, nel suo distacco dalle cose,
nella sua musica che non esprime nulla
se non la propria arida e sublime passione per se stessa.
Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti,
che io vorrei essere scrittore di musica,
vivere con degli strumenti
dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare,
nel paesaggio più bello del mondo, dove l'Ariosto
sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta
innocenza di querce, colli, acque e botri,
e lì comporre musica
l'unica azione espressiva
forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà.
Mi destai d'improvviso, io ero solo.
Conobbi l'assiuolo ai vecchi gemiti
che dal cielo battevano vicini
dentro il mio petto.
Con quel canto fui vivo nel silenzio.
Ma, perduto nei sogni, del mio corpo
nulla restava se non una delusa
morta memoria.
E anche tu (memoria, non immagine)
su di me, su quel canto sovrastavi
e facevi tremendo quel silenzio
non comparendo.
M'eri in dissoluzione nella buia
carne, nei sogni: una mortale spoglia
sperduta dietro questa vita; eppure
ti amavo sempre.
... el vuelo! el vuelo! el vuelo!
A. Machado
A Casarsa nasceva, un giorno, il sole:
e io dov'ero? Nella schiuma lieve
iridata del sonno, con il cuore
dentro un soave bozzolo di luce,
volavo. Estasiato, senza ali,
volavo a mezza strada tra la terra
e il cielo, volavo nella luce
delle campagne illuminate in sogno.
Commosso sulla mia infelicità,
felice credo nel conforto della
parola che svela, che degrada.
Temo solo la morte, il puro fatto
della morte. Tutto il resto si gioca.
Se qualcuno mi chiede (e qualcuno
me lo chiede) dove vado con me
risponderei di non saperlo. Ho avuto
fin nel ventre materno, con la gioia,
questa sicurezza in una vera,
assoluta, inconoscibile irrealtà.
C'era nel mondo - nessuno lo sapeva -
qualcosa che non aveva prezzo,
ed era unico; non c'era codice né Chiesa
che lo classificasse. Era nel mezzo
della vita e, per confrontarsi, non aveva
che se stesso. Non ebbe, per un pezzo
nemmeno senso; poi riempì l'intera
mia realtà. Era la tua gaiezza.
Quel bene hai voluto distruggerlo;
piano piano, con le tue stesse mani;
gaiamente: te n'è rimasto
un fondo, inalienabile: mi sfugge
il perché di tanta furia nel tuo animo
contro quel nostro amore così casto.
Benevento, 3 febbraio 1973
Pubblicata in Antologia poetica della Resistenza italiana, a cura di E. F. Accrocca e V. Volpini, Landi, Firenze, 1955.
Composta, su musica di Marcello Panni, per un recital di Laura Betti, Giro a vuoto n. 3, rappresentato per la prima volta a Milano il 12 novembre 1961; e pubblicata in Laura Betti, a cura di F. Crivelli, s. i. d. (ma 1963). Nel film La rabbia era recitata dalla voce fuori campo di Giorgio Bassani.
Pubblicata su «Nuovi Argomenti», luglio-dicembre 1980, a cura di Enzo Siciliano, con una nota del medesimo secondo il quale, nella maggior parte, questi versi sarebbero stati scritti nell'agosto del 1966. Ora in Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1993, con la seguente nota: «Siciliano precisa che Poeta delle Ceneri porta come primitivo titolo scritto a macchina Who is me, e una dicitura aggiunta a penna biro «Appendice al volume antologico di versi». Avvalendoci del riscontro sul dattiloscritto, abbiamo apportato alcune correzioni al testo di «Nuovi Argomenti», in particolare abbiamo restaurato (tra parentesi uncinate) un lungo brano che nel dattiloscritto non reca un chiaro segno di cancellatura, ma piuttosto un segno di incertezza. Abbiamo invece conservato i puntini di sospensione tra parentesi quadre già inseriti in «Nuovi Argomenti» quando le cancellature sono evidenti; abbiamo infine segnalato con <...> i luoghi dove l'autore prevedeva l'inserimento di parole o di versi che non sono mai stati scritti».
Prima delle Cinque poesie d'amore, risalenti agli anni 1945-1946, in Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1993.
Testo introduttivo del gruppo di poesie Via degli amori (1946), in Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1993.
Primo dei tre testi che compongono Scartafaccio 1948 in Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1993.
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