Documente online.
Zona de administrare documente. Fisierele tale
Am uitat parola x Creaza cont nou
 HomeExploreaza
upload
Upload




QUARE ALIQUA INCOMMODA BONIS VIRIS ACCIDANT, CUM PROVIDENTIA SIT

Italiana


QUARE ALIQUA INCOMMODA BONIS VIRIS ACCIDANT,



CUM PROVIDENTIA SIT *

1 l. Quaesisti a me, Lucili, quid ita, si providentia mundus age-

retur, multa bonis viris mala acciderent. Hoc commodius in

contextu operis redderetur, cum praeesse universis providen­

tiam probaremus et interesse nobis deum; sed quoniam a toto

particulam revelli placet et unam contradictionern manente

lite integra solvere, faciam rem non difficilem, causam deo­

rum agam.

Supervacuum est in praesentia ostendere non sine aliquo

custode tantum opus stare nec hunc siderum coetum discur­

sunique fortuiti impetus esse, et quac casus incitat saepe tur­

bari et cito arietare, hanc inoffensam velocitatem procedere

* SOTTOTITOLO. aliqua incommoda: il sottotitolo, se è, come sembra, au­

tentico (vd. Introduzione, § 1 e n. 1), riprende la domanda di Lucilio punto

per punto, ma ridimensionandola sia quantitativamente (aliqua e non multa),

sia qualitativamente (incommoda e non mala), che è la distinzione basilare di

tutto il dialogo, cfr. Intr, § 8 e n. 91, ed ep. 92, 16: «ci sono nella vita cose

favorevoli e sfavorevoli (commoda et incommoda), ma le une e le altre fuori

di noi (extra nos)». Terminologia stoica (cfr. Cicerone, fin. 5, 78), calcata sul

greco.

l. I. quid ita: formula colloquiale, frequentissima nella lingua d'uso (alme­

no 5 occorrenze in Seneca).

ageretur: ago è «mandare avanti un'attività». Lectio difficilior rispetto alla

variante regeretur. 353o147d


PERCElt CAPITANO AGLI UOMINI BUONI DELLE DISGRAZIE,

DAL MOMENTO CHE C'ù LA PROVVIDENZA



I. Mi hai chiesto, Lucilio, perché mai, se l'universo è amministrato dalla provvidenza, molti mali càpitano agli uomini buoni- La risposta sarebbe più a suo luogo in un'opera organica, dove dimostrassi che la provvidenza presiede a tutte le cose e che dio s'interessa di noi; ma poiché si è deciso di stralciare dal tutto una piccola parte e di risolvere una sola obiezione, lasciando impregiudicata la causa, farò una cosa non difficile, l'avvocato degli dei.

L superfluo per il momento mostrare che un'opera cosii grande non può sussistere senza guardiano e che questo convergere e divergere di stelle non è un moto casuale; i movimenti dovuti al caso spesso provocano disordine e presto coz



revelli: verbo forte («strappare, svellere ciò che è ben radicato»), che dice l'arbitrarietà del procedimento e giustifica quindi l'insufficienza e la parzialità (particulam) della trattazione.

2. Supervacuum: Seneca concentra in 3 §§ (2-4) la prova cosmologica della provvidenza per assumere, secondo la richiesta di Lucilio, un punto di vista antropologico.

coetum: con valore dinamico (cfr. impetus), come antonimo di discursum (cfr. Gellio, 14, 1, 8: stellarum motus et vias et discursiones et coetus), termine tecnico dell'astronornia, cfr. A. Le Bocuffle, Astronomie Astrologie: Lexique latin, Paris 1987, pp. 93 ss.

arietare: «dar di cozzo come l'ariete», termine popolare e militarc, evitato da Cicerone ma amato da Seneca per la sua espressività (non meno di 8 occorrenze, oltre la neoformazione arietatio).



aetemae legis imperio tantum rerum terra marique gestan­tem, tantum clarissimorum luminuni et ex disposito relucen­tium; non esse materiae errantis hunc ordinem nec quae te­mere coierunt tanta arte pendere ut terrarum gravissinumi pondus sedeat inmotum et circa se properantis caeli fugam speetet, ut infusa vallibus maria molliant terras nec ullum in­crementum fulminum sentiant, ut ex minimis sen-ùnibus na-

scantur ingentia. Ne illa quidem quae videntur confusa et in-

certa, pluvias dico nubesque et elisorum fulminum iactus et

incendia ruptis montium verticibus effusa, tremores labantis

soli aliaque quae tumultuosa pars rerum circa terras movet,

sine ratione, quanivis subita sint, accidunt, sed suas et illa

causas habent non minus quarti quae alienis locis conspecta

miraculo sunt, ut in mediis fluctibus calentes aquae et nova

insularum in vasto exilientium mari spatia.

lam vero si quis observaverit nudari litora pelago in se re­

cedente eademque intra exiguum tempus operiri, credet cae­

ca quadam volutatione modo contrahi undas et introrsum agi,

modo ertimpere et magno cursu repetere sedem suam, cum

interim illae portionibus crescunt et ad horam ac diem sub­

eunt ampliores minoresque, prout illas lunare sidus elicuit, ad

cuius arbitrium oceanus exundat. Suo ista tempori reserven­

tur, co quidem magis quod tu non dubitas de providentia sed

quereris.

gestantem: il frequentativo denota continuità e regolarità del portare.

pendere ecc.: è il cosmo tolemaico: al centro l'elemento più pesante, la terra,

sospesa nel vuoto (pendebat in aere, dice Ovidio, met. 1, 12) e intorno ad es­

sa il cielo roteante.

spectet: come se la terra condividesse con l'uomo l'ebbrezza dello spettaco­

lo cosinico (cfr. la mia Intr. a Seneca, Consolazioni, cit., p. 23).

vallibus: «goll'i» o «insenature», cfr. nat. quaest. 3, 8, dove vallibus è ripre­

so da sinus.

ex minimis seminibus: altra tradizionale argomentazione stoica, già in Cice­

rone (nat. deor. 2, 81, cfr. la nota ad loc. di A.S. Pease, Cambridge Mass.

1958) e altrove in Seneca.

3. elisorumfulminum: per gli antichi, che non conoscevano l'elettricità, i ful­

mini erano generati dall'attrito delle nubi (elidere, «fare uscire urtando, hai­

tendo»), cfr. nat. quaest. 2, 21 ss.


zano tra loro, mentre procede al comando di una legge eterna questa velocità che porta senza scosse tante cose per terra e per mare, tante luci di stelle armoniosamente splendenti; non è effetto di una materia errabonda quest'ordine, e aggregati fortuiti non potrebbero restare sospesi con tanto equilibrio che la massa pesante della terra stia immobile al centro e con­templi intorno a sé la fuga vorticosa del cielo, che i mari pe­netrando nei golfi ammorbidiscano la terra senza sentire l'ap­porto dei fiumi, che da semi minuscoli nascano cose di gran­di dimensioni. Neppure i fenomeni che appaiono caotici e ir­regolari, cioè le piogge e le nuvole e gli scoppi dei fulmini e le eruzioni vulcaniche, le scosse dei terremoti e le altre mani­festazioni della fascia turbolenta attorno alla terra, avvengo­no senza una ragione, per quanto siano imprevedibili, ma hanno anch'esse le loro cause non meno di quei fenomeni che, se osservati fuori delle loro sedi naturali, ci fanno l'ef­fetto di un miracolo, come le correnti calde in mezzo ai flutti e l'emergere di nuove isole nella vastità del mare. Chi poi os­servi che le spiagge si scoprono al rifluire del mare ed entro breve tempo tornano a coprirsi, crederà che un cieco ondeg­giamento faccia ora concentrare e ritirare i flutti in se stessi, ora prorompere e rioccupare impetuosamente le loro sedi, quando invece essi crescono regolarmente aumentando o di­minuendo a giorni e ore fisse secondo la forza di attrazione della luna, da cui dipende il traboccare dell'oceano. Di que­sto si tratterà a suo tempo, tanto più che tu non dubiti della provvidenza, ma te ne lamenti.


tumultuarla pars rerum: il mondo sublunare, sede dei fenomeni atmosferici, cfr. cons. Helv. 20, 2: «lo spazio fra il cielo e la terra, sempre sconvolto (tu­multuosum) da fenomeni paurosi, tuoni fulmini e soffiare di venti, precipita­re di pioggia di neve di grandine» e la mia nota ad loc.

insularum... exilientium: l'emergere di isole vulcaniche, fenomeno attestato da Posidonio e verificatosi anche al tempo di Seneca (nostra memoria Vale­rio Asiatico consule iterum, cioè nel 46, nat. quaest. 2, 26, 4-6).

4. Il ritmo delle maree. portionibus: comunemente pro portione (portionibus anche in ben. 6, 33, 2): gli aumenti sono proporzionali ai tempi, cioè regola­ri (cfr. nat. quaest. 3, 16, 2: «le acque hanno periodi di crescita e decresci­ta»).



In gratiam te reducam cum dis adversus optimos optimis.

Neque enim rerum natura patitur ut urnquam bona bonis no­

ceant; inter bonos viros ac deos amicitia est conciliante virtu­

te. Amicitiarn dico? immo etiam necessitudo et sírnilitudo,

quoniam quidem bonus tempore tantum a deo differt, disci­

pulus eius aemulatorque et vera progenies, quain parens ille

magnificus, virtutum non lenis exactor, sicut severi patres,

durius educat. Itaque cum videris bonos viros acceptosque

dis laborare sudare, per arduurn escendere, malos autem la­

scivire et voluptatibus fluere, cogita filiorum nos modestia

delectari, vemularum licentia, illos disciplina tristiori conti­

neri, horum ali audaciam. Idem tibi de deo liqueat: bonum vi­

rum in deliciis non habet, experitur indurat, sibi illum parat.


2. 'Quare multa bonis viris adversa eveniunt?'Nihil accidere bono viro mali potest: non miscentur contraria. Quemadmo­dum tot amnes, tantum supeme deiectorum imbrium, tanta medicatorum vis fontium non mutant saporem maris, ne re­mittunt quidem, ita adversarum impetus rerum viri fortis non

5. bona bonis noceant: cfr. ir. 2, 27, 1: «ci sono cose che non possono nuo­cere e non hanno altro effetto che benefico e salutare, come gli dei immorta­li, che non vogliono nuocere né lo possono». Se dio è bontà (motivo platoni­co, cfr. Tim. 29, D-E, tradotto sia da Cicerone che da Seneca, ep. 65, 10, cfr. Lo stile "drammatico", cit., p. 37 s.), il male non può venire da lui.

immo etiam: il primo avverbio corregge, il secondo accresce.

tempore tantum a deo differt: cfr. ep. 53, 11: «chiedi che differenza ci sarà fra te e loro (sc. gli deffl Un'esistenza più lunga»; 73, 13: «in che Giove supera gli uomini buoni? La sua bontà è più duratura»; const. sap. 8, 12: «il saggio si pone in vicinanza e in prossimità degli dei, simile a dio (similis deo) tran­ne che per l'immortalità».

aemulator: cfr. ep. 124, 23: animus... aemulator del; 59, 18: deorum aemu­los. Laemulatio, l'«emulazione», dice più che la similitudo, la «somiglian­za», in quanto può superare chi emula, come dirà Seneca alla fine (6, 6), an­dando oltre la platonica ógoí(oatg,&F-Cp («assimilazione a dio»), cfr. Lo stile "drammatico", cit., p. 6 1.

vera progenies: conclude in climax le tre apposizioni. Per gli stoici dio, co­me fuoco immanente all'universo, è in tutte le cose, ma in misura maggiore


Ti riconcilierò con gli dei, buoni verso i buoni. Infatti la natura non tollera che il bene possa mai nuocere ai buoni: fra gli uomini buoni e gli dei c'è amicizia, tramite la virtù. Ho detto amicizia? No, di più, parentela e somiglianza, dal mo­mento che l'uomo buono differisce da dio solo per la tempo­ralità, è suo discepolo ed emulo e vera prole, che quel subli­me genitore, esigente maestro di virtù, educa senza mollezza, come i padri severi. Perciò quando vedrai uomini buoni e ca­ri agli dei penare, sudare, faticare in salita, i cattivi invece spassarsela e nuotare nei piaceri, pensa che noi godiamo del ritegno dei figli e dell'impertinenza dei piccoli schiavi, che quelli sono tenuti a freno da una disciplina severa, di questi s'incoraggia l'insolenza. Lo stesso ti sia chiaro di dio: non vi­zia l'uomo buono, lo mette alla prova, lo tempra, lo predispo­ne per sé.


2. «Perché càpitano molte avversità agli uomini buoni?» Nes­sun male può capitare all'uomo buono: non si mescolano i contrari. A quel modo che tanti fiumi, tanti rovesci di pioggia dall'alto, tanta abbondanza di fonti minerali non alterano il sapore del mare, e neppure lo mitigano, così l'assalto delle

nell'anima dell'uomo, perciò, metaforicamente, «vera prole» di dio (cfr. ep. 110, 10: deus etparens noster). Così Seneca introduce il tema dell'amore pa­temo di dio.

exactor: vd. 4, 11: plus laboris ab iis exigunt.

6. vemularum: i piccoli schiavi nati in casa e quìndi trattati con più familia­rità e indulgenza. Orazio parla di vernas procaces, «impertinenti» (sat. 1, 6, 66, e cfr. const. sap. 11, 3).

in deliciis non habet: è il corrispondente transitivo di in deliciis alicuius es­se, «essere il beniamino di qualcuno», cfr. ep. 96, 4: neque di .. faciant ut te fortuna in deliciis habeat.

parat: vd. oltre, 5, 8.

2. l. non miscentur contraria: cfr. const. sap. 2, 3: non coeunt contraria. Po­sizione opposta a quella di Crisippo, per il quale male e bene erano indisso­lubili (vd. Intr., § 2), che Seneca condividerà in 5, 9 (vd. oltre). Nella pro­spettiva più etica che dialettica di Seneca il male non coesiste col bene per­ché quello che capita al vir bonus non è malum, ma incommodum.



vertit animum: manet in statu et quidquid evenit in suum co­2 lorem trahit; est enim omnibus extemis potentior. Nec hoc di­co, non sentit illa, sed vincit, et alioqui quietus placidusque contra incurrentia attollitur. Omnia adversa exercitationes putat. Quis autem, vir modo et erectus ad honesta, non est la­boris adpetens iusti et ad officia cum periculo promptus? Cui

non industrio otium poena est? AthIetas videmus, quibus vi­rium cura est, cum fortissimis quibusque confligere et exige­re ab iis per quos certamini praeparantur ut totis contra ipsos viribus utantur; caedi se vexarique patiuntur et, si non inve-

niunt singulos pares, pluribus simul obiciuntur. Marcet sine adversario virtus: tunc apparet quanta sit quantuinque pol­leat, cum quid possit patientia ostendit. Scias licet idetri viris bonis esse facienduni, ut dura ac difficilia non reformident nec de fato querantur, quidquid accidit boni consulant, in bo­num vertant; non quid sed quemadmodurn feras interest.

5 Non vides quanto aliter patres, aliter matres indulgeant? il­li excitari iubent liberos ad studia obeunda mature, feriatis quoque diebus non patiuntur esse otiosos, et sudorem illis et ìnterduni lacrimas excutiunt; at matres fovere in sinu, conti­nere in umbra volunt, nuinquani contristari, nuinquani fiere,



omnibus externis potentior: identificando gli adversa con gli externa, in an­titesi con l'animus, Seneca introduce nella teodicca il tema a lui caro dell'in­teriorità, vd. Intr., § 8 e tranq. an. 14, 2: «si deve ricondurre l'animo a se stes­so dalle cose esterne: confidi in sé, goda di sé... non senta le perdite, volga in bene (benigne interpretur: vd. oltre, 2, 4: boni consulant, in bonum vertant) anche le avversità».

2. non sentit: l'dc7c(íi~Ft(x stoica, mitigata da Seneca sulla scorta di Posidonio, cfr. ep. 9, 3 e la cit. Introduzione a Seneca, Consolazioni, p. 12; A. Grilli, Il problema della vita contemplativa nel mondo greco-romano, Milano 1953, p. 139.

quietus placidusque: la ya)LAvil («mare calmo») stoica (cfr. const. sap. 13, 5: perpetua tranquillitas): contro la sua staticità Seneca gioca il dinamismo verticale di attollitur, metafora dell'energia morale del vir bonus (cfr. cons. Helv. 13, 6: se extollit), perché «starsene in una inerzia inalterata non è cal­ma, è bonaccia» (non est tranquillitas, malacia est., ep. 67, 17, e vd. oltre, 4, 6).

exercitationes: l'áa1cijaig stoica, che «indurisce l'animo» (ep. e lo fortifica. Cicerone ne tratta, con esempi affini, in Tusc. 2, 34-41; Musonio Rufo ed Epitteto le dedicano un capitolo delle loro Diatribe (rispettivamen-



avversità non smuove il cuore dell'uomo forte: rimane com'era e ogni avvenimento lo assimila a sé, perché è più po­tente di tutte le cose esteme. Non dico che non le sente, ma le vince, e, normalmente pacifico e tranquillo, insorge contro ciò che lo assale. Tutte le avversità le considera esercizi. Chi poi, purché sia un uomo e abbia senso morale, non è deside­roso di una giusta fatica e pronto a pericoli per il dovere? Per quale persona attiva l'inattività non è un castigo? Gli atleti, che si curano del loro fisico, li vediamo combattere con tutti i più forti ed esigere dagli allenatori che li impegnino con tut­te le loro forze: si fanno colpire e malmenare e, se non trova­no un loro pari, ne affrontano più d'uno alla volta. Infrollisce la virtù senza avversario: la sua grandezza e il suo vigore si manifestano solo quando essa mostra la sua capacità di sop­portazione. Sappi pure che lo stesso devono fare gli uomini buoni, non spaventarsi delle asprezze e difficoltà e non la­mentarsi del fato, prendere bene e volgere in bene ogni avve­nimento: importa non quello che sopporti, ma come lo sop­porti-

Non vedi come si esprime diversamente l'affetto dei padri e delle madri? Quelli svegliano e mandano di buon'ora al la­voro i figli, anche nei giomi di vacanza non gli permettono di non far nulla, spremono sudore e talvolta lacrime: le madri invece vogliono tenerseli stretti, al caldo e al chiuso, mai cau-



te 6 e 3, 12). Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali efilosofia antica, trad. ital., To­rino 1988, pp. 29 ss.

3. Athletas: paragone topico, adibito spesso da Seneca (per es. in ep. 78, 16), che lo trovava già in un passo del padre, Seneca il Vecchio, contr 9, praef. 4: «gli atleti si allenano con due o tre alla volta per resistere più facilmente ai singoli avversari».

4. marcet: cfr. ep. 67, 14 citata sopra (2, 2) e Intr., § 7.

patientia: lo intendo ablativo, vd. oltre, 4, 13: patientiapervenit. non quid sed quemadmodum: toma l'antitesi fra gli externa e l'animus, con la stessa correctio (cfr. Lo stile "drammatico", cit., p. 93 s.) di ep. 71, 24: non tantum quid videas, sed quemadmoduni refert.

S. patres: è nota la tradizionale severità educativa dei padri a Roma, cfr. M. Bettini, Antropologia e cultura romana, Roma 1986, p. 18 s.

indulgeant: la manifestazione dell'affetto (cfr. 2, 6: amat).

in umbra: all'ombra delle pareti domestiche, in opposizione agli esercizi giri-



numquam laborare. Patrium deus habet adversus bonos viros animum et illos fortiter amat et 'operibus' inquit 'doloribus damnis exagitentur, ut verum colligant robur. Languent per inertiam saginata nec labore tantum sed motu et ipso sui one­re deficiunt. Non fert ullum icturn inlaesa felicitas; at cui ad­sidua fuit cum incommodis suis rixa, callum per iniurias duxit nec ulli malo cedit, sed etiam si cecidit de genu pugnat. Miraris tu, si deus ille bonorum amantissimus, qui illos quam optimos esse alque excellentissimos vult, fortunam illis cum qua exerceantur adsignat? Ego vero non miror, si aliquando impetum capiunt spectandi <di> magnos viros conluctantis

cum aliqua calamitate. Nobis interdum voluptati est, si adule­scens constantis animi inruentem feram venabulo excepit, si leonis incursum interritus pertulit, tantoque hoc spectaculum est gratius quanto id honestior fecit. Non sunt ista quae pos­sint deorum in se vultum convertere, puerilia et humanae

oblectamenta levitatis: ecce spectaculum dignum ad quod re­spiciat intentus operi suo deus, ecce par deo dignum, vir for­tis cum fortuna mala compositus, utique si et provocavit. Non


nastici all'aria aperta (cfr. const.sap. 3, 1: sole et exercitatione et cura cor­porum diem educunt, «passano il giorno a esercitare il corpo al sole»; Muso­nio Rufo, diatr. 19: «b;sogna sentire... il freddo d'inverno e il sole d'estate e non essere allevati all'ombra» [trad. R. Laurenti, Roma 1967]). Anche Cice­rone aveva opposto l'ombra al sole (Mun 30, e cfr. Tusc. 5, 78: nos umbris deliciis otio languore desidia animuni infecimus, «noi abbiamo insozzato l'animo nell'ombra nelle raffinatezze nell'inerzia nella fiacca nell'ozio»).

verum: quella morale.

saginata: cfr. ep. 122, 4: «i volatili di allevamento sono tenuti al chiuso, af­finché senza muoversi ingrassino facilmente: così restando fèrm~ ne invade il corpo gonfiore e... pinguedine (sagina)», e Intr, §7.

callum... duxit: metafora topica, cfr. Cicerone, Tusc. 2, 36; cons. Marc. 8, 2. 7. cum qua: espungere cum, come propone L. Castiglioni (Studia Annaeana, «Athen.» 7, 1919, p. 229 s.), significa degradare la Fortuna da persona (av­versaria e allenatrice, vd. sopra, 1, 3 e oltre, 4, 12) a strumento.

capiunt: il testo trádito, benché difeso da J. Múller (Kritische Studien zu den kleineren Schriften des Philosophen Seneca, Wien 1889, pp. 4-8), Hermes e Reynolds, presenta un durissimo passaggio dal singolare (vult, adsignat) al plurale. Le congetture paleograficamente più plausibili sono capiat di D.R.


sargli dispiaceri, mai lacrime, mai fatiche. Dio ha cuore di pa­dre verso gli uomini buoni e li ama virilmente: «Siano sem­pre alle prese» dice «con lavori, dolori, privazioni, per acqui­stare la vera forza». Infiacchiscono nell'ozio i corpi impin­guati e li spossa non solo la fatica, ma il movimento e il loro stesso peso. Non regge a nessun colpo una prosperità incon­trastata; ma chi ha dovuto sostenere una lotta continua con le sue disgrazie, ha fatto il callo alle avversità e non cede a nes­sun male, ma anche caduto combatte in ginocchio. E tu ti me­ravigli se quel dio che ama tanto i buoni, che li vuole i mi­gliori e i più perfetti possibile, gli assegna la fortuna contro cui esercitarsi? Io davvero non mi meraviglio se ogni tanto agli dei viene il desiderio di vedere grandi uomini in lotta con qualche disgrazia. A noi talvolta fa piacere se un giovane di cuore saldo affronta col ferro in mano la carica di una belva, se sostiene senza paura l'assalto di un leone, e tale spettacolo è tanto più gradito quanto più nobile è chi lo dà. Ma non so­no queste le cose che possono far volgere su di sé lo sguardo degli dei, ragazzate e passatempi della frivolezza umana. Ec­co uno spettacolo degno di attirare l'attenzione di dio intento al suo compito, ecco una coppia degna di dio: l'uomo forte opposto alla cattiva fortuna, soprattutto se l'ha sfidata. Non

Shackleton Bailey (Emendations on Seneca, «Class. Quart.» 64, 1970, p. 356 s.), se non si urtasse col simmetrico indicativo adsignat (e vd. oltre, 4, 12: quid mirum, si deus... temptat?; 6, 2: quid.. miraris, si deus... patitur?); si <di> di H. A. Koch (Zu Senecas Dialogen, II, «Rhein. Mus.» 30,1875, p. 340), se l'uso senecano non fosse quello di unire si ad aliquando (cfr. ir. 1, 12,6; 3,27,4); e spectandi <di> di L.C.M. Aubert (Adnotationes in Senecae dialogum I, «Rhein. Mus.» 36,1881, p. 182), che sembra suffragato dalla le­zione di A: spectant di. Analoga variatio in 2, 10-11: deorum... deo... deos (sempre a proposito dello spectaculton) e 4, 11-12: di... deus.

8. honestior: allusione ai giovani nobili che per necessità economiche (cfr. ep. 99, 13) o per costrizione dell'imperatore (cfr. Tacito, ann. 14, 14) scen­devano nell'arena.

9. operi suo: di reggere il mondo. par: la coppia di gladiatori che si affrontavano nei ludi. Gli apologisti appli­cheranno il passo senecano ai martiri cristiani, vd. Intr, § 4 e n. 37.

virfortis cunifortuna mala: la posposizione dell'epiteto mala (unico caso su 25 occorrenze prosastiche di fortuna determinata da un qualificativo) serra



video, inquam, quid habeat in terris Iuppiter pulchrius, si <eo> convertere animum velit, quam ut spectet Catonem iam. partibus non semel fractis stanteni nihilo minus inter ruinas

lo  publicas rectum. Ticet' inquit 'omnia in unius dicionern con­cesserint, custodiantur legionibus terrae, classibus maria, Caesarianus portas miles obsideat, Cato qua exeat habet: una manu latam libertati viam. faciet. Ferrum istud, etiani civili bello purum et innoxium, bonas tandem ac nobiles edet ope­ras: libertatem quani patriae non potuit Catoni dabit. Aggre­dere, anime, diu meditatuni opus, eripe te rebus humanis. lani Petreius et luba concucurrerunt iacentque alter alterius manu caesi, fortis et egregia fati conventio, sed quae non deceat magnitudinem nostram: tam turpe est Catoni mortem ab ullo

petere quam vitarn.' Liquet mjhi cum magno spectasse gau­dio deos, dum ille vir, acerrimus sui vindex, alienae saluti consulit et instruit discedentium fugam, duni studia etiam nocte ultima tractat, dum gladium sacro pectori infigit, duni viscera spargit et illam sanctissimain animani indignainque

quae ferro contaminaretur manu educit. Inde crediderim fuis­se parum certum et efficax vulnus: non fuit dis inniortalibus satis spectare Catonem semel; retenta ac revocata virtus est ut in difficiliore parte se ostenderet; non enim tam magno animo


l'allitterazione sillabica (fortisIfortuna) a evidenziare iconicamente il contra­sto, topico nella diatriba e centrale nella morale senecana (cfr. Lo stile "dram­matico " cit., p. 92; Introduzione a Seneca, Letture critiche, cit., p. 11 s.).

Catonem: Catone l'Uticense, il santo dello stoicismo romario, dopo la defi­nitiva sconfitta dei pompeiani a Tapso (46 a.C.). Esempio topico, già in Se­neca il Vecchio (cfr. Abel, op. cit., p. 111).

rectum: semanticamente tautologico dopo stantem, visualizza in clausola, e in antitesi con fractos, l'irriducibilità di chi non si piega al vincitore.

10. Licet: sulla preferenza senecana per questa polemica congiunzione con­cessiva cfr. Lo stile "drammatico", cit., p. 9 l.

inquit: monologo tragico vero e proprio: ne è spia l'apostrofe all'animus se­guente (adgredere, anime), stilema in latino quasi esclusivamente tragico (cfr. la mia Introduzione a Catullo, I carmi, trad. di E. Mandruzzato, Milano 19969 [BURI, p. 21; Angela Maria Negri, Gli psiconimi in Virgilio, Roma 1984, p. 300) e attestato una trentina di volte nelle tragedie di Seneca.

portas: di Utica, in Spagna, dov'era assediato da Cesare.

qua exeat habet: il suicidio come garanzia di libertà tornerà a concludere cir­colarmente il dialogo, vd. Intr, § 6.


vedo, lo ripeto, cos'abbia di più bello in terra Giove, se vuo­le farvi attenzione, che vedere Catone, dopo le ripetute scon­fitte del suo partito, star tuttavia dritto fra le rovine dello sta­to. «Sia pure tutto» dice «in potere di uno solo, la terra presi­diata dalle legioni, il mare dalle flotte, i soldati di Cesare blocchino le porte, Catone ha una via d'uscita: basterà una sola mano ad aprirgli una larga via per la libertà. Questo fer­ro, puro e incolpevole anche in una guerra civile, farà alla fi­ne belle e gloriose azioni: la libertà, che non ha potuto dare alla patria, la darà a Catone. Attua, inio cuore, il progetto a lungo meditato, stràppati alle vicende umane. Già Petreio e Giuba si sono affrontati e giacciono uccisi l'uno per mano dell'altro, raro ed eroico patto di morte, ma indegno di noi: per Catone è tanto vergognoso chiedere ad altri la morte che la vita». Sono certo che gli dei hanno assistito con grande gioia allo spettacolo di quell'uomo, orgoglioso liberatore di se stesso, mentre provvede alla salvezza degli altri e organiz­za la partenza dei fuggiaschi, mentre attende allo studio an­che nell'ultima notte, mentre si trafigge con la spada il santo petto, mentre sparge le sue viscere e trae fuori con la mano quell'anima divina e indegna di essere contaminata dal ferro. Per questo, credo, il colpo fu poco fermo ed efficace: non ba­stava agli dei immortali essere spettatori di Catone una volta sola; la virtù fu trattenuta e richiamata perché si mostrasse in una parte più difficile: ci vuole un animo meno grande per an-


Petreius et Iuba: capi pompeiani, che dopo la sconfitta si diedero reciproca­mente la morte in duello.

11. studia: la lettura del Fedone platonico, che tratta dell'immortal ità dell'a­nima, cfr. ep. 24, 8, dove è introdotta una variante del monologo tragico di Catone, con apostrofe alla fortuna: «Non hai ottenuto nulla, fortuna, ostaco­lando tutti i miei tentativi. Sinora ho lottato non per la mia libertà ma per quella della patria ; ora, poiché non c'è più speranza per l'umanità, si porti Catone al sicuro».

manu educit: secondo Plutarco (Cat. Ut. 70) Catone si squarciò il petto con la spada, provocando la parziale fuoruscita delle viscere, ma, non essendo il colpo mortale, rifiutò il soccorso del medico e dilatò con le sue mani la feri­ta. Cfr. la cit. ep. 24, 8: «cacciò le mani nude nella ferita e quello spirito eroi­co e sdegnoso di ogni potenza non lo rese, ma lo espulse».

non... fuit satis: affiora quella vena sadica che trova il suo terreno nelle



mors initur quam repetitur. Quidni libenter spectarent alum­num suum tam claro ac memorabili exitu evadentem? mors illos consecrat quorum exitum et qui timent laudant.


3. Sed iam procedente oratione ostendam quani non sint quae videntur mala: nunc illud dico, ista quae tu vocas aspera, quae adversa et abominanda, primum pro ipsis esse quibus accidunt, deinde pro universis, quorum maior dis cura quani singulorum est, posi hoc volentibus accidere ac dignos malo esse si nolint. His adiciam fato ista sic ire et eadem lege bo­nis evenire qua sunt boni. Persuadebo deinde tibi ne uniquani boni viri miserearis; potest enim miser dici, non potest esse.

2 Difficillimum ex omnibus quae proposui videtur quod pri­muni dixi, pro ipsis esse quibus eveniunt ista quae horremus ac tremimus. 'Pro ipsis est' inquis 'in exiliuni proici, in ege­statem deduci, liberos coniugem ecferre, ignominia adfici, debilitariT Si iniraris haec pro aliquo esse, iniraberis quos­dani ferro et igne curari, nec minus fame ac siti. Sed si cogi­taveris tecuni remedii causa quibusdam et radi ossa et legi et extrahi venas et quaedam amputari membra quae sine totius pernicie corporis haerere non poterant, hoc quoque patieris



tragedie (cfr. P. Mantovanelli, La metafora del Tieste, Verona 1984, pp. 34 ss.).

evadentem: più forte che exeuntem (vd. sopra, 2, 2), è un uscire con sforzo e violenza, cfr. ep., 117, 23 (un'altra esortazione al suicidio): nemo te tenet: evade qua visum est, «esci per la via che ti pare», e vd. oltre, 5, 2.


3. l. quae videntur: cfr. ep. 85, 26: (virfortis) scit.. illa non esse mala sed vi­deri, «l'uomo forte sa che quelli non sono mali, ma solo lo sembrano».

maior dis cura quam singulorum: cfr. ep. 95, 50: (di) humani generis tutelam gerunt interdum incuriosi singulorum «(gli dei) tutelano l'umanità, talora senza curarsi degli individui». Lo stoicismo era incerto se estendere la prov­videnza all'individuo (per il quale né il greco né il latino hanno un termine proprio), cfr. Cicerone, nat. deor. 2, 64 con la ricca nota di Pease (e cfr. le opp. citt. di Capelle, p. 185 e Mazzoli, p. 965): il cristianesimo risponderà con Agostino (conf. 3, 11): Omnipotens, qui sic curas unumquemque no­strum tamquam solum cures, et sic omnes tamquam singulos, «Onnipotente, che ti curi di ognuno di noi come se fosse solo, e di tutti come se fossero sin­goli», traducendo nel linguaggio della filosofia la parabola della pecora smarrita.


dare che per tomare a morire. E non dovevano assistere con piacere a una fine così gloriosa e memorabile del loro pupil­lo? La morte consacra quelli la cui fine è lodata anche da chi la teme.


3. Ma nel seguito del discorso dimostrerò come non siano mali quelli che tali sembrano; per ora dico solo che questi eventi che tu chiami duri, dolorosi, detestabili, in primo luo­go sono a vantaggio proprio di quelli a cui càpitano, poi del­la totalità degli uomini, che agli dei sta più a cuore degli indi­vidui, poi che gli càpitano col loro consenso e che i mali se li meriterebbero se non vi consentissero. Aggiungerò che il cor­so di questi eventi è predestinato e che essi càpitano ai buoni per quella stessa legge per cui sono buoni. Per concludere, ti persuaderò a non aver mai compassione di un uomo buono: perché può dirsi infelice, non esserlo.

La più difficile delle argomentazioni sopra esposte sembra essere quella che ho detta per prima, cioè che sono a vantag­gio di chi vi incorre cotesti fatti di cui abbiamo orrore e timo­re. «t a loro vantaggio» obietti «che sono cacciati in esilio, ridotti in povertà, seppelliscono figli, moglie, perdono l'ono­re, la salute?» Se ti meravigli che tali fatti siano vantaggiosi, dovrai meravigliarti che certuni siano curati col ferro e col fuoco, nonché con la fame e con la sete. Ma se rifletterai che fu un rimedio per alcuni il raschio e l'estrazione delle ossa, l'estirpazione delle vene, l'amputazione di membra che non potevano restare attaccate al corpo senza distruggerlo, accet-


eadem lege: questa legge che determina tanto gli avvenimenti esterni quanto le disposizioni interiori degli uomini è una latente minaccia all,autonomia morale: cfr. nat. quaest. 2, 38, 3: «quando se ne tratterà [nella perduta Mora­lis pholosophia?], dirò come pur restando il fato ci sia qualcosa di libero nel­la volontà umana» (cfr. la cit. Introduzione a Seneca, Letture critiche, p. 9 s. e vd. oltre, 5, 6).

miserearis: la compassione (misericordia), in quanto turba la psiche, è con­dannata dallo stoicismo, cfr. ben. 2, 5, 1: omnes boni viri.. misericordiam... vitabunt: est enim vitium pusilli animi, «tutti gli uomini buoni eviteranno la compassione: perché è il vizio di un animo angusto».

2. debilitari: vd. oltre, 5, 3.



probari tibi, quaedam incommoda pro iis esse quibus acci­dunt, tam mehercules quam quaedam quae laudantur atque adpetuntur contra eos esse quos delectaverunt, simillima cru­ditatibus ebrietatibusque et ceteris quae necant per volupta­tem. Inter multa magnifica Demetri nostri et haec vox est, a qua recens sum - sonat adhuc et vibrat in auribus meis: 'nihil' inquit 'mìhi videtur infelicius eo cui nìhil umquam evenit adversi.' Non licuit enim illi se experirì. Ut ex voto il­li fluxerint omnia, ut ante votum, male tamen de illo di iudi­caverunt: indignus visus est a quo vinceretur aliquando fortu­na, quae ignavissimunì quemque refugit, quasi dicat: 'quid ergo? istum mihi adversarium adsumam? Statim arma sum­mittet; non opus est in illum. tota potentia mea, levi commi­natione pelletur, non potest sustinere vultum meum. Alius circumspiciatur cum quo conferre possimus manum: pudet 4 congredi cum homine vinci parato.' Ignominiam iudicat gla­diator cum inferiore componi et scit eum sine gloria vinci qui sine periculo vincitur. Idem facit fortuna: fortissimos sibi pa­res quaerit, quosdam fastidio transit. Contumacissimum quemque et rectissimum. adgreditur, adversus quem vim

3. Demetri: filosofo cinico amato e ammirato da Seneca, che lo cita una dozzi­na di volte: sarà presente alla morte di Trásea Peto (66 d.C.) ed esiliato da Ve­spasiano per la sua aggressività verbale contro il potere (Svetonio, Vesp.

nihil ecc: vedine il rifacimento senecano oltre, 4, 3 e vedine una versione modema in un paradosso di G.B. Shaw: «Un'intera vita di felicità! Nessun uomo potrebbe sopportarla, sarebbe l'inferno in terra» (citato e commentato da A. Tomo, L'infelicità, Milano 1996, p. 132).

quasi dicat: prosopopea della Fortuna, come spesso in Seneca (cfr. Mireille Anni sen-Marchetti, Sapientiaefacies, Paris 1989, p. 252 s.), di tradizione diatribica (cfr. A. Oltramare, Les origines de la diatribe romaine, Lausanne­Berne 1926, p. 14). Vd. oltre, 3, 14 e 6, 3.


terai anche la dimostrazione che certe avversità sono a van­taggio di chi le subisce: così come, per Ercole, certe cose lo­date e ricercate sono a danno di chi se ne è dilettato, come in­digestioni, ubriacature e ogni altra intemperanza che uccide attraverso il piacere. Fra i tanti detti magnifici del nostro De­metrio c'è anche questo, che ho udito da poco - risuona an­cora e vibra al mio orecchio -: «Non c'è, mi sembra, essere più sventurato di chi non ha mai avuto alcuna avversità». Per­ché non ha avuto la possibilità di mettersi alla prova. Posto che tutto gli sia andato secondo i suoi desideri, che li abbia prevenuti, gli dei tuttavia hanno dato di lui un cattivo giudi­zio: non è parso degno di vincere una volta tanto la fortuna, che fugge via da tutti i pusillanimi, come dicesse: «E io dovrei prendermi come avversario costui? Abbasserà subito le armi; contro di lui non c'è bisogno di tutta la mia potenza, basterà fargli un po' di paura, non può sostenere il mio aspetto. Si ve­da se c'è un altro con cui battermi: mi vergogno di scontrarmi con un uomo gia rassegnato alla sconfitta». Il gladiatore repu­ta un disonore essere opposto a uno inferiore e sa che si vince senza gloria chi si vince senza pericolo. Lo stesso fa la fortu­na: cerca chi le stia a pari, i più coraggiosi, certuni non li de­gna di uno sguardo. Assale tutti i più inflessibili e irriducibili,

anna summittet: in segno di resa, cfr. cons. Pol. 6, 2: statim percussus arma summiseris; Velleio Patercolo, 2, 85, 4: summissis a77nis cessere victoriam.

4. rectissimum: inutile la correzione di Th. Stangel (Zu Ammianus Marcelli­nus, Seneca de providentia und Plinius Panegyricus, «Philol.» 64, 1905, p. 311 s.), accolta da Viansino: <e>rectissimus. Qui non è in gioco l'altezza d'animo, ma l'inflessibilità di chi non si arrende alla fortuna (cfr. contuma­cissimos, «i più ribelli»), come il Catone di 2, 10 (vd. sopra) e il sapiens di ep. 71, 26, che stat rectus («senza curvarsi») sotto qualunque peso.



suani intendat: ignern experitur in Mucio, paupertatem in Fa­

bricio, exilium. in Rutilio, tormenta in Regulo, venenum. in

Socrate, mortem in Catone. Magnum. exemplum nisi mala

fortuna non invenit.

Infelix est Mucius quod dextra ignes hostium premit et

ipse a se exigit erroris sui poenas, quod regern quem armata

manu non potuit exusta fugat? Quid ergo? felicior esset, si in

sinu amicae foveret manum?

Infelix est Fabricius quod rus suum, quantum a re publica

vacavit, fodit? quod belluni tam cuin Pyrrho quani cum divi­

tiis gerit? quod ad focuni cenat illas ipsas radices et herbas

quas in repurgando agro triumphalis senex vulsit? Quid ergo?

felicior esset, si in ventrem suurn longinqui litoris pisces et

peregrina aucupia congereret, si conchyIiis superi atque infe­

ri maris pigritiam stomachi nausiantis erigeret, si ingenti po­

morum strue cingeret primae formae feras, captas multa cae­

de venantium?

Infelix est Rutilius quod qui illum danmaverunt causarn

dicent omnibus saeculis? quod aequiore animo passus est se

patriae eripi quam sibi exilium? quod Sullae dictatori solus

aliquid negavit et revocatus tantuni non retro cessit et longius

Mucio: Muzio Scevola si fece bruciare la destra per punirla di aver fallito il

colpo contro Porsenna (donde il nome di Scaevola, «mancino»).

Fabricio: Gaio Fabrizio Luscino, console e trionfatore nel 282 e 278, nel 279

non si fece corrompere dall'oro di Pirro.

Rutilio: Publio Rutilio Rufo, uomo politico e filosofo stoico, esiliato nel 94

a.C. per aver represso le malversazioni degli appaltatori delle imposte in

Asia Minore, rifiutò la grazia di Silla.

Regulo: Marco Attilio Regolo, suppliziato dai Cartaginesi nel 250 a.C. per

avere sconsigliato il senato di accettare le loro proposte.

Socrate: condannato a bere la cicuta nel 399 a.C. per non aver rinnegato la

sua predicazione filosofica. Esempi topici, come mostra fra l'altro il ricorre-


contro i quali scaricare la sua violenza: sperimenta il fuoco in Muzio, la povertà in Fabrizio, l'esilio in Rutilio, la tortura in Regolo, il veleno in Socrate, il suicidio in Catone. Un grande esempio non lo trova che la cattiva fortuna.

t sventurato Muzio perché preme la destra sul fuoco ne­mico e paga lui stesso il fio del suo errore, percbé mette in fu­ga con la mano bruciata il re che non poté mettere in fuga con la mano armata? E di': sarebbe più fortunato, se riscaldasse la mano nel seno dell'amante?

E sventurato Fabrizio perché vanga il suo campo tutto il tempo libero dalla vita pubblica? Perché fa guerra sia a Pirro che alla ricchezza? Perché accanto al focolare pranza con quelle stesse radici ed erbe che ha estirpato, il vecchio ex­trionfatore, nel ripulire il campo? E di': sarebbe più fortuna­to se accumulasse nel suo ventre pesci di lidi lontani e uccel­li esotici, se stimolasse la pigrizia di uno stomaco disgustato con ostriche dell'Adriatico e del Tirreno, se circondasse con cataste di frutti selvaggina di grossa taglia, catturata con mol­te perdite di cacciatori?

t sventurato Rutilio perché quelli che lo condannarono ne dovranno rispondere a tutti i secoli? Perché gli fu più facile rinunziare alla patria che all'esilio? Perché fu il solo a dire no al dittatore Silla e, richiamato in patria, per poco non andò in­dietro e fuggi più lontano?

re della stessa serie in ep. 98, 12 (singula vicere iam multi, ignem Mucius, crucem Regulus, venenum Socrates, exilium Rutilius, mortemjerro adactam [«violenta»] Cato) e degli stessi nomi nella raccolta di Fatti e detti memora­bili di Valerio Massimo (1 metà del 1 secolo d.C.).

6. longinqui litoris pisces ecc.: cfr. cons. Helv. 10,2: «non occorre frugare gli abissi marini né appesantire il ventre con cataste di animali né estrarre ostri­che dai lidi ignoti del mare più remoto».

7. causam dicent: cfr. quanto dice Seneca dello storico Crennizio Cordo, vit­tima di Tiberio, in cons. Marc. 26,1: «proscrisse in etemo chi lo proscrive­va».



fugit? 'Viderint' inquit 'isti quos Romae deprehendit felicitas tua: videant largum in foro sanguinem et supra Servilianuna lacum (id enim proscriptionis Sullanae spoliarium est) sena­torum capita et passim vagantis per urbern percussorum gre­ges et multa milia civium Romanorum uno loco post fidem, immo per ipsarn fidem trucidata; videant ista qui exulare non

possunt.' Quid ergo? felix est L. Sulla quoti illi descendenti

ad forum gladio summovetur, quod capita sibi consularium

virorum patitur ostendi et pretium caedis per quaestorem ac

tabulas publicas numerat? Et haec omnia facit ille, ille qui le­

gem Comeliam tulit.

Veniamus ad Regulum: quid illi fortuna nocuit quod illum

documentum fidei, documentum patientiae fecit? Figunt cu­

tem clavi et quocumque fatigaturn corpus reclinavit, vulneri

incumbit; in perpetuam vigiliam suspensa sunt lun-ùna: quan­

lo plus tormenti tanto plus erit gloriae. Vis scire quam non

paeniteat hoc pretio aestimasse virtutem? refige illum et mit-

te in senatum: eandern sententiam dicet. Feliciorem ergo tu

Maecenatern putas, cui amoribus anxio et morosae uxoris co­

tidiana repudia defienti somnus per symphoniarum cantum

ex longinquo lene resonantium quaeritur? Mero se licet so-



Viderint.. videant: non è variazione sintagmatica, ma differenza paradigma­tica. Il perfectum è formula metaforica («ci pensino», cfr. cons. Helv. 14, 2), l'infectum è in senso proprio.

felicitas tua: Silla si era dato il soprannome di Felix, «Fortunato», cui Sene­ca allude anche in cons. Mare. 12,6: Sulla tamfelix.

Servilianum lacum: fontana così detta dal suo costruttore, contigua alla basi­lica Giulia (Festo, p. 370 Linds).

spoliarium: il locale dell'anfiteatro dove si buttavano i gladiatori morti e si scannavano i semivivi (ep. 93, 12).

multa milia: settemila (clem. 1, 12, 2, dove l'episodio è narrato con più parti­colari), seimila per Plutarco (Sill. 30), massacrati vicino al tempio di Bellona, dopo aver avuto la promessa di aver salva la vita (postfidem, ben. 5, 16, 7, che qui Seneca corregge con immo; la parola data fu il tramite della resa. Su que­sta tipica correctio senecan a cfr. Lo stile "drammatico ", cit., pp. 95 ss.).

8. pretium caedis: la taglia (due talenti, dice Plutarco).

tabulas publicas: dove si registravano le entrate e le uscite dello stato. per quaestorem: responsabile dell'erario.

legem Corneliam: Cornelius era il nomen di Silla, che la promulgò nell'81 a.C. de sicariis et veneficiis, contro gli omicidi e gli avvelenamenti.


«Se la veda» dice «chi fu colto di sorpresa a Roma dalla tua fortuna: veda il foro inondato di sangue, e sopra il bacino di Servilio (dov'è il carnaio della proscrizione di Silla) le te­ste dei senatori, e bande di assassini scorazzare per la città, e molte migliaia di cittadini romani massacrati in uno stesso luogo dopo, anzi mediante la parola data: veda tali spettacoli chi non sa essere esule». E di': è fortunato Lucio Silla perché scendendo al foro gli si fa largo con la spada, perché accetta che gli mostrino le teste degli ex-consoli e paga il prezzo del­la strage tramite il questore e a spese dello stato? E tutto que­sto chi lo fa? Chi ha presentato la legge Comelia.

Veniamo a Regolo: che danno gli ha arrecato la fortuna fa­cendone un modello di lealtà, un modello di resistenza? Chiodi traffiggono la pelle e dovunque appoggia il corpo spossato, preme su una ferita; gli occhi senza palpebre ve­gliano ininterrottamente: più grande è il tormernto e più gran­de sarà la gloria. Vuoi sapere come non si penta di aver paga­to questo prezzo per la virtù? Schiodalo e rimandalo in sena­to: il suo parere sarà lo stesso. Credi dunque più fortunato Mecenate, che, disperato per pene d'amore e per il quotidia­no rifiuto di una moglie capricciosa, chiede il sonno alla blan­da musica di un'orchestra lontana? Cerchi pure di addormen-

9. documentumfldei: aveva dato la parola di tomare a Cartagine, se il senato avesse respinto le proposte dei Cartaginesi. Secondo la tradizione fu messo in una botte irta di chiodi con le palpebre tagliate (resectis palpebris, Cice­rone, Pis. 43).

10. Maecenatem: Gaio Cilnio Mecenate, di principesca famiglia etrusca, fu per Seneca il prototipo dell'effeminato, nella vita e nei versi (cfr. ep. 19, 9: «Fu un uomo d'ingegno e avrebbe dato un esempio di eloquenza romana, se non lo avesse snervato, anzi [immo] castrato, la sua felicitas»; soprattutto 114, 4-8 e JM André, Mecenate, trad. ital., Firenze 1991, pp. 11 ss.).

uxoris: Terenzia (vd. oltre, 3, 11). Altra allusione a Mecenate in ep. 74, 2: «vedrai quello tormentarsi per l'amore della donna altrui, quello della pro­pria». Degli amori di Mecenate parla Orazio (epod. 3, 20 ss.; 14, 13 ss.; for­se carm. ss.), ma non nel senso di Seneca.



piat et aquarum fragoribus avocet et mille voluptatibus men­tem anxiarn fallat, tam vigilabit in pluma quam ille in cruce; sed illi solacium est pro honesto dura tolerare et ad causam a patientia respicit, hunc voluptatibus marcidum et felicitate nin-ùa laborantem magis iis quae patitur vexat causa patiendi.

il    Non usque eo in possessionern generis humani vitia venerunt ut dubium sit an electione fati data plures nasci Reguli quam Maecenates velint; aut si quis fuerit qui audeat dicere Maece­natem se quam Regulum nasci maluisse, idern iste, taceat li­cet, nasci se Terentiam maluit.

Male tractatum Socratem iudicas quod illam potionern pu­blice mixtarn non aliter quam medicamentum inmortalitatis obduxit et de morte disputavit usque ad ipsam? Male cum il­lo actum est quod gelatus est sanguis ac paulatim frigore in­ducto venarum vigor constitit? Quanto magis huic inviden­dum est quam illis quibus gemma ministratur, quibus exole­tus omnia pati doctus exsectae virilitatis aut dubiae suspen­sam auro nivern diluit! Ili quidquid biberunt vomitu reme­tíentur tristes et bilem suam regustantes, at ille venenum laetus et libens hauriet.

14 Quod ad Catonern pertinet, satis dictum est, summamque illi felicitatem. contigisse consensus hominum fatebitur, quern sibi rerum natura delegit cum quo metuenda conlideret. 'Inì­micitiae potentium graves sunt: opponatur simul Pompeio, Caesari, Crasso. Grave est a deterioribus honore anteiri: Vati­nio postferatur. Grave est civilibus bellis interesse: toto terra-

ad causam a patientia respicit: propriamente Aistoglie lo sguardo dal pati­mento alla sua causa».

12. de morte disputavit: nel Fedone platonico.

gelatus est sanguis: cfr. Platone, Phaed. 117 C- 118.

13. gemma: in coppe ricavate da gemme o tempestate di gemme, cfr. Virgi­lio, georg. 2, 206: gemma bibat, Properzio, 3, 5, 4: nec bibit e gemma. Così, oltre, auro.

aut dubiae: cfr. ep. 47,7: «un altro coppiere abbigliato da donna lotta con l'età: non può sfuggire all'infanzia, ne viene tirato indietro, e già buono alla leva, tutto liscio coi peli rasati o estirpati sta sveglio tutta la notte».


tarsi col vino e di distrarsi col mormorio di fontane e di elu­dere l'ansia con mille piaceri, starà sveglio tra le piume come quello sulla croce; ma quello si consola delle sue sofferenze pensando che soffre per una buona causa, questo smidollato dai piaceri e oppresso da una eccessiva fortuna, lo tormenta, più di ciò che soffre, la causa del suo soffrire. 1 vizi non si so­no impossessati del genere umano al punto di far dubitare che, se si potesse scegliere il proprio destino, i più preferireb­bero nascere Regoli che Mecenati; o, se ci sarà chi ha il co­raggio di dire che avrebbe preferito nascere Mecenate che Regolo, costui, anche se non lo confessa, avrebbe preferito nascere Terenzia.

Pensi che sia andata male a Socrate, perché trangugiò la bevanda somministratagli dallo stato come fosse un farmaco d'immortalità e disputò sulla morte fino alla morte? Gli è sta­to fatto torto perché il sangue si gelò e a poco a poco salendo il freddo, si fermò la vita nelle vene? Quanto più è invidiabi­le di chi si fa servire in pietre preziose o liquefare la neve nel­l'oro da un ganzo istruito a tutto patire, di recisa o dubbia vi­rilità! Questi rimetteranno in vorniti quanto hanno bevuto, te­tri e riassaporando la loro bile: ma quello tracannerà lieto e di buona voglia il veleno.

Quanto a Catone, ne ho già detto abbastanza, e il mondo intero converrà che è toccata la più grande fortuna a chi la na­tura ha scelto come bersaglio dei suoi colpi più tremendi. «Le inimicizie dei potenti sono gravose: sia opposto a Pompeo, a Cesare, a Crasso contemporaneamente. gravoso essere sor­passato nelle cariche da un inferiore: sia posposto a Vatinio.



suspensam nivem: conservata in depositi e mescolata al vino per raffreddar­lo, cfr. Plinio, nat. hist . 19,55: «si conserva il freddo nella stagione calda e si escogita il modo di mantenere fredda la neve fuori stagione»; J. André, L'alimentation et la cuisine à Rome, Paris 19812, p. 170.

vomitu remetientur: cfr. cons. Helv. 10, 3: «vomitano per mangiare, mangia­no per vonútare».

14. Pompeio, Caesari, Crasso: i triumviri del 60 a. C.

Vatinio: Publio Vatinio, candidato dei trìumviri, batté Catone alle elezioni per pretore del 55. Fu violentemente attaccato da Cicerone, Calvo e Catullo.



rum orbe pro causa bona tam infeliciter quam pertinaciter mi­litet. Grave est manus sibi adferre: faciat. Quid per haec con­sequar? ut omnes sciant non esse haec mala quibus ego di­gnum Catonem putavi'.


4. Prosperae res et in plebem ac vilia ingenia deveniunt; at ca­

lamitates terroresque mortalium sub iugum mittere propriuni

magni viri est. Semper vero esse felicem et sine morsu animi

transire vitam ignorare est rerum naturae alterani partem.

Magnus vir es: sed unde scio, si tibi fortuna non dat faculta­

tem exhibendae virtutis? Descendisti ad Olympia, sed nemo

praeter te: coronam habes, victoriam non habes; non gratulor

tamquam viro forti, sed tamquam consulatum praeturamve

adepto: honore auctus es. Idem dicere et bono viro possum, si

illi nullam occasionem difficilior casus dedit in qua [una] vim

animi sui ostenderet: 'nùserum te iudico, quod numquam fui­

sti miser. Transisti sine adversario vitam; nemo sciet quid po­

tueris, ne tu quidem ipse.' Opus est enim ad notitiam sui ex­

perimento; quid quisque posset nisi temptando non didicit.

Itaque quidain ipsi ultro se cessantibus malis optulerunt et

virtuti iturae in obscurum occasionem per quam enitesceret

quaesierunt. Gaudent, inquam, magni viri aliquando rebus

adversis, non aliter quam fortes milites bello; Triumphum

ego murmilloncm sub Ti. Caesare de raritate munerum audi­

vi querentem: 'quam bella' inquit 'aetas perit!'.

Avida est periculi virtus et quo tendat, non quid passura sit

cogitat, quoniam etiam quod passura est gloriae pars est. Mi­

litares viri gloriantur vulneribus, laeti fluentem meliori casu


4. 2. honore: intraducibile la compresenza semantica di «onore» e «carica». Per honoreaugerinel senso di honoreaffici cfr. Thes. ling. Lat., s.v. augeo, 1355,19ss. 3. miserum miser: contrasto fra accezione stoica (significatio Stoica, ep. 59, 1) e accezione comune (verbapublica, ibid. vedine altri esempi oltre, 6,5 e in Lo stile "drammatico ", cit., pp. 84 e 205. Rifacimento epigrammatico del­la frase di Demetrio citata in 3,3 (cfr. Stile "drammatico ", pp. 36 e 113 s.).

4. Triumphum: gladiatore famoso, ricordato anche da Marziale, spect. 20. murmillonem: gladiatore così detto dal pesce effigiato sull'elmo, abbinato al retiarius (almeno fino al I sec. d. C., cfr. Maria Grazia Mosci Sassi, Il lin­guaggio gladiatorio, Bologna 1992, p. 144 s.).


t gravoso prender parte a guerre civili: corra in armi tutto il mondo per una buona causa, con più tenacia che fortuna. t gravoso suicidarsi: lo faccia. Che ne otterrò? Che tutti sap­piano che non sono mali, se ne ho giudicato degno Catone».


4. Le fortune piovono anche sulla plebe e le nature volgari; ma far passare sotto il giogo le disgrazie che terrorizzano i mortali è cosa di un uomo grande. Essere sempre fortunato e trascorrere la vita senza il morso del dolore significa ignorare l'altra faccia della natura. Sei un uomo grande: ma come faccio a saperlo, se la fortuna non ti offre la possibilità di mostrare il tuo valore? Hai gareggiato alle Olimpiadi, ma senza concorrenti: hai la meda­glia, non la vittoria; non mi rallegro come con un uomo forte, ma come con uno che ha ottenuto il consolato o la pretura: ti hanno fatto un onore. Lo stesso posso dire all'uomo buono, se una cir­costanza difficile non gli ha dato un'occasione in cui mostrare la sua forza d'animo: «Ti reputo infelice, perché non sei stato mai infelice. Hai trascorso la vita senza avversari; nessuno saprà quel che potevi, neppure tu stesso». C'è bisogno di una prova per conoscersi; nessuno sa quel che può se non sperimentando­si. Perciò taluni si offrirono spontaneamente a mali che tardava­no, e a una virtù prossima a eclissarsi cercarono un'occasione di mettersi in luce. Lo ripeto, gli uomini grandi godono talora delle avversità, non meno che i soldati valorosi della guerra; ho udito il mirmillone Trionfo sotto Tiberio lamentarsi della rarità dei giochi: «Che bell'epoca» diceva «se ne è andata!».

Il valore è avido di pericoli, pensa a dove vuol giungere e non a ciò che soffrirà, perché anche tali sofferenze sono una parte della sua gloria. Gli uomini d'anne si gloriano delle fe­rite, sono fieri di mostrare il sangue più felicemente versato;


de raritate munerum: Tiberio non amava gli spettacoli, cfr. Svetonio, Tib. 77. perit: lo intendo, contrariamente agli altri editori, perfetto, tempo più conso­no al rimpianto: aetas è il passato Contrapposto al presente. La forma con­tratta è in ep. 99,2, nelle tragedie (attestata dal metro) e in Svetonio ffib. 58 e Cal. 59); il corradicale subit in brev. vit. 20. l.

meliori casu: espressione ambigua e discussa: «più felicemente» rispetto agli integri o in rapporto al premio della vittoria (vd. oltre, 4,7)?



sanguinem ostentant: iderri licet fecerint qui integri revertun­ tur ex acie, magis spectatur qui saucius redit. Ipsis, inquam,

deus consulit quos esse quam honestissimos cupit, quotiens illis materiam praebet aliquid animose fortiterque faciendi, ad quam rem opus est aliqua rerum difficultate: gubernato­rem in tempestate, in acie militem intellegas. Unde possum. scire quantum adversus paupertatem tibi animi sit, si divitiis diffluis? Unde possum. scire quantum. adversus ignommiam et infamiam odiumque populare constantiae habeas, si inter plausus senescis, si te inexpugnabilis et inclinatione quadam mentium pronus favor sequitur? Unde scio quam aequo ani­mo laturus sis orbitatem, si quoscuinque sustulisti vides? Au­divi te, cum. alios consolareris: tunc conspexissem, si te ipse 6 consolatus esses, si te ipse dolere vetuisses. Nolite, obsecro

vos, expavescere ista quae di ininortales velut stimulos ad­movent animis: calamitas virtutis occasio est. Illos merito quis dixerit miseros qui nimia felicitate torpescunt, quos ve­lut in mari lento tranquillitas iners detinet: quidquid illis inci­7 derit, novum veniet. Magis urgent saeva inexpertos, grave est

tenerae cervici iugum; ad suspicionem vulneris tiro pallescit,

audacter veteranus cruorem suurn spectat, qui scit se saepe

vicisse post sanguinem. Hos itaque deus quos probat, quos

amat, indurat recognoscit exercet; cos autem quibus indulge­

re videtur, quibus parcere, molles venturis malis servat. Erra­

tis enim si queni iudicatis exceptum: veniet <et> ad illum diu

felicem sua portio; quisquis videtur dimissus esse dilatus est.

Quare deus optimum queinque aut mala valetudine aut

luctu aut aliis incommodis adficit? quia in castris quoque pe­

riculosa fortissimis imperantur: dux lectissimos mittit qui

nocturnis hostes adgrediantur insidiis aut explorent iter aut

5. gubematorem: paragone topico, cfr. fra l'altro cons. Marc. 5, 5: «non è

gran cosa comportarsi da forte nella buona fortuna, quando la vita va a gon­

fie vele: anche la maestría del pilota non si rivela col mare calmo e col ven­

to in poppa».

6. tranquillitas iners: vd. sopra, 2, 2.

7. tiro: paragone topico, cfr. Cicerone, Tusc. 2,38.


siano pur state identiche le azioni di quelli che tornano sani e salvi, attira di più gli sguardi chi ritorna ferito. Dio, lo ripeto, pensa proprio al bene degli uomini, che vuole più onorati, ogni volta che gli offre la materia di un'azione animosa e co­raggiosa, che ha bisogno di qualche difficoltà: il pilota lo ve­drai nella tempesta, il soldato nella mischia. Come posso co­noscere la tua forza d'animo di fronte alla povertà, se nuoti fra le ricchezze? Come posso conoscere la tua fermezza di fronte al disonore, al discredito, all'impopolarità, se invecchi tra gli applausi, se ti segue inalterabile il favore e la simpatia della gente? Come conosco la tua capacità di sopportare sere­namente la perdita dei figli, se ti vedi intorno tutti quelli che ti sono nati? Ti ho ascoltato consolare gli altri; ma avrei visto chi sei solo se avessi consolato te stesso, se ti fossi inibito di soffrire. Non abbiate paura, vi scongiuro, di cotesti patimenti che gli dei immortali usano come stimoli per i vostri cuori: la sventura è occasione di virtù. Sarebbe giusto chiamare infeli­ce chi è snervato da un eccesso di prosperità, chi come in un mare immobile è prigioniero della bonaccia: qualunque cosa gli capiti, sarà una sorpresa. La vita è più crudele con chi non ne ha fatto esperienza, il giogo pesa sulla nuca tenera: al pen­siero di una ferita la recluta impallidisce, ma guarda ardita­mente il suo sangue il veterano che sa che spesso al sangue segue la vittoria. Così questi che dio apprezza, che ama, li in­durisce, li vaglia, non li lascia in pace; ma quelli cui sembra indulgere, che sembra risparmiare, li riserva indifesi ai mali futuri. Non illudetevi, non ci sono eccezioni: anche all'uomo a lungo fortunato verrà la sua parte; chiunque sembra conge­dato è solo rimandato.

Perché dio manda a tutti i migliori o cattiva salute o lutti o altre avversità? Perché anche al campo alle azioni pericolose si comandano i più coraggiosi: il capo invia il fiore dei suoi ad assalire il nemico in imboscate notturne o a esplorare il


recognoscit: in ir 3, 36, 2 recognitio sui è «l'esame di coscienza» (e cfr. ep. 82, 2: diem meum recognoscam).

molles: antitetico a indurat.



praesidiuni loco deiciant. Nemo eorum qui exeunt dicit 'ma­le de me imperator meruit', sed 'bene iudicavit'. Idem dicant quicuinque iubentur pati timidis ignavisque flebilia: 'digni visi sumus deo in quibus experiretur quantum humana natura posset pati.'

9 Fugite delicias, fugite enervantem felicitatem qua animi permadescunt et, nisi aliquid intervenit quod humanae sortis adinoneat, <tabescunt> velut perpetua ebrietate sopiti. Queni specularia semper ab adflatu vindicaverunt, cuius pedes inter fomenta subinde mutata tepuerunt, cuius cenationes subditus et parietibus circuinfusus calor temperavit, hunc levis aura

lo   non sine periculo stringet. Cum omnia quae excesserunt mo­duni noceant, periculosissima felicitatis intemperantia est: movet cerebrum, in vanas mentem imagines evocat, multum inter falsimi ac verum mediae caliginis fundit. Quidni satius sit perpetuam infelicitatem. advocata virtute sustinere quarri infinitis atque inniodicis bonis rumpi? lenior ieiunio mors est, cruditate dissiliunt.

il         Hanc itaque rationeni di sequuntur in bonis viris quarri in

discipulis suis praeceptores, qui plus laboris ab iis exigunt in

quibus certior spes est. Numquid tu invisos esse Lacedaemo­

niis liberos suos credis, quorum experiuntur indolem publice

verberibus admotis? Ipsi illos patres adhortantur ut ietus fia-



9. permadescunt: cfr. ep. 20, 13: deliciis permaduimus.

<tabescunt>: cosà ho integrato il verbo mancante (marcent Reynolds, lan­guent Viansino, manent Hermes, iacent prima di sopiti Koch, torpent dopo sopiti Gertz). Tabescunt (propriamente «Iiquefarsi, struggersi») ha il duplice vantaggio di una maggiore ornologia, morfologica e semantica, con perma­descunt, e una migliore motivazione della sua caduta, la parziale ornografia in minuscola delle desinenze at-at-ut. Tabesco ha 3 occorrenze in Seneca e una metaforica in Cicerone, Att. 2, 14, 1: otio... tabescimus.

specularia: «sottilissime lastre di talco (lapis specularis)» (U.E. Paoli, Vita romana, Firenze 19544, p.207), introdotte a Roma al tempo di Seneca, cfr. ep. 90, 25: «sappiamo di tecniche introdotte nella nostra epoca, come l'uso di specularia che fanno passare la luce attraverso lastre trasparenti (perlu­cente testa)». Molto più raro e tardo l'uso del vetro.

fomenta: cfr. in 3,10,3: fomentis contra frigus rigoremque («contro il rigore del freddo») pugnatur Erano impacchi o cataplasmi di miglio, sale o rena ri­scaldati e racchiusi in una pezza di tela (Celso, 2, 17, 9).


cammino o a sloggiare una postazione. Nessuno di quelli che vanno dice: «Il generale mi ha reso un cattivo servizio», ma «mi ha dato una prova di stima». Dicano lo stesso tutti quelli cui si comanda di soffrire cose da far piangere i paurosi e i vi­li: «siamo apparsi a dio degni di saggiare la resistenza della natura umana al dolore».

Fuggite le mollezze, fuggite una prosperità che vi snerva e svigorisce l'animo e, se non interviene qualcosa che gli ricor­di la sorte umana, lo fa marcire come nel sopore di una conti­nua ubriachezza. A chi i vetri hanno sempre protetto dalle correnti, a chi tiene i piedi caldi con impacchi sempre rinno­vati, a chi regola la temperatura delle sale da pranzo con ca­loriferi inglobati nel pavimento o nelle pareti, un soffio d'aria potrà far male. Tutti gli eccessi sono dannosi, ma il più peri­coloso è quello della prosperità: va alla testa, fa vaneggiare, offusca la differenza tra il vero e il falso. Non sarebbe meglio sopportare una continua sfortuna con l'assistenza della virtù che crepare per beni senza fine e irúsura? t più dolce la mor­te per inedia, l'indigestione fa scoppiare.

t dunque questa la regola che seguono gli dei con gli uo­mini buoni come coi loro allievi i precettori, che esigono più fatica da chi dà più speranza. Credi forse che agli Spartani siano odiosi i loro figli, di cui mettono alla prova il carattere con pubbliche flagellazioni? I padri stessi li esortano a sop-



subditus calor: è il tipo di riscaldamento grecamente detto hypocaustum, an­ch'esso recente invenzione così descritta da Seneca, loc. laud.: «i pavimenti sospesi (cioè poggianti su colonnette di mattoni) e i tubi interni alle pareti, attraverso i quali si diffondesse il calore a riscaldare egualmente le parti più basse e le più alte» (cfr. Paoli, op. cit., pp. 235 ss.).

10. imagines: le rappresentazioni (phantasiae), vanas perché la mens (logos) non è in grado di sceverare il vero dal falso (cfr. Pohlenz. op.cit., 1, pp. 97 ss.). Per la Armisen-Marchetti, op.cit., pp. 32 ss., corrisponderebbero ai phantásmata («pure imrnaginazioni») degli stoici.

11. Lacedaemoniis: proverbiale la durezza dell'educazione spartana, cfr. per esempio Cicerone, Tusc. 2,34: «a Sparta i ragazzi sono accolti all'altare con tale flagellazione da far sgorgare il sangue dalle viscere, talvolta anche fino alla morte, ma nessuno di loro non solo non emise mai un grido, ma neppu­re un lamento».

Ipsi: quelli che meno dovrebbero.



gellorum fortiter perferant, et laceros ac semianimes rogant, 12 perseverent vulnera praebere vulneribus. Quid mirum, si du­re generosos spiritus deus temptat? numquam virtutis molle documentum est. Verberat nos et lacerat fortuna: patiamur. Non est saevitia, certamen est, quod <quo> saepius adieri­mus, fortiores erimus: solidissima corporis pars est quam fre­quens usus agitavit. Praebendi fortunae sumus, ut contra il­lam ab ipsa duremur: paulatim nos sibi pares faciet, con-

temptum periculorum adsiduitas periclitandi dabit. Sic sunt nauticis corpora ferendo mari dura, agricolis manus tritae, ad excutienda tela militares lacerti valent, agilia sunt membra cursoribus: id in quoque solidissimum est quod exercuit. Ad contemnendam patientiam malorum animus patientia perve­nit; quae quid in nobis efficere possit scies, si aspexeris quan-

tum nationibus nudis et inopia fortioribus labor praestet. Om­nes considera gentes in quibus Romana pax desinit, Germa­nos dico et quidquid circa Histrum vagarum gentium occur­sat: perpetua illos hiemps, triste caelum premit, maligne so­lum sterile sustentat; imbrem culmo aut fronde defendunt, super durata glacie stagna persultant, in alimentum feras cap­tant. Miseri tibi videntur? nihil miserum est quod in naturam consuetudo perduxit; paulatim enim voluptati sunt quae ne­cessitate coeperunt. Nulla illis domicilia nullaeque sedes sunt nisi quas lassitudo in diem posuit; vilis et hic quaerendus ma­nu victus, horrenda iniquitas caeli, intecta corpora: hoc quod

tibi calamitas videtur tot gentium vita est. Quid miraris bonos

viros, ut confirmentur, concuti? non est arbor solida nec for-


perferant: la perfettività (per-jero, «sopporto sino alla fine»), ripresa da per­sevérent, ha prevalso sull'associazione allitterantefortiterferre (vd. oltre, 6, 6, e cfr. tranq. an. 10, l; ep. 66,50).

12. generosos: cfr. ep. 31, 5 1: generosos animos labor nutrit.

fortiores: non rara l'eliminazione di eo, correlativo di quo, davanti al secon­do comparativo.

13. patientiam... patientia: vd. sopra, 4,1

14. Germanos: cfr. ir. 1, 11, 3 s., dove i Germani induriti dal clima sono con­trapposti agli orientali (molles bello viri, «imbelli»), un topos emografico che arriverà alla Germania di Tacito.

Histrum: il corso inferiore del Danubio.


portare da forti i colpi, e gli chiedono di continuare, straziati e semivivi, a patire ferite su ferite. Che meraviglia, se dio mette a dura prova gli spiriti generosi? Non è mai indolore la lezione della virtù. Ci fiagella e strazia la fortuna: sopportia­mo. Non è crudeltà, è lotta: più spesso l'affronteremo e più forti saremo; la parte più solida del corpo è la più esercitata. Ci si deve offrire alla fortuna, perché sia lei a indurirci contro di lei: a poco a poco ci farà pari a sé, il continuo esporci ai pe­ricoli ce li farà disprezzare. Così i marinai hanno corpi indu­riti dalla vita di mare, i contadini mani logorate, il braccio dei soldati ha la forza di scagliare giavellotti, agili sono le mem­bra dei corridori: in ognuno la parte più solida è quella che ha tenuto in esercizio. A non curarsi della sofferenza l'animo giunge a forza di soffrire; quale ne sia l'effetto in noi lo sa­prai, considerando quanto debbano alla fatica popoli privi di risorse e fortificati dal bisogno. Esarnina tutte le genti al di fuori della pace romana, i Germani e ogni tribù di nomadi in­tomo all'Istro: pesa su essi un inverno continuo, un cielo gri­gio, una terra sterile gli dà un nutrimento avaro; si riparano dalle intemperie con tetti di paglia o di fronde; slittano su sta­gni ghiacciati, cacciano bestie selvagge per cibo. Ti sembra­no infelici? Nessuna infelicità in un'abitudine divenuta natu­ra; lentamente si fa piacere ciò che all'inizio era necessità. Non hanno dimore né sedi se non quelle imposte di giorno in giomo dalla stanchezza; cibo scadente e per giunta da pro­cacciarsi con le mani, orribile clima, corpi non coperti: a te sembra una disgrazia, ed è la vita di tanti popoli. E ti meravi­gli che gli uomini buoni siano tribolati perché si fortifichino? Saldo e forte è solo l'albero che subisce il frequente assalto



persultant: verbo rarissimo in Seneca (solo in ir 2, 31, 6, per il volteggio di donne e ragazzi sui tori), denota la facilità del moto in contrasto con la natu­ra del terreno. C'è forse il ricordo contrastivo di Lucrezio, 1, 15: gli animali persultampabula laeta, «scorazzano per i pascoli rigogliosi».

15. in naturam consuetudo perduxit: che l'abitudine diventi una seconda na­tura (alteram quandam naturam, Cicerone,fin. 5.74) è massima aristotelica passata in proverbio, cfr. Tosi, op.cit., p. 72.

16. arbor: per la similitudine vegetale cfr. Armisen-Marchetti, op.cit., p. 149.


tis nisi in quam frequens ventus incursat; ipsa enim vexatio­ne constringitur et radices certius figit: fragiles sunt quae in aprica valle creverunt. Pro ipsis ergo bonis viris est, ut esse interriti possint, multum inter forrnidolosa versari et aequo animo ferre quae non sunt mala nisi male sustinenti.


i    S. Adice nunc quod pro omnibus est optimum quemque, ut íta

dicam, militare et edere operas. Hoc est propositum deo quod

sapienti viro, ostendere haec quae vulgus adpetit, quae refor­

midat, nec bona esse nec mala; apparebit autem bona esse, si

illa non nisi bonis viris tribuerit, et mala esse, si tantum malis

inrogaverit. Detestabilis erit caecitas, si nemo oculos perdi­

derit nisi cui eruendi sunt; itaque careant luce Appius et Me­

tellus. Non sunt divitiae bonum; itaque habeat illas et Elius

leno, ut homines pecuniam, cum in templis consecraverint,

videant et in fornice. Nullo modo magis potest deus concupi­

ta traducere quam si illa ad turpissimos defert, ab optimis abi­

git. 'At iniquum est virum bonum debilitari aut configi aut al­

ligari, malos integris corporibus solutos ac delicatos incede­

re.' Quid porro? non est iniquum fortes viros arma sumere et

in castris pernoctare et pro vallo obligatis stare vulneribus,

interim in urbe securos esse percisos et professos inpudici-

S. I. militare: cfr. ep. 96, 5: vivere... militare est, topos pagano e cristiano (cfr. Lo stile "drammatico", cit., pp. 67 e 202, alla cui bibliografla si ag­giungano Armisen-Marchetti, op.cit., p. 76 s.; A. Postiglione, «Humana con­dicio» nella meditazione di Seneca, in L. Nicastri [edj, Contributi difilolo­gia latina, Napoli 1990, p. 133; Tosi, op.cit. , p. 730).

nec bona esse nec mala: cioè indifferentia (quae (ì3t(í(popa Graeci vocant.. id est nec bona nec mala, fra cui Seneca enumera morbum, dolorem, pau­pertatem, exilium, mortem in ep. 82, 10), in quanto il bene e il male è solo morale, cfr, ep. 35.5: «i bona sono quelli cui si mescola la virtus, i turpia quelli cui è congiunta la malitia».

2. Appius: Appio Claudio Cieco, il censore del 312 a.C.

Metellus: Lucio Cecilio Metello, pontefice massimo che nel 241 a. C. avreb­be perso la vista per salvare gli oggetti sacri dall'incendio del tempio di Ve­sta (tema di una controversia riportata dal padre di Seneca, 4, 2).

Elius: personaggio sconosciuto.

leno: cfr. ep. 87, 15: «ciò che può toccare alle persone più spregevoli e tuipi non è un bene; ma le ricchezze toccano anche al lenone... dunque non sono un be-


del vento; è il continuo scuotimento a dargli più robustezza,


più tenaci radici: sono fragili le piante cresciute in una valle solatia. t dunque a vantaggio degli uon-úni buoni, perché sia­no senza paura, trovarsi spesso in situazioni paurose e tolle­rare pazientemente quelli che non sono mali se non per chi mal li sopporta.


5. Aggiungi ora che è a vantaggio della collettività che tutti i migliori siano come soldati e in piena attività. Il fine di dio è quello del saggio, mostrare che le cose agognate o paventate dalla gente non sono beni né mali; ora sarà chiaro che sono beni, se dio non li dispensa che ai buoni, e mali, se li inflig­ge solo ai malvagi. La cecità sarà detestabile, se perderà gli occhi solo chi se lo merita: siano perciò privati della luce Ap­pio e Metello. Le ricchezze non sono un bene: le abbia per­ciò anche il lenone Elio, perché gli uomini, dopo aver dedi­cato templi al denaro, lo vedano anche in un bordello. Dio non potrebbe svalutare l'oggetto dei desideri meglio che ac­cordandolo ai peggiori, rifiutandolo ai migliori. «Ma è ingiu­sto che l'uomo buono sia invalido o trafitto o incatenato, e i malvagi se ne vadano fisicamente integri e liberi di spassar­sela». Ma che? Non è ingiusto che i veri uomini prendano le armi e passino le notti al campo e stiano a difesa del vallo con le ferite bendate, mentre se ne stanno al sicuro in città i


ne»; ibid. 16: «il denaro cade su certi uomini cone una moneta in una cloaca». in templis consecraverint: di una dea Pecunia parlano Amobio (4, 9) e Ago­stino (civ.D. 4, 21 e 7, 11), desumendola dalle Antiquitates rerum divinarum di Varrone (frr. 193 e 238 Cardauns).

3. debilitari: debilitas è la perdita di funzionalità di una parte del corpo, de­bilis è il nostro «disabile» o «portatore di handicap».

solutos: lo intendo antonimo di alligari, come integris corporibus lo è di debilitari.

delicatos: vd. sopra, 4,9.

percisos: nell'incertezza della tradizione manoscritta, preferisco, con Her­mes e Viansino, percisos («invertiti») a praecisos («castrati») di Reynolds, perché il primo è meglio attestato del secondo, cfr. Marziale, 4, 48, 1: perci­di gaudes, percisus ploras, e Thes. ling. Lat., s. v., 1205, 8 ss.; J. N. Adains, The Latin Sexual Vocabulary, London 1982, p. 146 s.; per praecido Thes. ling. Lat., s.v. , 430, 73 ss.



tiam? Quid porro? non est iniquum nobilissimas virgines ad sacra facienda noctibus excitari, altissimo sorano inquinatas

frui? Labor optimos citat: senatus per totum diem saepe con­sulitur, cum illo tempore vilissimus quisque aut in campo otium suurn oblectet aut in popina lateat aut tempus in aliquo circulo terat. Idem. in hac magna re publica fit: boni viri labo­rant, inpendunt, inpenduntur, et volentes quidem; non trahun­tur a fortuna, sequuntur illam et aequant gradus; si scissent,

antecessissent. Hanc quoque animosam Demetri fortissimi vili vocem audisse me memini: 'hoc unum'inquit 'de vobis, di inmortales, queri possum, quod non ante rnihi notam vo­luntatem vestram fecistis; prior enim ad ista venissem ad quae nunc vocatus adsum. Vultis liberos sumere? vobis illos sustuli. Vultis aliquam partem corporis? surnite: non magnam rem promitto, cito totum relinquam. Vultis spiritum? quidni nullam moram faciam quominus recipiatis quod dedistis? A volente feretis quidquid petieritis. Quid ergo est? maluissem offerre quam tradere. Quid opus fuit auferre? accipere potui­stis; sed ne nunc quidem auferetis, quia nihil eripitur nisi re­tinenti.'

virgines: le vestali, che dovevano tenere sempre acceso il fuoco nel tempio di Vesta.

4. in campo: il campo Marzio, pianura fra il foro e il Tevere, ritrovo di spor­tivi.

in hac magna re publica: cfr. ot. 4, 1: «Rappresentiamoci con la mente due re­pubbliche, una grande (magnam ) e veramente pubblica, che comprende uo­mini e dei... l'altra cui ci ha assegnato la sorte della nascita» (trad. Dionigi). Su questa distinzione stoica cfr. il commento dello stesso Dionigi ad loc. (Seneca, De otio, a cura di I.D., Brescia 1983, p. 212 ss.) e Lo stile "dram­matico", cit., p. 128.

inpendunt, inpenduntur: il poliptoto che fa dello stesso referente l'agente e il paziente del processo verbale (come il leopardiano «e mira, ed è rnirata») è


froci e i professionisti del vizio? Ma che? Non è ingiusto che le più nobili vergini si alzino di notte a fare i sacrifici, e le in­sozzate godano di un profondissimo sonno? La fatica chiama i migliori: il senato tiene spesso sedute di un giomo intero, nel tempo in cui tutti i più spregevoli o si divertono nel cam­po Marzio o se ne stanno nascosti in taveme o perdono tem­po in qualche crocchio. Lo stesso accade in questo stato più grande: gli uomini buoni faticano, prodigano, si prodigano, e di buona voglia; non sono trascinati dalla fortuna, la seguo­no e l'affiancano; se avessero saputo, l'avrebbero preceduta. Ricordo di avere udito anche queste energiche parole del­l'intrepido Demetrio: «Una sola lagnanza, dei immortali, po­trei farvi, di non avermi notificata in anticipo la vostra vo­lontà: sarei venuto io per primo a quelle prove cui ora sono chiamato. Volete prendermi i figli? Li ho cresciuti per voi. Volete una parte del corpo? Prendetela: non è un grande in­dugio, presto ve lo lascerò tutto. Volete la vita? Perché do­vrei ritardare la restituzione di quello che mi avete dato? Soddisferò volentieri ogni vostra richiesta. E allora? Avrei preferito offrire che consegnare. Che bisogno c'era di toglie­re? Potevate ricevere; ma nemmeno ora toglierete, perché nulla si strappa se non a chi fa resistenza».

uno stilema senecano, cfr. brev.vit. 20.6: dum rapiuntur et rapiunt con la mia nota nell'edizione cit. e il materiale raccolto da Viansino in Seneca, De pro­videntia... , cit., p. 103.

volentes: così Seneca aggancia il secondo al terzo punto della sua trattazione (vd. sopra, 3, 1: volentibus accidere).

non trahuntur afortuna, sequuntur illam: cfr. vit. beat. 15,6: «che follia è es­sere trascinato piuttosto che seguire (trahi quam sequi)!». Dal confronto con ep. 107, 11: ducunt volentem fata, nolentem trahunt (probabile integrazione senecana ai versi di Cleante, cfr. A. Setaioli, Seneca e i Greci, Bologna 1988, p. 70 ss.) si desume che qui la fortuna è un aspetto del fato (sul problema dei loro rapporti cfr. la cit. Introduzione a Seneca. Letture critiche, p. 11).

5. Demetri: vd. sopra, 3, 3.



Nihil cogor, nihil patior invitus, nec servio deo sed assen­

tior, eo quidem magis quod scio omnia certa et in aeternum

dicta lege decurrere. Fata nos ducunt et quantum cuique tem­

pori s restat prima nascentium hora disposuit. Causa pendet ex

causa, privata ac publica longus ordo rerum trahit: ideo forti­

ter omne patiendum est quia non, ut putamus, incidunt cuncta

sed veniunt. Olim constitutum est quid gaudeas, quid fleas, et

quamvis magna videatur varietate singulorum vita distingui,

summa in unum venit: accipimus peritura perituri. Quid ita­

que indignamur? quid querimur? ad hoc parati sumus. Utatur

ut vult suis natura corporibus: nos laeti ad omnia et fortes co­

gitemus nihil perire de nostro. Quid est boni viri? praebere se

fato. Grande solacium est cum universo rapi; quidquid est

quod nos sie vivere, sic mori iussit, eadem necessitate et deos

alligat. lnrevocabilis humana pariter ac divina cursus veltit: il­

le ipse omnium conditor et rector scripsit quidem fata, sed se-

6. nec servio deo sed assentior: lo stoicismo cerca di risolvere il conflitto fra il libero arbitrio e il determinismo (vd. sopra, 3.1) «spostando la frontiera della libertà dall'io all'uffiverso», ossia assentendo a un destino «inscritto in un mondo governato secondo un piano dotato di senso» (Vegetti, op.cit., p. 25 1), cfr. ep. 54, 7 1: «il saggio sfugge alla necessità, perché vuole ciò a cui lo costringerà» (sul problema Pohlenz, op.cit., I, pp. 201-213; Traina, Lo sti­le "drammatico", cit., pp. 23 e 77, con bibliografia). Senecana è la formula­zione epigrammatica con antitesi avversativa (sed, «ma») e secondo membro più corto, cfr. ep. 80, 1: non servio illis, sed assentior; ben. 5, 1, 1: non servio materiae, sed indulgeo; ep. 96,2: non parco deo, sed assentior (dove alla condizione servile subentra l'ubbidienza militare).

7. hora disposuit: l'inevitabilità del destino è un motivo consolatorio in cons. Marc. 21, 6: «ognuno avrà quanto gli ha assegnato il primo giorno».

incidunt: capitano a caso; veniunt: procedono ordinatamente (cfr. ordo) ver­so di noi (perciò non eunt. «vanno», come in ir.3, 1, 4, che ne è il rovescia­mento concettuale: non eunt, sed cadunt).

peritura perituri: doppio stilema senecano, l'uso assoluto del participio fu­turo iscritto in un poliptoto (cfr. Lo stile «drammatico», cit., p. 28 s. e vd. so­pra, Intr, §7).

8. parati sumus: sospetto a Reynolds, corretto in parti da Gertz e Hermes, può conservarsi nel senso di «predisposti, programmati», vd. sopra, 1, 6: sibi il­lum parat e cfr. Herc. fur. 872: tibi, mors, paramur («preparati» di Viansino è ambiguo, potendo implicare un atteggiamento psichico). Parti, «generati»,


Niente ini costringe, niente subisco che non voglia, e a dio non servo ma acconsento, tanto più che so come tutto fluisce secondo una legge immutabile ed enunciata per l'etemità. Sono i fati a condurci e quanto tempo resta a ciascuno l'ha programmato l'ora della nascita. Una causa dipende dall'al­tra, una lunga catena di eventi determina le vicende private e pubbliche: si deve sopportare tutto coraggiosamente perché tutte le cose non, come crediamo, avvengono, ma vengono. Una volta per tutte fu stabilito l'oggetto delle tue gioie, delle tue lacrime, e benché la vita degli individui sembri differen­ziarsi per una grande varietà, tutto si riduce a questo: effime­ri riceviamo l'effimero. A che dunque protestiamo? Di che ci lagniamo? Per questo siamo al mondo. La natura usi come vuole dei corpi che sono suoi: noi gioiosi e coraggiosi in ogni evenienza riflettiamo che nulla perisce di nostro. Cos'è pro­prio di un uomo buono? Offrirsi al fato. IL un grande confor­to essere rapiti assieme all'universo; qualunque sia la forza che determina la nostra vita, la nostra morte, con la medesi­ma necessità lega anche gli dei. Un flusso irrevocabile tra­sporta egualmente umanità e divinità: lui stesso, il fondatore e reggitore di ogni cosa, ha scritto sì i fati, ma li segue; ubbí-

risponderebbe altrettanto bene al pensiero di Seneca, se per esprimerlo Sene­ca non ricorresse sempre a nascor (citazioni in Viansino, De providentia, cit., p. 105; aggiungi cons. Marc. 10, 5), mai al passivo di pario.

de nostro: perché l'uomo è il suo animus, il corpo è in balia della fortuna, cfr. cons. Marc. 104 «il nostro corpo subirà le sue (se. della fortuna) prepotenze, i suoi oltraggi, le sue sevizie»; 25,1 (di un defunto): «se n'è fuggito integral­mente (integer) senza lasciar nulla di suo in terra». Motivo (medio)platonico che si insinua nel monismo stoico e prepara l'epilogo.

Grande solacium: sentirsi parte di un sia pur misterioso ordine cosmico, è un topos consolatorio dell'antica teodicea (vd. sopra, Introduzione ), ma qui non è in gioco l'armonia del cosmo (vd. sopra, 1, 2), bensì il dinan-úsmo travol­gente (rapi, cfr. la cit. Introduzione al De brevitate vitae, p. 8) del destino (la Necessitas). S. Weil dirà: «Nell'anima, la rassegnazione alla sventura degli innocenti può sorgere solo grazie alla contemplazione e all'accettazione della necessità, cioè del concatenamento rigoroso delle cause seconde» (Lettera a un religioso, trad. ital., Milano 1996, p. 54).



quitur; semper paret, semel iussit. 'Quare tamen deus tani ini­

quus in distributione fati fuit ut bonis viris paupertatem et vul­

nera et acerba funera adscriberetT Non potest artifex mutare

materiam: hoc passa est. Quaedarn separari a quibusdam non

possunt, cohaerent, individua sunt. Languida ingenia et in

somnum itura aut in vigiliani sonino simillimam inertibus

nectuntur elementis: ut efficiatur vir cum cura dicendus, for­

tiore fato opus est. Non erit illi planum iter: sursum oportet ac

deorsum eat, fluctuetur ac navigium in turbido regat. Contra

fortunam illi tenendus est cursus; multa accident dura, aspera,

sed quae molliat et conplanet ipse. Ignis aurum probat, mise­

lo  ria fortes viros. Vide quam alte escendere debeat virtus: scies

illi non per secura vadendum.

semper paret, semel iussit: perché ipse est necessitas sua (nat. quaest. 1, pr 3), cioè in dio libertà e necessità coincidono. Seneca lo dice in un dicolon epigrammatico, isosillabico e con allitterazione anaforica (cfr. Lo stile "drammatico", cit., p. 92).

9. tamen: nonostante l'argomentazione precedente. Chiuso il punto quarto. Seneca torna alla obiezione di 5,3 trarnite la ripresa del «perché» incipitario, e dà una nuova risposta: la resistenza della materia per la mescolanza di ele­menti positivi e negativi.

non potest ecc.: cfr. nat. quaest. 1, pr. 16, dove Seneca si chiede se «dal gran­de artefice molte cose siano formate male non percbé venga meno l'arte, ma perché ciò in cui si esercita spesso non ubbidisce all'arte» («perché a rispon­der la materia è sorda», dirà Dante, DC 1, 1, 129, forse ricordando proprio Seneca, cfr. i cit. Poeti latini, I, p. 326 s.); altri passi pertinenti nella nota ad loc. del Viansino. Si è ricondotta questa posizione senecana all'antica Stoa, ma cfr. Pohienz, op. cit., 11, p. 92: «11 pensiero rigidamente monistico della Stoa antica procedeva dall'inseparabilità del principio attivo e passivo e ve­deva in Dio e nella materia solo due aspetti dell'unica sostanza originaria. Seneca invece avverte l'antitesi. La sua fede ha bisogno di un Dio principio creatore di tutto l'essere, e la materia inerte diviene come in Platone la cau­sa dell'imperfezione e della transitorietà». In ep. 65, 24 Seneca parifica l'an­titesi dio/materia a quella animalcorpo: «il posto che ha dio nell'universo, lo ha nell'uomo l'anima: quello che là è la materia, in noi è il corpo». Ciò non esclude che Seneca per spiegare l'antitesi ricorra ad argomentazioni crisip­pee, vd. oltre: individua.

hoc passa est: passo disperato per Reynolds, oggetto di molti emandamenti e perfino di espunzione. Castiglioni, op.cit., p. 241 s. integra <non> h.p.e., ma qui è atteso un presente patitur, come portano i passi da lui citati; W.H. Alexander (Seneca ~ Dialogues I, H, VII, VIII, IX, X. The Text Emended and

disce sempre, ha comandato una volta per tutte. «Sì, ma per­ché dio è stato così ingiusto nella distribuzione del destino da assegnare agli uomini buoni povertà e colpi e morte prematu­ra?» Non può l'artefice mutare la materia: così è stata condi­zionata. Vi sono cose inseparabili, indissolubili, indivisibili. Nature fiacche, destinate al sonno o a una veglia del tutto si­mile al sonno, sono tramate di elementi inerti: per formare un uomo degno di questo nome, ci vuole un destino più vigoro­so. La sua vita non sarà in piano: bisogna che vada su e giù, sballottato dai fiutti e piloti la nave nella tempesta. Deve te­ner la rotta contro la fortuna; gli capiteranno molte vicende dure e difficili, che sarà lui a mitigare e appianare. Il fuoco mette alla prova l'oro, la sofferenza gli uomini forti. Vedi a quale altezza deve salire la virtù: ti renderai conto che il suo andare non è senza rischi.


ExpIaned, «Univ. Calif. Publ. Class. Philol.» 13,1944-50, p. 52) corregge hoc in hunc citando ep. 65, 3: materiam... quae pateretur artificem, dove però si tratta della passività della materia plasmata dall'artefice (come in ep. 65, 23: materia patiens dei ) e non della sua resistenza (cfr. ep. 58, 27: quia materia prohibebat). Il testo tràdito si può conservare (con Hermes, Basore, Viansino) accettando l'interpretazione diAubert, op.cit., p. 190 s.: scilicet ut non mutare­tur ossia ha subíto la condizione di non poter essere mutata (in meglio).

individua: in senso etimologico, «indivisibili», neologismo foggiato da Ci­cerone per rendere &.>ropiog ed esteso da Seneca al di là della sua accezione tecnica (5 occorrenze, di cui una poetica). Posizione crisippea (cfr. Gellio, 7, 1, 9: gli incommoda sono cohaerentia alle cose aptissima et utilissima), con­trastante con la perentoria affermazione di 2, 1 (vd. sopra). Ma si noti che qui Seneca evita di usare termini etici (come bonusImalus di 2, 1), ricorrendo a lessemi generici (quaedam).

vir cum cura dicendus: espressione sallustiana a detta dello stesso Seneca (ben. 4, 1, 1: ut ait Sallustius), che la ripete anche in tranq.an. 14, 10. La co­stante presenza del gerundivo di dico , suffragata da Velleio, 2, 19, 1, fa pen­sare a un frammento delle Historiae (72 Maur.) piuttosto che a Iug. 54, 1 ~cuni cura reficit).

ignis aurum probat: vd. la n. 55 dell'Introduzione.

10. Si toma al tema dell'exercitatio (vd. sopra, 4), esemplificata col mito di Fe­tonte, che volle guidare il cocchio del Sole: mito di valenza ambigua, come pa­radigma ora di hybris, di presunzione (cfr. Orazio, carm 4, 11, 25), ora di ma­gnanimitas (cfr. Lucrezio, 5,400; Ovidio, met. 2, 111, che Seneca segue e cita). secura: con valore causativo: «(strade, luoghi) che non danno pensicro», i tu­ta della fine del §.

vadendum: per l'accezione forte di questo verbo, «andare facendosi strada», in coerenza col determinativo di luogo, vd. sopra, 2, 12.



Ardua prima via est et quam vix mane recentes enituntur equi; medio est altissima caelo, unde mare et terras ipsi mìhi saepe videre sit timor et pavida trepidet formidine pectus. Ultima prona via est et eget moderamine certo; tunc etiam quae me subiectis excipit undis, ne ferar in praeceps, Tethys solet ima vereri.

il     Haec cuni audisset ille generosus adulescens, 'placet' inquit 'via, escendo; est tanti per ista ire casuro.' Non desinit acrem animum metu territare:

utque viam teneas nulloque errore traharis, per tamen adversi gradieris cornua tauri Haemoniosque arcus violentique ora leonis.


Post haec ait: 'iunge datos currus: his quibus deterreri me pu­tas incitor; libet illic stare ubi ipse Sol trepidaC Humilis et inertis est tuta sectari: per alta virtus it.


i   6.'Quare tamen bonis viris patitur aliquid mali deus fleriTI9­le vero non patitur. Omnia mala ab illis removit, scelera et fiagitia et cogitationes inprobas et avida consilia et libidinern

Ardua ecc.: Ovidio, met. 2, 63-69, 79-81 (traduzione di M. Ramous, Milano 1992). Ovidio è, dopo Virgilio, il poeta più citato da Seneca: la presente ci­tazione rientra nelle «rare volte [che] i carmina di Ovidio attraggono il filo­sofo per il loro valore etico» (G. Mazzoli, Seneca e la poesia, Milano 1970, p. 244), e proprio in riferimento alla gEy(x?,oyuXía, «la magnanimità».

iunge datos curros: citazione, più adattata che errata, di met . 2, 74: finge da­tos currus (per questa problematica cfr. S. Timpanaro, Sulla tipologia delle citazioni poetiche in Seneca: alcune considerazioni, in Nuovi contributi difi-


«Ripida all'inizio è la via, tanto che a fatica s'inerpicano i cavalli freschi al mattino; a metà altissima è nel cielo e molte volte io stesso mi spavento a guardare di lassù il mare e la terra, col cuore che batte di paura e sgomento; l'ultimo tratto è una china a strapiombo, che richiede mano ferma: allora perfino Teti, che mi accoglie in fondo alle onde,

teme sempre ch'io possa a picco giù precipitare».


Udite queste parole il generoso giovane: «Mi garba» disse «di andare: salgo; il viaggio vale il rischio di cadere». Tenta e ritenta (il padre) di impaurime il forte cuore:


«e per quanto tu segua la via giusta senza mai sbagliare, dovrai pure avventurarti tra le coma del Toro che hai di fronte, contro l'arciere di Emonia, tra le fauci violente del Leone».


E lui per tutta risposta: «Aggioga i cavalli al cocchio che mi hai concesso: le parole con cui cerchi di dissuadermi mi spro­nano; ho voglia di star saldo là dove al Sole stesso batte il cuore». t di animo basso e pigro cercare il sicuro: la virtù va per le vette.


6. «Sì, ma perché diO permette che agli uomini buoni acca­da qualcosa di male?» Lui no, non lo permette. Ha allonta­nato da essi tutti i mali, delitti e infamie e cattivi pensieri e ambizioni smodate e la cieca passione e l'avidità anelante

lologia e storia della lingua latina, Bologna 1994, pp. 299-316).

it: al posto dell'atteso vadit (vd. sopra: vadendum), realizza l'aguzza e anti­classica clausola monosillabica (cfr. Lo stile "drammatico% cit., p. 110 s.).


6. 1. Quare tamen ecc.: ripresa letterale della domanda di 5, 9, ma varia la ri­sposta.



caecam et alieno imminentem avaritiam; ipsos tuetur ac vin­dicat: numquid hoc quoque aliquis a deo exigit, ut bonorum virorum etiam. sarcinas servet? Remittunt ipsi hanc deo cu­ ram: externa conteninunt. Democritus divitias proiecit, onus illas bonae mentis existimans: quid ergo miraris, si id deus bono viro accidere patitur quod vir bonus aliquando vult sibi accidere? Filios amittunt viri boni: quidni, cum aliquando et occidant? In exiliuni mittuntur: quidni, cum aliquando ipsi patriam non repetituri relinquant? Occiduntur: quidni, cum 3 aliquando ipsi sibi manus adferant? Quare quaedarn dura pa­tiuntur? ut alios pati doceant; nati sunt in exemplar. Puta ita­que deurn dicere: 'quid habetis quod de me queri possitis, vos quibus recta placuerunt? Aliis bona falsa circuindedi et ani­mos inanes velut longo fallacique somnio lusi: auro illos et 4 argento et ebore adornavi, intus boni nihil est. Isti quos pro felicibus aspicis, si non qua occurrunt sed qua latent videris, miseri sunt, sordidi turpes, ad similitudinem. parietuni suo­rum extrinsecus culti; non est ista solida et sincera felicitas: crusta est et quidem tenuis. Itaque durri illis licet stare et ad

ipsos: non illos, perché si oppone a mala.

vindicat: nell'accezione giuridica di questo verbo, trasferito da Seneca al lin­guaggio filosofico, cfr. Lo stile "drammatico", cit. pp. 12 e 52; Armisen­Marchetti, op. cit., p. 108.

sarcinas: prima metafora per i beni esteriori (externa), i falsi beni. Anche il corpo è una sarcina (vd. Introd., § 8), di cui ci si può liberare con la morte (vd. oltre, 7-9).

2. Democritus: di Abdera (V sec. a. C.), «godé di una grande popolarità in tutto il mondo culturale del Il e del 1 secolo a.C.» come leggendario campio­ne della vita contemplativa, per la quale avrebbe rinunziato alle ricchezze paterne (Grilli, op. cit., pp. 133 ss.).

occrdant: allusione a Bruto Maggiore e a Manlio Torquato, che condannaro­no a morte i loro figli per il bene della patria (abbinati anche in Seneca il Vec­chio, contr. 10, 3, 8).

relinquant: allusione non tanto a Rutilio Rufo (vd. sopra, 3, 7), quanto a filo­sofi emigrati per motivi di studio: Cicerone (Tusc. 5, 107 ne enumera sedici, da Senocrate a Posidonio).

manus adferant: Catone l'Uticense (vd. sopra, 2, 9 ss.). 3. in exemplar: ritomo al punto H, vd. sopra, 5, 1 ss.

deum dicere: prosopopea del dio, come della Fortuna in 3, 3 (vd. sopra) e della Natura in 3, 14.


all'altrui; li protegge e tutela: o si esige da dio pure questo, che custodisca anche i bagagli degli uomini buoni? Sono loro a risparmiare a dio questa bega: non curano le cose esteriori. Democrito gettò via le ricchezze, reputandole un peso per l'animo virtuoso: perché dunque ti meravigli, se dio permette che càpiti all'uomo buono quello che l'uomo buono talora vuole che gli càpiti? Perdono figli gli uomini buoni: perché no, se talvolta arrivano a ucciderli? Sono esiliati: perché no, se talvolta sono loro a lasciare la patria per non tomarvi più? Sono uccisi: perché no, se talvolta sono loro a suicidarsi? Per­ché subiscono sofferenze? Per insegnare agli altri a soffrire: sono nati per servire da esempio. Immagina dunque che dio dica: «Che avete da rimproverarini, voi che avete fatto la scelta giusta? Ho circondato gli altri di falsi beni e ho illuso quelle anime vuote come con un lungo e ingannevole sogno: le ho omate d'oro d'argento di avorio, ma dentro non c'è nul­la di buono. Costoro che guardi come fortunati, se li vedi non dal lato che mostrano ma da quello che celano, sono miseri, squallidi, laidi, a somiglianza delle loro pareti belli solo di fuori; non è cotesta una felicità solida e genuina: è un intona­co e per giunta sottile. Finché possono star dritti e mostrarsi a

Aliis circumdedi: in opposizione a vobis dedi del § 6. Uesteriorità qui è me­taforizzata da circum, «intomo», in opposizione a intus, «dentro», cfr. cons. Marc. 10, 1: «Quali che siano... i beni che ci circondano di un estrinseco ful­gore (circa nos ex adventiciofulgent),... sono prestiti, non possessi: nessuno è un dono (dono datur)».

intus: sul sistema degli avverbi spaziali come metafora dell'interiorità in Se­neca cfr. Lo stile «drammatico», cit., pp. 22 e 77.

4. crusta: cfr. ep. 115, 9: «Ammiriamo pareti rivestite di una lastra di marino (tenui mannore), benché sappiamo ciò che si nasconde. Gabbiamo i nostri occhi (oculis nostris inponimus), e quando abbiamo profuso oro sui tettì, non facciamo che godere di una menzogna. Giacché sappiamo che sotto quell'o­ro si celano sordidi legni. t una foglia d'oro (bratteata) la felicità di tutti co­testi che vedi camminare a testa alta... Guarda dentro (inspice), e saprai sot­to questa sottile pellicola di dignità quanto male giaccia».

stare: il verbo («stare dritti») si accorda con la metafora degli edifici, in op­posizione a disturbet e detegat.



arbitrium suum ostendi, nitent et inponunt; cum aliquid inci­dit quod disturbet ac detegat, tune apparel quantum altae ac

5 verae foeditatis alienus splendor absconderit. Vbbis dedi bo-

na certa mansura, quanto magis versaverit aliquis et undique

inspexerit, meliora maioraque; permisi vobis metuenda con­

temnere, cupiditates fastidire; non fulgetis extrinsecus, bona

vestra introrsus obversa sunt. Sic mundus exteriora contem­

psit spectaculo sui laetus. Intus ortme posui bonum; non ege­

re felicitate felicitas vestra est.

'At multa incidunt tristia horrenda, dura. toleratu.' Quia

non poteram. vos istis subducere, animos vestros adversus

omnia armavi: ferte fortiter. Hoc est quo deurn antecedatis: il­

le extra patientiam malorum est, vos supra patientiam. Con­

temnite paupertatem: nemo tam pauper vivit quam natus est.

Contemnite dolorem: aut solvetur aut solvet. Conternnite

inponunt: il verbo dell'impostore: «la danno a berc», cfr. ep. 115, 9 cit. sopra.

alienus: che non appartiene in proprio (suus), perché si può perdere, come

tutto ciò che è esterno (vd. oltre, 5: extrinsecus). Nel linguaggio senecano

dell'interiorità il possesso (cfr. Lo stile "drammatico", cit., pp. 11-14 e 52) e

lo spazio sono metafore solidali e interscambiabili (cfr. ep. 23, 6: «calpesta

coteste cose che luccicano dal di fuori [extrinsecus splendent], che ti vengo-

no promesse da un altro... Guarda al vero bene e godi del tuo [de tuo gau­

de]»): alius: exterior = suus: interior.

5. mansura: perché interiori, cfr. ep. 27, 3: «guardati intorno in cerca di un

bene duraturo (mansurum): non ne troverai se non quelli che l'anima trova

da se stessa (ex se sibi invenit)».

introrsus: cfr. vit.beat. 2, 4: «coteste cose che attirano lo sguardo, dinanzi a

cui ci si ferma, che uno mostra all'altro a bocca aperta, luccicano (nitent) di

fuori, dentro (introrsus) fanno pena (misera sunt)»; ep. 7, 12: introrsus bona

tua spectent. Seneca non è il primo a usare introrsus in accezione psichica (lo

precede Orazio), ma è quello che ne fa un uso più frequente (una dozzina di

occorrenze).

felicitatefelicitas: il poliptoto fa scontrare l'accezione essoterica ed esoteri­ca del lessema (vd. sopra, 4, 3; il poliptoto è sostituito dalla figura etimolo­gica in ep. 90, 34 e 98, 1). La chiusa epigrammatica riprende, e motiva, l'ul­timo punto della divisio (3, 1): potest (vir bonus) miser dici, non potest esse: non può perché la suafelicitas è tutta interiore e quindi inalienabile.

6. At ecc.: ripresa di 2, 1, con la variatio sintattica dell'avversativa (at) al po­sto dell'interrogativa (quare) e con l'amplificatio degli aggettivi (tristia, horrenda, dura vs adversa).


loro grado, luccicano e gabbano; ma se capita qualcosa che li abbatta e scoperchi, allora appare che profonda e reale sozzura nascondesse quello splendore d'accatto. A voi ho dato beni sicuri e duraturi, e quanto più li rigiri ed esan-úni da ogni parte, tanto migliori e maggiori; a voi ho concesso il disprezzo dei timori e il disgusto dei piaceri; non brillate all'esterno, i vostri beni guardano all'interno. Così il cosmo è indifferente a ciò che sta al di fuori, pago di contemplare se stesso. Dentro ho posto ogni bene; non aver bisogno del­la felicità è la vostra felicità.

«Ma càpitano molte vicende dolorose, orribili, dure a sopportarsi». Non potendo risparmiarvele, ho armato i vostri cuori contro tutto: sopportate da forti. In questo superate dio: lui è fuori della sofferenza, voi al di sopra. Non curatevi della povertà: nessuno vive cosi povero come è nato. Non curatevi del dolore: o si estinguerà o vi estinguerà. Non cu-

animos vestros: è sempre l'interiorità ad assicurare sia lafelicitas che la pa­tientia (fertefortiter: allitterazione apofonica paradigmatica, attestata a par­tire da Plauto [As. 3231, raramente usata da Seneca [ep. 66, 50; tranq.an. 10, 1, e vd. sopra, 4, 11], che preferisce variarla confortiterpati [6 occorrenze]: qui il gioco fonico acquista rilievo dall'isolarnento sintattico dei termini al­litteranti); vd. oltre, feriret animum.

armavi: è il motivo del duello con la fortuna, vd. sopra, 2, 9 e oltre: telum. deum: al posto dell'atteso me (parla dio), ripropone lo status del locutore. antecedatis: cfr. ep. 53, 11: «c'è qualcosa in cui il saggio supera dio (antece­dat deum): questo non ha timori grazie alla natura, il saggio grazie a se stes­so»; 72, 12 s.; e vd. Intr., § 8.

ille ecc.: doppia antitesi simmetrica e asindetica (cfr. Lo stile "drammatico", cit., p. 31 s.), pronominale (ille 1 vos) e preposizionale (extra / supra), cfr. ep. 20, 10: qui mori didicit.. supra omnem patientiam est, certe extra omnem. Patientia qui è in senso etimologico: il dio dei filosofi è «impassibile», duca";.

Conteninite: sulla funzione strutturale dell'anafora (qui quadruplice) cfr. Lo stile "drammatico", cit., p. 32. Il parallelismo con 6, 1: externa contemnunt, identifica i quattro oggetti con gli externa e motiva il verbo.

quani natus est: cfr. ep. 20, 13: «nessuno nasce ricco».

aut solvetur aut solvet: posizione epicurea (cfr. C. Diano, Epicuri ethica, Fi­renze 1946, p. 53 s.), più volte ripetuta da Cicerone e da Seneca (cfr. Setaio­li, op. cit., p. 245), riformulata in un poliptoto disgiuntivo decrescente (come in ep. 78, 17: aut extinguetur aut extinguet); vd. Intr., § 7.



mortem: quae vos aut finit aut transfert. Contemnite fortu­nam: nullum illi telum quo feriret animurn dedi. Ante omnia cavi ne quis vos teneret invitos; patet exitus: si pugnare non vultis, licet fugere. Ideo ex omnibus rebus quas esse vobis ne­cessarias volui nihil feci facilius quarn mori. Prono animarn loco posui. Trahitur? adtendite modo et videbitis quam brevis ad libertatem et quam expedita ducat via. Non tam longas in exitu vobis quarn intrantibus moras posui; alioqui magnum in vos regnum fortuna tenuisset, si homo tam tarde moreretur

quam nascitur. Omne tempus, omnis vos locus doceat quarn facile sit renuntiare naturae et munus illi strum inpingere; in­ter ipsa altaria et sollemnes sacrificantium ritus, dum optatur vita, mortern condiscite. Corpora opima taurorum exiguo

autfinit aut transfM: con variatio nominale ep. 65, 24; mors quid est? aut finis aut transitus. t l'alternativa socratica (Platone, ap. 40 C), che meglio ri­flette l'oscillante escatologia senecana (cfr. Lo stile "drammatico", cit., pp. 90 e 205 s.; Introduzione alle Consolazioni, cit., pp. 21 s. e 128). Così Sene­ca si crea il presupposto per l'apologia del suicidio, che segue immediata­mente, § 7.

feriret animum: come l'animus è armato contro lafortuna (vd. sopra, 6, 6), cosii questa è disarmata verso l'animus, cfr. ep. 82, 5 citata al § 8 nell'Intro­duzione (dove la metafora dell'assedio rivela il carattere difensivo della sag­gezza senecana).

7. patet exitus: cfr. cons. Marc. 20, 2: «è lei (sc. la morte) che non è mai sta­ta preclusa a nessuno (nulli non patuit)». Seneca è «di tutti i filosofi antichi, quello che si è interessato di più al problema del suicidio» (Grisé, op. cit., p. 206), visto come garanzia di libertà (cfr. le citt. Introduzioni a Seneca. Lettu­re critiche, p. 12, e alle Consolazioni, pp. 21 e 106). In ep. 70, 14 ss. Seneca polernizza coi filosofi che condannavano il suicidio.

trahitur?: cauta proposta di Reynolds in apparato (modificando <quid> trahitur? di J. Millier, op. cit., pp. 8-10), ma anticipata da W.H. Alexander, Critical Notes: Seneca~ Dialogi I-VI, «Am. Jouin.Pliil.» 54, 1933, p. 353 (che però le preferiva, e le preferirà, altre soluzioni); nel testo Reynolds se­gna la croce, come Hermes. La maggior parte o integra prima di trahitur o lo emenda, pochi lo conservano dandogli l'arbitrario significato di «scivolare» (Waltz, Andreoni), che è proprio l'opposto di «essere trascinato», o di «esse­re precaria» (Viansino nell'edizione dei Dialogi; nell'edizione del DP aveva accettato l'integrazione <non> trahitur), ma qui è in gioco più la facilità che la possibilità della morte. Animam trahere in ep. 101, 14 e in [Seri.] Oct. 244



ratevi della morte: che è o una fine o un passaggio. Non cu­ratevi della fortuna: non le ho dato nessun'arma in grado di colpire l'animo. Prima di tutto ho provveduto che nessuno vi trattenesse contro voglia; la porta è aperta: se non volete lottare, è possibile fuggire. Perciò fra tutte le cose che ho voluto per voi inevitabili nulla ho reso più facile che morire. Ho posto la vita su un piano inclinato. Si protrae? Basta un po' di attenzione per vedere come sia breve e agevole la via che conduce alla libertà. Ho posto meno ostacoli alla vostra uscita che al vostro ingresso: altrimenti la fortuna avrebbe avuto un grande dominio su voi, se l'uomo ci mettesse tanto a morire quanto a nascere. Ogni momento, ogni luogo può insegnarvi come sia facile rompere con la natura e gettarle in faccia il suo dono; fra gli stessi altari e le solenni cerimo­nie sacrificali, mentre si auspica la vita, imparate la morte. Corpi pingui di tori crollano a un piccolo colpo e la mano di

significa «prolungare la vita» (come ben traduce, sia pure senza interroga­zione, il Basore: «if it is prolonged»); sintatticamente sarebbe una protasi pa­ratattica interrogativa seguita da apodosi volitiva, cfr. ep. 76, 10: placet? vi­ve. Non placet? licet eo reverti unde venisti, «ti piace? vivi. Non ti piace? è possibile tornare da dove sei venuto». Altra non improbabile ipotesi di Rey­nolds è che si tratti di glossa da espungere.

intrantibus: la variatio rispetto a in exitu serve forse a evitare la cacofonia di *in introitu: Seneca ha 9 occorrenze di introitus ma nessuna di in introitu, contro 7 di in exitu (così come non ha occorrenze di ex exitu ma solo di ablde exitu).

regnum: cfr. cons. Marc. 10, 6: «siamo approdati a un regno duro e invinci­bile, il regno della fortuna». L'iperbato magnum... regnum non ha solo la funzione di dar rilievo all'epiteto, ma anche quella di evitare la cacofonia delle ultime sillabe: tam'è vero che Seneca non usa mai, in nessuna forma, la contiguità di magnum e regnum, ma la evita o mediante l'iperbato (ben. 7,10,6; Phoen. 55), o variando l'epiteto (nat. quaest. e Phaedr 218: maximum; Thyest. 470: immane). Si conferma cosil quanto osservato sul vír­giliano magna... pugna in Poeti latini, H, cit., pp. 105-110.

8. renuntiare: mandare a dire che si rinunzia a qualcosa (amicizia, invito, ecc.), qui al dono della vita.

mortem condiscite: cfr. ep. 26, 3: egregia res est mortem condiscere; brev. vit. 7, 3: tota vita discenduni est mori, «durante tutta la vita si deve imparare a morire». Il composto puntuale condiscite perché si riferisce a un momento



concidunt vulnere et magnarum virium animalia humanae manus ictus inpellit; tenui ferro commissura cervicis abrum­pitur, et cum articulus ille qui caput collumque committit in­cisus est, tanta illa moles corruit. Non in alto latet spiritus nec utique ferro eruendus est; non sunt vulnere penitus inpresso scrutanda praecordia: in proximo mors est. Non certum ad hos ictus destinavi locum: quacuinque vis pervium est. Ipsum illud quod vocatur mori, quo anima discedit a corpore, bre­vius est quam ut sentìri tanta velocitas possit: sive fauces no­dus elisit, sive spiramentum aqua praeclusit, sive in caput la­psos subiacentis soli duritia comminuit, sive haustus ignis cursum animae remeantis interscidit, quidquid est, properat. Ecquid erubescitis? quod tani cito fit timetis diu!'.

determinato, il semplice durativo discendum perché a tutta la vita, come con­ferma in ep. 26, 9 l'opposizione tra semper discendum est e quod semel uten­dum est, «sempre si deve imparare ciò che deve servire una volta sola».

9. pervium: cfr. ep. 117. «nessuno ti trattiene [in vita]: esci per dove ti pa­re, scegli qualunque parte della natura ti offra un'uscita... Uacqua, la terra, l'aria, tutti questi elementi sono tanto cause di vivere quanto via della mor­te». Seneca non era evidentemente del parere di Hemingway: «Sono cosi nu­merosi i modi di trovarla (sc. la morte), che è stupido enumerarli».

velocitas: cfr. nat. quaest. «un'infinita celerità previene la sensa­zione della morte».

un uomo abbatte animali possenti; da una lama sottile è troncata l'articolazione della nuca e quando si recide la ver­tebra che congiunge il capo e il collo, quella mole così gran­de rovina. Non si cela nel profondo il soffio vitale e non è certo necessario il ferro per estirparlo; non è necessaria una ferita profonda che metta a nudo i visceri: la morte è a por­tata di mano. Non ho fissato un luogo per tali colpi: per do­ve vuoi, c'è un passaggio. Quello stesso che si chiama mori­re, il distacco dell'anima dal corpo, è troppo breve perché tanta rapidità possa essere avvertita: sia che un nodo vi spezzi la gola, sia che l'acqua vi ostruisca i polmoni, sia che, buttandovi, la durezza del suolo vi sfracelli la testa, sia che il fuoco ingoiato vi interrompa il respiro, qualunque co­sa sia, agisce in fretta. E non arrossite? Tanta paura per un evento così breve!»

haustus ignis: probabile allusione al suicidio di Porzia, figlia di Catone e mo­glie di Bruto, che ingoiò carboni ardenti, cfr. Valerio Massimo, 4, 6, 5: ar­dentes ore carbones haurire. Seneca sostituisce il fuoco ai carboni per com­pletare i quattro elementi: aria (impiccagione), acqua (annegamento), terra (sfracellamento), cfr. E.V. Maltese, Sen. De Prov. VI 9, "Sileno" 5-6, 1979­80, pp. 297-301 (ma l'osservazione era già in Albertini, op. cit., p. 284).

diu: clausola in decrescere, secondo la tendenza anticlassica di Seneca (vd. sopra, 5, 11 e 6, 6, e Intr, § 7), cfr. ep. 93, 3: nec sero mortuus est, sed diu.


Document Info


Accesari: 11264
Apreciat: hand-up

Comenteaza documentul:

Nu esti inregistrat
Trebuie sa fii utilizator inregistrat pentru a putea comenta


Creaza cont nou

A fost util?

Daca documentul a fost util si crezi ca merita
sa adaugi un link catre el la tine in site


in pagina web a site-ului tau.




eCoduri.com - coduri postale, contabile, CAEN sau bancare

Politica de confidentialitate | Termenii si conditii de utilizare




Copyright © Contact (SCRIGROUP Int. 2024 )