Non pesa il fucile ad armacollo
Né il pastrano né la cartucciera
Lo stivale non pesa nella sera
Né la brina sulla bandoliera.
È l'ora ventidue, manca un minuto:
Il giro della luna s'è compiuto.
All'oscuro le pietre sono colte
Da improvvisa tacita morte.
In cielo non scorre fiume
La foglia più non riluce
Il muro è tornato muro
E lo stivale ancora stivale
Sopra in cuore
La notte il gabelliere
È più povero di Giobbe:
La lepre ha la tana
La pecora la lana
La foglia è compagna
Di un'altra foglia.
Non c'è formica
Senza formicaio
Né cuculo senz'abete.
Il nespolo fa il frutto
L'ape il miele
L'inverno porta neve.
In ogni stagione
Il gabelliere sconta
Il peggio della notte.
Travaglio di vento
Tormento di sonno.
Chi rimuove lo stagno,
Chi passa nel trifoglio?
All'erta gabelliere.
È la Signora Morte.
La luce non mi è stata compagna
Sulla terra né l'acqua sorella.
L'affabile acqua piovana
Che materna addormenta
Il vecchio gabelliere
E la giovane rana.
Avrei voluto chiudere il cielo
Come una semplice porta
Per restare una giornata
Acquattato sull'erba
In attesa di niente.
Maledetto sia questo silenzio
Che alza muro sopra muro:
Il cielo separa dal corpo
Lo sguardo dell'occhio.
Tra l'una e l'altra mano
C'è lo spazio di una valle.
Maledetto sia questo silenzio
Che alza muro sopra muro.
I tuoi rami sono lunghe
Mani di ragazze more
Il cui polso garrulo suona
Di verzicanti bracciali.
Il tuo profumo è una scala
Di tondi lisci gradini
Che corrono a chiocciola
Intorno alla luna.
La tua foglia è tre volte
Verde come una verde
Bandierina d'alga
Di domenica siciliana.
Il tuo frutto ha sapore
Di navigli nuovi
Che prendono il mare
Con risa di fanciulle.
A ogni fine di giornata
Quando il cielo muore
Con la gola tagliata
Come la gallina nera
Resto solo sul
Con gli odori della sera
E il sacco di cenciaiolo
Dove raccolgo la cenere
Delle mie ore terrene.
Seguo la mia pipa
Come un cieco segue
Un altro cieco.
Cielo non v'è stasera,
Non c'è neanche
Un poco di cielo
Su cui andare.
Mi duole la pipa stasera.
So questo, era un soldato
Con un paio di scarpe nuove
Che accanto gli stavano
A vegliarlo giorno e notte.
Aveva una fucilata nel petto
E ogni volta che tossiva guardava
Con ceruli occhi le scarpe
Che vegliavano come cani
La branda dell'infermeria.
Morì alle cinque del mattino
Dicendo queste sole parole:
«Mettetemi amici le scarpe
È venuta l'ora di andarmene.»
Morì alle cinque del mattino
Con gli occhi rivolti alle scarpe.
Chi mi cammina dentro
E orma lascia di fuga?
Chi rimuove l'antica collera,
Chi brucia, chi mi fruga?
Chi si serve del mio piede
E attraversa la strada
Non mia?
Chi l'amico percuote
Con la mia buona mano?
Frammenti d'altre vite,
Memorie di peccati
Antichi io mi porto.
Non c'erano donne a piangere
La morte del fiume
Né Madonne con spade
E fazzoletti: all'oscuro moriva
Come un cavaliere caduto
Da cavallo. Non c'era luna
A piangere né fidanzata
Mentre i neri battellieri
Percuotevano all'oscuro
Con mazze e martelli
Il corpo morto dei fiume.
Non c'erano monache a piangere
Né orfanelle: non c'era l'angelo.
L'angelo delle sere d'inverno
Chissà dov'era con la sua slitta
Bianca e le sue lane.
Signore, tu mi lavori senza tregua.
Nell'inverno mi lavori e nell'estate,
Nei giorni delle feste consacrate.
Nei mesi pari e in quelli di trentuno
Col sole con la pioggia con la luna.
A ore, a settimana, a cottimo, a giornata.
Come il canuto operaio della ferriera
Tu mi cuoci mi sciogli e non ti bruci.
Una sera fra le sette e le nove
Una sera dell'ultimo inverno
Allo scocco del coprifuoco
Il cielo ha lasciato la terra
Schiodando l'ultimo chiodo.
Una sera fra le sette e le nove
Il cielo fuggì dalla terra
Su un toro di fuoco,
Una sera dell'ultimo inverno
Allo scocco del coprifuoco
Una sera fra le sette e le nove
Il sangue s'apprese alla mota
Allo scocco del coprifuoco.
Al muro, il poeta al muro
Dicevano i giornali,
Lorca fucilato al muro.
Per telegrafo un muro
È uguale a un altro muro.
Gli angeli non hanno pianto
Non hanno rivolto domande
Perché in paradiso è proibito.
Hanno guardato il muro
Hanno guardato il sangue
Come si guarda una rosa
Sopra un muro di calce.
Hai colto la rosa
E ti sei messo a giuocare:
Era come alla fiera di Cordova
Era come alla corrida,
Era come alla Porta del Sole
Il giorno di Sant'Isidoro.
Era bello vedere gli angeli
Incantati di te, Garcia.
Erano stati ragazzi a Siviglia
E ti apprezzavano.
All'improvviso furono tristi,
La rosa era più bianca
E tu più fioco.
Erano stati ragazzi a Siviglia
E sapevano che un muro
È diverso da un altro muro.
In cielo te lo sei portato
Perché ce ne fosse uno meno.
Gli altri portano cavalli,
Portano cigni e colombe:
Tu, Garcia, un muro
Un muro che non si scavalca.
Lasciate che gli angeli piangano.
Malia d'inverno mi tiene
E fuochi al chiuso.
Mai più tornerò
Alle notti nel mare
Sotto il gaio Capricorno.
Mai più spargerò
Foglie di ruta
Sulla fronte d venere
Né ascolterò al fresco
Lo stornello grottesco
Del venditore di terre
Che passa a cavallo
Con sette voci
Come sette liquori.
Abbandono il festino
La tazza il tamburo
E torno al fiore di spina.
Il vostro modo di uccidere
Di cantare e fare all'amore
Non mi appartiene.
Io non voglio aprire le braccia.
Non ho niente di buono
E dove vado io nessuno viene.
Terra dopo terra ancora terra.
Terra da pane e terra da vino
Terra infine per morire.
Io non voglio aprire le braccia.
Non ho niente da dare
Niente da ricevere
E dove vado io ci sono spine.
Spine la sera spine la mattina
Spine per scendere spine per salire.
Io torno al bosco ai boschi
E batto coi piedi la terra
Come si batte la donna amata
Per capriccio o allegria:
In una mano ciondoli
E nell'altra ruscelli.
Io batto e batto la terra
Come si batte lana di pecora
Prima che la sposa si corichi.
Rauco più della cornacchia
E più stonato del violino di valle
Io canto perché mi piace cantare.
In testa ho paesi bianchi
E scale a chiocciola.
In testa ho clarini che volano
Più veloci delle rondini
Che tornano dall'Egitto.
E occhi lunghi come barche
Come le barche che vincono
Il campionato dei fiumi.
Ho voci che mi chiamano
In idiomi che non capisco.
Mi chiamano laggiù dalle isole
E mi gettano ponti d'amore.
Ponti di giunco e di piuma
Ho in testa dove passeggiano
I figli dei miei figli
E mia madre è ancora giovane.
In testa ho paesaggi vermigli
Con grandi giocattoli gialli.
In testa ho un cielo aperto
Con angeli a cavallo.
L'allodola il fiume l'ocarina
L'immagine di te alla finestra
Che ti pettini come uno suona.
I monti continuano i capelli.
Mie stanze di paglia e di fuoco
Aprite tutti i cancelli: fra poco
L'allodola il fiume e l'ocarina
Sarò io nei tuoi capelli.
Forestiero sono stato in ogni luogo
Più del lucchesino in Brasile
Che vende re di scagliola.
Sono andato di paese in paese
Come il piccolo calabrese
Astrologo e ombrellaio.
Ho risparmiato e sprecato.
Sono stato più paziente del muratore
Che attraversa il mare
Per alzare un muro in Australia.
I cammellieri fermarono i cammelli.
L'aria era piena di tamburi
Come un cestello è pieno d'uova.
Disceso dalla mia torre di stracci
Strinsi molte mani
E molto mi inchinai.
Quale giuoco interrotto ripresi?
I millenni divennero specchi
Inganni e begli sguardi.
Sposai Sara con la vista.
I neri capelli furono miei
E il gelsomino dei seni.
Senza disfare veli
Presi la via del mare.
Sara di nuovo nel tallero
Conservato nella lana
Suona ancora nell'aria
Della mia sera d'Africa.
Quando scendo dagli Appennini
Alla patria remota dei fieni
Dell'orbo mi sovviene
Asino delle cisterne
Che lo zero ripete sempre
Alla sete del Tavoliere.
Lunga sete zero cocente
Muore l'acqua nella sorgente.
Avrei potuto avere a Bruges
Argento e sposa nubile,
A Gand onorata vecchiaia.
Sarei stato certamente
Influente a Mariakerke:
Nei giorni di mercato
Avrei guarito cavalli
E scacciato i diavoli.
Chi disse Nordsee
Mi fece mutare
Cammino e malia.
Eccomi straniero a me stesso
In questo deserto di selci.
Ventagli chi vuole ventagli?
Vendo il vento in ritagli:
Chi vuole ventagli d'aria?
Mia giuliva pazzia,
Zéfiro sono al mattino
E a vespro Ponentino.
Chi vuole ventole-stornelli?
Intreccio piumette e piume
Per scacciar le brume
Dai tuoi capelli.
Pietà, pietà cuori duri
Pietà per l'uccello migratore
Che ha perduto un'ala in volo.
Pietà per l'orfano gitano
Che s'è giocato a carte
Sella e cavallo
Suicida in una prigione.
Pietà per il giovane Nessuno
Ucciso in Cina
O un qualsiasi altro luogo
Clima razza condizione.
Pietà per chi muore all'impiedi
Dentro una camera d'affitto.
Pietà per chi cade
Pietà per chi si lascia cadere.
Pietà, pietà cuori duri
Voi che siete sempre seduti
E apprendete dai giornali
La morte degli altri.
Ancora la morte mi confonde.
Lapillo o fuscello
Io sono quello
Che muta spola e spoglia
Al sangue che veglia.
Ancora la morte mi confonde
Alle coste, alle sponde
Dove non sono:
Alla rondine che di me muore
Chiedo perdono.
Una sera sul Quai Voltaire
Qualcuno che mi somiglia
Verrà a ricominciare
L'intesa delle ciglia.
Qualcuno che mi somiglia
Fuggiasco come me
T'ingannerà coi suoni
Rochi del fiume.
Qualcuno che mi somiglia
Ti piegherà a giunchiglia.
Socchiuso ti sto a guardare
Fare lega col mare.
T'investe, ti scioglie
Con spade e coppe
Ti coglie.
Rovinoso prestigio
Dell'indaco:
Interrompo il giuoco
Apro l'occhio
E ti faccio entrare.
Che attenzione: l'udito, l'orecchio.
Che divertimento
Distinguere, confondere
L'acqua
L'arpa
E il campanello della brina
Che si rompe in aria.
Accoccolata ridi
Del faceto muro
Che ci divide.
Quanti sguardi alle balaustre
E trapani nell'aria:
Più nuda non potevi essere.
Da siepi e feritoie
Spiavano i caprai,
Ti tagliavano con gli occhi.
Più nuda non potevi essere
Del pesce spada controvento.
a Ezra Pound nel Manicomio Criminale di Washington
Non dire al poeta che il pane
È più bianco del sale.
Non chiamare la guardia
Se il poeta brucia.
Non dire quel che deve fare
Se il mare è in tempesta.
Lascia che il poeta pianga
Il cristallo ferito
Nell'oscura trincea della miniera.
Toledo
La testa piena d'icone e di spine
Vado con le spade
Fuori Porta della Visagra.
Vado a Santa Maria la Blanca
Vado sul ponte d'Alcàntara.
Vado al fiume coi cani ciechi
Vado con tutte le pietre
E il Conte muore,
Il Conte muore in tutte le ore.
Maestra è Manola a Valencia
E i cuori smaglia
Al mercato delle selle.
L'antica arte degli occhi
Qui è pregiata.
Con gli sguardi lavora Manola
Come il sellaio col trincetto
E fa con tanti agnelli
Una sola sella.
Lascia pinze e pinzette
E le matite che riscrivono l'occhio.
Mia bella, lascia il rosso
Che tinge il bicchiere.
Lascia scorrere la voce
Come un liquore insensato
E non correggere il tempo
Con l'ora tetra dell'orologiaio.
Mia bella, non aggiungere non sottrarre:
Lascia al pettine il divagare
E volgiti dalla mia parte.
Quella che vedi tra le frasche,
Incappucciata di rosa viola,
La susina è di San Martino.
All'albore d'ottobre matura
E se devi coglierla
Non attendere l'inverno.
Una mi slega l'altra mi lega,
Funaiole chi è che mi salva?
Mano forte fa lunga la corda
E forte stringe quello che ama.
Funaiole non fate più nodi
Che niente ho da annodare:
Tirando la canapa ai chiodi,
Funaiole non fatemi male.
Se in tre sai dividere un capello
Non fai per me.
Se meno stimi il prato del cancello
Non fai per me.
Se l'acqua discacci con l'ombrello
Non fai per me.
I castagnai dei bastioni
Di nuovo accendono i fuochi.
La giostra nella nebbia
I lumi di Porta Venezia.
Seduta al parapetto
Mi parli all'orecchio.
L'odore di neve,
Le tue parole.
Piove non piove.
Quello che sono e sono stato
Domandatelo alle strade
Dei paesi della sete.
Tufi lucertole spine,
Bell'uva sulle colline
Dove fui ladro di galline.
Strade di cenere e pomice
Lavorate dallo scorpione.
Dove ramingo io vissi
La cicala ancora muore.
Quello che sono e sono stato
Domandatelo alle strade.
Una dice, scatenato!
E mostra le ferite
Che fuggendo ho lasciato.
Dalle braccia di mia madre
Dalle mani dell'amata
Sempre fuggiasco sono stato.
Da me solo inseguito
Braccato, colpito.
Re per un giorno
Per cent'anni povero.
Soldato bracciante gabelliere:
Su ogni nuova strada
Nuovo mestiere.
Domandate ai sentieri della neve
Alle doline alle cordigliere
Quello che sono e sono stato.
Domandatelo alle strade.
Alla malora carte
Cartigli e scartoffie
Che potevano darmi gloria.
La vita ho consumato
Su carta e inchiostro.
Mio Dio quanto ho limato
Notte e giorno.
Mio Dio quanto ho penato.
Al chiuso restarono le donne
Come ombre di rondini
Sui muri di calce.
Su moli e gettate
Nessuno pianse
La partenza dei braccianti.
a Domenico Cantatore
Il falegname che batte il legno
Nulla sa di ciò che duole e non duole
E ha cura della sua mano
Quando forte percuote.
Nessun legno ha mai detto:
Ahi falegname, mi fai male!
La pietra si lascia rompere
Dal tagliapietre,
L'asino dal padrone.
Questo povero animale
Poggiato come un arnese
L'asino è di Gerona.
Il silenzio non mi salva
La parola non mi aiuta.
Muri aggiungo muri tolgo.
Più mi scopro più mi nascondo.
Fra la gente vivo
E ballo da solo.
Di ragione privo
Un poco mi consolo
Di ciò che manca.
Musica, musica!
Le parole che dice
Non dicono niente.
Ma quando ride,
E ride sovente,
Il silenzio splende
La morte si diverte.
A secco ho tirato la mia barca
E l'acqua mi ha compianto,
Ha compianto il vecchio marinaio.
Nella bonaccia nella tempesta
Fedele sono stato alla mia barca.
Lontano va il mare e non si stanca.
a Ennio Morlotti
L'ultimo canto
Ha bruciato la cicala
E le spine del cardo
Di già ingialliscono.
Spettri lascia
L'estate che muore,
Volpi di paglia.
Duole l'occhio
Alle parole.
In silenzio si disfa
Il trono effimero
Del granoturco.
Adoro la donna pesce
Dal riflesso sfuggente.
Quella io adoro
Che all'oscuro
Fa luce
E subito dispare.
Io che sono cicala
Per te canto.
Per te canto
Che stai zitta,
Sola in ombra
Nella casa grande.
Si addice al mio verso
L'andamento leggiero
E l'odore bruciato
Del fuggiasco.
Si addice il vento caldo
Che fa spuntare
Astri all'aglio
Nella fornace di sabbia.
Nasce per la rabbia
Lo spinoso cardo
E la capra consola
Col suo fiore.
a Roberto Scalabrini
Nel meriggio di fuoco
Dava cornate il sole
E mi strappava
Senza sangue il cuore.
Fuggevole un'ombra,
Una sola colomba
Muovendo appena le ali
Fresco rifece amore
Coi suoi aliti.
Arlecchino mio buon principe
Delfino primo
Del salto mortale,
Stanca è l'arpa
Per tanto suonare.
Alla fine di ogni vita
Stringe polvere la calamita.
In vita meno pesava d'ogni cosa
La formica Maria.
Per trattenersi ancora
Nella cucina della fattoria
Il tempo fermò con l'ombra sua.
In vita pesava meno d'una piuma
La formica Maria.
E quando divenne muta,
Per non lasciarmi solo
Il silenzio col piombo rifuse.
In vita pesava meno d'una foglia
La formica Maria.
E quando divenne pietra
In sei furono a sollevarla
Per portarsela via.
a Francesco Messina
Ora che se n'è andata
Non voglio spezzare il pane
Sulla sua tovaglia,
Sciupare non voglio le pieghe
Alle sue tele bianche.
Ora che se n'è andata
Non voglio, non voglio sentire
Il rumore delle stoviglie:
L'argento era suo, il lucore
Di crete e caffettiere.
Spegnete la carbonella,
Fuochi e lumi spegnete
Perché la mia maestra
Se n'è andata in una stella.
Dimesso l'affanno;
Quieto, distante, separato
E infine perdonato
Da quelli che mi amarono.
Questo mucchietto di cenere
In mezzo alla foschia
Sono io; e l'erba che sopra
Vi cresce, ancora verde
La mia poesia
Ho perduto vecchi amici
Che sembravano fedeli,
E altri più giovani e leggieri
Sono usciti dai muri
Come ladruncoli svaniti.
Se ne sono andati quasi tutti
In punta di piedi,
Ballerini incapaci
Che fingevano volare
Verso frontiere assicurate.
Nessuno si voltò a guardare
Dalla mia parte informe
Dove, dopo le rovine,
La musica ricominciava.
Consumato l'ultimo
Inchiostro, fra poco
Fra poco sarò pronto.
Questa è l'ora che vanno per calde erbe infinite
nel mio paese gli ultimi treni, con fischi lenti
salutano la sera, affondano indolenti
in sonni dove tramontano rosse città turrite.
Dai finestrini aperti il vino delle marcite
monta al madido specchio delle povere panche;
dei giovanili amanti scioglie le dita stanche,
fa deserte di baci le labbra inaridite.
Una effimera aurora di luna nuova ai portici
tovaglie miti accende: è l'ora che i gentili
zingari fanno i fuochi, caldi di puerili
bocche van canti, calma s'alza dagli aeroporti
azzurri una vela d'ombra, è notte, e un dolce vento
rasserena i motori perduti nel firmamento.
Luce che i caldi tetti
della città saluti,
ombra che li tramuti...
(Un passo, solo un poco
più stanco; e soffi là,
dalla spia: «Sei libero,
non è che un gioco, va'...».)
Non hai pace. Prometti
cieco, ancora. Tu dài
sempre ciò che non hai:
luce, ombra, libertà.
Non va più dolce, più santo incenso,
grazie più umile al cielo immenso
del vostro, o fiori. Oh bocche miti!
Oh lieti, unanimi sguardi infiniti!
Va' dunque e perditi, negletta lode.
Ché se vien sera nei campi, e s'ode
parlar nell'erba calda d'amanti,
chi mai per l'aria bruna altri canti,
chi, pur se vecchio, se escluso, udrà?
Ma già li assonna, gli occhi sereni,
il lungo bacio d'addio dei treni.
Dalle torri di Ferrara
vola ormai la dolce luce,
ma a una grata nera, avara,
chi ti volge, chi ti induce
o carezza della sera?
Chi risponde a una preghiera,
ad un pianto abbandonato
con quest'esile fanfara?
Oh non cada sera, alcuna
notte mai se non vi porti
per lo spazio, per la bruma,
suoni deboli e distorti,
rari, trepidi segnali
quando l'ore son più eguali,
quando più lontano è il giorno
e ogni nome è sopra il mare.
O tu, cui lenta abbraccia la collina accaldata,
casa persa nel verde, volto esile e santo,
solo tu rimarrai, muto, eroico pianto,
non resterai che tu, e la luce assonnata.
L'alba ai vetri; e la musica d'un piffero e un tamburo
volava a me con lieve, vaneggiante allegria.
Eri tu che passavi, vita, tu, vita mia,
tu che sopravvenivi, innocente futuro.
«Empio evo venturo che premi dalle porte»
dicevo io, con lacrime più soavi che amare,
«dimentica il mio nome!» Dicevo. E la tua, morte,
ebbra ancor m'assonnava melodia militare.
M'avessi da bambino
serbato alla tua Legge.
Stato sarei del gregge
dei morti a capo chino,
vittima persuasa
di un'altra libertà.
Tu solo nella casa
decrepita vegliavi
dal tuo trono... Oh, se agli avi
sommessi, cieco infante,
dedicato m'avessi
col tuo sguardo distante!
Negli anni d'oro della mia
gioventù
a quante sublimi auree cose credevo
con mica troppo ahimè
coraggio di crederci!
Adesso
quasi vecchio quasi
completamente incredulo
ne ho tanto però di
coraggio
Ormai lo so perché alla mia santa
gli occhi le si riempiono così spesso di lacrime
e dice che vorrebbe
morire
Lo so da quando le ho recitato
le tre terzine finali del decimo del Paradiso
spiegandole poi come
risulti chiaro che secondo Dante
la jouissance di lassù
non si diversifica minimamente
da questa di quaggiù
tranne che per la durata
e che perciò l'eternità paradisiaca
altro non è in sostanza che un
unico
solo
interminato
venire
Gli ex fascistoni di Ferrara
invecchiano
alcuni
di quelli che nel '39
mostravano di non più ravvisarmi
traversano mi buttano
come a Geo le braccia al collo
gaffeurs incontenibili
sospirano eh voi
propongono
dopo la dolorosa
pacca sulla spalla mancina
l'agape casalinga
che alfine consenta alla monumentale mummy cattolica
d'estrazione bolognese o rovigotta
ai brucanti in tinello strabiondi
teen-agers incontaminati
di incontrarlo una buona volta
il già compagno di scuola talmente
bravo
il bravo
romanziere
il presidente...
Hanno l'aria di insinuare
nel mentre dài piantala
non lo vedi che sei tu quoque
mezzo morto?
E poi scusa - continuano
uguali identici ormai
all'ingegner Marcello
Rimini
al rabbino dottor Viterbo -
in che altro modo senza di
noi
avresti potuto metterle insieme
le tue balle con relativo
appoggio di grana eccetera? Dopo tutto
cazzo
potresti ben cominciare
a considerarci anche noi quasi dei mezzi...
Corrazziali? Voi quoque? Dei quasi
mezzi cugini? No piano
Come cazzo si
fa
Prima
cari
moriamo
Certe volte da che ho perduto
l'olfatto
mi dico per consolarmi
cieco non la vedrei
Ma poi ecco il mio giunco là la mia grande
bionda
e a guardarla non vedo che il
suo odore
No non aggiungerò nuova legna
al fuoco lasciamo
che la legna che già c'è si consumi
a poco a poco
che la vampa si trasformi a poco a
poco in brace
ed io e te zitti - seduti
uno a fianco dell'altro - dal fondo
buio della sala a guardare
spegnersi finalmente anche
quella
Mi chiedi perché mai e quando
ti rispondo che è stato così
accorgermi semplicemente in un tardo pomeriggio qualsiasi
poniamo - giacché non è nemmeno detto - d'ottobre
del modo come la luce del sole colpiva il roseo
impervio fianco sud-ovest di palazzo
Sacchetti
- colpiva e al tempo stesso bagnava la luce non so se mi
segui... -
accorgermi delle foglioline nere e aguzze del rampicante - l'aria era mossa
capisci? - percorse a tratti
su su per il tramite di oscuri rameggi da una specie di
reiterata scarica elettrica la quale contemporaneamente
fosse infusa chissà come d'autentico e liquido
oro
e aver voglia di schianto dopo anni infiniti
di ridere ridere e insieme del suo perfetto
contrario
Subito dopo aver chiuso gli occhi per sempre
eccomi ancora una volta chissà come a riattraversare Ferrara in macchina
- una grossa berlina metallizzata di marca
straniera dai grandi
cupi cristalli forse una
Rolls -
a scendere ancora una volta dal castello Estense giù per corso
Giovecca verso il roseo
ghirigoro terminale della Prospettiva che intanto piano
piano si faceva grande entro il concavo
rettangolo del parabrise
Lo chauffeur d'alta e dura collottola seduto a dritta davanti
certo lo sapeva molto bene da che parte dirigersi né io d'altronde
mi sognavo minimamente
di rammentarglielo
ansioso com'ero di riconoscere sulla sinistra la chiesa
di San Carlo più in là a destra
quella dei Teatini
a lei di contro già fermi così di buon'ora in crocchio sul marciapiede
dinanzi alla pasticceria
Folchini
gli amici di mio padre quando lui era giovane
i più con larghe lobbie bige in capo alcuni con tanto di mazza
dal pomo d'argento in pugno
ansioso anzi smanioso com'ero insomma di ripercorrere l'intera Main
Street della mia città in un giorno qualsiasi di maggio-giugno
attorno alla metà degli anni Venti un quarto d'ora avanti
le nove di mattina
Quasi sospinta dal suo stesso soffio lussuoso infine la Rolls svoltava
laggiù per via Madama e di lì a poco in via
Cisterna del Follo
e a questo punto ero io non più che decenne
le guance di fuoco per il timore d'arrivar tardi a scuola
a uscire in quel preciso istante coi libri sottobraccio
dal portone numero
uno
ero io che pur continuando a correre mi giravo indietro
verso la mamma spenzolata dalla finestra di sopra a raccomandarmi
qualcosa
ero io proprio io che un attimo prima di sparire
alla vista di lei ragazza dietro l'angolo
levavo il braccio sinistro in un gesto
d'insofferenza e insieme
d'addio
Avrei voluto gridare alt al rigido
chauffeur e scendere ma la Rolls
sobbalzando mollemente già lungheggiava
il Montagnone anzi ormai fuori
Porta già volava per strade ampie deserte
prive affatto di tetti ai lati e affatto
sconosciute
Ieri sera a letto mi ero messo
dalla parte destra quella che occupa
lei quando è qui
e stamani svegliandomi mi son ritrovato
a sinistra di dove nel buio ascolto insonne talora
il battito possente del suo
esserci
Cosa mi ha indotto dunque durante la notte
ad abbandonare lo spazio del suo grande
corpo assente
se non l'ansia d'essere anche io
niente?
La magnolia che sta giusto nel mezzo
del giardino di casa nostra a Ferrara è proprio lei
la stessa che ritorna in pressoché tutti
i miei libri
La piantammo nel '39
pochi mesi dopo la promulgazione
delle leggi razziali con cerimonia
che riuscì a metà solenne e a metà comica
tutti quanti abbastanza allegri se Dio
vuole
in barba al noioso ebraismo
metastorico
Costretta fra quattro impervie pareti
piuttosto prossime crebbe
nera luminosa invadente
puntando decisa verso l'imminente
cielo
piena giorno e notte di bigi
passeri di bruni merli
guatati senza riposo giù da pregne
gatte nonché da mia
madre
anche essa spiante indefessa da dietro
il davanzale traboccante ognora
delle sue briciole
Dritta dalla base al vertice come una spada
ormai fuoresce oltre i tetti circostanti ormai può guardare
la città da ogni parte e l'infinito
spazio verde che la circonda
ma adesso incerta lo so lo
vedo
d'un tratto espansa lassù sulla vetta d'un tratto debole
nel sole
come chi all'improvviso non sa raggiunto
che abbia il termine d'un viaggio lunghissimo
la strada da prendere che cosa
fare
Dunque addio anche a te alto e magro
ignoto quarantenne indugiante di qua dalla soglia
d'una saracinesca d'elettrauto o di carrozziere
mezzo calvo in blue-jeans ed in scura
maglietta con corte maniche
intento - sembra - a osservare perplesso
qualcosa di fronte che non scorgo
oppure semplicemente
a calcolare dentro se stesso i minuti
residui che lo separano dalla chiusura
serale
Sono quasi le diciannove d'una giornata
qualsiasi di mezzo maggio
e sto procedendo adagio attraverso uno qualsiasi
di questi nuovi quartieri periferici
che Carlo solo può frequentare senza sentirsi
anonimo
anonimo d'un tratto io viceversa tale e quale
l'individuo inquadrato non più di un attimo fa
al centro del parabrise
il quale non domandava come me ormai
che d'essere dimenticato
Si avvicinano
pronto ognuno a occupare la propria seggiola
signori e signore appartenenti
- ovverosia appartenuti fra '30 e '40 - alla migliore
società
tutti quanti stasera resi un po' pazzi
all'idea della prossima
baldoria a base di boli
succulenti
e perciò esumando nelle more certi tremanti
loro lazzi decrepiti
ma ormai proni tutti assieme sul grande
piatto ovale d'entrée
alla ricerca chi della spigola
chi della sogliola
chi dell'ostrica
di roba tenera insomma la quale resta
sempre l'ottima per chiunque non ha
più denti
Piange ride grida sei molto
molto più giovane di me sei un'autentica
forza della natura
ma s'inganna non sa
in che misura
ad ogni istante io senta la mia
vita a grado a
grado lasciarmi
simile in tutto a lei
ogni qualvolta girata indietro ridendo
fra le lacrime se ne va
via
Per una macchiolina da niente sul candido
irreprensibile tuo polsino
di pizzo
tale quasi la viola d'Attilio ti lamenti ti
disperi
Sfòrzati d'essere un po' meno nitida
mia bella un po' meno pulita così in
generale
solo un tantino
Non te ne accorgerai
più
Non saprei dire se di giorno o di notte se calpestando
io l'opposto marciapiede oppure se rapido
una volta di più passando
via con la macchina
ricordo però assai bene d'aver letto qualche mese
fa giusto al principio
dell'inverno
scritto a caratteri maiuscoli e cubitali sopra un intonaco
dilavato di periferia con un pennello
intinto in una scura vernice color sangue
rappreso
- e facevano le lettere una specie d'arco in lieve un poco esitante
salita quasi ad esprimere
anch'esse nel loro incerto flettersi la tenerezza
commemorante d'ogni supremo
addio -
ciao dolcissima Marg proprio così
CIAO DOLCISSIMA MARG. e
nient'altro
Dove sei Marg - non faccio da allora che chiedermi - dove vivi in quale
anonimo quartierino del Salario del Tiburtino o del
Trionfale
dormi vegli parli mangi ridi sospiri gridi
piangi eccetera
trascini da una stanzuccia all'altra fino all'asfittico
balconcino la già molle
tua anca di imminente
Margherita
fai ondeggiare fra le magre scapole lunga
fino alla vita fino all'esile
giro dei blue
jeans
la fulva enorme
treccia
e dove mai sarà lui soprattutto - ignoto
completamente al comune lager metropolitano e forse persino
a te stessa -
lui l'ugualmente dolcissimo tuo
poeta?
Tutto ciò che esiste è degno
di perire recito anche io fra me e
me parafrasando
Engels
Ed ecco nel rosso deserto crepuscolo appena dopo
Bologna ecco quasi subito
volando io continuamente in discesa lungo il dritto asfalto laggiù
verso il buio il silenzio la
solitudine
eccola là già in vista la grande la tiepida
dimora
eccola ancora là la mia
gioventù
Muore un'epoca l'altra è già qua
affatto nuova e
innocente
ma anche questa lo so non la
potrò vivere che girato
perennemente all'indietro a guardare
verso quella testé
finita
a tutto indifferente tranne a che
cosa davvero fosse la mia
vita di prima
chi sia io mai
stato
Da bambino siccome temevo
il grande fantasma bianco m'ero fatto
un rifugio dello sgabuzzino
del telefono
Il pensiero solo che fosse possibile
spedirmi giù sottoterra di notte alla ricerca
d'un altro ceppo per il
fuoco
bastava a riempirmi d'un incoercibile
spavento
E colma quasi altrettanto d'orrore era lassù
in cima in cima alla casa
la mansarda-granaio vasta
e vuota com'era e pervasa
tutta d'un fioco
semispento grigiore
Non sono cambiato non credere anche se mi dò
coraggio anche se ti
sembrai talvolta all'epoca così calmo e
saggio così
forte
Qualsiasi angolo o spigolo continua
ad allarmarmi qualsiasi promessa
di buio può farmi
ancor oggi tremare
qualsiasi viso
Vero è che il tuo soltanto o mia rara
o mia grande ed amara o mia
perduta
ogni qualvolta pensando lo riò
negli occhi di là dal cancelletto
d'uscita
mi fa oggi ancora sì trasalire
però di
vita
Da ragazzo e da giovane prediligevo
il mare tanto il suo blu
pacifico
quanto le bianco
azzurre sue tempeste
Ora - e lo so perché - sono le montagne
ad attirarmi e quelle soltanto che di
là dalle foreste salgono
più su nude
tacite
Mentre scendeva in macchina giù dalle brulle
montagne dell'interno mentre guidava
verso il mare e la luce di
Fonteblanda
sentì a un tratto d'assomigliare a quell'esile scuro
albero là ritto da solo sull'ultimo
crinale proprio a quel vecchio
pino
di stare aprendosi come lui adagio
adagio per un'altra volta
ancora al tenero
mattino
No non aggiungerò nuova legna
al fuoco lasciamo
che la legna che già c'è si consumi
a poco a poco
che la vampa si trasformi a poco a
poco in brace
ed io e te zitti - seduti
uno a fianco dell'altro - dal fondo
buio della sala a guardare
spegnersi finalmente anche
quella
Uscendo sul Lungotevere sotto la pioggia battente
che impegna al massimo il tergicristallo
scorgo in un lampo prima di immettermi
anch'io nel flusso della
corrente
una grande candida pagina aperta - forse la doppia
pagina centrale del giornale
d'oggi -
ballare gioiosa e disperata presa a mezz'aria nel vortice
di una ruota gommata
una specie di estremo valzer avanti di cedere
d'arrendersi a diventare informe e bigia
poltiglia
a ridursi a
niente.
Eccolo dunque qua l'inverno un rapido
inverno ancora
così diverso dalla nera inclemente
stagione lunghissima
capace ai tempi dei tempi di trasformare
il bambino in un ragazzo il ragazzo in un
uomo
la stagione interminabile piena di fiamme
e lacrime che a ricordarla
a ripensarci più tardi oramai dentro
la primavera
ti sussurrava ebbene no non temere se tanto hai
amato ebbene di nuovo e di più tra breve
amerai
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