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STORIA - memorialistica - Applebaum, Anne - Gulag

Italiana


Anne Applebaum

GULAG

Storia dei campi di concentramento sovietici



Scansione: Il cameriere del dottor Jaws

Correzione: filuc

Mondadori

Traduzione di Luisa Agnese Dalla Fontana

https: //www.librimondadori.it

ISBN 88-04-52651-3

Copyright (c) 2003 by Anne Applebaum

(c) 2004 Arnaldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

Titolo dell'opera originale: Gulag

I edizione marzo 2004

INDICE

Introduzione

Parte prima

LE ORIGINI DEL GULAG. 1917-1939

I Gli esordi bolscevichi

II "Il primo campo del Gulag"

III 1929, la grande svolta

IV Il canale del mar Bianco

V L'espansione dei campi

VI Il Grande terrore e le sue conseguenze

Parte seconda

VITA E LAVORO NEL GULAG

VII L'arresto

VIII La prigione

IX Trasferimento, arrivo, selezione

X La vita quotidiana

Zona: dietro il filo spinato, 211 - Rezim: regole di vita, 216 - Baraki: il luogo di abitazione, 220 - Banja: il bagno, 227 - Stolovaja: la sala da pranzo, 231

XI Il lavoro

Rabocaja zona: la zona di lavoro, 240 - KVC: la Sezione educativo-culturale, 255

XII Punizione e premio

SlZO: le celle di punizione, 266 - Poctovyj jascik: la casella postale, 271 - Dom svidanij: la Casa degli incontri, 275

XIII Le guardie

XIV I prigionieri

Urka: i criminali comuni, 303 - Kontrik e Bytovoj: i politici e i comuni, 313

XV Donne e bambini

XVI I moribondi

XVII Strategie di sopravvivenza

Tufta: fare finta di lavorare, 369 - Pridurok: cooperazione e collaborazione, 379 - Sancast': ospedali e medici, 388 - "Virtù quotidiane", 399

XVIII Ribellione e fuga

Parte terza

ASCESA E DECLINO

DEL COMPLESSO INDUSTRIALE DEI CAMPI. 1940-1986

La guerra

XIX

XX "Forestieri"

XXI L'amnistia, e il dopo

XXII L'apogeo del complesso industriale dei campi

XXIII La morte di Stalin

XXIV La rivoluzione degli zek

XXV Disgelo... e libertà

XXVI L'era dei dissidenti

XXVII Gli anni Ottanta: i monumenti abbattuti

Epilogo

Appendice

Note

Bibliografia

Glossario

Ringraziamenti

Indice dei nomi

GULAG

Questo libro è dedicato a quanti hanno descritto ciò che è successo

Nei terribili anni della ezovscina ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi "riconobbe". Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all'orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): "Ma lei può descrivere questo?". E io dissi: "Posso".

Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.

ANNA AHMATOVA, Requiem, 1° aprile 1957

Le parole russe in corsivo vengono riportate al singolare.

INTRODUZIONE

E il destino li rese tutti uguali

al di fuori della legge.

Figlio di kulak o comandante rosso

figlio di pope o commissario ...

Qui le classi erano tutte alla pari.

Tutti fratelli gli uomini, compagni di galera,

rutti col marchio di traditore.

ALEKSANDR TVARDOVSKIJ, Per diritto di memoria (1)

Questa è una storia del Gulag, una storia della vasta rete di campi di lavoro che un tempo erano disseminati in lungo e in largo in tutta l'Unione Sovietica, dalle isole del mar Bianco alle sponde del mar Nero, dal Circolo polare artico alle pianure dell'Asia centrale, da Murmansk a Vorkuta al Kazakistan, dal centro di Mosca alle periferie di Leningrado. La parola "Gulag" è l'acronimo di Glavnoe Upravlenie Lagerej, Amministrazione generale dei campi. Nel corso del tempo il termine è passato a indicare non soltanto l'amministrazione dei campi di concentramento, ma anche l'intero sistema sovietico di lavoro forzato, in tutte le sue forme e varianti: campi di lavoro, campi di punizione, campi per criminali comuni e politici, campi femminili, campi per bambini, campi di transito. In un'accezione ancora più ampia, Gulag denota ormai lo stesso sistema repressivo sovietico, l'insieme delle procedure che un tempo i prigionieri chiamavano "tritacarne": arresti, interrogatori, trasferimento in carri bestiame senza riscaldamento, lavoro coatto, distruzione di famiglie, anni trascorsi in esilio, morti precoci e inutili.

Il Gulag aveva dei precedenti nella Russia zarista, nelle squadre di lavoro coatto che dal diciassettesimo secolo all'inizio del ventesimo operarono in Siberia. Assunse la sua forma moderna e più nota quasi subito dopo la Rivoluzione russa, diventando parte integrante del sistema sovietico. Il terrore di massa contro oppositori reali o presunti fu un fattore determinante della rivoluzione fin dall'inizio; già nell'estate del 1918 Lenin, il leader della rivoluzione, aveva chiesto che gli "elementi inaffidabili" venissero rinchiusi in campi di concentramento fuori dalle città più importanti (2). Vennero quindi imprigionati numerosi aristocratici, commercianti e altri definiti "nemici" potenziali. Nel 1921 c'erano 84 campi di prigionia disseminati in 43 province, per la maggior parte destinati a "riabilitare" questi primi "nemici del popolo".

Dal 1929 i campi assunsero un nuovo significato. Quell'anno Stalin decise di avvalersi del lavoro coatto per accelerare l'industrializzazione dell'Unione Sovietica e per estrarre le risorse naturali nell'estremo nord del paese, quasi inabitabile. Quell'anno, inoltre, la polizia segreta cominciò ad assumere il controllo sul sistema penale sovietico, sottraendo a poco a poco all'autorità delle istituzioni giudiziarie tutti i campi e le prigioni del paese. Grazie agli arresti di massa del 1937 e del 1938, i campi entrarono in un periodo di rapida espansione. Alla fine degli anni Trenta se ne trovavano in ciascuna delle dodici fasce di fuso orario sovietiche.

Contrariamente a quanto si è soliti ritenere, dopo gli anni Trenta il Gulag non cessò di svilupparsi, anzi continuò a espandersi per tutta la Seconda guerra mondiale, raggiungendo l'apice all'inizio degli anni cinquanta. In quell'epoca i campi svolgevano ormai una funzione fondamentale nell'economia sovietica. Fornivano un terzo dell'oro del paese, buona parte del suo carbone e legname, e molto di tutto il resto. Nel corso dell'esistenza dell'Unione Sovietica sorsero almeno 476 diversi complessi di campi, costituiti da migliaia di campi singoli, ciascuno dei quali ospitava da qualche centinaio a molte migliaia di persone (3). 1 prigionieri lavoravano in quasi tutti i settori produttivi: taglio del legname, industria estrattiva, edilizia, agricoltura, allevamento, progettazione di aeroplani e artiglieria, e in realtà vivevano in un paese nel paese, quasi in una civiltà separata. Il Gulag aveva le sue leggi, le sue usanze, la sua morale, persino il suo gergo. Produceva una propria letteratura, con i suoi cattivi e i suoi eroi, e lasciava il segno su tutti coloro che vi passavano, fossero prigionieri o guardie. Anni dopo essere stati rilasciati, gli abitanti del Gulag spesso riuscivano a riconoscere per strada gli ex detenuti soltanto "dal loro sguardo".

Tali incontri erano frequenti, perché nei campi l'avvicendamento era rapido. Se gli arresti erano continui, lo erano anche i rilasci. I prigionieri venivano liberati perché avevano scontato la pena, perché si arruolavano nell'Armata rossa, perché erano invalidi o donne con bambini piccoli, perché erano stati promossi dalla condizione di detenuti a quella di guardie. Di conseguenza, il numero totale delle persone rinchiuse nei campi oscillava intorno ai 2 milioni, ma la cifra complessiva dei cittadini sovietici con qualche esperienza "concentrazionaria", come prigionieri politici o comuni, era assai più alta. Dal 1929, quando il Gulag cominciò a espandersi in modo significativo, fino al 1953, anno della morte di Stalin, secondo le valutazioni più attendibili passarono per questo mastodontico sistema circa 18 milioni di persone. Altre 6 milioni circa erano state mandate in esilio, deportate nei deserti del Kazakistan o nelle foreste siberiane. Anche loro, obbligate per legge a restare nei villaggi in cui erano confinate, potevano considerarsi lavoratori coatti, sebbene non vivessero dietro il filo spinato. (4)

I campi, come sistema di lavoro forzato di massa in cui erano coinvolti milioni di persone, scomparvero quando Stalin morì. Egli aveva creduto per tutta la vita che il Gulag fosse essenziale per lo sviluppo economico sovietico, ma i suoi eredi politici sapevano bene che, in realtà, era fonte di arretratezza e assorbiva investimenti. Pochi giorni dopo la morte del dittatore i suoi successori cominciarono a smantellarlo. Tre importanti rivolte, insieme a innumerevoli incidenti minori ma non meno pericolosi, contribuirono ad accelerare il processo.

I campi, però, non sparirono del tutto. Piuttosto si evolsero. Negli anni Settanta e all'inizio degli anni Ottanta alcuni di essi vennero ristrutturati e riadattati per potervi rinchiudere una nuova generazione di attivisti democratici, nazionalisti antisovietici e criminali. Grazie alla rete sovietica dei dissidenti e al movimento internazionale per i diritti civili, in Occidente giungevano con regolarità informazioni su questi campi post-staliniani. A poco a poco assunsero una certa importanza nella diplomazia della guerra fredda. Negli anni Ottanta il presidente americano Ronald Reagan e il suo omologo sovietico Mihail Gorbacev ne discutevano ancora. Solo nel 1987 Gorbacev, egli stesso nipote di prigionieri del Gulag, cominciò a smantellare completamente i campi politici dell'Unione Sovietica.

In ogni caso, anche se durarono quanto la stessa Unione Sovietica, e anche se vi passarono molti milioni di persone, fino a poco tempo fa la vera storia di questi campi di concentramento non era ben conosciuta. In certa misura non lo è nemmeno oggi. Persino i fatti nudi e crudi menzionati sopra, seppure ormai noti alla maggior parte degli studiosi occidentali di storia sovietica, non sono ancora filtrati nella coscienza dell'opinione pubblica occidentale. "La conoscenza umana non si accumula come i mattoni di un muro, che cresce regolarmente grazie al lavoro del muratore" ha scritto una volta lo storico del comunismo francese Pierre Rigoulot. "Il suo sviluppo, ma anche il suo ristagno o arretramento, dipende dal contesto sociale, culturale e politico." (5)

Si potrebbe affermare che il contesto sociale, culturale e politico per la conoscenza del Gulag non esiste ancora.

Mi sono resa conto per la prima volta di questo problema molti anni fa, mentre attraversavo il ponte Carlo, un'importante attrazione turistica di Praga, da poco tornata alla democrazia. Lungo il ponte c'erano artisti di strada e borseggiatori, e più o meno ogni cinque metri qualcuno vendeva proprio quello che ci si aspetterebbe di trovare in vendita in un tale luogo da cartolina. C'erano in mostra quadri di strade ben tenute, bigiotteria e portachiavi con la scritta "Praga". In mezzo al ciarpame si potevano acquistare accessori d'abbigliamento dell'esercito sovietico: berretti, galloni, fibbie e spilline, piccoli ritratti di Lenin e Breznev che un tempo gli scolari sovietici portavano appuntati sulla divisa.

La visione mi colpì per la sua stranezza. La maggior parte delle persone che compravano oggettini dell'esercito sovietico erano americani o europei occidentali. Tutti avrebbero provato ripugnanza all'idea di portare una svastica, ma nessuno trovava strano indossare una maglietta o un berretto con la falce e il martello. Era un'osservazione di secondaria importanza, ma a volte è proprio attraverso tali piccoli dettagli che si comprende meglio il clima culturale. In quel caso, infatti, la lezione non poteva essere più chiara: mentre il simbolo di una strage di massa ci riempie di orrore, il simbolo dì un'altra strage di massa ci diverte.

La scarsità di immagini dello stalinismo nella cultura popolare occidentale può spiegare, almeno in parte, perché tra i turisti di Praga non c'è grande sensibilità sull'argomento. La guerra fredda ha prodotto James Bond e le spy-story, e russi caricaturali come quelli che compaiono nei film di Rambo, ma nulla di ambizioso come Schindler's List o La scelta di Sophie. Steven Spielberg, forse il regista più importante di Hollywood (che vi piaccia o no), ha deciso di fare film sui campi di concentramento giapponesi (L'impero del sole) e nazisti, ma non sui campi di concentramento staliniani, che non hanno catturato nello stesso modo l'immaginazione della Mecca del cinema.

Nemmeno il mondo degli intellettuali è stato molto più aperto al riguardo. Il fatto di aver dimostrato manifesto favore verso il nazismo, un entusiasmo di breve durata maturato prima che Hitler commettesse le atrocità più efferate, ha danneggiato gravemente la reputazione di Martin Heidegger. Invece la reputazione di Jean-Paul Sartre non ha affatto sofferto per il favore da lui dichiarato con aggressività nei confronti dello stalinismo nel dopoguerra, quando chiunque fosse interessato aveva a disposizione moltissime prove delle atrocità perpetrate da Stalin. "Dato che non eravamo membri del Partito" ha scritto una volta Sartre "non avevamo il dovere di scrivere dei campi di lavoro sovietici; eravamo liberi di tenerci al di fuori delle dispute sulla natura del sistema, poiché non si verificavano eventi di significato sociologico." (6) In un'altra occasione disse ad Albert Camus: "Io trovo inammissibili questi campi, come voi, ma è altrettanto inammissibile l'uso giornalistico che ne fa la stampa borghese". (7)

Dopo il crollo dell'Unione Sovietica qualcosa è cambiato. Nel 2002, per esempio, il romanziere Martin Amis è stato talmente turbato da Stalin e dallo stalinismo da scrivere un libro sull'argomento. La sua opera ha indotto altri scrittori a chiedersi perché fossero così pochi i politici di sinistra e i letterati simpatizzanti ad aver affrontato la questione. (8) Altre cose invece non sono cambiate. Può accadere ancora che un professore universitario americano pubblichi un libro in cui afferma che le epurazioni degli anni Trenta sono state utili, perché hanno favorito l'aumento della mobilità sociale e quindi hanno gettato le basi per la perestrojka. (9) E che un direttore editoriale britannico rifiuti un articolo perché "troppo antisovietico". (10) Ma la reazione più diffusa rispetto al terrore staliniano è la noia o l'indifferenza. In una recensione, peraltro onesta, a un mio libro sulle repubbliche occidentali dell'ex Unione Sovietica negli anni Novanta, si legge la seguente frase: "Fu lì che ebbe luogo la carestia del Terrore degli anni Trenta, in cui Stalin uccise più ucraini degli ebrei trucidati da Hitler. Eppure quanti occidentali se ne ricordano? In fondo la strage fu così... così noiosa e manifestamente priva di drammaticità". (11)

Sono piccole cose: l'acquisto di un oggettino, la reputazione di un filosofo, l'esistenza o l'inesistenza di film di Hollywood. Messe però tutte insieme fanno una storia. Dal punto di vista intellettuale, americani ed europei occidentali sanno che cosa accadde in Unione Sovietica. Il celebrato romanzo di Aleksandr Solzenicyn sulla vita nei campi, Una giornata di Ivan Denisovic, nel 1962-1963 è stato pubblicato in molte nazioni in Occidente. Anche il suo libro sui campi basato sulle testimonianze orali, Arcipelago Gulag, quando uscì in diverse lingue nel 1973, suscitò molti commenti. Anzi, in alcuni paesi Arcipelago Gulag ha provocato una piccola rivoluzione intellettuale, soprattutto in Francia, dove ha convertito a una posizione antisovietica interi settori della sinistra. Negli anni Ottanta, il periodo della glasnost', sono state fatte molte altre rivelazioni sul Gulag, e anch'esse hanno ricevuto all'estero la debita pubblicità.

Ciononostante, in molta gente i crimini di Stalin non provocano la stessa reazione viscerale di quelli di Hitler. Ken Livingstone, ex parlamentare britannico e ora sindaco di Londra, una volta si è sforzato di spiegarmi la differenza. Sì, i nazisti erano "malvagi", mi ha detto. L'Unione Sovietica invece era "deviata". Questa opinione riecheggia la sensazione di molti, persino di quelli che non aderiscono alla vecchia sinistra: l'Unione Sovietica aveva, per così dire, qualcosa di sbagliato, ma non di così sbagliato come la Germania hitleriana.

Fino a poco tempo fa si poteva spiegare questa mancanza di sensibilità riguardo alla tragedia del comunismo come logica conseguenza di un particolare complesso di circostanze. Una di esse è il tempo che passa: con il passare degli anni i regimi comunisti sono diventati davvero meno deprecabili. Nessuno aveva molta paura del generale Jaruzelski, e nemmeno di Breznev, anche se entrambi furono responsabili di terribili devastazioni. Un'altra circostanza era l'assenza di un solido apparato di informazioni, supportato da ricerche d'archivio. La penuria di studi accademici sull'argomento per molto tempo è dipesa dalla scarsità delle fonti. Gli archivi erano chiusi. L'accesso alle località dei campi proibito. Le telecamere della televisione non hanno mai ripreso i campi sovietici o le loro vittime, come era accaduto in Germania alla fine della Seconda guerra mondiale. E l'assenza di immagini ha comportato una minore possibilità di comprendere.

Ma anche l'ideologia ha distorto il modo in cui abbiamo compreso la storia sovietica e quella europea. (12) Una piccola parte della sinistra occidentale si è sforzata di spiegare e talvolta di giustificare i campi e il terrore che li aveva prodotti, dagli anni Trenta in poi. Nel 1936, quando milioni di contadini sovietici erano già rinchiusi nei campi di lavoro forzato o vivevano confinati, i socialisti britannici Sidney e Beatrice Webb hanno pubblicato un ampio studio sull'Unione Sovietica, che fra l'altro spiegava come il "contadino russo, così pervicacemente asservito, riesce gradualmente ad acquistare ... un senso di libertà politica". (13) All'epoca dei processi farsa di Mosca, mentre Stalin condannava arbitrariamente ai campi migliaia di membri del Partito innocenti, Bertolt Brecht disse al filosofo Sidney Hook: "Più innocenti sono, più meritano di morire". (14)

Ancora negli anni Ottanta c'erano professori universitari che continuavano a descrivere i vantaggi del sistema sanitario tedesco orientale o le iniziative di pace polacche, e attivisti che provavano imbarazzo per lo scalpore e il disagio suscitato dai dissidenti internati nei campi di prigionia est-europei. Forse accadeva perché ai filosofi fondatori della sinistra occidentale, Marx ed Engels, si richiamavano anche i fondatori dell'Unione Sovietica. Pure il lessico era sostanzialmente lo stesso: masse, lotta di classe, proletariato, sfruttati e sfruttatori, proprietà dei mezzi di produzione. Condannare in modo troppo radicale l'Unione Sovietica avrebbe significato condannare una parte di ciò che un tempo era caro a certe componenti della sinistra occidentale.

Ma non erano solo l'estrema sinistra e nemmeno soltanto i comunisti occidentali a essere tentati di trovare per i crimini di Stalin giustificazioni che non avrebbero mai cercato per quelli di Hitler. Gli ideali comunisti - la giustizia sociale, l'eguaglianza - sono per la maggior parte degli occidentali assai più attraenti del richiamo hitleriano al razzismo e al trionfo dei forti sui deboli. Anche se nella pratica l'ideologia comunista significava qualcosa di molto diverso, per gli intellettuali figli delle rivoluzioni francese e americana era più difficile condannare un sistema che, almeno in apparenza, somigliava al loro. Forse questo contribuisce a spiegare perché fin dal primo momento i racconti dei testimoni diretti dei Gulag venivano spesso minimizzati e respinti proprio dalla stessa gente cui non sarebbe mai venuto in mente di mettere in discussione la validità delle testimonianze dell'Olocausto scritte da Primo Levi o Elie Wiesel. Dalla Rivoluzione russa in poi, chiunque volesse informarsi poteva accedere senza difficoltà ai dati ufficiali sui campi di concentramento: il rapporto sovietico più famoso su uno dei primi campi, quello del canale del mar Bianco, fu persino pubblicato in inglese. L'ignoranza da sola non può spiegare perché gli intellettuali occidentali decisero di evitare l'argomento.

La destra occidentale, d'altra parte, si è battuta per condannare i crimini sovietici, ma talora con sistemi che nuocevano alla sua stessa causa. L'uomo che danneggiò di più la causa dell'anticomunismo fu senza dubbio il senatore americano Joe McCarthy. Documenti recenti in cui si dimostra che alcune delle sue accuse erano fondate non cambiano gli effetti della sua zelante persecuzione contro i personaggi famosi americani sospettati di simpatie per il comunismo: i suoi processi pubblici ai filocomunisti finirono per conferire alla causa dell'anticomunismo un carattere sciovinista e intollerante. (15) Alla fine, le sue azioni non favorirono la ricerca storica neutrale più di quelle dei suoi oppositori.

Eppure, non tutti i nostri atteggiamenti verso il passato sovietico possono essere fatti risalire all'ideologia politica. Anzi, in realtà molti sono un sottoprodotto dei nostri ricordi della Seconda guerra mondiale. Attualmente abbiamo la salda convinzione che la Seconda guerra mondiale sia stata del tutto giusta, e sono in pochi a desiderare di veder traballare tale convinzione. Ricordiamo il D-Day, la liberazione dei campi di concentramento nazisti, i bambini che davano il benvenuto ai soldati americani acclamandoli per la strada. Nessuno vuole sentirsi raccontare che la vittoria degli Alleati ha avuto un'altra faccia, una faccia oscura, né che i campi di Stalin, nostro alleato, vasti proprio come quelli di Hitler, il nostro nemico, si espandevano. Ammettere che quando gli Alleati occidentali, dopo la guerra, rimpatriarono a forza migliaia di russi mandandoli a morte certa, e che quando a Jalta consegnarono milioni di persone al dominio sovietico forse aiutarono altri a commettere crimini contro l'umanità minerebbe la purezza morale dei nostri ricordi di quell'epoca. Nessuno vuole pensare che abbiamo sconfitto uno sterminatore con l'aiuto di un altro. Nessuno vuole ricordare quanto questo sterminatore andava d'accordo con gli uomini di Stato occidentali. "Ho una sincera predilezione per Stalin. È sempre stato di parola" ha confidato a un amico il ministro degli Esteri britannico Anthony Eden. (16) Esistono moltissime fotografie che ritraggono insieme Stalin, Churchill e Roosevelt, tutti sorridenti.

E, per finire, la propaganda sovietica ha sortito degli effetti. I tentativi di sollevare dei dubbi sulle opere di Solzenicyn, per esempio, ritraendolo come un pazzo, un antisemita o un ubriacone, hanno avuto un certo impatto. (17) Le pressioni sovietiche su studiosi e giornalisti occidentali hanno contribuito a deviarne le opere. Negli anni Ottanta, quando in un'università americana studiavo la storia russa, alcuni conoscenti mi dissero di non prendermi la pena di continuare dopo la laurea, perché c'erano troppe difficoltà; in quell'epoca, chi scriveva "in favore" dell'Unione Sovietica otteneva con maggiore facilità accesso agli archivi e alle informazioni ufficiali nonché visti per periodi di soggiorno più lunghi nel paese. Chi non lo faceva rischiava l'espulsione e di conseguenza difficoltà professionali. Va da sé che a nessun cane sciolto era consentito l'accesso a qualsiasi tipo di materiale relativo ai campi di Stalin o al sistema carcerario post-staliniano. L'argomento semplicemente non esisteva, e chi frugava troppo in profondità perdeva il diritto di restare nel paese.

Tutte queste spiegazioni, messe insieme, un tempo avevano un qualche senso. La prima volta che ho cominciato a pensare sul serio all'argomento, nel 1989, mentre il comunismo stava crollando, ne vedevo la logica persino io: sembrava naturale, ovvio, che dovessi conoscere molto poco riguardo all'Unione Sovietica di Stalin, la cui storia segreta rendeva tutto ancora più intrigante. Oltre dieci anni dopo, il mio modo di pensare è molto cambiato. Ora la Seconda guerra mondiale appartiene a una generazione precedente. Anche la guerra fredda è finita, e le alleanze e i parametri da essa prodotti sono mutati per sempre. La sinistra e la destra occidentali adesso discutono di questioni del tutto diverse. Allo stesso tempo, l'emergenza di nuove minacce terroristiche contro la civiltà occidentale rende sempre più necessario studiare le antiche minacce comuniste all'Occidente.

In altre parole, il "contesto sociale, culturale e politico" oggi è cambiato, e si accede con molta più facilità alle informazioni sui campi. Alla fine degli anni Ottanta l'Unione Sovietica di Mihail Gorbacev è stata inondata di documenti relativi al Gulag. Per la prima volta i giornali pubblicavano storie sulla vita nei campi di concentramento sovietici. Le nuove rivelazioni aumentavano in modo vertiginoso la vendita delle riviste. Vecchie discussioni riguardo alle cifre - quanti erano i morti, quanti gli arrestati - si sono riaccese. Gli storici russi e le società storiche guidati dall'Associazione Memorial di Mosca, hanno cominciato a pubblicare monografie, storie di singoli campi e persone, stime sulle vittime, elenchi di nominativi dei morti. I loro sforzi sono stati ripresi e amplificati dagli storici delle ex repubbliche sovietiche e dei paesi un tempo membri del patto di Varsavia, e in seguito anche dagli storici occidentali.

Nonostante le molte interruzioni, in Russia la ricerca riguardo al passato sovietico continua ancora oggi. A dire il vero, il primo decennio del ventunesimo secolo è molto diverso dagli ultimi del ventesimo, e la ricerca storica non è più un argomento di primo piano nella vita culturale russa e non suscita lo stesso scalpore di un tempo. La maggior parte degli studi effettuati da ricercatori, russi e non, consiste in un paziente lavoro di indagine, che comporta il vaglio di migliaia di singoli documenti, ore trascorse in archivi freddi e pieni di correnti d'aria, giornate passate a cercare fatti e cifre. Ma questo lavoro comincia a produrre risultati. Piano piano, con pazienza, l'Associazione Memorial non solo ha messo insieme la prima guida ai nomi e ai luoghi di tutti i campi noti, ma ha anche pubblicato una innovativa serie di libri storici e organizzato un archivio immenso di racconti orali e scritti dei sopravvissuti. Insieme ad altri, l'Istituto Saharov e la casa editrice Vozvrasèenie (il nome significa "ritorno") hanno dato ampia diffusione ad alcuni di questi memoriali. Le riviste accademiche russe e la stampa istituzionale hanno inoltre cominciato a pubblicare monografie basate su documenti nuovi, e raccolte degli stessi documenti. Un lavoro analogo viene condotto anche altrove, in particolare dalla Fondazione Karta in Polonia, e dai musei storici in Lituania, Lettonia, Estonia, Romania e Ungheria; e da un gruppetto di studiosi americani ed europei occidentali che hanno tempo ed energia per lavorare negli archivi dell'ex Unione Sovietica.

Mentre effettuavo ricerche per questo libro ho esaminato i loro studi, e altri due tipi di fonti che dieci anni fa sarebbero state inaccessibili. La prima è la marea di nuovi memoriali che hanno cominciato a uscire in Russia, America, Israele, Europa orientale e altrove negli anni Ottanta. Me ne sono ampiamente servita per il mio testo. Nel passato, alcuni studiosi dell'Unione Sovietica mostravano diffidenza nei confronti del materiale memorialistico sul Gulag, perché sostenevano che gli scrittori sovietici di memorie distorcevano le proprie storie per motivi politici, che di solito le componevano molti anni dopo essere stati rilasciati, e che spesso, quando la memoria li tradiva, ricorrevano a narrazioni di altri. Tuttavia, dopo aver letto centinaia di testi di memorie sui campi e aver intervistato una ventina di sopravvissuti, mi sono convinta che era possibile fare una cernita escludendo le testimonianze in apparenza poco plausibili, o plagiate, o politicizzate. Mi sono convinta inoltre che, sebbene non si possa fare affidamento sulle memorie per quanto riguarda i nomi, le date e le cifre, tuttavia esse costituiscono una fonte inestimabile di informazioni di altro genere, in particolare per quanto riguarda alcuni aspetti essenziali della vita nei campi: i rapporti tra i prigionieri, i conflitti tra gruppi, il comportamento di guardie e amministratori, l'importanza della corruzione, persino l'esistenza di amore e di passione. Ho fatto volutamente ricorso a uno scrittore in particolare, Varlam Salamov, che ha scritto una versione romanzata della sua vita nei campi, perché i suoi racconti si basano su fatti realmente accaduti.

Per quanto possibile, ho anche supportato le memorie con ampie ricerche d'archivio, una fonte a cui - benché la cosa possa sembrare paradossale - non tutti amano attingere. Come risulterà chiaro dalla lettura di questo libro, l'influenza della propaganda in Unione Sovietica era talmente forte da alterare la percezione della realtà. Quindi in passato gli scrittori avevano tutte le ragioni per non fidarsi dei documenti sovietici pubblicati in forma ufficiale, che spesso celavano in modo deliberato la verità. Ma i documenti segreti, quelli oggi conservati negli archivi, avevano un'altra funzione. Per gestire i suoi campi, l'amministrazione del Gulag era costretta a tenere registrazioni di un certo tipo. A Mosca avevano necessità di sapere che cosa accadeva nelle province, le province dovevano ricevere istruzioni dall'amministrazione centrale, bisognava elaborare delle statistiche. Questo non vuol dire che gli archivi siano affidabili in assoluto - i burocrati avevano le loro ragioni per distorcere anche i fatti più banali -, ma se utilizzati con criterio possono spiegare certi aspetti della vita nei campi di cui è impossibile sapere qualcosa dalle memorie. Soprattutto, contribuiscono a spiegare perché venivano edificati i campi, o almeno che cosa si aspettava di ricavarne il regime staliniano.

È vero anche che gli archivi sono assai più variegati di quanto molti prevedessero, e che raccontano la vita dei campi da tante prospettive diverse. Per esempio, ho potuto accedere all'archivio dell'amministrazione del Gulag, conservato all'Archivio di Stato di Mosca, che contiene i rapporti degli ispettori, i rendiconti finanziari, le lettere dei direttori dei campi ai loro sovrintendenti a Mosca, le relazioni sui tentativi di evasione e gli elenchi degli spettacoli musicali rappresentati nei teatri dei campi. Ho consultato anche verbali di riunioni di Partito e documenti raccolti in una sezione della osobaja papka di Stalin, il suo "archivio personale". Con l'aiuto di altri storici russi sono riuscita a esaminare alcuni documenti degli archivi militari sovietici, nonché gli archivi delle scorte dei convogli, contenenti per esempio gli elenchi dei prigionieri arrestati che erano autorizzati a trasportare. Fuori Mosca, ho avuto anche accesso ad alcuni archivi locali, a Petrozavodsk, Arcangelo, Syktyvkar, Vorkuta e alle isole Soloveckie, dove erano registrati giorno per giorno gli avvenimenti della vita dei campi, oltre all'archivio del Dmitlag (il campo da cui fu edificato il canale Moscova-Volga), conservato a Mosca. Tutti contengono relazioni sulla vita quotidiana nei campi, moduli di ordinazione, fascicoli personali dei detenuti. A un certo punto mi hanno offerto svariati documenti dell'archivio di Kedrovyj Sor, una piccola sezione di Inta, campo minerario a nord del Circolo polare artico, chiedendomi cortesemente se volevo acquistarli.

Tali fonti, messe insieme, danno la possibilità di parlare dei campi in un'ottica nuova. In questo libro non ho più avuto bisogno di confrontare le "affermazioni" di un gruppetto di dissidenti con quelle del governo sovietico. Non ho dovuto cercare il giusto mezzo tra le relazioni dei rifugiati e i rapporti dei funzionari sovietici. Anzi, per descrivere l'accaduto ho potuto utilizzare il linguaggio di persone molto diverse tra loro, guardie, poliziotti, detenuti di vario genere che scontavano condanne diverse in epoche diverse. Questo libro non è incentrato sulle emozioni e le valutazioni politiche che hanno a lungo contrassegnato la storiografia dei campi di concentramento sovietici, quanto piuttosto sull'esperienza delle vittime.

Questa è una storia del Gulag. Con ciò intendo dire che è una storia dei campi di concentramento sovietici: delle loro origini durante la Rivoluzione bolscevica, della loro evoluzione fino a diventare un settore di primo piano dell'economia sovietica, del loro smantellamento dopo la morte di Stalin. È anche un'analisi del retaggio del Gulag: senza dubbio, i rituali e le norme applicati nei campi di prigionia per politici e criminali degli anni Settanta e Ottanta derivavano direttamente da quelli creati in epoca precedente, e per questo ho capito che andavano trattati insieme.

Al tempo stesso, questo è un libro sulla vita nel Gulag, e quindi racconta la storia dei campi in due modi. La prima e la terza parte sono cronologiche, cioè descrivono l'evoluzione dei campi e la loro amministrazione in forma narrativa. La seconda tratta in modo tematico vari aspetti della vita nei campi. Pur se la maggioranza degli esempi e delle citazioni della seconda parte riguarda gli anni Quaranta, il decennio in cui i campi raggiunsero la massima espansione, ho fatto riferimento pure a esperienze precedenti e successive, senza un ordine cronologico. Certi aspetti della vita nei campi si sono sviluppati nel tempo, e ho ritenuto che fosse importante spiegare come è accaduto.

Dopo aver detto che cos'è questo libro, vorrei anche precisare che cosa non è: non è una storia dell'URSS, una storia delle epurazioni, o una storia della repressione in generale. Non è una storia del dominio di Stalin, del suo Politbjuro, o della sua polizia segreta, di cui ho cercato deliberatamente di semplificare il più possibile la complessa vicenda amministrativa. Anche se mi sono servita degli scritti dei dissidenti sovietici, spesso prodotti in situazione di estrema tensione e con grande coraggio, questo libro non offre una storia completa del movimento sovietico per i diritti umani. In tal senso, non rende piena giustizia nemmeno alla storia di specifiche nazioni e categorie di detenuti, fra gli altri i prigionieri di guerra polacchi, i baltici, gli ucraini, i ceceni, i tedeschi e i giapponesi, che hanno sofferto sotto il regime sovietico, tanto nei campi quanto fuori. Non esamina a fondo le stragi di massa del 1937-38, che avvennero soprattutto all'esterno dei campi, o il massacro di migliaia di ufficiali polacchi a Katyn' e altrove. Dato che si tratta di un'opera destinata a un vasto pubblico e non presuppone una conoscenza approfondita della storia sovietica, questi fenomeni e avvenimenti verranno ricordati. Sarebbe però stato impossibile rendere giustizia a tutto in un solo volume.

La cosa forse più importante è che questo libro non rende giustizia alla storia dei "confinati speciali", milioni di persone rastrellate nello stesso momento e per le stesse ragioni dei prigionieri del Gulag, ma che poi anziché nei campi vennero mandate in esilio in villaggi remoti, dove morirono a migliaia per la fame, il freddo e la fatica. Alcuni furono esiliati negli anni Trenta per ragioni politiche, tra i quali i kulaki o contadini ricchi. Altri negli anni Quaranta per la loro etnia, tra i quali i polacchi, i baltici, gli ucraini, i tedeschi del Volga e i ceceni. Essi subirono diversi destini in Kazakistan, Asia centrale e Siberia, troppo diversi e molteplici per riunirli in uno studio sul sistema dei campi. Ho deciso di citarli, forse in modo arbitrario, quando le loro esperienze mi sembravano particolarmente simili o significative rispetto alle esperienze dei prigionieri del Gulag. Ma sebbene la loro storia sia intimamente legata a quella del Gulag, raccontarla per intero richiederebbe un altro saggio, esteso come questo. Spero che qualcuno presto lo scriverà.

Anche se questo è un libro sui campi di concentramento sovietici, è impossibile parlare di questi ultimi come di un fenomeno isolato. Il Gulag si è esteso e sviluppato in un momento e in un luogo precisi, in concomitanza con altri avvenimenti, e si colloca all'interno di tre contesti. A rigor di termini, il Gulag rientra 1) nella storia dell'Unione Sovietica, 2) nella storia internazionale e russa di prigioni ed esilio, e 3) nel particolare clima culturale dell'Europa continentale a metà del ventesimo secolo, che ha dato origine anche ai campi di concentramento nazisti in Germania.

Quando dico "rientra nella storia dell'Unione Sovietica" intendo una cosa molto specifica: il Gulag non è emerso dal nulla pienamente formato, perché in realtà ha sempre riflesso i criteri generali della società circostante. Se i campi erano sporchi, se le guardie erano brutali, se le squadre di lavoro erano negligenti, dipendeva anche dal fatto che in altre sfere della vita sovietica abbondavano la sporcizia, la brutalità e la negligenza. E nemmeno può sorprendere che nei campi la vita fosse orribile, insopportabile, inumana, i tassi di mortalità elevati. In certi periodi, la vita in Unione Sovietica era altrettanto orribile, insopportabile, inumana, e i tassi di mortalità fuori dai campi erano elevati come al loro interno.

Inoltre, non è certo un caso se i primi campi sovietici furono allestiti subito dopo la Rivoluzione russa, cruenta, violenta e caotica. Durante la rivoluzione e in seguito, negli anni del terrore e della guerra civile, in Russia molti ritenevano che la civiltà fosse stata compromessa per sempre. Lo storico Richard Pipes ha scritto: "Le sentenze di morte erano pronunciate in modo arbitrario: le persone venivano fucilate senza alcuna ragione apparente, oppure rilasciate in modo altrettanto casuale". (18) Dal 1917 in poi, la scala di valori di un'intera società fu capovolta; la ricchezza e l'esperienza accumulate in una vita erano considerate un difetto, divenne di moda chiamare il furto "nazionalizzazione", l'omicidio era considerato un atto accettabile nella lotta per la dittatura del proletariato. In questa atmosfera, non sembrò certo strano o spropositato che Lenin facesse incarcerare migliaia di persone, solo perché erano ricche o aristocratiche.

Nello stesso modo, gli alti tassi di mortalità di certi anni nei campi di concentramento riflettevano in parte gli eventi che si verificavano all'esterno. Salirono all'inizio degli anni Trenta, quando la morsa della carestia strinse tutto il paese. Salirono di nuovo durante la Seconda guerra mondiale: l'invasione tedesca dell'Unione Sovietica non produsse soltanto milioni di vittime tra i combattenti, ma anche epidemie di dissenteria e di tifo, e ancora una volta la carestia, che coinvolse la gente nei campi e fuori. Nell'inverno 1941-42, quando un quarto della popolazione del Gulag morì di inedia, morì di inedia forse un milione di abitanti di Leningrado, intrappolata dal blocco tedesco. (19 La cronista del blocco, Lidija Ginzburg, definì la fame in quel periodo "una condizione permanente ... sempre presente e si faceva sentire in ogni momento ... il momento più spaventoso e doloroso nel processo di alimentazione era quando il cibo si esauriva con terribile velocità, senza saziare". (20) Come il lettore avrà modo di scoprire, le sue parole ricordano in modo curioso quelle degli ex detenuti.

Ora, è vero che gli abitanti di Leningrado morivano a casa loro, mentre il Gulag distruggeva esistenze, lacerava famiglie, sottraeva i bambini ai genitori, e condannava milioni di persone a vivere in terre desolate e lontane, a migliaia di chilometri dai loro cari. Tuttavia, le orribili esperienze dei prigionieri possono essere paragonate a buon motivo ai ricordi terribili dei "liberi" cittadini sovietici come Elena Kozina, che fu evacuata da Leningrado nel febbraio 1942. Durante il viaggio assistette alla morte per fame di suo fratello, sua sorella e sua nonna. Mentre i tedeschi si avvicinavano, lei e sua madre attraversavano a piedi la steppa, imbattendosi in "scene di disfatta e di caos ... il mondo si stava frantumando in migliaia di pezzi. Tutto era impregnato di fumo e di un terribile odore di bruciato, la steppa era stretta e soffocante, quasi fosse chiusa in un pugno di fuliggine".

Anche se non ebbe mai esperienza dei campi, prima di compiere dieci anni la Kozina conobbe un freddo, una fame e una paura terribili, e fu perseguitata dai ricordi per il resto della sua vita. "Nulla", scrisse, avrebbe potuto "cancellare in me il ricordo del corpo di Vadik quando fu portato via sotto una coperta ... di Tanja che soffocava nell'agonia ... di me e della mamma, le ultime due ad arrancare nel fumo e nel frastuono della steppa in fiamme". (21)

La popolazione del Gulag e la popolazione del resto dell'URSS avevano molte cose in comune oltre alla sofferenza. Sia nei campi sia fuori si riscontravano la stessa trascuratezza nel modo di lavorare, la stessa stupida burocrazia criminale, la stessa corruzione e la stessa cupa mancanza di rispetto per la vita umana. Mentre scrivevo questo libro, ho parlato a un amico polacco del sistema della tufta, la truffa sulle norme di lavoro previste, sviluppato dai prigionieri, di cui parleremo in seguito. È scoppiato in una sonora risata: "Pensi che lo abbiano inventato i prigionieri? Tutto il blocco sovietico praticava la tufta". Nell'Unione Sovietica di Stalin, la differenza tra stare dentro i recinti di filo spinato e stare fuori non era essenziale, costituiva piuttosto una questione di gradazione. Forse per questo il Gulag è spesso stato definito l'espressione quintessenziale del sistema sovietico. Persino nel gergo delle prigioni e dei campi, il mondo al di là del filo spinato non si chiamava "libertà", ma bol'saja zona, la "zona di prigionia grande", più ampia e meno letale della "zona piccola" del campo, ma non più umana, e di certo non più benevola.

Tuttavia, sebbene il Gulag non possa essere completamente isolato dall'esperienza di vita dell'Unione Sovietica in generale, non può nemmeno essere avulso dalla storia lunga, multinazionale, interculturale delle prigioni, dell'esilio, degli arresti e dei campi di concentramento. L'esilio dei prigionieri in località remote dove potevano "pagare il loro debito alla società", rendersi utili, e non contaminare altri con le proprie idee o atti criminali, è una pratica antica quanto la stessa civiltà. I governanti dell'antica Roma e della Grecia mandavano i dissidenti in lontane colonie. Socrate preferì la morte al tormento dell'esilio da Atene. Il poeta Ovidio fu esiliato in un fetido porto sul mar Nero. Nella Gran Bretagna georgiana borseggiatori e ladri venivano inviati in Australia. Nell'Ottocento in Francia i criminali erano deportati alla Caienna. Dal Portogallo venivano trasferiti in Mozambico. 22)

Nel 1917 i nuovi dirigenti dell'Unione Sovietica non dovettero guardare molto lontano per trovare un precedente. Già nel Seicento, in Russia esisteva l'istituto dell'esilio; viene menzionato per la prima volta nella legge russa nel 1649. A quell'epoca l'esilio era considerato una forma innovativa, più umana, di punizione per i reati, di gran lunga preferibile alla pena di morte o alla marchiatura e alla mutilazione, e veniva applicato per una vastissima gamma di reati minori o gravi, dall'annusare tabacco e predire la fortuna all'omicidio. (23) Un gran numero di intellettuali e scrittori russi, compreso Puskin, conobbe l'esilio, altri erano angosciati dalla eventualità di sperimentarlo. Quando era all'apice della fama, nel 1890, Anton Cehov stupì tutti i suoi conoscenti, perché partì per andare a visitare e descrivere le colonie penali sull'isola di Sahalin, al largo della costa russa sul Pacifico. Prima di partire, scrisse al suo editore sconcertato, spiegandogliene le motivazioni:

Abbiamo fatto marcire in prigione milioni di persone senza scopo, senza alcuna considerazione e in modo barbaro, abbiamo cacciato questa gente in catene nel gelo per decine di migliaia di verste, l'abbiamo fatta contagiare di sifilide e corrotta, abbiamo corrotto e aumentato i criminali, ma siamo noi tutti che invece prendiamo da questa faccenda le debite distanze, quasi che non ci riguardasse.. ,24

In retrospettiva è facile trovare nella storia del sistema carcerario zarista molte analogie con i metodi adottati in seguito nel Gulag sovietico. Come il Gulag, per esempio, l'esilio in Siberia non era mai applicato soltanto ai criminali. Una legge del 1736 dichiarava che se l'abitante di un villaggio esercitava una cattiva influenza sugli altri, gli anziani potevano spartire la proprietà del disgraziato e ordinargli di trasferirsi altrove. Se non riusciva a trovare un'altra dimora, allora lo Stato poteva mandarlo in esilio.25 Nel 1948 Hruscev citò questa legge mentre perorava (con successo) la necessità di esiliare i membri delle aziende agricole collettive considerati non abbastanza entusiasti e operosi.26

La consuetudine di esiliare le persone solo perché non erano integrate perdurò per tutto il diciannovesimo secolo. Nel suo libro Siberia and the Exile System, George Kennan, zio dell'uomo di Stato americano, descrisse il sistema del "processo amministrativo" che aveva studiato in Russia nel 1891:

La persona esiliata a quel modo può non essere colpevole di nessun delitto. .. ma se alle autorità locali sembra che la sua presenza in un dato luogo sia "dannosa all'ordine sociale" o "incompatibile con la pubblica quiete" potrà essere arrestata senza mandato, detenuta in carcere per un periodo da due settimane a tre anni, poi trascinata a forza in qualsiasi altro luogo nei confini dell'impero, per esservi posta sotto sorveglianza della polizia per un periodo da uno a dieci anni.27

Introduzione 19

L'esilio amministrativo, che non richiedeva processo e sentenza, era una punizione ideale non soltanto per i sobillatori in quanto tali, ma anche per gli avversari politici del regime. Nei primi tempi, si trattava soprattutto di nobili polacchi che si opponevano all'occupazione russa del loro territorio e delle loro proprietà. In seguito, vennero esiliati gli obiettori di coscienza per motivi religiosi, e i membri di gruppi "rivoluzionari" e di società segrete, tra cui i bolscevichi. Seppure non condannati all'esilio amministrativo - vennero processati e giudicati -, anche i più famosi deportati in Siberia dell'Ottocento erano prigionieri politici: i decabristi, un gruppo di membri dell'alta aristocrazia che nel 1825 aveva inscenato una piccola rivolta contro lo zar Nicola I. Lo zar, con uno spirito vendicativo che all'epoca turbò l'Europa intera, ne condannò cinque a morte. Privò gli altri del loro rango, e li mandò in catene in Siberia, dove alcuni furono raggiunti dalle mogli, straordinariamente coraggiose. In pochi sopravvissero abbastanza a lungo da essere graziati, trent'anni dopo, dal successore di Nicola, Alessandro II, e da tornare a casa a San Pietroburgo, ormai vecchi e stanchi.28 Un altro famoso prigioniero politico è Fedor Dostoevskij, condannato nel 1849 a una pena di quattro anni di deportazione. Dopo essere tornato dall'esilio in Siberia, scrisse Memorie dalla Casa dei morti, che resta ancora oggi la cronaca più letta sulla vita nel sistema carcerario zarista.

Il sistema di esilio zarista, come il Gulag, non fu creato soltanto come forma di punizione. Il governo voleva anche che gli esiliati, criminali e politici, risolvessero un problema economico irrisolto da molti secoli: nelle zone dell'estremo oriente e dell'estremo nord del territorio russo la densità della popolazione era bassissima, quindi l'impero non poteva sfruttarne le risorse naturali. Era questo il motivo principale per cui già nel Settecento si cominciò a condannare ai lavori forzati alcuni prigionieri, una forma di punizione che assunse il nome di katorga, dal greco katérgon, "lavoro forzato". In Russia la katorga aveva molti precedenti. All'inizio del secolo Pietro il Grande si era avvalso di detenuti e schiavi per costruire strade, fortezze, fabbriche, navi e la stessa città di San Pietroburgo. Nel 1722 emanò una direttiva più specifica ordinando che i criminali, con mogli e figli, venissero esiliati nei pressi delle miniere d'argento di Daurja, nella Siberia orientale.29

All'epoca, l'impiego da parte di Pietro del lavoro coatto fu considerato un grande successo economico e politico. Anzi, la storia delle centinaia di migliaia di schiavi che trascorsero la vita a costruire San Pietroburgo ebbe un impatto enorme sulle generazioni successive. Curante la costruzione erano morti in molti, eppure la città divenne

Gulag

un simbolo di progresso e di europeizzazione. I metodi erano crudeli, eppure il paese ne trasse vantaggio. L'esempio di Pietro forse contribuisce a spiegare la pronta adozione della katorga da parte dei suoi successori zaristi. Senza dubbio, anche Stalin era un grande ammiratore dei metodi adottati da Pietro nel settore dell'edilizia.

Ma, nell'Ottocento, la katorga rimaneva una forma di punizione relativamente rara. Nel 1906, solo 6000 condannati alla katorga stavano scontando la pena; nel 1916, alla vigilia della rivoluzione, erano 28.600.30 Un'altra categoria di prigionieri rappresentava una risorsa assai più importante dal punto di vista economico: i confinati, condannati a risiedere a vita in esilio, ma non in prigione, in zone del paese scarsamente popolate, scelte per il loro potenziale economico. Solo tra il 1824 e il 1889 vennero inviati in Siberia circa 720.000 condannati al confino. Molti erano accompagnati dai familiari. Furono loro, e non i detenuti che lavoravano in catene, a popolare a poco a poco le zone desolate e deserte della Russia, ricche di minerali.31

Tali condanne non erano certo leggere, e alcuni dei confinati consideravano la propria sorte peggiore di quella dei condannati alla katorga. Deportati in distretti remoti, in cui la terra era sterile e i vicini scarseggiavano, molti perivano di fame durante i lunghi inverni, o si ubriacavano per la noia fino a morirne. C'erano pochissime donne, il loro numero non superò mai il quindici per cento, ancora meno libri, e nessuna distrazione.32

Nel suo viaggio in Siberia e fino a Sahalin, Anton Cehov conobbe e descrisse alcuni esiliati: "La maggioranza è povera, senza poteri, ha un'istruzione approssimativa e porta con sé nient'altro che la propria calligrafia, il più delle volte assolutamente inutile. Alcuni di essi cominciano a vendersi le camicie di tela olandese, le lenzuola, i fazzoletti, e dopo due o tre anni finiscono per morire nella miseria più nera...".33

Ma non tutti gli esiliati erano poveri e derelitti. La Siberia era molto lontana dalla Russia europea, e in oriente c'era un'amministrazione pubblica più tollerante e gli aristocratici non abbondavano. Talvolta gli esiliati e gli ex detenuti più facoltosi acquisivano grandi proprietà. I più istruiti diventavano medici e avvocati, o dirigevano scuole.34 La principessa Marija Volkonskaja, moglie del decabrista Sergej Volkonskij, patrocinò la costruzione di un teatro e di una sala da concerti a Irkutsk: pur essendo stata privata tecnicamente del suo status, come il marito, gli inviti alle sue serate e ai pranzi privati erano molto ambiti, e se ne parlava anche molto lontano, a Mosca e a San Pietroburgo.35

Introduzione 21

All'inizio del Novecento il rigore precedente in certa misura si era attenuato. La moda delle riforme carcerarie, che nel Novecento si diffuse in tutta Europa, alla fine attecchì anche in Russia. I regimi diventarono meno severi, la polizia più tollerante.36 Anzi, contrariamente a quanto accadde in seguito, in quel periodo al gruppetto di uomini che avrebbero diretto la Rivoluzione russa la deportazione in Siberia poteva sembrare, se non proprio gradevole, comunque una punizione tutt'altro che pesante. In carcere, essendo prigionieri "politici", i bolscevichi potevano contare su un trattamento in certa misura privilegiato rispetto ai criminali comuni, ed erano autorizzati a tenere libri, carta e materiale per scrivere. Il dirigente bolscevico Grigorij Ordzonikidze dichiarò che durante il periodo di detenzione nella fortezza Slissel'burg di San Pietroburgo aveva letto, fra l'altro, Adam Smith, Ricardo, Plehanov, Bogdanov, Frederick W. Taylor, Dostoevskij e Ibsen.37 In base ai criteri dei periodi successivi, i bolscevichi erano anche ben nutriti, ben vestiti, persino pettinati con cura. Una fotografia di Trockij del 1906, quando era detenuto nella fortezza di Pietro e Paolo, lo ritrae in giacca e cravatta, con gli occhiali e una camicia con un colletto straordinariamente bianco. Lo spioncino sulla porta alle sue spalle rappresenta l'unica indicazione riguardo al posto in cui si trova.38 In un'altra, scattata durante l'esilio nella Siberia orientale nel 1900, porta un berretto di pelliccia e un pesante cappotto, ed è circondato da uomini e donne, pure in stivali e pelliccia.39 Mezzo secolo dopo, questi capi d'abbigliamento avrebbero costituito un lusso raro nel Gulag.

Se poi sotto lo zarismo la vita in esilio diventava sgradevole in modo intollerabile, c'era sempre la fuga. Lo stesso Stalin fu arrestato e mandato in esilio quattro volte. Fuggì tre volte, una dalla provincia di Irkutsk e due dalla provincia di Vologda, una zona che in seguito fu costellata di campi.40 Di conseguenza, il suo disprezzo per la "mancanza di nerbo" del regime zarista era sconfinato. Il suo biografo Dmitrij Volkogonov ha scritto: "I detenuti politici non erano costretti a lavorare, potevano leggere, perfino scappare. Effettivamente per scappare dai luoghi di confino bastava volerlo".41 Insomma, l'esperienza siberiana fornì ai bolscevichi un modello originario su cui lavorare, e una lezione sulla necessità di regimi punitivi molto severi.

Se il Gulag è parte integrante della storia sovietica come di quella russa, è anche inscindibile dalla storia europea: l'Unione Sovietica non è stata l'unico paese europeo a produrre nel ventesimo secolo un ordine sociale totalitario o a edificare un sistema di campi di concentramento. Anche se questo libro non si prefigge l'obiettivo di evidenziare analogie e differenze tra i campi sovietici e quelli nazisti, non possiamo nemmeno ignorare del tutto l'argomento. I due sistemi sono stati costruiti più o meno nello stesso periodo, nello stesso continente. Hitler sapeva dei campi sovietici e Stalin sapeva dell'Olocausto. Alcuni prigionieri hanno sperimentato e descritto i campi di entrambi i sistemi. Tra di essi esiste un legame molto profondo.

Innanzitutto, sono collegati perché tanto il nazismo quanto il comunismo sovietico sono nati dalle barbare esperienze della Prima guerra mondiale e della guerra civile russa, immediatamente successiva. I metodi di industrializzazione delle operazioni belliche, ampiamente utilizzati durante entrambi i conflitti, produssero una imponente reazione intellettuale e artistica. Meno evidente, se non per i milioni di vittime, è stato il diffuso fenomeno dell'industrializzazione del sistema detentivo. A partire dal 1914, da una parte e dall'altra del fronte si costruirono campi di internamento e per prigionieri di guerra in tutta Europa. Nel 1918, sul territorio russo si contavano 2.200.000 prigionieri di guerra. La costruzione dei campi, allora e in seguito, fu possibile grazie alla nuova tecnologia, che consentiva la produzione di grandi quantità di fucili, di carri armati e persino di filo spinato. In realtà, alcuni dei primi campi sovietici furono allestiti riadattando i campi di prigionia della Prima guerra mondiale.42

I campi sovietici e nazisti sono collegati anche perché entrambi appartengono alla storia generale dei campi di concentramento, cominciata alla fine del diciannovesimo secolo. Quando dico campi di concentramento, intendo strutture costruite per rinchiudervi la gente non a cagione dei suoi atti, ma del suo status. Contrariamente ai campi di prigionia per criminali o ai campi di internamento per prigionieri di guerra, i campi di concentramento erano studiati per un tipo particolare di detenuti civili non criminali, appartenenti a qualche gruppo "nemico", o comunque a una categoria di persone che, per la loro razza o la loro presunta appartenenza politica, era considerata pericolosa per la società o a essa estranea.43

Secondo questa definizione, i primi campi di concentramento moderni non furono allestiti in Germania o in Russia, ma nel 1895 nella Cuba coloniale. Quell'anno, nel tentativo di porre fine a una serie di insurrezioni locali, l'impero spagnolo cominciò a preparare una strategia di reconcentración, intesa a deportare i contadini cubani dalla loro terra e "riconcentrarli" in campi di detenzione, privando così gli insorti di cibo, rifugio e sostegno. Nel 1900 il termine spagnolo reconcentración era già stato tradotto in inglese e veniva impiegato per descrivere un progetto britannico analogo, avviato per ragioni simili, durante la guerra boera in Sudafrica: i civili boeri furono "concentrati" in campi di prigionia per privare i combattenti boeri di rifugio e supporto.

Da lì l'idea si diffuse ulteriormente. Per esempio, sembra certo che il termine konclager' sia comparso per la prima volta in Russia come traduzione dall'inglese concentration camp, probabilmente grazie alla buona conoscenza di Trockij della storia della guerra boera.44 Nel 1904, anche i colonizzatori tedeschi dell'Africa sudoccidentale adottarono il modello britannico, con una variazione. Invece di limitarsi a rinchiudere i nativi della regione, una tribù di nome herero, li costrinsero a lavorare a vantaggio della colonia tedesca.

Esistono svariati e strani legami tra questi primi campi di lavoro tedeschi in Africa e quelli costruiti nella Germania nazista trent'anni dopo. Fu grazie a queste colonie di lavoro africane, per esempio, che nel 1905 comparve per la prima volta la parola tedesca Konzentrationslager. Il primo commissario imperiale dell'Africa tedesca del Sud-Ovest fu un certo dottor Heinrich Göring, padre di Hermann, che allestì i primi campi nazisti nel 1933. Fu sempre nei campi africani che i tedeschi effettuarono i primi esperimenti medici su esseri umani. Due insegnanti di Joseph Mengele, Theodor Mollison e Eugen Fischer, eseguirono delle ricerche sugli herero: Fischer voleva dimostrare le sue teorie riguardo alla superiorità della razza bianca. Ma le loro convinzioni non erano così inusitate. Nel 1912 un libro di grande successo, Il pensiero tedesco nel mondo, affermava:

[Nulla] può convincere le persone sensate che la conservazione di qualche tribù di cafri sudafricani sia più importante per il futuro dell'umanità dell'espansione delle grandi nazioni europee e della razza bianca in generale ... Solo quando gli indigeni impareranno a produrre valore al servizio della razza superiore ... si guadagneranno il diritto morale di esistere.

Anche se tale teoria è stata di rado esposta con tanta chiarezza, alla base del colonialismo vi erano spesso sentimenti analoghi. Di certo alcune forme di colonialismo, oltre a rinforzare il mito della superiorità razziale dei bianchi, legittimavano l'impiego della violenza da parte di una razza contro un'altra. Si può dunque sostenere che le esperienze corruttive di alcuni colonialisti europei contribuirono a spianare la strada al totalitarismo europeo del ventesimo secolo.46 E non soltanto europeo: l'Indonesia è un esempio di Stato postcoloniale i cui governanti inizialmente rinchiudevano chi li criticava in campi di concentramento, proprio come un tempo i loro padroni colonialisti.

L'impero russo, che durante l'espansione verso oriente aveva assoggettato con pieno successo le popolazioni indigene, non fece eccezione.47 Durante un pranzo di gala descritto nel romanzo di Tolstoj Anna Karenina, il marito di Anna, pubblico funzionario responsabile delle "tribù indigene", sostiene la necessità che le culture superiori assimilino quelle inferiori.48 I bolscevichi, come rutti i russi istruiti, dovevano essere consapevoli che l'impero russo aveva sterminato chirghisi, buriati, tungusi, ciukci e altri. Il fatto che non se ne preoccupassero in modo particolare - mentre, per altri aspetti, erano così interessati al destino degli oppressi - è già di per sé indicativo delle loro intime convinzioni.

Allora non era affatto richiesta una conoscenza approfondita della storia dell'Africa meridionale o della Siberia orientale per progettare i campi di concentramento europei: l'idea che certi tipi di persone siano superiori ad altri era piuttosto diffusa in Europa all'inizio del Novecento. Ed è questo, alla fine, il profondo legame tra i campi dell'Unione Sovietica e quelli della Germania nazista: entrambi i regimi si legittimarono, almeno in parte, istituendo categorie di "nemici" o di "sottouomini" che perseguitavano e sterminavano in massa.

Nella Germania nazista il primo obiettivo furono i disabili e i ritardati. In seguito i tedeschi si concentrarono sugli zingari, gli omosessuali e, soprattutto, gli ebrei. In URSS, all'inizio le vittime furono "quelli di prima" - i presunti sostenitori dell'ancien regime - e poi i "nemici del popolo", espressione vaga che finì per includere non solo i presunti avversar! politici del regime, ma anche specifici gruppi nazionali ed etnici, se davano l'impressione (per motivi altrettanto vaghi) di minacciare lo Stato sovietico o il potere di Stalin. In periodi diversi, Stalin ordinò arresti di massa di polacchi, baltici, ceceni, tatari e, alla vigilia della sua morte, ebrei.49

Anche se tali categorie non erano mai del tutto arbitrarie, non erano mai nemmeno del tutto consolidate. Una cinquantina di anni fa Hannah Arendt ha scritto che tanto il regime nazista quanto quello bolscevico creavano "avversar! oggettivi" o "nemici oggettivi" la cui "identità cambia secondo le circostanze (in modo che, appena liquidata una categoria, si può dichiarare guerra a un'altra)". Con lo stesso criterio, ha aggiunto, "la polizia totalitaria non ha il compito di scoprire autori di delitti, ma di essere pronta quando il governo decide di arrestare una certa categoria della popolazione".50 Ripeto: la gente non veniva arrestata per quello che aveva fatto, ma per quello che era.

In entrambe le società, la creazione di campi di concentramento fu la fase finale di un lungo processo di disumanizzazione di questi nemici oggettivi, un processo che prese avvio con la retorica. Nella sua autobiografia, Mein Kampf, Hitler ha raccontato come d'un tratto avesse capito che gli ebrei erano i responsabili dei problemi della Germania, che qualsiasi "turpitudine o sconcezza" nella vita culturale era riconducibile a loro: "A tagliare cautamente tali bubboni c'era sempre modo di scoprirvi, come il verme nel corpo che si putrefa, un piccolo ebreo spesso accecato dalla subitaneità della luce.. .".51

Anche Lenin e Stalin cominciarono accusando i "nemici" della miriade di fallimenti economici dell'Unione Sovietica: erano "disorganizzatori", "sabotatori" e agenti di potenze straniere. Dalla fine degli anni Trenta, quando l'ondata degli arresti si intensificò, Stalin portò agli estremi tale retorica, denunciando i "nemici del popolo" come parassiti, inquinatori, "erbacce velenose". Parlava dei suoi avversari anche come di "immondizia" che andava "continuamente eliminata", proprio come la propaganda nazista associava gli ebrei all'immagine di parassiti, sanguisughe e malattie infettive.52

Dopo aver demonizzato il nemico, cominciò l'azione vera e propria per isolarlo dal punto di vista legale. Prima che gli ebrei fossero davvero accerchiati e deportati nei campi, furono privati dello status civile di cittadini tedeschi. Proibirono loro di lavorare nell'amministrazione pubblica, di fare gli avvocati o i giudici; di sposarsi con ariani; di frequentare scuole ariane; di esporre la bandiera tedesca; li costrinsero a cucire sui vestiti stelle di David gialle; e li sottoposero a pestaggi e umiliazioni per la strada.53 Prima di essere arrestati nell'Unione Sovietica di Stalin, anche i "nemici del popolo" venivano regolarmente umiliati nelle pubbliche assemblee, licenziati dal lavoro, espulsi dal Partito comunista, ripudiati dai coniugi disgustati e denunciati dai figli adirati.

All'interno dei campi, il processo di disumanizzazione si accentuava e diventava più estremo, contribuendo sia a intimidire le vittime sia a consolidare la convinzione degli aguzzini che quanto stavano facendo era legittimo. Nella sua intervista con Franz Stangl, il comandante di Treblinka, così lunga da farne un libro, la scrittrice Citta Sereny gli chiese perché i detenuti nei campi, prima di essere uccisi, venivano anche picchiati, umiliati e privati dei loro vestiti. Stangl rispose: "Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per rendergli possibile fare ciò che facevano".54 Nel suo libro L'ordine del Terrore: il campo di concentramento, il sociologo tedesco Wolfgang Sofsky ha dimostrato come la disumanizzazione dei prigionieri nei lager nazisti fosse perseguita in modo metodico in tutti gli aspetti della loro vita, dall'abbigliamento, uniforme e lacero, alla pri-

Gulag

vazione della riservatezza, alla severità del regime, alla costante attesa della morte.

Anche nel sistema sovietico, come vedremo, il processo di disumanizzazione cominciava al momento dell'arresto, quando i prigionieri venivano privati dei loro indumenti, della loro identità e dei contatti con l'esterno, quando erano torturati, interrogati, sottoposti a processi farsa, se mai si tenevano. Per una peculiare distorsione sovietica, i prigionieri venivano "scomunicati" in modo deliberato, cioè espulsi dalla comunità: si proibiva loro di chiamarsi reciprocamente "compagni" e, dal 1937 in poi, di fregiarsi dell'ambito titolo di "lavoratore d'assalto" senza riguardo a come si erano comportati o a quanto avevano lavorato sodo. Secondo le testimonianze di molti detenuti, dentro i campi e le prigioni non si trovavano quasi mai ritratti di Stalin, che invece erano appesi nelle case e negli uffici di tutta l'URSS.

Ciò non vuole affatto dire che i campi sovietici e nazisti fossero identici. Come scoprirà leggendo il libro qualsiasi lettore con una conoscenza generale dell'Olocausto, all'interno del sistema dei campi sovietico la vita era diversa da molti punti di vista, sia sottili sia e-videnti, da quella del sistema dei campi nazista. C'erano differenze nell'organizzazione della vita quotidiana e del lavoro, diversi tipi di guardie e di punizioni, un genere diverso di propaganda. Il Gulag durò molto più a lungo, e attraversò cicli di relativa crudeltà e relativa umanità. La storia dei campi nazisti è più breve e meno varia: divennero soltanto sempre più crudeli, finché non furono liquidati dai tedeschi in ritirata o liberati dagli Alleati durante la loro offensiva. Inoltre, il Gulag comprendeva un'ampia tipologia di campi, dalle micidiali miniere d'oro della regione della Kolyma agli istituti segreti "di lusso" fuori Mosca, dove gli scienziati prigionieri progettavano armi per l'Armata rossa. Sebbene nel sistema nazista vi fossero diversi tipi di campi, la loro varietà era assai più limitata.

A mio avviso, comunque, le principali differenze fra il sistema dei lager e il Gulag sono due. Innanzitutto, in Unione Sovietica la definizione di "nemico" era sempre assai più ambigua della definizione di "ebreo" nella Germania nazista. Salvo un esiguo numero di insolite eccezioni, nessun ebreo nella Germania nazista poteva cambiare il proprio status, nessun ebreo all'interno di un campo poteva ragionevolmente sperare di sfuggire alla morte e tutti gli ebrei portavano sempre con sé tale consapevolezza. Anche se milioni di prigionieri sovietici temevano di morire, e a milioni accadde, non c'era una sola categoria di internati la cui morte fosse assolutamente certa. A volte al-

Introduzione 27

cuni prigionieri potevano migliorare la propria sorte svolgendo mansioni relativamente comode, come gli ingegneri o i geologi. All'interno di ogni campo, tra i detenuti esisteva una gerarchia, che alcuni riuscivano a scalare a scapito di altri, o con l'aiuto di altri. Certe volte, quando il Gulag era sovraccarico di donne, bambini e anziani, o quando ci volevano soldati da inviare al fronte, i prigionieri venivano rilasciati con amnistie di massa. Talvolta accadeva che intere categorie di "nemici" d'un tratto beneficiassero di un cambiamento di condizioni. Per esempio, all'inizio della Seconda guerra mondiale, nel 1939, Stalin arrestò centinaia di migliaia di polacchi, e poi li liberò di punto in bianco dal Gulag nel 1941, quando la Russia e la Polonia per un certo periodo divennero alleate. Accadeva anche l'opposto: in Unione Sovietica gli stessi aguzzini potevano diventare vittime. Le guardie e gli amministratori del Gulag, persino gli ufficiali superiori della polizia segreta potevano essere arrestati e ritrovarsi condannati ai campi. In altre parole, non tutte le "erbacce velenose" restavano velenose, e non esisteva un solo gruppo di prigionieri sovietici che vivesse nella costante attesa della morte.55

In secondo luogo, e anche questo si chiarirà nel corso del libro, l'obiettivo prioritario del Gulag, secondo quanto detto in privato dai suoi fondatori e nella pubblica propaganda, era di carattere economico. Ciò non vuoi dire che fosse umanitario. All'interno del sistema i prigionieri venivano trattati come bestie, o meglio come pezzi di minerale ferroso. Le guardie li trasportavano di qua e di là a piacere, caricandoli e scaricandoli da vagoni bestiame, pesandoli e misurandoli, nutrendoli se sembravano utili, facendo loro patire la fame in caso contrario. Per usare il linguaggio marxista, venivano sfruttati, reificati e mercificati. A meno che non fossero produttivi, per i padroni la loro vita non aveva valore.

Tuttavia la loro esperienza era assai diversa da quella degli ebrei e di altri prigionieri inviati dai nazisti in un gruppo speciale di campi chiamati non Konzentrationslager ma Vernichtungslager, luoghi che non erano veri e propri "campi di lavoro" ma piuttosto fabbriche di morte. Ne esistevano quattro: Belzec, Chehnno, Sobibór e Treblinka. A Majdanek e Auschwitz c'erano sia campi di lavoro sia campi di sterminio. Prima di entrare in tali campi i prigionieri venivano "selezionati". Ne inviavano un esiguo numero a fare qualche settimana di lavori forzati, gli altri finivano direttamente nelle camere a gas, dove li trucidavano per poi cremarli subito.

1 er quanto sono stata in grado di accertare, questa forma particolare di omicidio, praticata al culmine dell'Olocausto, non aveva equiva-

Gulag

lenti in Unione Sovietica. È vero che l'URSS trovò altri sistemi per trucidare centinaia di migliaia di suoi cittadini. Di solito venivano condotti di notte in una foresta, allineati, uccisi con un colpo alla testa, sepolti in fosse comuni prima di avere mai visto un campo di concentramento, una forma di omicidio non meno "industriale" e anonima di quella impiegata dai nazisti. A questo riguardo circolano voci secondo cui la polizia segreta sovietica usava i fumi di scarico - una forma primitiva di gas - per uccidere i prigionieri, proprio come facevano i nazisti nei primi anni.56 Anche nel Gulag i prigionieri sovietici morivano, di solito non per l'efficienza dei loro carcerieri ma per la loro rozza negligenza e inefficienza.57 In alcuni campi sovietici, in certi periodi le persone selezionate per il taglio degli alberi in inverno o per lavorare nelle peggiori miniere d'oro della Kolyma andavano incontro a morte certa. Inoltre i prigionieri venivano rinchiusi in celle di punizione fino a quando non morivano di freddo e di fame, venivano lasciati senza cure in infermerie prive di riscaldamento, oppure fucilati a capriccio per "tentata evasione". Tuttavia, nel complesso, il sistema dei campi sovietico non era organizzato allo scopo preciso di produrre masse di cadaveri, anche se talvolta lo faceva.

Sono differenze sottili, ma importanti. Anche se il Gulag e Auschwitz appartengono alla stessa tradizione intellettuale e storica, sono comunque diversi e distinti, sia tra loro sia da sistemi di campi allestiti sotto altri regimi. Il concetto di campo di concentramento può essere abbastanza generale da applicarsi a diverse culture e situazioni, ma persino uno studio superficiale sulla storia interculturale dei campi di concentramento rivela che i particolari specifici - come erano organizzati, come cambiavano nel corso del tempo, quanto potevano diventare inflessibili o disorganizzati, essere crudeli o tolleranti - dipendevano da ogni singolo paese, dalla sua cultura e dal suo regime.58 Questi particolari erano determinanti per la vita, la salute e la sopravvivenza delle persone rinchiuse dietro il filo spinato.

In effetti, leggendo i racconti di chi sopravvisse nei due sistemi, colpiscono più le diverse esperienze vissute dalle vittime che le differenze tra i campi. Ogni racconto ha caratteri particolari, ogni campo offriva vari tipi di orrori a persone con qualità diverse. In Germania si poteva morire di crudeltà, in Russia di disperazione. Ad Auschwitz si poteva morire in una camera a gas, nella Kolyma assiderati nella neve. Si poteva morire in una foresta tedesca o in una landa siberiana, si poteva morire in un incidente in miniera o su un carro bestiame. Dopotutto, la storia della vita di ognuno è soltanto quella di chi l'ha vissuta.

Parte prima

LE ORIGINI DEL GULAG

I

GLI ESORDI BOLSCEVICHI

Ma è spezzata la tua spina dorsale

Mio stupendo, mio povero secolo

E con un sorriso demente C

ome una belva un tempo flessuosa

Ti volti indietro, debole e crudele

A contemplare le tue orme.

OSIP MANDEL'STAM, ;/ seco/o1

Uno degli scopi delle mie memorie è di dissipare la leggenda che vuole che il periodo più crudele delle repressioni rosse sia stato il 1936-37. A mio avviso in futuro le statistiche dimostreranno che ondate di arresti, esecuzioni e deportazioni si abbatterono sull'URSS sin dall'inizio del 1918, ancor prima della proclamazione ufficiale del "terrore rosso", nell'autunno di quell'anno; che la marea continuò a montare sino alla morte di Stalin...

DMITRIJ LIHACEV, La mia Russia2

Nel 1917 la Russia fu attraversata da due ondate rivoluzionarie che spazzarono via la società imperiale come un castello di carte. Dopo l'abdicazione dello zar Nicola II, in febbraio, si dimostrò oltremodo difficile per chiunque fermare o controllare il corso degli eventi. Aleksandr Kerenskij, il capo del primo Governo provvisorio postrivoluzionario, scrisse poi che nel vuoto seguito al crollo dell'ancien regime "tutti i programmi politici e tattici esistenti, per quanto fossero audaci e ben congegnati, sembravano sospesi nel vuoto, inconcludenti e inutili".3

Ma anche se il Governo provvisorio era debole, anche se tra la popolazione regnava lo scontento e se divampava la collera per la carneficina della Prima guerra mondiale, erano in pochi a prevedere che il potere sarebbe finito nelle mani dei bolscevichi, uno dei molti Partiti socialisti radicali promotori di cambiamenti ancora più rapi-

Gulag

di. All'estero i bolscevichi non erano affatto noti. Esiste una storiella apocrifa in cui sono illustrati molto bene gli atteggiamenti degli stranieri: nel 1917, racconta la storia, un burocrate irrompe nell'ufficio del ministro degli Esteri austriaco gridando: "Eccellenza, in Russia c'è stata una rivoluzione!". Il ministro borbotta: "Chi mai potrebbe aver fatto una rivoluzione in Russia? Di certo non l'innocuo Herr Trockij del Café Central!".

Se la natura dei bolscevichi era misteriosa, il loro capo, Vladimir Il'ic Ul'janov, l'uomo che il mondo avrebbe conosciuto con lo pseudonimo rivoluzionario di "Lenin", lo era ancora di più. Durante i molti anni trascorsi all'estero, negli ambienti rivoluzionari Lenin era apprezzato per la sua intelligenza, ma anche poco amato per il carattere intemperante e fazioso. Litigava spesso con altri dirigenti socialisti, e aveva la tendenza a trasformare piccoli disaccordi su questioni di principio in apparenza irrilevanti in discussioni epocali.4

Nei primi mesi che seguirono la Rivoluzione di febbraio, Lenin non era affatto un leader incontrastato, nemmeno all'interno del suo stesso partito. Ancora a metà ottobre 1917 un gruppetto di importanti bolscevichi continuava a opporsi al suo piano di eseguire un colpo di Stato contro il Governo provvisorio, sostenendo che il Partito non era pronto a prendere il potere e che non aveva ancora il sostegno popolare. Ma lui riuscì a spuntarla, e il 25 ottobre attuarono il colpo di Stato. La folla, stimolata dagli incitamenti di Lenin, saccheggiò il palazzo d'Inverno. I bolscevichi arrestarono i ministri del Governo provvisorio. Nel giro di poche ore, Lenin divenne il capo del paese, che ribattezzò Russia sovietica.

Tuttavia, anche se era riuscito a prendere il potere, i bolscevichi contrari alla sua idea non avevano tutti i torti, perché il Partito era davvero spaventosamente impreparato. Quindi molte delle loro prime decisioni, compresa quella di creare lo Stato monopartitico, furono prese per ovviare alle necessità del momento. Davvero i bolscevichi non godevano di grande sostegno tra la popolazione, e scatenarono quasi subito una cruenta guerra civile all'unico scopo di restare al potere. Dal 1918, quando si costituì l'Armata bianca dell'ancien regime per contrastare la nuova Armata rossa guidata dal compagno di Lenin "Herr Trockij del Café Central", nelle campagne russe si svolsero alcune delle battaglie più brutali mai viste in Europa. E gli episodi di violenza non avvennero soltanto sui campi di battaglia. I bolscevichi esagerarono davvero nel reprimere l'opposizione intellettuale e politica in qualsiasi forma si presentasse, attaccando non solo gli avversari dell'ancien regime ma anche altri "socialisti": menscevichi, anarchici,

Gli esordi bolscevichi 33

socialisti rivoluzionari. Il nuovo Stato sovietico non godette di una pace relativa fino al 1921.5

Fu in questo contesto di improvvisazione e violenza che nacquero i primi campi di lavoro sovietici. Come tante altre istituzioni bolscevi-che furono creati ad hoc, in fretta, una soluzione d'emergenza nel pieno della guerra civile. Questo non vuoi dire che già in precedenza i bolscevichi non fossero attratti dall'idea. Tre settimane prima della Rivoluzione d'ottobre, lo stesso Lenin stava già abbozzando un programma dichiaratamente vago, per costringere al "lavoro forzato" i ricchi capitalisti. Nel gennaio 1918, furibondo per l'accanita resistenza antibolscevica, fu ancora più perentorio, e scrisse che avrebbe apprezzato "l'arresto dei sabotatori milionari che viaggiano in prima e seconda classe sui treni": "Suggerisco di condannarli a sei mesi di lavori forzati in una miniera".6

La concezione di Lenin dei campi di lavoro come forma speciale di punizione per un tipo particolare di "nemico" borghese corrispondeva bene alle altre sue idee sui crimini e i criminali. Da un lato, il primo capo sovietico aveva un atteggiamento ambivalente rispetto all'arresto e alla punizione dei malviventi tradizionali - ladri, borseggiatori, assassini - che considerava potenziali alleati. Dal suo punto di vista la causa fondamentale degli "eccessi sociali" (intesi come crimini) era "lo sfruttamento delle masse". Eliminando la causa, gli eccessi sarebbero "svaniti da sé". Quindi non c'era bisogno di punizioni specifiche come deterrente contro i criminali: con il tempo la stessa rivoluzione avrebbe risolto il problema. Quindi, in certa misura, il linguaggio del primo codice penale dei bolscevichi avrebbe scaldato il cuore dei più radicali e progressisti riformatori sociali occidentali. Tra l'altro, secondo il codice non esisteva "la colpa individuale" e la punizione non doveva "essere considerata una contropartita".7

D'altra parte Lenin, come i bolscevichi suoi seguaci che si occupavano di teoria giuridica, sosteneva che la creazione dello Stato sovietico avrebbe prodotto un nuovo genere di criminali: i "nemici di classe". Un nemico di classe si opponeva alla rivoluzione e lavorava apertamente, o più spesso in segreto, per distruggerla. Il nemico di classe era più difficile da identificare di un criminale comune, e molto più difficile da emendare. Al contrario di un criminale comune, se un nemico di classe dichiarava di collaborare con il regime sovietico non poteva mai essere creduto, e nel suo caso bisognava prevedere punizioni più severe di quelle necessarie per un normale ladro o assassino. Insomma, il primo "decreto sulla corruzione" bolscevico, emanato nel maggio 1918, dichiarava: "Se una persona colpevole di

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accettare o pagare tangenti appartiene alla classe agiata e si avvale della corruzione per mantenere o acquisire privilegi legati ai diritti di proprietà, dovrebbe essere condannata ai lavori forzati più gravosi e improbi e le andrebbero confiscate tutte le sue proprietà".8

In altre parole, fin dai primi giorni di vita dello Stato sovietico, le persone andavano condannate non per quello che avevano fatto, ma per quello che erano.

Purtroppo nessuno fornì mai una chiara definizione di che cosa dovesse rappresentare esattamente un "nemico di classe". Di conseguenza, sulla scia del colpo di Stato bolscevico, gli arresti di tutti i generi aumentarono drammaticamente. Dal novembre 1917 i tribunali rivoluzionari, costituiti da sostenitori della rivoluzione scelti a caso, cominciarono a condannare a pene detentive "nemici" della rivoluzione scelti a caso. Le condanne al carcere, a periodi di lavori forzati e persino alla pena capitale venivano comminate arbitrariamente a banchieri, mogli di commercianti, "speculatori" - termine con cui si indicava chiunque fosse impegnato in un'attività economica indipendente - ex secondini del periodo zarista e chiunque altro apparisse sospetto.9

Inoltre i criteri per stabilire chi fosse un "nemico" e chi no variavano da luogo a luogo e talvolta coincidevano con la definizione di "prigioniero di guerra". Quando l'Armata rossa di Trockij occupava una nuova città, prendeva spesso in ostaggio i borghesi, per poterli fucilare in caso di ritorno dell'Armata bianca, un fenomeno frequente sulle linee molto mobili del fronte. Nel frattempo potevano essere destinati ai lavori forzati, spesso a scavare trincee e a costruire barricate.10 La distinzione tra prigionieri politici e criminali comuni era altrettanto arbitraria. Per esempio, i membri illetterati delle commissioni provvisorie e dei tribunali rivoluzionari potevano decidere d'un tratto che un uomo sorpreso a viaggiare in tram senza biglietto aveva offeso la società, e condannarlo per reati politici.11 Alla fine, molte decisioni di questo tipo erano lasciate al poliziotto o ai soldati che eseguivano l'arresto. Feliks Dzerzinskij, fondatore della Ceka, la polizia segreta di Lenin poi destinata a diventare il KGB, aveva un piccolo taccuino nero personale, sul quale scarabocchiava nomi e indirizzi di "nemici" occasionali in cui si imbatteva mentre faceva il suo lavoro.12

Tali distinzioni rimasero vaghe fino al crollo dell'Unione Sovietica, che avvenne ottant'anni dopo. Ciò nondimeno l'esistenza di due categorie di prigionieri, i "politici" e i "comuni", ebbe un effetto significativo sulla formazione del sistema penale sovietico. Durante i primi dieci anni di governo bolscevico i penitenziari sovietici si divi-

Gli esordi bolscevichi 35

sero persino in due categorie, per i due tipi di prigionieri. Tale scissione avvenne spontaneamente per il caos del sistema penitenziario in vigore. Nei primissimi tempi della rivoluzione rutti i prigionieri erano soggetti alla giurisdizione dei ministeri giudiziari "tradizionali", prima il commissariato della Giustizia, poi il commissariato dell'Interno, e rinchiusi nel sistema carcerario "normale". Venivano cioè incarcerati negli edifici del sistema zarista, di solito le prigioni di pietra sporche e tetre ubicate in zone centrali di tutte le città importanti. Negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione, dal 1917 al 1920, tali istituzioni si trovavano in uno stato di totale dissesto. Le folle avevano invaso le carceri, commissari autonominati avevano depredato i secondini, i prigionieri avevano goduto di ampie amnistie o semplicemente se ne erano andati.13

Quando i bolscevichi ne assunsero il controllo, le poche prigioni ancora operative erano sovraffollate e insufficienti. Già poche settimane dopo la rivoluzione, lo stesso Lenin chiese "provvedimenti drastici per l'immediato miglioramento dell'approvvigionamento alimentare alle prigioni di Pietrogrado".14 Alcuni mesi dopo, un membro della Ceka di Mosca visitò la locale prigione Taganskaja e riferì che c'erano "un freddo e un'umidità terribili", per non parlare del tifo e della fame. La maggior parte dei prigionieri non poteva scontare le condanne ai lavori forzati perché non aveva indumenti. A quanto riferito dall'articolo di un giornale, la prigione Butyrka di Mosca, progettata per ospitare 1000 detenuti, ne conteneva già 2500. Un altro giornale criticava le guardie rosse perché arrestavano "in modo del tutto casuale centinaia di persone ogni giorno, e poi non [sapevano] che farne".15

Il sovraffollamento diede origine a soluzioni "creative". In mancanza di meglio, i nuovi dirigenti rinchiudevano i detenuti in scantinati, soffitte, palazzi vuoti e vecchie chiese. In seguito un sopravvissuto ricordava di essere stato collocato nei sotterranei di una casa abbandonata, con altre cinquanta persone in un'unica stanza senza mobilio e con poco cibo: quelli che non ricevevano pacchi dalle famiglie pativano la fame.16 Nel dicembre 1917 una commissione della Ceka discusse il destino di cinquantasei prigionieri di varia provenienza, "ladri, ubriaconi e diversi "politici"" detenuti nello scantinato dell'Istituto Smol'nyj, il quartier generale di Lenin a Pietrogrado.17

Non tutti soffrivano per lo stato di caos. Robert Bruce Lockhart, un diplomatico britannico accusato di spionaggio (a quanto pare, a giusta ragione), nel 1918 era agli arresti in una stanza del Cremlino.

ter>eva occupato facendo solitari e leggendo Tucidide e Carlyle. Di

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tanto in tanto un ex servitore imperiale gli portava del té bollente o i giornali.18

Persine nelle prigioni tradizionali ancora in funzione, il regime carcerario era stravagante, e le guardie prive di esperienza. Un detenuto di Vyborg, una città della Russia settentrionale, scoprì che nel mondo sconvolto del dopo rivoluzione il suo ex autista era diventato secondino. L'uomo fu ben felice di aiutare il suo padrone di un tempo a trasferirsi in una cella migliore, più asciutta, e alla fine a evadere.19 Un colonnello dell'Armata bianca, invece, ricordava che nel dicembre 1917, nella prigione di Pietrogrado, i detenuti andavano e venivano a piacimento, e di notte i senzatetto dormivano nelle celle. Ripensando a quell'epoca, un funzionario sovietico affermò che "gli unici a non scappare erano quelli troppo pigri".20

La situazione caotica costrinse la Ceka a trovare nuove soluzioni: i bolscevichi non potevano certo permettere ai loro nemici "autentici" di entrare nel normale sistema carcerario. Prigioni disorganizzate e guardie pigre potevano andare bene per borseggiatori e delinquenti minorenni, ma per i sabotatori, i parassiti, gli speculatori, gli ufficiali dell'Armata bianca, i preti, i capitalisti borghesi e altri, da cui l'immaginazione dei bolscevichi era così ossessionata, c'era bisogno di soluzioni più creative.

La soluzione fu trovata già il 4 giugno 1918, quando Trockij affermò che un gruppo di prigionieri di guerra cechi insubordinati doveva essere riportato alla calma, disarmato e rinchiuso in un konc-lager', cioè un campo di concentramento. Ventidue giorni dopo, in un promemoria indirizzato al governo sovietico, Trockij riparlò dei campi di concentramento, prigioni all'aperto, e propose "di instaurare un regime di costrizione per elementi parassitari, di adottare provvedimenti affinché sia la borghesia a eseguire i lavori più sgradevoli, di considerare borghesi tutti gli ex-ufficiali che non vogliono arruolarsi nell'esercito rosso e di rinchiuderli in "campi di concentramento"".21

In agosto, anche Lenin usò la parola. In un telegramma ai commissari di Penza, dove era avvenuta un'insurrezione antibolscevica, ordinò di "applicare spietatamente il terrore su vasta scala contro i kulaki [contadini ricchi], i preti e i bianchi" e di rinchiudere "tutti i sospetti... in un campo di concentramento fuori dalla città".22 Le strutture esistevano già. Durante l'estate del 1918, in conseguenza del trattato di Brest-Litovsk che pose fine alla partecipazione della Russia alla guerra, il regime liberò 2 milioni di prigionieri di guerra. I campi vuoti furono assegnati senza indugio alla Ceka.23

Gli esordi bolscevichi 37

A quell'epoca la Ceka doveva sembrare l'istituzione ideale per assumersi il compito di incarcerare i "nemici" in campi "speciali". Era un'organizzazione del tutto nuova, destinata a diventare "spada e scudo" del Partito comunista, e non aveva vincoli di obbedienza al governo sovietico ufficiale o a nessuno dei suoi dipartimenti. Non aveva tradizioni di legalità, non aveva l'obbligo di obbedire ai dettami della legge, né doveva consultare la polizia, i tribunali o il commissario della Giustizia. Il suo stesso nome diceva molto riguardo all'anomalia del suo status: Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio (in russo Creziycajnaja komissija pò bor'be s kontr-revoljuciej i sabotazem, abbreviato in Ceka). Era "straordinaria" proprio perché esisteva al di fuori della legalità "ordinaria".

Quasi subito dopo la sua creazione, si vide assegnare un compito straordinario da eseguire. Il 5 settembre 1918 a Dzerzinskij fu ordinato di porre in atto la linea politica leninista del terrore rosso. Sferrata a seguito di un attentato alla vita di Lenin, questa ondata di terrore - arresti, incarcerazioni, omicidi - era più organizzata del terrore casuale attuato nei mesi precedenti, e in realtà divenne una componente importante della guerra civile contro le persone sospettate di lavorare per distruggere la rivoluzione sul "fronte interno". Fu cruenta, spieta-ta, crudele, come volevano i suoi esecutori. La "Krasnaja Gazeta", organo di stampa dell'Armata rossa, ne parlava in questo modo: "Senza pietà, senza misericordia, uccideremo i nostri nemici a migliaia. Siano pure decine di migliaia, affogheranno nel proprio sangue. Per il sangue di Lenin ... scorrano fiumi di sangue borghese, molto sangue, il più possibile".24

Il terrore rosso era essenziale nella lotta di Lenin per la conquista del potere. I campi di concentramento, i cosiddetti "campi speciali", erano fondamentali per il terrore rosso. Sono citati nel primo decreto in assoluto sul terrore rosso, in cui si ordinava non solo di arrestare e incarcerare "eminenti rappresentanti della borghesia, latifondisti, industriali, commercianti, preti controrivoluzionari, ufficiali antisovietici", ma anche di isolarli "in campi di concentramento".25 Anche se non esistono dati certi riguardo al numero delle persone detenute, alla fine del 1919 in Russia c'erano 21 campi registrati, mentre un anno dopo erano 107, cinque volte di più.26

Tuttavia, in quella fase non avevano ancora finalità ben precise. I Prigionieri dovevano eseguire lavori forzati, ma a che scopo? Il lavoro coatto doveva servire a rieducarli? O a umiliarli? Oppure si desiderava che contribuisse a edificare il nuovo Stato sovietico? I diversi Algenti sovietici e le diverse istituzioni avevano risposte diverse.

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Nel febbraio 1919 lo stesso Dzerzinskij pronunciò un discorso in cui spiegò con eloquenza la funzione dei campi nella rieducazione ideologica della borghesia. Disse che le nuove istituzioni dovevano

sfruttare il lavoro dei detenuti; [dei] signori che vivono senza lavoro; [di] tutti coloro che non sono capaci di lavorare senza una certa costrizione; o se prendiamo le istituzioni sovietiche, questo castigo dovrà essere applicato nei casi di lavoro poco coscienzioso, poco zelante, quando si verificano ritardi, ecc. ... Ciò che si propone, dunque, è la creazione di una scuola di lavoro.27

Comunque, nella primavera del 1919, quando furono pubblicati i primi decreti ufficiali sui campi speciali, sembrava che avessero assunto la priorità obiettivi un po' diversi.28 I decreti, una lista oltremodo lunga di regole e raccomandazioni, suggerivano che ogni ca-poluogo di regione allestisse un campo per non meno di trecento persone "ai confini della città o in edifici dei dintorni, come monasteri, proprietà terriere, fattorie ecc.". Prevedevano una giornata lavorativa di otto ore, mentre gli straordinari e il lavoro notturno erano autorizzati solo "in conformità al codice del lavoro". L'invio di pacchi di cibo era proibito. Erano consentiti invece gli incontri con i parenti stretti, ma solo di domenica o durante le vacanze. Ai prigionieri che avessero tentato di evadere la condanna doveva essere moltipllcata per dieci. Un secondo tentativo sarebbe stato punito con la morte, una pena molto severa in rapporto alla mitezza delle leggi zariste sulla fuga, che i bolscevichi conoscevano fin troppo bene. E va osservato un elemento ancora più importante: i decreti spiegavano che il lavoro dei detenuti non aveva lo scopo di favorirne la rieducazione, ma di ripagare le spese sopportate per la gestione dei campi. I prigionieri con handicap fisici andavano inviati altrove, i campi dovevano autofinanziarsi. Gli ideatori del Gulag si dimostravano ottimisti nel ritenere che le strutture avrebbero provveduto in autonomia alle proprie spese.29

Dato che il flusso dei finanziamenti statali era irregolare, ben presto i dirigenti dei campi cominciarono a contemplare l'idea di autofinanziarsi, o almeno di utilizzare in modo pratico i loro prigionieri. Nel settembre 1919, in un rapporto segreto mostrato a Dzerzinskij si deprecavano le condizioni sanitarie in un campo di transito, "al di sotto della soglia critica", soprattutto perché molta gente prendeva malattie troppo gravi per lavorare: "In autunno, quando il clima è piovoso, non saranno luoghi adatti a concentrare la gente per sfruttarne il lavoro, ma diverranno terreno di coltura per epidemie e altre malattie". Fra l'altro, l'autore del rapporto proponeva che le persone

Gli esordi bolscevichi 39

inabili al lavoro fossero mandate altrove per aumentare l'efficienza del campo, una tattica che in seguito sarebbe stata applicata più di |

una volta dai dirigenti del Gulag. I responsabili dei campi erano già preoccupati per le malattie e la fame, soprattutto perché un prigioniero ammalato e affamato non serve a niente. La dignità di uomini dei detenuti non importava per nulla ai dirigenti, e nemmeno la loro sopravvivenza.30

In pratica, non tutti i comandanti dei campi si preoccupavano per la rieducazione e l'autofinanziamento. Preferivano invece punire le persone un tempo benestanti umiliandole, facendo sperimentare loro la vita dei lavoratori. In un rapporto proveniente dalla città di Poltava, in Ucraina, stilato da una commissione di indagine dell'Armata bianca dopo la temporanea riconquista della città, si osservava che ai prigionieri borghesi arrestati durante l'occupazione bolscevica erano stati assegnati lavori "considerati un modo per umiliare la gente cercando di svilirla. Per esempio, un uomo arrestato è stato costretto a pulire con le mani uno spesso strato di sudiciume da un pavimento lurido. A un altro è stato ordinato di pulire una latrina e per farlo gli hanno dato solo una tovaglia".31

È vero che queste lievi differenze di intenzioni probabilmente non erano poi così importanti per le molte decine di migliaia di prigionieri che consideravano già abbastanza umiliante il semplice fatto di essere arrestati senza alcuna ragione. E forse non influivano nemmeno sulle condizioni di vita dei detenuti, sempre sconvolgenti. Un sacerdote inviato in un campo siberiano ha raccontato della zuppa fatta con delle frattaglie, delle baracche senza elettricità e in pratica senza riscaldamento durante l'inverno.32 Aleksandr Izgoev, un importante uomo politico dell'epoca zarista, fu inviato in un campo a nord di Pietrogrado. Lungo la strada, il gruppo di detenuti di cui faceva parte fece sosta nella città di Vologda. Invece di essere alloggiati al caldo e di ricevere un pasto cucinato, furono costretti a trascinarsi a piedi da un posto all'altro alla ricerca di un rifugio. Non era stato approntato per loro un campo di transito. Alla fine li alloggiarono in una ex scuola in cui c'erano soltanto "pareti nude e panche". Quelli che avevano dei soldi, alla fine, si comprarono da mangiare in città.33

Questo tipo di cattivo trattamento dovuto al caos non era riservato soltanto ai prigionieri. Nei momenti cruciali della guerra civile, e necessità urgenti dell'Armata rossa e dello Stato sovietico avevano la precedenza su qualsiasi altra cosa, la rieducazione, la ven-

tta'le considerazioni di giustizia. Nell'ottobre 1918 il comandante

Gulag

del fronte settentrionale richiese con urgenza alla commissione militare di Pietrogrado 800 lavoratori per costruire strade e scavare trincee. Quindi "numerosi cittadini un tempo appartenenti alle classi mercantili furono invitati a presentarsi al quartier generale sovietico con la scusa che dovevano essere registrati per svolgere in futuro lavori di cui si presentasse la necessità. Quando arrivavano per registrarsi, li arrestavano e li inviavano alla caserma Semenovskij in attesa di mandarli al fronte". Poiché nemmeno con questo sistema si trovavano lavoratori a sufficienza, il soviet locale - il consiglio direttivo del posto - fece circondare un tratto della prospettiva Nevskij, la strada con i negozi più belli di Pietrogrado, e arrestare chiunque non avesse una tessera di partito o un certificato con cui dimostrare che lavorava per un'istituzione governativa; i malcapitati furono condotti a piedi nelle vicine caserme. In seguito le donne vennero rilasciate, mentre gli uomini furono inviati nel nord: "A nessuno degli uomini mobilitati con questo strano metodo fu consentito di sistemare le faccende familiari, di salutare i parenti o di procurarsi calzature e abiti più adeguati".34

Sebbene l'episodio fu senza dubbio scioccante per i passanti arrestati in questo modo, i lavoratori di Pietrogrado non lo avrebbero trovato poi così strano. Infatti persino nel primo periodo della storia sovietica la linea di demarcazione tra il "lavoro coatto" e la normale attività lavorativa era molto sfumata. Trockij dichiarò a chiare lettere la sua intenzione di trasformare l'intero paese in un "esercito di operai" strutturato come l'Armata rossa. Fin dall'inizio gli operai furono costretti a registrarsi all'Ufficio centrale del lavoro, che poteva inviarli in qualsiasi località del paese. Furono emanati decreti speciali che proibivano ai lavoratori di certe categorie, per esempio i minatori, di lasciare il lavoro. E in quell'epoca di caos rivoluzionario i lavoratori liberi non godevano di condizioni di vita migliori dei prigionieri. Dall'esterno non sarebbe sempre stato facile stabilire la differenza tra un luogo di lavoro e un campo di concentramento.35

Anche questo, però, non era che un preavviso di quanto sarebbe venuto dopo: per quasi tutto il decennio successivo le definizioni di "campo", "prigione" e "lavoro coatto" furono circondate da un alone di ambiguità. Il controllo sulle istituzioni penali rimase sempre oltremodo instabile. Le istituzioni responsabili venivano ribattezzate e riorganizzate di continuo, ogni volta che i diversi burocrati e commissari tentavano di assumere il controllo del sistema.36

Tuttavia, alla fine della guerra civile era ormai stato stabilito un modello. L'Unione Sovietica aveva già sviluppato due sistemi carce-

Gli esordi bolscevichi 41

ari ben distinti, con regole, tradizioni, ideologie diverse. Il commissariato della Giustizia, e in seguito il commissariato dell'Interno, dirigeva il sistema carcerario "ordinario" destinato soprattutto a quel-]' che il regime sovietico definiva "criminali comuni". Sebbene in sostanza fosse anch'esso caotico, i detenuti venivano rinchiusi in prigioni tradizionali e gli obiettivi stabiliti dagli amministratori, così com'erano esposti in un promemoria interno, sarebbero stati comprensibili nei paesi "borghesi": rieducare i criminali per mezzo del lavoro correzionale ("i prigionieri devono lavorare per acquisire competenze di cui avvalersi per condurre una vita onesta") e impedire loro di commettere altri reati.37

Allo stesso tempo la Ceka, ribattezzata via via GPU, OGPU, NKVD e alla fine KGB, controllava un altro sistema carcerario, quello sorto in origine come rete di "campi speciali" o "campi straordinari". Sebbene al loro interno anche la Ceka utilizzasse almeno in certa misura la stessa retorica, parlando di "rieducare" e "riforgiare", questi campi non erano nati per somigliare a normali istituti di pena. Esulavano dalla giurisdizione di altre istituzioni sovietiche, e rimanevano invisibili al pubblico. Avevano regole speciali, punizioni più severe per i tentativi di evasione, regimi più duri. Non sempre i detenuti erano stati condannati dai tribunali ordinari, se pure avevano subito un qualche genere di processo. Istituiti come soluzione di emergenza, a mano a mano che si ampliava la definizione di "nemico" e aumentava il potere della Ceka, essi diventavano sempre più grandi e più potenti. E quando alla fine i due sistemi carcerari, quello ordinario e quello straordinario, furono unificati, si adottarono le regole del secondo. La Ceka divorò i suoi avversari.

Fin dall'inizio il sistema carcerario "speciale" era destinato a occuparsi di prigionieri speciali: sacerdoti, ex funzionari zaristi, speculatori borghesi, nemici del nuovo ordine. Ma c'era una categoria di "politici" che interessava più delle altre alle autorità: i membri dei partiti politici socialisti rivoluzionari non bolscevichi, soprattutto gli anarchici, i socialisti rivoluzionari di sinistra e di destra, i menscevichi e gli altri che si erano battuti per la rivoluzione ma non avevano aderito alla fazione bolscevica di Lenin, o non avevano partecipato a pieno titolo al colpo di Stato dell'ottobre 1917. Essendo ex alleati nella lotta ri-

voluzionaria contro il regime zarista, meritavano un trattamento sperale. Il comitato centrale del Partito comunista discusse più volte il

loro destino, fino alla fine degli anni Trenta, quando i superstiti furono quasi tutti arrestati o fucilati^

Gulag

Lenin era infastidito da questa particolare categoria di prigionieri, anche perché - come tutti i capi di sette chiuse - riservava l'odio più accanito agli apostati. Nel corso di uno dei suoi tipici battibecchi definì un socialista che lo criticava "imbroglione", "marionetta cieca", "sicofante della borghesia" e "lacchè dei parassiti e delle carogne", adatto soltanto per "la fogna dei rinnegati".39 In realtà, già molto prima della rivoluzione Lenin aveva deciso come comportarsi con gli altri socialisti se gli si opponevano. Uno dei suoi compagni di lotta rivoluzionaria rammentava una conversazione sull'argomento:

Gli dissi "Vladimir Il'ic, se andate al potere, il giorno dopo comincerete a impiccare i menscevichi". Lui mi guardò e rispose: "II primo menscevico finirà impiccato per nostra mano soltanto dopo che avremo impiccato l'ultimo socialista rivoluzionario". Poi aggrottò la fronte e scoppiò in una risata.40

Ma i prigionieri che appartenevano a questa categoria speciale di "politici" erano anche assai più difficili da controllare. Molti avevano trascorso anni nelle prigioni zariste e sapevano organizzare scioperi della fame, esercitare pressioni sui carcerieri, comunicare tra le celle per scambiarsi informazioni e organizzare proteste collettive. Inoltre, ed è ancora più importante, conoscevano i sistemi per mettersi in contatto con il mondo esterno e sapevano chi cercare. La maggior parte dei partiti socialisti non bolscevichi della Russia aveva ancora delle filiali all'estero, di solito a Berlino o a Parigi, i cui membri potevano procurare gravi danni all'immagine internazionale dei bolscevichi. Alla terza riunione dell'Internazionale comunista nel 1921 i rappresentanti della filiale all'estero dei socialisti rivolu-zionari, il Partito più affine ai bolscevichi dal punto di vista ideologico (anzi, alcuni di essi per un breve periodo avevano collaborato con i seguaci di Lenin) lesserò ad alta voce una lettera dei loro compagni incarcerati in Russia. La lettera fece scalpore al congresso, soprattutto perché sosteneva che le condizioni di prigionia nella Russia rivoluzionaria erano peggiori che all'epoca zarista. "I nostri compagni sono mezzi morti di fame" dichiarava. "Molti rimangono in carcere per mesi senza che sia permesso loro incontrare i familiari, senza lettere, senza poter fare esercizio fisico".41

I socialisti emigrati potevano fare propaganda in favore dei prigionieri e la facevano, proprio come prima della rivoluzione. Immediatamente dopo il colpo di Stato bolscevico, molti famosi rivoluzio-nari, come Vera Figner, autrice di un libro di memorie sulla vita nelle prigioni zariste, e Ekaterina Peskova, moglie dello scrittore Maksim Gor'kij, contribuirono a rilanciare la Croce rossa politica, un'organiz-

Gli esordi bolscevichi 43

zazione di assistenza per i detenuti che prima della rivoluzione svolgeva attività clandestina. La Peskova conosceva bene Dzerzinskij, con il quale teneva una corrispondenza regolare e cordiale. Grazie ai suoi contatti e al suo prestigio, la Croce rossa politica fu autorizzata a visitare i luoghi di detenzione, a parlare con i prigionieri politici, a mandare loro dei pacchi, persino a fare petizioni per il rilascio dei malati, e mantenne questi privilegi per buona parte degli anni Venti.42 In seguito lo scrittore Lev Razgon, incarcerato nel 1937, che seppe della Croce rossa politica dai racconti della sua seconda moglie, il cui padre era stato un prigioniero socialista, trovò tali attività poco plausibili al punto da definirle "una incredibile favola".43

La cattiva pubblicità diffusa dai socialisti occidentali e la Croce rossa politica infastidivano oltre misura i bolscevichi. Molti erano vissuti per anni in esilio, quindi erano sensibili alle opinioni dei loro vecchi compagni all'estero. Diversi inoltre credevano ancora che la rivoluzione potesse diffondersi in Occidente in qualsiasi momento, e non volevano che il progresso del comunismo fosse rallentato da una cattiva stampa. Già nel 1922 erano così preoccupati dai racconti pubblicati sui giornali occidentali da lanciare il primo dei numerosi tentativi di celare il terrore comunista attaccando il "terrore capitalista". A questo scopo crearono una società di assistenza ai prigionieri "alternativa", la Società internazionale di assistenza alle vittime della rivoluzione, conosciuta in Russia con l'acronimo MOPR, il cui obiettivo dichiarato era di lavorare per aiutare i "centomila prigionieri del capitalismo".44

Anche se la sezione berlinese della Croce rossa politica denunciò immediatamente il MOPR per aver cercato di "tacitare i lamenti di coloro che [stavano] morendo nelle prigioni, nei campi di concentramento e nei luoghi di confino della Russia", altri si lasciarono infinocchiare. Nel 1924 il MOPR dichiarava di avere 4 milioni di iscritti e tenne persino il suo primo congresso internazionale con rappresentanti di tutto il mondo.45 La propaganda lasciò il segno. Quando chiesero allo scrittore francese Romain Rolland di commentare la pubblicazione di una raccolta di lettere di socialisti detenuti nelle prigioni sovietiche, rispose: "Nelle prigioni della Polonia accadono cose quasi identiche; accadono nelle prigioni della California, dove stanno martirizzando gli operai della IWW; accadono nelle galere inglesi delle isole Andamane...".46 La Ceka cercava anche di ovviare al problema della cattiva stampa spedendo i socialisti che creavano dei guai quanto più lontano possibile dai loro contatti. Alcuni vennero mandati con decreto amministrativo in luoghi di confino remo-

Gulag

ti, proprio come faceva un tempo il regime zarista. Altri furono inviati in campi lontani nei pressi della città settentrionale di Arcangelo, soprattutto in un campo organizzato nell'ex monastero di Holmogory, centinaia di chilometri a nord di Pietrogrado, non lontano dal mar Bianco. Ciononostante, anche gli esiliati nei luoghi più lontani trovavano il sistema per comunicare. Dal Narym, una remota regione siberiana, un gruppetto di "politici" detenuti in un piccolo campo di concentramento riuscì a mandare una lettera a un giornale socialista dell'emigrazione, dichiarando di trovarsi in un "isolamento così totale dal resto del mondo che solo le lettere riguardanti la loro salute o quella dei familiari" potevano sperare di giungere a destinazione: "Qualsiasi altro messaggio ... non arriva". Tra loro c'era Ol'ga Romanova, un'anarchica diciottenne che era stata inviata in una zona particolarmente isolata della regione, dove per tre mesi "era stata nutrita con pane e acqua calda".47

Ma il confino in luoghi lontani non assicurava la tranquillità ai carcerieri. Quasi ovunque andassero, i socialisti, abituati al trattamento privilegiato un tempo riservato ai prigionieri politici nelle galere zariste, chiedevano giornali, riviste, il diritto di fare passeggiate e di poter corrispondere con chiunque, e soprattutto di poter scegliere i propri rappresentanti quando dovevano trattare con le autorità. Se gli agenti della Ceka locale rifiutavano perché non capivano la situazione, essendo senza dubbio incapaci di stabilire la differenza tra un anarchico e un piromane, i socialisti protestavano, talvolta in modo violento. A quanto afferma un testo di memorie sul campo di Holmogory, un gruppo di prigionieri ritenne

necessario ingaggiare una battaglia per ottenere le cose più elementari, come la concessione a socialisti e anarchici dei normali diritti dei prigionieri politici. Nel corso di questa lotta furono assoggettati a tutte le punizioni più note, l'isolamento, i pestaggi, la fame, spintoni contro il filo spinato, sparatorie all'edificio organizzate dal distaccamento militare ecc. Basti dire che alla fine dell'anno la maggioranza dei detenuti di Holmogory poteva vantare, oltre ai propri precedenti, scioperi della fame di trenta giorni su trentacinque.. ,48

Alla fine il gruppetto di detenuti fu trasferito da Holmogory al campo di Petrominsk, un altro monastero. A quanto riferito in una petizione che inviarono in seguito alle autorità, vennero accolti con "grida volgari e minacce", chiusi in gruppi di sei in anguste celle dove un tempo stavano i monaci, forniti di pagliericci "formicolanti di parassiti", con la proibizione di fare esercizio fisico, tenere libri e carta per scrivere.49 Il comandante di Petrominsk, il compagno Baculis, cercò di piegare i prigionieri privandoli di illuminazione e riscalda-

Gli esordi bolscevichi 45

mento, e di tanto in tanto sparando alle loro finestre.50 In risposta, loro sferrarono un'altra interminabile serie di scioperi della fame e di lettere di protesta. Alla fine chiesero di essere trasferiti, sostenendo che il luogo era infestato dalla malaria.51

Anche altri comandanti di campi si lamentavano di prigionieri del genere. In una lettera a Dzerzinskij uno raccontava come nel suo campo "i membri della Guardia bianca, che si considerano prigionieri politici" si erano organizzati in un "gruppo agguerrito", e mettevano le guardie del campo nell'impossibilità di svolgere il loro lavoro: "Diffamano l'amministrazione, ne infangano il nome ... disprezzano il buon nome, l'onesto nome dei lavoratori sovietici".52 Alcune guardie presero in pugno la situazione. Nell'aprile 1921 un gruppo di 540 prigionieri di Petrominsk si rifiutò di lavorare e chiese razioni alimentari maggiori. A causa di tale insubordinazione le autorità regionali di Arcangelo ordinarono che fossero tutti condannati a morte. Vennero fucilati come previsto.53

Altrove le autorità cercavano di mantenere la pace nella maniera opposta, soddisfacendo tutte le richieste dei detenuti politici. Berta Sabina, socialista rivoluzionaria, ricordava il suo arrivo nell'"ala socialista" della prigione moscovita di Butyrka come una riunione festosa con gli amici, "gente dell'ambiente clandestino di San Pietroburgo, dei miei anni da studentessa, e di molte città piccole e grandi dove avevamo vissuto durante le nostre peregrinazioni". Ai prigionieri era consentito uscire liberamente dalla prigione. Organizzavano sessioni di ginnastica mattutine, avevano istituito un'orchestra e un coro, creato un "circolo" fornito di riviste straniere e di una buona biblioteca. Secondo la tradizione di epoca prerivoluzionaria, alla liberazione ogni prigioniero lasciava i suoi libri. Un consiglio dei detenuti assegnava le celle, alcune delle quali erano ben arredate, con tappeti sui pavimenti e alle pareti. Un altro prigioniero ricordava: "Passeggiavamo lungo i corridoi come se fossero dei viali".54 Alla Babina la vita in prigione parve irreale: "Riusciranno mai a rinchiuderci?".55

I dirigenti della Ceka si chiedevano la stessa cosa. In un rapporto a Dzerzinskij del gennaio 1921, un ispettore carcerario denunciava scandalizzato la situazione della prigione di Butyrka: "uomini e donne passeggiano insieme, alle pareti delle celle sono appesi slo-gan anarchici e controrivoluzionari".56 Dzerzinskij raccomandò un regime più severo ma, quando venne introdotto, i prigionieri ricominciarono a protestare.

Poco tempo dopo, l'idillio di Butyrka finì. Una lettera dell'aprile scritta da un gruppo di socialisti rivoluzionari alle autorità af-

Gulag

fermava: "Fra le tre e le quattro del mattino un gruppo di uomini armati è entrato nelle celle e ha sferrato un attacco ... le donne sono state trascinate fuori dalle celle per le braccia e i capelli, altre sono state picchiate". Nei rapporti successivi, la Ceka definiva tale "incidente" una ribellione sfuggita di mano, e si decise di non permettere mai più un concentramento simile di prigionieri politici a Mosca.57 Nel febbraio 1922 l'"ala socialista" della prigione di Butyrka era ormai stata smantellata.

La repressione non aveva funzionato. Le concessioni non avevano funzionato. La Ceka non riusciva a controllare i prigionieri speciali nemmeno nei suoi campi speciali. E non poteva neanche impedire che informazioni a loro riguardo raggiungessero il mondo esterno. Era palesemente necessaria un'altra soluzione, tanto per loro quanto per tutti gli altri controrivoluzionari insubordinati rinchiusi nel sistema carcerario speciale. La trovarono già nella primavera del 1923: le isole Soloveckie.

II

"IL PRIMO CAMPO DEL GULAG"

C'è il monaco e c'è il prete, la prostituta e il ladro. C'è il principe e il barone, ma senza le corone...

Non hanno casa i ricchi su quest'isola, né castelli o palazzi...

Poesia di un prigioniero anonimo scritta alle Soloveckie1

Guardando dall'alto della torre campanaria all'angolo estremo dell'antico monastero Soloveckij, le linee di demarcazione del campo di concentramento sono visibili ancora oggi. Spesse mura di pietra circondano ancora la fortezza di Soloveckij, il complesso edilizio centrale costituito da monasteri e chiese del quindicesimo secolo, che in seguito ospitarono l'amministrazione generale del campo e le sue baracche centrali. In direzione ovest si trovano i moli, cui oggi sono attraccate alcune barche da pesca: un tempo ogni settimana, e talvolta ogni giorno, durante la breve stagione in cui le acque sono navigabili nell'estremo nord, vi si affollavano i prigionieri in arrivo. Oltre i moli si vede a perdita d'occhio la piatta distesa del mar Bianco. Per arrivare da qui a Kem', il campo di transito in terraferma da cui un tempo si imbarcavano i prigionieri, il battello ci mette parecchie ore. Il viaggio per Arcangelo, la capitale della regione e il porto più importante del mar Bianco, dura una notte intera.

Guardando verso nord, si vedono i contorni vaghi di Sekirka, la chiesa in cima alla collina nei cui sotterranei un tempo si trovavano le

arrugerate celle di punizione delle Soloveckie. A est si erge la centrale elettrica costruita dai prigionieri, attiva ancora oggi. Alle sue spalle si

stende il terreno dove un tempo c'era l'orto botanico. Nei primi tem-

L'arcipelago delle Soloveckie, nel mar Bianco

pi di vita del campo, alcuni prigionieri vi coltivavano piante sperimentali, per capire che cosa mai potesse crescere nell'estremo nord.

Per finire, al di là dell'orto botanico si estendono le altre isole dell'arcipelago delle Soloveckie, sparse nel mar Bianco: Bol'saja Muksalma, dove un tempo i prigionieri allevavano volpi argentate da pelliccia; Anzer, in cui erano situati campi speciali per invalidi, donne con bambini ed ex monaci; Zajackij ostrov, su cui si trovava il campo di punizione femminile.2 Non è un caso se Solzenicyn ha scelto la metafora dell'arcipelago per descrivere il sistema dei campi sovietico. Soloveckij, il primo campo sovietico progettato e costruito per restare in pianta stabile, diventò un vero e proprio arcipelago, diffondendosi isola dopo isola, occupando mentre cresceva le vecchie chiese e gli edifici dell'antica comunità monastica.

"Il primo campo del Gulag" 49

Già in precedenza il complesso monastico era stato utilizzato copie prigione. I monaci delle Soloveckie, sudditi fedeli dello zar, fin dal sedicesimo secolo avevano collaborato a tenere in carcere gli av-versari politici: tra gli altri, i sacerdoti insubordinati e qualche aristocratico ribelle.3 La solitudine, le alte mura, i venti freddi e i gabbiani, che un tempo avevano attratto una razza speciale di monaci solitari, affascinavano anche l'immaginazione bolscevica. Già nel maggio 1920 un articolo dell'edizione di Arcangelo del quotidiano governativo "Izvestija" descriveva le isole come un luogo ideale per installarvi dei campi di lavoro: "La rigida condizione climatica, il regime di lavoro e la lotta contro gli elementi naturali saranno un'ottima scuola per ogni tipo di elementi viziosi!". Quell'estate cominciarono ad arrivare i primi gruppetti di prigionieri.4

Anche altre persone, collocate assai più in alto nella scala gerarchica, si interessavano alle isole. A quanto pare, fu Dzerzinskij in persona, il 13 ottobre 1923, che convinse il governo sovietico ad assegnare alla Ceka, all'epoca ribattezzata GPU e poi OGPU (Direzione politica statale unificata), la proprietà del monastero confiscato, oltre ai monasteri di Petrominsk e Holmogory. Vennero ribattezzati "campi a destinazione speciale".5 In seguito divennero noti come "campi settentrionali a destinazione speciale": Severnye lagerja osobogo naznacenija, o SLON (slon in russo vuoi dire "elefante"), un nome che sarebbe diventato fonte di umorismo, di ironia e di minaccia.

Nella tradizione popolare dei sopravvissuti, Soloveckij diventò per sempre "il primo campo del Gulag".6 Anche se di recente gli studiosi hanno osservato che all'epoca esistevano molti altri campi e prigioni, è evidente che le Soloveckie avevano un significato speciale, non solo per i sopravvissuti, ma anche per la polizia segreta sovietica.7 Negli anni Venti, Soloveckij non era l'unica prigione dell'Unione Sovietica, ma era la loro prigione, la prigione della OGPU, dove per la prima volta la polizia politica imparò a sfruttare il lavoro coatto a scopo di lucro. Nel 1945, durante una conferenza sulla storia del sistema dei campi, il compagno Nasedkin, allora amministratore capo, affermò che la struttura dei campi era nata alle Soloveckie nel 1920, e che nel 1926 vi era nato anche il sistema sovietico di rieducazione basato sul lavoro coatto.8

Sulle prime questa affermazione appare curiosa, se si considera

e m Unione Sovietica i lavori forzati rappresentavano una forma

di punizione ben nota fin dal 1918. Ma non è poi così strano se si

considera l'evoluzione del concetto di lavoro coatto a Soloveckij. In-

a h, anche se sull'isola lavoravano tutti, nei primi tempi i prigionie-

Gulag

ri non rientravano in un'organizzazione nemmeno lontanamente simile a un sistema. E niente attesta che il loro lavoro producesse profitto di alcun genere.

Tanto per cominciare, all'inizio una delle due principali categorie di prigionieri di Soloveckij non lavorava affatto. Erano circa 300 politici socialisti che, in realtà, avevano cominciato ad arrivare sull'isola nel giugno 1923. Provenivano dal campo di Petrominsk, dalla Butyrka e da altre prigioni di Mosca e Pietrogrado, e subito dopo l'arrivo venivano portati al monastero più piccolo di Savvatievo, molti chilometri a nord del complesso monastico principale. Lì le guardie avevano la garanzia che fossero isolati dagli altri prigionieri e non li infettassero con la loro passione per gli scioperi della fame e le proteste.

Nei primi tempi, i socialisti godevano dei "privilegi" dei prigionieri politici che avevano rivendicato a lungo: giornali, libri, libertà di movimento entro la recinzione di filo spinato ed esenzione dal lavoro. Tutti i partiti politici più importanti, socialisti rivoluzionari di sinistra, socialisti rivoluzionari di destra, anarchici, socialdemocratici e in seguito sionisti socialisti, si sceglievano un capo e occupavano delle stanze nelle diverse ali dell'ex monastero.9

All'inizio a Ekaterina Olickaja, una giovane socialista rivoluzionaria di sinistra arrestata nel 1924, Savvatievo non parve "per nulla simile a una prigione", e questo la sconvolse dopo i mesi trascorsi nel tetro carcere moscovita della Lubjanka. La sua stanza, una cella monastica riconvertita, nella zona che era diventata la sezione femminile dei socialisti rivoluzionari, era

pulita, imbiancata di fresco, con due grandi finestre spalancate che davano sul lago, la cella era piena di aria e di luce. Naturalmente non aveva inferriate. In mezzo c'era un tavolo coperto da una tovaglia. Lungo le pareti, quattro pagliericci accuratamente rassettati. Presso ognuno di essi, un tavolino. Sui tavolini, si vedevano libri, quaderni, un calamaio.

Mentre si meravigliava per l'ambiente, il té servito nelle teiere e lo zucchero nelle zuccheriere, le sue compagne di cella le spiegavano che i prigionieri avevano creato di proposito quell'atmosfera piacevole: "Siamo esseri umani".10 Ben presto la Olickaja venne a sapere che, pur soffrendo di tubercolosi e di altre malattie, e sebbene avessero di rado abbastanza da mangiare, i politici di Soloveckij erano molto ben organizzati: ogni cellula di Partito aveva il suo "anziano", responsabile dello stivaggio, della cottura e della distribuzione del cibo. Dato che avevano ancora lo status speciale di politici erano autorizzati a ricevere pacchi dai parenti e dalla Croce rossa politica.

"Il primo campo del Gulag" 51

Anche se questa istituzione cominciava a incontrare qualche difficoltà - nel 1922 ne avevano perquisito le sedi e confiscato le proprietà - Ekaterina Peskova, che la dirigeva e aveva molte conoscenze era ancora personalmente autorizzata ad aiutare i prigionieri

politici. Nel 1923 inviò a Savvatievo un intero vagone di derrate alimentari. Nell'ottobre dello stesso anno venne imbarcato per il nord un carico di abiti.11

Fu questa, insomma, la soluzione al problema di pubbliche relazioni posto dai politici: date loro più o meno quello che vogliono, ma mandateli il più lontano possibile da chiunque altro. Non poteva durare: il sistema sovietico non avrebbe tollerato a lungo delle eccezioni. Nel frattempo non era difficile vedere al di là dell'illusione: infatti a Soloveckij viveva un altro gruppo di prigionieri, assai più numeroso. "Quando sbarcammo alle Soloveckie sentimmo che stavamo entrando in una nuova e strana fase della nostra vita" scrisse un politico. "Dalle conversazioni con i criminali comuni venimmo a sapere del regime sconvolgente adottato dall'amministrazione nei loro confronti... "12

I dormitori principali della fortezza di Soloveckij stavano riempiendosi in fretta, con molto meno fasto e cerimonie, di prigionieri assai meno garantiti. Passarono dalle poche centinaia del 1923 a 6000 nel 1925.13 Tra di essi c'erano ufficiali dell'Armata bianca e simpatizzanti, "speculatori", ex aristocratici, marinai che avevano combattuto durante la rivolta di Kronstadt e criminali comuni veri e propri. Per questi detenuti era molto più difficile ottenere il té nelle teiere e lo zucchero nelle zuccheriere. O meglio, per loro era più difficile ottenere qualsiasi cosa che altri potevano procurarsi senza difficoltà; infatti in quei primi tempi la vita nei dormitori dei comuni del campo speciale di Soloveckij era caratterizzata soprattutto dal-1 irrazionalità, dall'impossibilità di prevedere qualsiasi cosa, come si capiva sin dal momento dell'arrivo. Secondo quanto racconta un ex prigioniero, Boris Sirjaev, autore di un libro di memorie, la prima notte lui e altri nuovi arrivati furono accolti dal compagno A.P. Nogtev, il primo comandante del campo: "Vi do il benvenuto" disse loro, con un tono che Sirjaev definisce ironico. "Come sapete, qui non esiste l'autorità sovietica, solo l'autorità delle Soloveckie. Potete scor-arvi dei diritti che avevate prima. Qui abbiamo le nostre leggi." La frase "Qui non esiste l'autorità sovietica, solo l'autorità delle Soloveckie" sarebbe stata ripetuta diverse volte, come attestano molti memorialisti.i4

Gulag

Nei giorni e nelle settimane successive la maggior parte dei prigionieri avrebbe fatto esperienza dell'autorità delle Soloveckie, un misto di negligenza criminale e di crudeltà casuale. Le condizioni di vita nelle chiese e nelle celle dei monaci trasformate in prigioni erano primitive, e si faceva poco per migliorarle. Durante la prima notte trascorsa nei dormitori di Soloveckij, allo scrittore Oleg Volkov fu assegnato un posto sulle splosnye nary, ampi tavolacci che in realtà erano larghe assi di legno (di cui parleremo più diffusamente in seguito) su cui dormivano affiancati diversi uomini. Quando si sdraiò, fu assalito dalle cimici: "Una dopo l'altra, come formiche. Non riuscii a dormire". Uscì, e fu subito avvolto da "un nugolo di zanzare": "Guardai con invidia quelli che dormivano sodo, coperti di parassiti".15

Le cose non andavano meglio fuori dalla fortezza. Ufficialmente, lo SLON dirigeva nove diversi campi nell'arcipelago, ciascuno dei quali diviso in battaglioni. Ma alcuni prigionieri vivevano in condizioni ancora più primitive, nei boschi, accanto alle località in cui tagliavano gli alberi.16 Dmitrij Lihacev, che in seguito divenne uno dei più famosi critici letterari della Russia, considerava un privilegio non essere stato destinato a lavorare in uno dei diversi campi senza nome nella foresta. Ne visitò uno e scrisse: "Ne vidi uno e mi ammalai per l'orrore di ciò a cui avevo assistito. C'era gente che veniva cacciata nel bosco (dove di solito c'erano solo paludi e massi) e costretta a scavare trincee con le mani (magari avessero avuto delle vanghe!)".17

Sulle isole minori l'amministrazione centrale dei campi controllava ancora meno il comportamento delle singole guardie e dei capi dei campi. Nelle sue memorie un detenuto, Kiselev, descrive un campo di Anzer, una delle isole più piccole, diretto da un altro cekista, Van'ka Potapov, e costituito da tre baracche più il quartier generale delle guardie, situato in un'antica chiesa. I prigionieri tagliavano alberi senza interruzioni, senza riposare, e con poco da mangiare. Si amputavano mani e piedi perché avevano un disperato bisogno di qualche giorno di riposo. Secondo Kiselev, Potapov conservava queste "perle" in un grosso mucchio, e le mostrava ai visitatori, vantandosi anche di aver trucidato di persona oltre 400 detenuti. "Da lì non tornava nessuno" scrive Kiselev parlando di Anzer. Anche ammettendo che esageri, il suo racconto segnala il vero e proprio terrore rappresentato per i prigionieri dai campi periferici.18

Su tutte le isole, le condizioni igieniche disastrose, il carico di lavoro eccessivo e la penuria di cibo provocavano inevitabilmente malattie, soprattutto il tifo. Circa un quarto dei 6000 prigionieri detenu-

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ti dallo SLON nel 1925 morì durante l'inverno 1925-26, a causa di un'epidemia particolarmente virulenta. Secondo alcune stime, ecco le cifre: forse ogni anno morivano da un quarto a metà dei detenuti, sterminati dal tifo, la denutrizione e altre epidemie. Un documento relativo all'inverno 1929-1930 registra 25.552 casi di tifo nei campi dello SLON (all'epoca assai più estesi).19

Tuttavia, per alcuni prigionieri le Soloveckie significavano una realtà assai peggiore di quella dei disagi e delle malattie. Sulle isole i detenuti venivano sottoposti senza motivo a sevizie e torture di ogni genere, assai meno frequenti nel Gulag in seguito, quando, come sostiene Solzenicyn, l'impostazione schiavistica era diventata un "sistema".20 I fatti sono descritti in molti libri di memorie, ma esiste il rapporto di una commissione d'inchiesta inviata da Mosca alcuni anni dopo, in cui vengono esposti con precisione. Durante le indagini i funzionari di Mosca scoprirono con orrore che le guardie delle Soloveckie d'inverno lasciavano regolarmente i prigionieri nudi nell'antica torre campanaria della cattedrale, priva di riscaldamento, le mani e i piedi legati dietro la schiena con un unico pezzo di corda. Li mettevano anche "sulla panca", li costringevano cioè a stare seduti immobili su pali anche per diciotto ore, a volte legando loro dei pesi alle gambe, con i piedi che non toccavano terra; quella posizione li lasciava storpi per sempre. Talvolta costringevano i detenuti a recarsi nudi nel bagno, a due chilometri di distanza, nel gelo invernale. Oppure li nutrivano di proposito con carne avariata. Negavano loro le cure mediche. Altre volte li costringevano a fare delle cose inutili: per esempio, spostare enormi quantità di neve da un posto all'altro, o saltare dai ponti nel fiume ogni volta che una guardia gridava "delfino!".21

Un'altra forma di tortura specifica delle isole, citata tanto negli archivi quanto nei memoriali, consisteva nell'essere sottoposti "alle zanzare". Klinger, un ufficiale dell'Armata bianca che in seguito fu uno dei pochissimi a riuscire a evadere dalle Soloveckie, racconta di come una volta vide infliggere questa tortura a un prigioniero che si era lamentato perché gli avevano requisito un pacco inviatogli da casa. Le guardie carcerarie, infuriate, reagirono togliendogli tutti i vestiti, compresa la biancheria, e legandolo a un palo nella foresta, che durante l'estate brulicava di zanzare. "Nel giro di mezz'ora tutto il suo Povero corpo era coperto di bubboni per le punture" scrive Klinger.

la fine l'uomo svenne per il dolore e la perdita di sangue.22

Le esecuzioni di massa sembravano quasi casuali, e molti prigionieri ricordano la sensazione di terrore alla prospettiva di una morte

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arbitraria. Lihacev afferma di aver evitato per un pelo la morte durante uno sterminio di massa compiuto alla fine dell'ottobre 1929. In effetti i documenti d'archivio indicano che in quell'occasione furono giustiziate circa cinquanta persone (non trecento come afferma lui), con l'accusa di aver cercato di organizzare una rivolta.23

Scontare una condanna a Sekirka, la chiesa i cui sotterranei erano stati adibiti a celle di punizione delle Soloveckie, era terribile quasi quanto la pena capitale. Circolavano molte storie riguardo a quanto accadeva nei sotterranei della chiesa, ma da Sekirka tornarono talmente in pochi che è difficile avere certezze sulla situazione effettiva. Un testimone vide una squadra incolonnata per recarsi al lavoro: "Di fianco a noi sfilarono uomini stremati, dall'aspetto ferino, circondati da una nutrita scorta. In mancanza di abiti, alcuni erano rivestiti di sacchi. Nemmeno uno di loro aveva gli stivali ai piedi".24

Secondo la leggenda delle Soloveckie, anche la lunga rampa di 365 gradini di legno che dalla chiesa di Sekirka conduceva alle falde della collina veniva usata per sterminare i prigionieri. Quando a un certo punto le autorità del campo proibirono alle guardie di fucilare i prigionieri di Sekirka, quelle cominciarono a organizzare degli "incidenti", spingendoli giù dalla scala.25 Di recente i discendenti dei prigionieri di Soloveckij hanno eretto una croce di legno in cima alla scala, per indicare il punto in cui presumibilmente i loro cari trovarono la morte. Ora è un luogo pieno di pace e piuttosto bello, così bello che alla fine degli anni Novanta il museo di storia locale ha pubblicato una cartolina natalizia raffigurante Sekirka, la scala e la croce.

Se all'inizio degli anni Venti migliaia di persone morirono nei campi dello SLON a causa del clima di irrazionalità e di imprevedibilità, la stessa irrazionalità, la stessa imprevedibilità aiutarono altri non soltanto a vivere ma anche, letteralmente, a ballare e a cantare. Nel 1923 un gruppetto di prigionieri aveva già cominciato ad allestire il primo teatro del campo. All'inizio gli "attori", la maggior parte dei quali, prima delle prove, passava dieci ore al giorno abbattendo alberi nella foresta, non avevano copioni, e quindi recitavano i classici a memoria. Il teatro ebbe un grande sviluppo nel 1924, quando arrivò un intero gruppo di ex attori professionisti (erano stati tutti condannati con l'accusa di appartenere allo stesso movimento "controrivoluzionario"). Quell'anno misero in scena Lo zio Vanja di Cehov e I figli del sole di Gor'kip.

In seguito nel teatro delle Soloveckie vennero presentate opere e operette, e anche esibizioni acrobatiche e film. Il programma di una

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cerata musicale comprendeva un brano orchestrale, un quintetto, un coro e arie d'opera russe.27 Nel marzo 1924 c'erano in cartellone un dramma dello scrittore Leonid Andreev (il cui figlio Daniil, anch'egli scrittore, in seguito venne recluso nel Gulag), una commedia di Gogol' e una serata in memoria di Sarah Bernhardt.28

Il teatro non era l'unica istituzione culturale presente. Alle Solo-veckie c'erano anche una biblioteca, in cui alla fine erano conservati 30.000 volumi, e un orto botanico dove i prigionieri facevano esperimenti con le piante artiche. I detenuti, molti dei quali erano scienziati pietroburghesi, allestirono anche un museo della flora, della fauna, dell'arte e della storia locali.29 Alcuni dei prigionieri più privilegiati disponevano inoltre di un circolo che almeno nelle fotografie ha un aspetto decisamente borghese. Le immagini mostrano un ambiente molto confortevole: un piano, pavimenti di parquet, ritratti di Marx, Lenin e Lunacarskij, il primo ministro sovietico della Cultura.30

Con le vecchie attrezzature litografiche dei monaci i prigionieri producevano anche riviste mensili e quotidiani su cui comparivano vignette satiriche, poesie piene di nostalgia e racconti sorprendentemente franchi. Il numero di dicembre 1925 di "Soloveckie ostrova" (cioè "isole Soloveckie") riporta un breve racconto, la storia di un'ex attrice arrivata alle Soloveckie e costretta a fare la lavandaia, che non riesce ad abituarsi alla sua nuova vita. Il racconto si conclude con questa frase: "Le Soloveckie sono maledette".

In un altro racconto un ex aristocratico, un tempo abituato a "serate intime al palazzo d'Inverno", nella nuova situazione si consola soltanto quando va a trovare un altro aristocratico e parlano dei vecchi tempi.31 Risulta evidente che i cliché del realismo socialista non erano ancora obbligatori. Non tutte le storie hanno il lieto fine che in seguito diventerà immancabile, non tutti i personaggi si adattano con gioia alla realtà sovietica.

Sui giornali delle Soloveckie uscivano anche articoli più colti, dal-1 analisi di Lihacev sul galateo del gioco d'azzardo in vigore tra i criminali, a saggi sull'arte e l'architettura delle chiese in rovina delle isole. Tra 1926 e il 1929, presso la casa editrice dello SLON uscirono ben ventinove pubblicazioni della Società etnografica delle Soloveckie. La società effettuava studi sulla flora e la fauna dell'isola, soprattutto su specie particolari come il cervo nordico o le piante caratteristiche del luogo, e pubblicava articoli sulla produzione di mattoni, le correnti eoliche, i minerali utili e l'allevamento degli animali da pelliccia. Alcuni detenuti si interessarono molto a quest'ultimo argomento, al punto che nel 1927, quando le attività economiche

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dell'isola raggiunsero il massimo sviluppo, un gruppo importò dalla Finlandia alcune volpi argentate "da riproduzione", per migliorare la qualità della razza locale. Tra l'altro, la Società etnografica eseguì un'analisi geologica ancora utilizzata dall'attuale direttore del museo di storia locale.32

Questi prigionieri privilegiati partecipavano anche ai nuovi riti e festeggiamenti sovietici, occasioni da cui la generazione successiva di detenuti nei campi sarebbe stata esclusa di proposito. Un articolo uscito sul numero di "Soloveckie ostrova" del settembre 1925 descrive la festa svoltasi sull'isola in occasione del 1° maggio. Purtroppo c'era brutto tempo:

II primo maggio i fiori sbocciano in tutta l'Unione Sovietica, ma alle Soloveckie il mare è ancora coperto di ghiaccio e c'è un sacco di neve. Tuttavia ci prepariamo a celebrare la festa del proletariato. Sin dal mattino presto nelle baracche c'è agitazione. Qualcuno si lava, qualcuno si rade, qualcuno si rammenda gli abiti, qualcuno lucida le scarpe...33

Rispetto agli anni successivi risulta ancora più sorprendente il fatto che sull'isola continuassero a svolgersi cerimonie religiose. Un ex prigioniero, V.A. Kazackov, ricorda la Pasqua "grandiosa" del 1926:

Poco prima della festa, il nuovo capo della divisione pretese che quanti desideravano andare in chiesa facessero domanda. All'inizio quasi nessuno la presentò: la gente aveva paura delle conseguenze. Ma appena prima di Pasqua presentarono domanda in moltissimi... Una lunga processione si incamminò per la strada diretta alla chiesa Onufrevskaja, la cappella del cimitero, camminavano affiancate molte persone. Come logico non tutti riuscirono a entrare nella cappella. Alcuni rimasero fuori, e quelli che arrivarono tardi non poterono nemmeno assistere alla funzione.34

Anche un altro giornale carcerario, nel numero di maggio 1924, pubblicò un editoriale cauto ma positivo sulla Pasqua, "una festa antica che celebra l'inizio della primavera" e "sotto una bandiera rossa può ancora essere festeggiata".35

Con stupore di molti prigionieri, insieme alle feste religiose continuò a rimanere quasi fino alla fine del decennio anche un gruppetto di monaci locali. Avevano la funzione di "istruttori", dovevano cioè trasmettere ai prigionieri le competenze necessarie per portare avanti le loro attività un tempo floride, l'allevamento e la pesca - le aringhe delle Soloveckie comparivano sulla tavola dello zar - e i segreti della complessa rete di canali utilizzati da secoli per collegare le chiese delle isole. Nel corso degli anni, ai monaci si aggiunsero decine di sacerdoti sovietici e di membri della gerarchia ecclesiastica ortodossa e cattolica, che si erano opposti alla confisca dei beni della chiesa o ave-

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vano violato il "decreto sulla separazione di chiesa e stato". Fino al 1931-1932 i religiosi, un po' come i politici socialisti, erano autorizzati ad alloggiare in un dormitorio speciale all'interno della fortezza, e potevano celebrare la messa nella piccola cappella dell'ex cimitero, un lusso proibito agli altri prigionieri salvo in occasioni particolari.

A quanto pare, tali "privilegi" suscitavano un certo risentimento, e tra il clero e i prigionieri comuni a volte nascevano delle tensioni. Una prigioniera, che dopo aver partorito fu trasferita in una colonia speciale per madri sull'isola di Anzer, ricordava: " [Le monache] dell'isola mantenevano le distanze con noi miscredenti... erano arrabbiate, non amavano i bambini e ci odiavano". Altri preti, come attestano diversi memoriali, assumevano un atteggiamento opposto, dedicandosi all'evangelizzazione e all'attività sociale fra criminali e altri politici.36

Anche il denaro, per chi ne aveva, serviva a farsi esentare dal lavoro nelle foreste e a salvarsi dalle torture e dalla morte. A Solo-veckij c'era un ristorante che serviva i prigionieri (sottobanco). Chi poteva permettersi di pagare le bustarelle necessarie aveva l'opportunità di farsi arrivare il cibo da fuori.37 L'amministrazione del campo a un certo punto istituì addirittura degli "empori" sull'isola, dove i prigionieri potevano acquistare capi d'abbigliamento a prezzi due volte più alti che nei normali negozi sovietici.38 A quanto pare, fra coloro che si compravano i mezzi per non soffrire c'era il "conte Violare", uno smargiasso il cui nome è citato (con le grafie più svariate) in diversi memoriali. Il conte, di solito descritto come "l'ambasciatore messicano in Egitto", subito dopo la rivoluzione aveva fatto l'errore di andare a trovare la famiglia di sua moglie nella Geòrgia sovietica. Fu arrestato insieme alla consorte e deportato nell'estremo nord. All'inizio furono imprigionati, e la contessa dovette lavorare come lavandaia ma, secondo la leggenda del campo, con la somma di 5000 rubli il conte acquisì per entrambi il diritto di vivere in una casa a sé, con un cavallo e un servitore.39 Altri ricordano la presenza di un ricco mercante indiano di Bombay, che poi se ne andò con 1 aiuto del consolato britannico a Mosca. In seguito le sue memorie furono pubblicate sulla stampa dell'emigrazione.40

Questi e altri esempi di prigionieri ricchi che vivevano bene e se ne andavano presto avevano un impatto tale che, nel 1926, un gruppo di detenuti meno privilegiati scrisse una lettera al presidium del comitato centrale del Partito comunista, per denunciare "il caos e la ^lertza imperanti nel campo di concentramento Soloveckij". La protesta era espressa in termini tali da far presa sui dirigenti comunisti: "Chi ha i soldi può servirsene per sistemarsi bene, e tutte le

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difficoltà ricadono sulle spalle dei lavoratori e dei contadini che non hanno denaro". Mentre i ricchi si compravano attività più leggere, scrivevano, "i poveri lavorano dalle quattordici alle sedici ore al giorno".41 Risultò che non erano gli unici insoddisfatti per gli atteggiamenti arbitrari dei comandanti dei campi delle Soloveckie.

Se la violenza casuale e il trattamento iniquo infastidivano i prigionieri, chi stava più in alto nella gerarchia sovietica era contrariato per motivi un po' diversi. Intorno al 1925 risultava ormai evidente che i campi dello SLON, come tutto il sistema carcerario "ordinario", non erano riusciti a realizzare l'obiettivo più importante: diventare autosufficienti.42 Anzi, oltre a non conseguire dei profitti, i comandanti dei campi di concentramento sovietici, "speciali" e "ordinari", continuavano a chiedere finanziamenti sempre più ingenti.

Sotto questo aspetto, il complesso delle Soloveckie somigliava alle altre prigioni sovietiche dell'epoca. Probabilmente sulle isole il contrasto tra gli estremi di crudeltà e di vita agiata erano più stridenti che altrove, per la natura particolare dei prigionieri e delle guardie, ma anche in altri campi e carceri di tutto il paese si riscontravano le stesse irregolarità. In teoria anche il sistema carcerario normale comprendeva "colonie" di lavoro collegate a fabbriche, officine e aziende agricole, e anche la loro attività economica era organizzata male e non produceva profitti.43 In un rapporto del 1928 su uno di questi campi, situato nelle campagne della Carelia - 59 prigionieri, 7 cavalli, 2 maiali e 21 mucche -, un ispettore riferiva che solo la metà dei prigionieri avevano le lenzuola, che i cavalli erano in pessime condizioni (uno era stato venduto a uno zingaro senza autorizzazione), che altri cavalli venivano usati regolarmente dalle guardie del campo per motivi personali, che quando avevano rilasciato il detenuto addetto alla mansione di fabbro nel campo, quello se ne era andato a piedi con tutti i suoi strumenti, che gli edifici del campo non avevano riscaldamento e isolamento termico, salvo la residenza dell'amministratore capo. E c'era di peggio: l'amministratore capo trascorreva fuori dal campo tre o quattro giorni alla settimana e spesso rilasciava i prigionieri in anticipo senza autorizzazione; "rifiutava ostinatamente" di insegnare agronomia ai detenuti e affermava chiaro e tondo di essere convinto che la rieducazione dei prigionieri fosse "inutile". Le mogli di alcuni prigionieri vivevano dentro il campo, altre invece vi trascorrevano lunghi periodi e sparivano nei boschi con i mariti. Le guardie indulgevano in "liti meschine e ubriachezza".44 Non stupisce quindi se i dirigenti locali della

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Caretta nel 1929 furono richiamati all'ordine dai loro superiori perché non avevano "capito l'importanza del lavoro coatto come strumento di difesa sociale e la sua utilità per lo Stato e la società".45

Era evidente fin dall'inizio che i campi non rendevano, i documenti lo dimostrano. Già nel luglio 1919 i dirigenti della Ceka di Come!', in Bielorussia, inviarono una lettera a Dzerzinskij per chiedergli un sussidio urgente di 500.000 rubli: la costruzione del loro campo si era interrotta per mancanza di fondi.46 Nel decennio successivo i ministeri e le istituzioni in lizza per aggiudicarsi il controllo dei campi di prigionia continuavano a contendersi finanziamenti e potere. Ogni tanto venivano decretate delle amnistie per alleggerire il sistema carcerario, un fenomeno che raggiunse il culmine nell'autunno del 1927 quando ne venne concessa una molto estesa in occasione del decimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre. Furono rilasciati oltre 50.000 detenuti delle prigioni ordinarie, soprattutto allo scopo di ridurre il sovraffollamento e risparmiare denaro.47

Il 10 novembre 1925 ormai ai massimi livelli si ammetteva che era necessario "utilizzare meglio i prigionieri". A quell'epoca G.F. Pjatakov, un bolscevico che occupò diverse importanti posizioni in ambito economico, scrisse a Dzerzinskij. Nella sua lettera spiegava: "Sono giunto alla conclusione che per creare le condizioni di base necessarie alla nascita di una cultura del lavoro, in certe regioni bisognerebbe istituire degli insediamenti di lavoro obbligatorio. Tali insediamenti ridurrebbero il sovraffollamento nei luoghi di detenzione. Bisognerebbe ordinare alla GPU di studiare questi problemi". Elencava poi quattro regioni che andavano sviluppate con urgenza: l'isola di Sahalin nell'estremo oriente, la zona circostante la foce dello Enisej all'estremo nord, la steppa del Kazakistan e i territori intorno alla città siberiana di Nercinsk; in seguito in tutte e quattro furono allestiti dei campi. Dzerzinskij ratificò la proposta e la inoltrò a due colleghi per sviluppare il progetto.48

All'inizio non accadde nulla, forse perché di lì a poco Dzerzinskij morì. Comunque, la nota di Pjatakov era foriera di cambiamenti. Alla metà degli anni Venti i dirigenti sovietici non avevano ancora stabilito con chiarezza se le prigioni e i campi dovessero avere come obiettivo prioritario la rieducazione dei prigionieri, la loro punizione/ o la realizzazione di profitti per il regime. Ora le svariate istituzioni interessate al destino dei campi di concentramento a poco a POCO stavano raggiungendo un accordo: i luoghi di detenzione do-

vano essere autosufficienti. Alla fine del decennio, il caotico monile prigioni sovietiche postrivoluzionarie si trasformò, e dal

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caos emerse un sistema nuovo. Oltre a diventare un'impresa economica organizzata, le Soloveckie rappresentavano ora un campo modello, un esempio da donare molte migliaia di volte in tutta l'URSS.

Anche se allora nessuno se ne rendeva conto, in retrospettiva l'importanza delle Soloveckie emerge con chiarezza. In seguito, nel 1930, in una relazione pronunciata a una riunione di Partito alle Soloveckie, un dirigente locale, il compagno Uspenskij, dichiarò: "l'esperienza di lavoro dei campi sulle Soloveckie ha convinto il Partito e il governo che il sistema carcerario deve trasformarsi in tutta l'Unione Sovietica in un sistema di campi correzionali di lavoro".49

Ai vertici, alcuni di tali cambiamenti erano previsti sin dall'inizio, come dimostra la nota inviata a Dzerzinskij. Invece le tecniche del nuovo sistema, i metodi per gestire i campi, organizzare i prigionieri e stabilirne il regime lavorativo, furono studiati sulle isole. Alla metà degli anni Venti forse alle Soloveckie regnava il caos, ma da quel caos emerse il futuro sistema del Gulag.

I motivi dei cambiamenti dello SLON vanno ricercati almeno in parte nella personalità di Naftalij Aronovic Frenkel', un prigioniero che fece strada, fino a diventare uno dei più influenti comandanti delle Soloveckie. A quanto afferma Solzenicyn in Arcipelago Gulag, fu proprio Frenkel' a ideare il sistema per cui i prigionieri venivano nutriti in base alla quantità di lavoro svolto. Questo sistema micidiale, che nel giro di poche settimane eliminava i detenuti più deboli, in seguito - come vedremo - provocò la morte di innumerevoli vittime. D'altra parte, molti storici russi e occidentali contestano l'importanza di Frenkel' e considerano soltanto leggende le storie relative alla sua onnipotenza.50

Probabilmente Solzenicyn attribuisce troppi meriti a Frenkel': anche nei primi campi bolscevichi i prigionieri riferivano di razioni supplementari per il lavoro in più, e comunque l'idea in un certo senso è ovvia e non aveva bisogno di essere messa a punto da qualcuno in particolare.51 Ma dalle fonti d'archivio rese accessibili solo di recente, soprattutto quelle dell'archivio regionale della Carelia, la repubblica sovietica di cui allora facevano parte le Soloveckie, l'importanza di Frenkel' appare evidente. Anche se non inventò il sistema in tutti i dettagli, egli riuscì a trasformare un campo di prigionia in un'istituzione economica in apparenza produttiva, e lo fece in un'epoca, in un posto e in un modo che probabilmente attirarono l'attenzione di Stalin sulla sua idea.

D'altra parte, nemmeno la confusione sorprende. Molti memoriali

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relativi alle prime fasi del sistema dei campi citano il nome di Frenkel': pare evidente che l'identità di quest'uomo era circondata dal mito anche quando lui era vivo. Nelle fotografie ufficiali si vede un uomo dall'aspetto studiatamente sinistro, con un berretto di cuoio e baffi spuntati con attenzione; un sopravvissuto ricorda che era "vestito come un damerino".52 Un suo collega della OGPU, che lo ammirava moltissimo, si meravigliava per la sua memoria perfetta e per la sua abilità di fare i calcoli a mente: "Non metteva mai niente per iscritto" ,53 In seguito anche la propaganda sovietica elogiò con eloquenza la "sua memoria incredibile" e la sua "ottima conoscenza del legname e del lavoro forestale in genere", le sue competenze in ambito di agricoltura e di ingegneria, e la sua sconfinata cultura generale:

Un giorno, per esempio, si mise a chiacchierare con due operai della manifattura di saponi, profumi e cosmetici. Molto presto li ridusse al silenzio, dimostrando di conoscere a fondo la profumeria, e risultò persino che era esperto del mercato internazionale e conosceva i gusti olfattivi degli abitanti della Malesia!54

Altri lo odiavano e lo temevano. Nel 1928, in una serie di riunioni speciali della cellula di Partito delle Soloveckie, i colleghi di Frenkel' lo accusarono di essersi creato una rete di spie: "Quindi sa tutto su tutti prima di chiunque altro".55 Già nel 1927 le voci su di lui erano arrivate addirittura a Parigi. In uno dei primi libri sulle Soloveckie un anticomunista francese diceva di lui: "Grazie alle sue iniziative di una insensibilità spaventosa milioni di infelici soccombono per le fatiche terribili e le atroci sofferenze".56

Inoltre, i suoi contemporanei non ne conoscevano con chiarezza le origini. Solzenicyn afferma che era un "ebreo turco", nato a Costantinopoli.57 Un altro lo descrive come un "industriale manifatturiero ungherese".58 Sirjaev sostiene che proveniva da Odessa, secondo altri invece era austriaco o palestinese, oppure aveva lavorato in America, nello stabilimento della Ford.59 Il suo fascicolo personale del carcere sotto certi aspetti chiarisce le cose: afferma che era nato nel 1883 a Haifa, nell'epoca in cui la Palestina faceva parte dell'impero ottomano. Dà lì si era poi trasferito in Unione Sovietica (passando da Odessa, o orse attraversando l'impero austroungarico), dove si presentava come un "commerciante".60 Nel 1923 le autorità lo arrestarono per "aver attraversato illegalmente le frontiere", il che potrebbe significare che era un commerciante dedito al contrabbando, oppure soltanto che co-

e commerciante aveva riscosso troppo successo per essere tollerato in Unione Sovietica. Lo condannarono a dieci anni di lavori forzati alle Soloveckie.61

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Resta anche del tutto misterioso il modo in cui riuscì a passare dalla condizione di detenuto a quella di comandante. Secondo la leggenda, quando arrivò nel campo la disorganizzazione, lo spreco di denaro e di lavoro lo sbalordirono al punto che si sedette a tavolino e scrisse una lettera molto dettagliata in cui elencò con precisione che cosa non funzionava nelle varie attività del campo, tra cui l'industria forestale, l'allevamento e le fabbriche di mattoni. Infilò la lettera nella "cassetta per i reclami" dei detenuti; un amministratore la lesse e trovandola singolare la mandò a Genrih Jagoda, il cekista che in quel periodo stava scalando in fretta la gerarchia della polizia segreta e finì per diventarne il capo. A quanto si racconta, Jagoda volle subito conoscere l'autore della lettera. Secondo un contemporaneo (e anche secondo Solzenicyn, che non menziona la sua fonte), lo stesso Frenkel' sosteneva di essere stato inviato in tutta fretta a Mosca dove aveva esposto le proprie idee a Stalin e Kaganovic, un suo tirapiedi.62 A questo punto la leggenda diventa nebulosa: dai documenti risulta che Frenkel' negli anni Trenta incontrò davvero Stalin, il quale con ogni probabilità lo protesse negli anni dell'epurazione all'interno del Partito, ma per il momento non sono emerse prove di sue visite a Mosca negli anni Venti. Ciò non significa che non ve ne furono: può anche darsi che i documenti siano andati perduti.63

Le voci sono confermate da alcune prove indiziarie. Frenkel', per esempio, fu promosso da prigioniero a guardia in tempi molto rapidi anche rispetto ai criteri di allora e al caos vigente nello SLON. Nel novembre 1924, quando Frenkel' si trovava nel campo da meno di un anno, l'amministrazione dello SLON aveva già inoltrato la domanda per il suo rilascio anticipato, che fu accolta nel 1927. Nel frattempo l'amministrazione inviava con regolarità alla OGPU delle dichiarazioni colme di entusiasmo riguardo a Frenkel': "Nel campo si è dimostrato un lavoratore così dotato da conquistarsi la fiducia delle autorità dello SLON, e viene considerato autorevole ... è uno dei pochi lavoratori responsabili".64

Sappiamo inoltre che Frenkel' organizzò e poi diresse la Ekonomiceskaja kommerceskaja cast', il Dipartimento economico-commerciale dello SLON, e che cercò di rendere i campi delle Soloveckie non solo autosufficienti, come richiedevano i decreti in materia, ma davvero redditizi, al punto che cominciarono a portar via lavoro ad altre imprese. Certo si trattava di imprese statali, non private, ma negli anni Venti nell'economia sovietica persistevano ancora elementi di competizione, e Frenkel' ne approfittò. Nel settembre 1925, con Frenkel' alla guida del Dipartimento economico, lo SLON si era

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conquistato il diritto di tagliare 130.000 metri cubi di alberi in Carelia perché aveva presentato un'offerta migliore di quella dell'impresa forestale civile concorrente. Inoltre era diventato azionista della Banca pubblica della Carelia ed era in gara per la costruzione di una strada da Kem' alla città di Uhta, nell'estremo nord.65

Le autorità della Carelia si innervosirono subito per tutta questa attività, soprattutto perché all'inizio erano nettamente contrarie alla costruzione del campo. In seguito le loro proteste aumentarono.66 In una riunione convocata per discutere l'espansione dello SLON, le autorità locali protestarono perché non era giusto che, potendo disporre di manodopera a basso costo, lasciasse senza lavoro i normali taglialegna. Poi l'atmosfera cambiò ancora, e furono sollevate obiezioni più serie. Nel febbraio 1926, durante una riunione del Consiglio dei com-missari del popolo della Carelia, molti dirigenti locali protestarono perché lo SLON costava troppo e chiedeva finanziamenti eccessivi per la strada da Kem' a Uhta. "Risulta ormai evidente che lo SLON è un mercante con le mani grandi e avide, e che il suo obiettivo principale è quello di ottenere dei profitti"" dichiarò in tono iroso il compagno Juznev.67

L'Impresa commerciale della Carelia, una società di Stato, era già in assetto di guerra per impedire allo SLON di aprire un proprio punto di vendita a Kem'. L'impresa statale non poteva permettersi la stessa cosa, al contrario dello SLON, che era in condizione di chiedere più ore di lavoro ai suoi dipendenti detenuti e pagarli assai meno, in pratica niente.68 E per giunta a parere delle autorità grazie ai suoi rapporti privilegiati con la OGPU, lo SLON poteva ignorare le leggi locali e non versare denaro all'erario della regione.69

Il dibattito sulla redditività, l'efficienza e l'equità del lavoro coatto proseguì per i venticinque anni successivi (ne parleremo più diffusamente). Ma alla metà degli anni Venti le autorità locali della Carelia non la spuntarono. Nei suoi rapporti del 1925 sulla situazione economica del complesso delle Soloveckie, il compagno Fedor Ejhmans, in quel momento vice di Nogtev, anche se in seguito diresse il campo, vantava i successi economici dello SLON sostenendo che la sua fabbrica di mattoni, un tempo in "condizioni patetiche", ormai prosperava, che le imprese forestali avrebbero superato la produzione prevista dal piano per quell'anno, che era stata ultimata la centrale elettrica e

e la produzione di pesce era raddoppiata.70 In seguito i giornali

e"e Soloveckie e di altre parti dell'Unione Sovietica pubblicarono

estratti dei rapporti per il largo pubblico.71 Riportavano dei calcoli

ecis': in uno il costo quotidiano medio delle razioni era valutato 29

Gulag

copechi, il costo annuale dell'abbigliamento 34 rubli e 57 copechi. Si dichiarava che ciascun detenuto, includendo le spese mediche e di trasporto, costava 211 rubli e 67 copechi all'anno.72 Sebbene nel 1929 il campo avesse ancora un deficit di 1.600.000 rubli,73 con ogni probabilità perché l'OGPU rubava sulle entrate, il presunto successo economico delle Soloveckie veniva strombazzato ai quattro venti.

Ben presto tale successo divenne l'argomento centrale per ristrutturare l'intero sistema carcerario sovietico. Non importava a nessuno se per realizzarlo bisognava diminuire le razioni dei detenuti e peggiorare le loro condizioni di vita.74 Così come nessuno si preoccupava se il prezzo da pagare consisteva nel peggioramento dei rapporti con le autorità locali.

All'interno del Gulag, pochi avevano dubbi sulla persona cui andava attribuito il presunto successo. Tutti erano sicuri che fosse Frenkel' l'artefice della commercializzazione del sistema, e con altrettanta sicurezza lo odiavano per questo. Nel 1928, durante una riunione del Partito comunista delle Soloveckie, acrimoniosa al punto che alcuni stralci dei verbali furono dichiarati troppo segreti per conservarli negli archivi e non sono reperibili, un comandante, il compagno Jasenko, si lamentava per l'eccessiva influenza acquisita dal Dipartimento economico-commerciale dello SLON: "È tutto di sua competenza". Inoltre se la prendeva con Frenkel', "un ex prigioniero liberato dopo tre anni di lavoro perché all'epoca il campo non aveva abbastanza gente [guardie]". Frenkel' era diventato troppo importante, sosteneva Jasenko (dal cui linguaggio si desume una forte vena di antisemitismo): "quando ha cominciato a circolare la voce secondo cui forse se ne sarebbe andato, la gente diceva: "Non possiamo lavorare senza di lui"".

Jasenko confessò di odiare Frenkel' al punto di aver contemplato l'idea di assassinarlo. Altri chiesero perché Frenkel', un ex detenuto, venisse servito con priorità e avesse sconti sui prezzi nei negozi dello SLON, come se ne fosse il proprietario. Altri ancora affermarono che lo SLON si era talmente commercializzato da dimenticare altre sue funzioni: era stata interrotta qualsiasi attività di rieducazione e i detenuti dovevano sostenere ritmi di lavoro eccessivi. Quando si mutilavano per sottrarsi alle norme di produzione, non si indagava sui loro casi

Ma come lo SLON vinse la battaglia contro le autorità della Carelia Frenkel', forse in virtù dei suoi contatti con Mosca, la spuntò all'interno dello SLON riguardo al tipo di struttura da introdurre alte Soloveckie, al lavoro dei detenuti e al loro trattamento.

"// primo campo del Gulag" 65

Come ho già detto, probabilmente non fu Frenkel' a inventare il famigerato sistema del "mangi quanto lavori", in base al quale i detenuti ricevevano razioni alimentari corrispondenti alla loro produzione. Tuttavia sviluppò e fece prosperare il sistema, che da organizzazione abborracciata, in cui talvolta il lavoro veniva "pagato" con razioni alimentari supplementari, si trasformò in un metodo molto preciso e ben regolato di distribuzione di cibo e organizzazione dei prigionieri.

In realtà il sistema di Frenkel' era molto semplice. Divideva in tre gruppi i prigionieri dello SLON secondo le loro possibilità fisiche: quelli considerati capaci di lavori pesanti, quelli capaci di lavori leggeri e gli invalidi. Ogni gruppo aveva una serie di compiti diversi e un insieme di norme per svolgerli. I detenuti venivano alimentati in modo corrispondente alle mansioni, e tra le razioni previste c'erano differenze decisamente drastiche. In base a un progetto stilato tra il 1928 e il 1932, il primo gruppo aveva diritto a 800 grammi di pane e 80 di carne; il secondo a 500 grammi di pane e 40 di carne; il terzo a 400 grammi di pane e 40 di carne. In altre parole, l'ultima categoria riceveva la metà del cibo della prima.76

In pratica con questo sistema si stabiliva molto in fretta quali detenuti sarebbero sopravvissuti e quali erano destinati a morire. I prigionieri forti, relativamente ben nutriti, diventavano più forti. I prigionieri deboli, privati del cibo, diventavano più deboli e alla fine si ammalavano o morivano. Il processo si accelerava e diventava più radicale grazie al fatto che le norme di lavoro erano spesso molto alte, per certi prigionieri irrealizzabili, soprattutto per la gente di città, che non aveva mai svolto attività come estrarre la torba o tagliare gli alberi. Nel 1928 le autorità centrali punirono un gruppo di guardie dei campi perché avevano costretto 128 persone a lavorare nella foresta tutta la notte, durante l'inverno, per realizzare la norma. Un mese dopo, il 75 per cento di loro soffriva ancora di gravi congelamenti.77

Sotto Frenkel' cambiarono anche le attività svolte all'interno dello SLON: non gli interessavano quisquilie come l'allevamento di animali da pelliccia o la coltivazione di piante artiche esotiche. Mandava invece i prigionieri a costruire strade o abbattere alberi avvalendosi della forza lavoro gratuita e non specializzata di cui il sistema disponeva in abbondanza.78 La natura del lavoro cambiò rapidamente la natura del campo, o piuttosto dei campi, poiché lo SLON veva ormai cominciato a espandersi ben oltre l'arcipelago delle Soeckie. A Frenkel' non importava molto se i prigionieri venivano

tenuti in un'istituzione carceraria, in una prigione o dietro il filo spi-

Gulag

nato. Mandava squadre di lavoratori detenuti in tutta la repubblica della Carelia e nella regione di Arcangelo, sulla terraferma russa, a migliaia di chilometri dalle Soloveckie, ovunque fossero necessari79

Come un consulente di gestione che rileva una società in fallimento, Frenkel' "razionalizzò" altri aspetti della vita dei campi, eliminando a poco a poco tutto quello che non contribuiva alla produttività economica. Qualsiasi pretesa di rieducazione fu ben presto lasciata perdere. I detrattori di Frenkel' denunciarono il fatto che aveva chiuso i giornali e le riviste dei campi e interrotto le riunioni della Società etnografica delle Soloveckie. Il museo e il teatro continuavano a esistere, ma soltanto allo scopo di impressionare gli alti papaveri in visita.

Allo stesso tempo la crudeltà casuale cominciò a calare di livello. Nel 1930 la commissione Sanin, una delegazione speciale della OGPU, arrivò nell'isola per indagare su certe voci riguardo a maltrattamenti di prigionieri. Le loro relazioni confermarono le storie di pestaggi e torture eccessive sull'isola. Gli orientamenti precedenti subirono un mutamento radicale: la commissione condannò e giustiziò diciannove agenti dell'OGPU.80 Il loro comportamento era ormai considerato fuori luogo in un'organizzazione che dava valore prioritario alla trudosposobnost', la "capacità lavorativa".

Per finire, sotto la direzione di Frenkel' il concetto di "detenuto politico" cambiò definitivamente. Nell'autunno del 1925 le linee di demarcazione artificiali tracciate tra i condannati per reati comuni e i detenuti per reati controrivoluzionari scomparvero, e i due gruppi vennero mandati insieme in terraferma a lavorare nelle gigantesche industrie per il taglio e la lavorazione del legname della Carelia. Lo SLON non riconosceva più ad alcuni lo status di detenuti privilegiati, considerava tutti i prigionieri potenziale manodopera.81

I socialisti ospitati nelle baracche di Savvatievo costituivano un grosso problema. I politici socialisti non corrispondevano affatto all'idea dell'efficienza economica, poiché rifiutavano per principio di assoggettarsi al lavoro coatto in qualsiasi forma. Rifiutavano persino di tagliare la legna da ardere per uso personale. "Siamo stati condannati all'esilio amministrativo" dichiarò uno: "L'amministrazione deve provvedere a tutte la nostre necessità".82 Non sorprende che tale posizione cominciasse a ispirare risentimento nell'amministrazione del campo. Le loro infinite richieste irritarono soprattutto il comandante Nogtev, il quale nella primavera del 1923 aveva trattato di persona con i politici a Petrominsk, promettendo loro un regim6 più tollerante alle Soloveckie se avessero accettato di andarci senza

"Il primo campo del Gulag" 67

protestare. Si scontrò con loro su problemi come la libertà di movimento, la possibilità di accedere alle cure mediche e il diritto di corrispondere con il mondo esterno. Alla fine, il 19 dicembre 1923, al culmine di una discussione particolarmente aspra riguardo al coprifuoco dei prigionieri, i soldati di guardia alle baracche di Savvatievo aprirono il fuoco su un gruppo di politici uccidendone sei.

All'estero l'incidente fece scalpore. La Croce rossa politica fece passare clandestinamente cronache della sparatoria attraverso le frontiere. Comparvero articoli sulla stampa occidentale ancor prima che in Russia. Il flusso di telegrammi tra l'isola e la dirigenza del Partito comunista era intensissimo. All'inizio le autorità del campo difesero i soldati che avevano sparato, affermando che i prigionieri non avevano rispettato il coprifuoco e che prima di sparare i soldati avevano dato tre avvertimenti.

In seguito, nell'aprile 1924, pur senza ammettere in modo aperto che i soldati non avevano dato alcun preavviso, come sostenevano i detenuti, l'amministrazione dei campi fornì un'analisi più elaborata dell'accaduto. Il rapporto spiegava che i politici erano di una "classe diversa" da quella dei soldati incaricati di sorvegliarli. I prigionieri trascorrevano il loro tempo leggendo libri e giornali, mentre i soldati non ne disponevano. I prigionieri mangiavano pane bianco, burro e latte e i soldati non avevano nulla di tutto questo. Era una "situazione anomala", che aveva prodotto un naturale risentimento: i lavoratori provavano astio verso chi non lavorava, e quando i prigionieri avevano sfidato il coprifuoco si era verificato un inevitabile spargimento di sangue.83 Per confermare le proprie conclusioni, durante una riunione del comitato centrale del Partito a Mosca lesserò ad alta voce alcune lettere di prigionieri: "Mi sento bene, mangio bene ... non è necessario mandarmi abiti e cibo adesso". In altre descrivevano gli splendidi panorami.84 In seguito, quando alcune di queste missive furono pubblicate sulla stampa sovietica, i detenuti sostennero di avere descritto la situazione in modo così idilliaco soltanto per placare i timori dei loro familiari.85

il comitato centrale, indignato, entrò in azione. Una commissione

guidata da Lev Botyj, il dirigente della GPU responsabile dei campi

1 concentramento, condusse un'ispezione nei campi delle Soloveckie e nella prigione di transito di Kem'. Nell'ottobre 1924 su "Izestija" uscì una serie di articoli sull'argomento. "Chi crede che Soveckij sia una prigione deprimente, tetra, dove la gente se ne sta a perdere tempo in celle affollate, si sbaglia di grosso" scrisse N. Kraov- "Il campo è un'enorme organizzazione economica con 3000

Culag

lavoratori impegnati in attività produttive dei più diversi generi" Krasikov intesseva lodi riguardo all'industria e all'agricoltura di Soloveckij, e proseguiva descrivendo la vita nelle baracche socialiste di Savvatievo:

Conducono un'esistenza che può essere definita anarco-intellettuale in tutte le peggiori accezioni. Ozio perenne, tedioso argomentare su divergenze politiche, litigi di famiglia, dispute di fazione, soprattutto un atteggiamento aggressivo e ostile verso il governo in generale, verso l'amministrazione locale in particolare, e soprattutto contro le guardie dell'Armata rossa ... da rutti questi elementi messi insieme consegue l'ostilità di queste trecento persone e rotti a qualsiasi provvedimento o a qualsiasi tentativo delle autorità locali di dare regola e organizzazione alla loro vita.86

Su un'altra rivista le autorità sovietiche sostenevano che i prigionieri socialisti godevano di razioni migliori di quelle dell'Armata rossa. Erano inoltre liberi di vedere i parenti, altrimenti come avrebbero potuto far uscire di nascosto le informazioni? Avevano grande disponibilità di medici, più che nei normali villaggi di liberi lavoratori. Nell'articolo si sosteneva inoltre, con tono beffardo, che i politici pretendevano "farmaci esclusivi, rari e costosi", capsule e ponti d'oro per i denti.87

Era l'inizio della fine. Il comitato centrale, dopo aver discusso a lungo e respinto l'idea di esiliare all'estero i politici - per timore dell'impatto che avrebbe provocato tale provvedimento sui socialisti occidentali e, per qualche oscuro motivo, soprattutto sul Partito laburista britannico - prese la sua decisione.88 All'alba del 17 giugno 1925 i soldati circondarono il monastero di Savvatievo. Concessero ai prigionieri due ore per fare i bagagli, poi li scortarono fino al porto, li costrinsero a salire sulle barche e li inviarono in remote prigioni nella Russia centrale - a Tobol'sk, nella Siberia occidentale, e a Verhneural'sk, negli Urali - dove la situazione era assai peggiore che a Savvatievo.89 Un prigioniero descrive

celle chiuse in cui l'aria è avvelenata dal puzzo stantio, fetido, del bagno; i politici isolati uno dall'altro ... le nostre razioni sono peggiori che a Soloveckij. L'amministrazione della prigione non vuole riconoscere il nostro starosta (capo del gruppo). Non c'è né infermeria né assistenza sanitaria. La prigione ha due piani: le celle del pianterreno sono umide e buie. Vi tengono i compagni malati, alcuni dei quali sono tubercolotici.90

Anche se i socialisti continuavano a lottare per i loro diritti, a inviare lettere all'estero, a mandarsi messaggi in codice battendo sui muri della prigione e a inscenare scioperi della fame, la propaganda bolscevica stava soffocando le loro proteste. A Berlino, Parigi e

"Il primo campo del Gulag" 69

Y rk le vecchie società di assistenza ai prigionieri cominciarono a incontrare maggiori difficoltà nelle collette.91 "Quando si sono verificati i fatti del 19 dicembre" scriveva un detenuto a un amico all'estero parlando dell'uccisione dei 6 prigionieri avvenuta nel 1923, "ci è sembrato, soggettivamente, che il mondo, il nostro mondo socialista "ne sarebbe rimasto sconvolto". Invece, a quanto pare, non si è accorto di quanto è accaduto a Soloveckij e quindi la tragedia è stata coperta da uno scroscio di risate."92

Alla fine degli anni Venti i politici socialisti non avevano più una posizione privilegiata. Condividevano le loro celle con i bolscevichi, i trockisti e i criminali comuni. Dieci anni dopo i politici, o meglio i "controrivoluzionari", non erano più considerati prigionieri privilegiati, ma di rango inferiore, classificati a un gradino più basso dei criminali comuni nella gerarchia dei campi. Non erano più cittadini con quei diritti per cui avevano lottato, ma interessavano i loro carcerieri solo se potevano produrre. Venivano nutriti abbastanza per sopravvivere soltanto se erano abili al lavoro.

m

1929, LA GRANDE SVOLTA

Quando i bolscevichi sono arrivati al potere, erano teneri e permissivi con i loro nemici ... avevamo cominciato con un grande errore. La tolleranza verso quel tipo di potere era un crimine contro le classi lavoratrici. Ben presto divenne evidente...

IOSIF STALIN1

II 20 giugno 1929 la nave Gleb Bokij attraccò nel piccolo porticciolo sotto la fortezza di Soloveckij. I detenuti osservarono la scena dall'alto con grande aspettativa. Invece dei deportati silenziosi e sparuti che di solito sbarcavano dalla Gleb Bokij, scese un gruppo di uomini sani ed energici e una donna, che parlavano e gesticolavano mentre raggiungevano la riva. Nelle fotografie scattate quel giorno, a quanto pare, la maggior parte dei visitatori indossava l'uniforme: tra gli altri c'erano molti importanti Sekisti, tra cui lo stesso Gleb Bokij. Uno di loro, più alto degli altri e con grandi baffi, era vestito in modo più semplice, con un berretto floscio da operaio e un soprabito semplice. Era il romanziere Maksim Gor'kij.

Dmitrij Lihacev era tra i prigionieri che osservavano dalla finestra, e ricordava anche alcuni altri passeggeri: "... era ben visibile l'altura su cui [Gor'kij] rimase a lungo, in piedi, affiancato da una strana figura di donna in giaccone, pantaloni a sbuffo infilati negli stivali e berretto a visiera, tutto di cuoio. Si scoprì che era la nuora (la moglie del figlio Maksim). Era vestita da autentica cekista (secondo lei)". Poi '' gruppo salì su una carrozza del monastero, tirata da "un cavallo che Dio sa da dove era spuntato" e andò a visitare l'isola.2

Come Lihacev sapeva bene, Gor'kij non era un comune visitatore. In quel momento della sua vita era il figliol prodigo più elogiato e più esaltato dai bolscevichi. Pur essendo un socialista impegnato, un

1929, la grande svolta 71

mP° intinto di Lenin, si era opposto al colpo di Stato del 1917. In discorsi e articoli successivi aveva continuato a denunciare con grande veemenza il colpo di Stato e il conseguente terrore, parlando della "politica folle" di Lenin e della "fogna" che era diventata Pie-trogrado. Nel 1921, infine, era emigrato alla volta di Sorrento, da dove in un primo tempo aveva continuato a mandare messaggi critici e lettere adirate ai suoi amici in patria.

Nel corso del tempo aveva cambiato tono, al punto che nel 1928 si era deciso a tornare, per ragioni non del tutto chiare. Solzenicyn afferma, in modo un po' meschino, che tornò perché in Occidente non era diventato famoso come si aspettava e, semplicemente, aveva finito i soldi. Orlando Figes osserva che in esilio era molto infelice, e non tollerava la compagnia di altri emigrati russi, per la maggior parte anticomunisti assai più fanatici di lui.3 Qualsiasi fossero le sue motivazioni, una volta deciso di rientrare si dimostrò determinato ad aiutare il più possibile il regime sovietico. Intraprese quasi subito una serie di viaggi trionfali in rutta l'Unione Sovietica e incluse deliberatamente le isole Soloveckie nel suo itinerario. Si interessava alle prigioni fin dai tempi delle sue esperienze giovanili come delinquente.

Molti autori di memorie citano l'episodio della visita di Gor'kij alle Soloveckie, e sono tutti concordi riguardo al fatto che erano stati fatti in anticipo complessi preparativi. Alcuni ricordano che per l'occasione le regole del campo erano cambiate, che ai mariti era stato concesso di vedere le mogli, forse per dare l'impressione di un clima generale più allegro.4 Lihacev scrive che intorno alla colonia di lavoro furono piantati alberi già adulti per farla apparire meno squallida e che alcuni prigionieri erano stati trasferiti dalle baracche per farle sembrare meno affollate. Ma i memorialisti non concordano su come si comportò davvero Gor'kij al suo arrivo. Secondo Lihacev, lo scrittore si accorse di tutti gli sforzi fatti per ingannarlo. Mentre gli veniva mostrato l'ospedale, dove tutto il personale indossava camici nuovi, arricciò il naso. "Non mi piacciono le parate" disse e se ne andò. Nella colonia di lavoro si fermò solo dieci minuti, e poi si appartò con un prigioniero quattordicenne per apprendere la "verità". Uscì quaranta minuti dopo, in lacrime.5

A parere di Oleg Volkov, invece, che all'epoca della visita di Gor'kij

81 trovava a Soloveckij, lo scrittore "guardò soltanto dove gli diceva-

0 "i guardare".6 E sebbene l'episodio del ragazzine quattordicenne

a riferito anche altrove, secondo una versione lo fucilarono subito

PO la partenza di Gor'kij; secondo altri, invece, tutti i prigionieri tentarono di avvicinare lo scrittore furono respinti.7 Pare certo

Gulag

però che le lettere scritte in seguito a Gor'kij dai prigionieri furono intercettate e, secondo una fonte, almeno uno degli scriventi venne giustiziato.8 V.E. Kanen, un ex agente dell'OGPU in disgrazia finito nei campi, arriva al punto di dichiarare che Gor'kij visitò le celle di punizione di Sekirka, dove firmò il registro della prigione. Un dirigente della OGPU di Mosca che si trovava insieme a Gor'kij scrisse: "Durante la visita a Sekirka ho trovato tutto in ordine, proprio come doveva essere". A quanto afferma Kanen, sotto la sua osservazione Gor'kij aggiunse un commento: "Eccellente, direi".9

Ma anche se non possiamo avere certezze su quanto Gor'kij fece o vide davvero sull'isola, possiamo leggere il suo successivo saggio, composto in forma di diario di viaggio, in cui esalta le bellezze naturali delle Soloveckie e descrive gli edifici pittoreschi e i loro pittoreschi abitanti. Durante il viaggio in barca per arrivare all'isola conosce persino alcuni anziani monaci di Soloveckij. "Come vi tratta l'amministrazione?" chiede loro. "L'amministrazione vuole che tutti lavorino. E noi lavoriamo" gli rispondono.10

Gor'kij descrive anche, con ammirazione, le condizioni di vita, con lo scopo palese di far capire ai lettori che i campi di lavoro sovietici non equivalgono affatto ai campi di lavoro capitalistici (o a quelli dell'epoca zarista), ma sono un tipo di istituzione completamente nuovo. In alcune delle stanze, racconta, ha visto "quattro o sei letti, ciascuno ornato di oggetti personali... Ci sono fiori sui davanzali. Non si ha l'impressione che la vita sia sottoposta a regole troppo rigide. E non somiglia affatto a una prigione, anzi sembra che le stanze siano abitate da passeggeri tratti in salvo da una nave naufragata".

Nei luoghi di lavoro incontra "tipi sani" con camicie di lino e scarponi robusti. Vede pochi prigionieri politici, e quando accade li liquida come "controrivoluzionari, tipi emotivi, monarchici". Quando gli dicono di essere stati arrestati ingiustamente, ritiene che stiano mentendo. A un certo punto sembra far cenno al leggendario incontro con il ragazzo di quattordici anni. Durante la visita a un gruppo di giovani delinquenti, scrive, uno gli porta un biglietto di protesta. Gli altri reagiscono con "alte grida" e chiamano il giovane "delatore".

Ma non dipendeva solo dalle condizioni di vita se Gor'kij parlava delle Soloveckie come di un nuovo tipo di campo. I detenuti, i "passeggeri tratti in salvo" oltre a essere sani e contenti, svolgevano anche una funzione essenziale in un grande esperimento: la trasformazione di persone con tendenze criminali e asociali in utili cittadini sovietici. Gor'kij riprendeva l'idea di Dzerzinskij secondo cui i cam-

2929, la grande svolta

pi non dovevano essere solo dei penitenziari, ma "scuole di lavoro" finalizzate soprattutto a forgiare il tipo di operai richiesto dal nuovo sistema sovietico. A parere suo, l'esperimento si poneva come scopo ultimo l'"abolizione delle prigioni", e stava ottenendo dei successi. "Se una società europea cosiddetta colta osasse effettuare un esperimento come questa colonia" concludeva Gor'kij "e se questo esperimento desse dei frutti come ha fatto il nostro, tale paese darebbe fiato a tutte le sue trombe per vantarsi dei propri successi". Solo la "modestia" dei dirigenti sovietici, concludeva, aveva impedito loro di farlo prima.

In seguito, a quanto pare, Gor'kij disse che nemmeno una sola frase del suo saggio sulle Soloveckie era stata lasciata "intatta dalla penna dei censori". In realtà non sappiamo se quanto ha scritto deve essere imputato a ingenuità, a un desiderio calcolato di mistificare la realtà o alle imposizioni della censura.11 Quali che fossero le sue motivazioni, il saggio di Gor'kij del 1929 sulle Soloveckie sarebbe diventato una base essenziale per la costituzione dell'atteggiamento pubblico e ufficiale verso il nuovo e assai più esteso sistema di campi concepito quell'anno. In precedenza la propaganda bolscevica difendeva la violenza rivoluzionaria come una necessità, un male temporaneo, una forza purificatrice transitoria. Gor'kij, invece, faceva apparire la violenza istituzionale dei campi delle Soloveckie come una componente logica e naturale del nuovo ordine, e contribuì a riconciliare il pubblico con l'espandersi del potere totalitario dello Stato.12

In seguito risultò che il 1929 sarebbe stato ricordato per molte altre cose, a parte il saggio di Gor'kij. Quell'anno la rivoluzione giunse a maturità. Erano trascorsi quasi dieci anni dalla fine della guerra civile. Lenin era morto da tempo. Si erano effettuati e abbandonati esperimenti economici di vario tipo: la Nuova politica economica, il "comunismo di guerra". Proprio come lo sgangherato campo di concentramento delle isole Soloveckie si era sviluppato, diventando un sistema complesso, lo SLON, anche il terrore casuale dei primi anni dell'Unione Sovietica si era evoluto, dando origine a una persecuzione più sistematica degli elementi percepiti come ostili dal regime.

Nel 1929 la rivoluzione aveva anche acquisito un nuovo leader, diverso dal suo predecessore. Nel corso degli anni Venti, Iosif Stalin aveva sgominato o eliminato prima gli avversar! dei bolscevichi e poi i propri nemici personali, in parte assumendosi l'onere delle decisioni relative al personale del Partito, e in parte facendo ampio uso di informazioni riservate raccolte per lui dalla polizia segreta, di cui

Gulag

si interessava molto. Avviò una serie di epurazioni all'interno del Partito, espellendo per prima cosa gli iscritti, e fece in modo che venissero pubblicizzate con toni emotivi e recriminatori in comizi di massa. Nel 1937 e nel 1938 le epurazioni diventarono letali: all'espulsione dal Partito spesso seguiva una condanna ai campi di lavoro o la morte.

Stalin aveva dimostrato notevole astuzia, riuscendo a sbarazzarsi del suo più importante avversario nella lotta per il potere, Lev Trockij, prima screditandolo, poi esiliandolo su un'isola al largo della costa della Turchia e poi servendosene per creare un precedente. Quando Jakov Bljumkin, agente dell'OGPU e fervente sostenitore di Trockij, andò a trovare il proprio idolo nel luogo d'esilio turco e tornò con un messaggio del fondatore dell'Armata rossa per i suoi sostenitori, Stalin lo fece condannare e giustiziare. In questo modo sancì la determinazione dello Stato di avvalersi di tutta la forza dei suoi organi repressivi non soltanto contro i membri di altri partiti socialisti, ma anche contro i dissidenti all'interno del Partito bolscevico.13

Ma nel 1929 Stalin non era ancora il dittatore che sarebbe diventato dieci anni dopo. A voler essere più precisi, si può dire che quell'anno mise a punto la linea politica con cui avrebbe posto definitivamente al sicuro il suo potere, trasformando nello stesso tempo l'economia e la società sovietica fino a renderle irriconoscibili. Gli storici occidentali hanno attribuito diversi nomi a questa politica: "rivoluzione dall'alto" o "rivoluzione staliniana". Quanto a Stalin, la chiamava "la grande svolta".

Al fulcro della rivoluzione di Stalin c'era un nuovo programma di industrializzazione di una rapidità estrema, quasi isterica. All'epoca, la Rivoluzione sovietica non aveva ancora prodotto autentici miglioramenti materiali nella vita della maggior parte della popolazione. Anzi, gli anni della rivoluzione, della guerra civile e della sperimentazione economica avevano provocato un forte impoverimento. Ora Stalin, forse avvertendo il crescente malcontento popolare, si accingeva a cambiare in modo radicale le condizioni di vita della gente comune.

A questo scopo nel 1929 il governo sovietico approvò un nuovo "piano quinquennale", un programma economico che prevedeva un incremento annuale del venti per cento della produzione industriale. Fu reintrodotto il razionamento alimentare. Per un certo periodo venne abbandonata la settimana di sette giorni, cinque lavorativi e due di vacanza. I lavoratori si riposavano a turno, in modo da evitare la chiusura delle fabbriche. Nei progetti di alta priorità non erano

1929, la grande svolta  75

inconsueti turni di trenta ore, e alcuni lavoratori restavano in servizio per una media di trecento ore al mese.14 Lo spirito del tempo, imposto dall'alto ma adottato con entusiasmo dal basso, consisteva nella corsa al primo posto: i proprietari delle fabbriche e i burocrati, gli operai e gli impiegati, rivaleggiavano tra loro per realizzare il piano, per ottenere risultati superiori a quelli richiesti o almeno per proporre sistemi nuovi e più veloci intesi a superare la produzione prevista. Nello stesso tempo, nessuno era autorizzato a dubitare della saggezza del piano. Questo valeva ai massimi livelli: i dirigenti di Partito che mettevano in discussione il valore dell'industrializzazione forzata non rimanevano in carica a lungo. Valeva anche ai gradini più bassi. Un sopravvissuto dell'epoca ricordava di quando, all'asilo, marciava in tondo con una bandierina, cantando

Cinque in quattro Cinque in quattro Cinque in quattro E non in cinque!

Purtroppo, non capiva affatto il significato della frase, cioè che il piano quinquennale andava realizzato in quattro anni.15

Come accadeva regolarmente con tutte le principali iniziative so-vietiche, l'avvio dell'industrializzazione di massa creò categorie del tutto nuove di delinquenti. Nel 1926 il Codice penale sovietico era stato riformato, tra l'altro con l'ampliamento dell'articolo 58, relativo ai "reati controrivoluzionari". L'articolo, prima costituito da un paio di paragrafi appena, ora conteneva diciotto commi, e la OGPU li utilizzava tutti, soprattutto per arrestare i tecnici specializzati.16 Com'era prevedibile, non si poteva reggere un ritmo di cambiamento così rapido. La tecnologia rudimentale, applicata troppo in fretta, produceva errori. La colpa andava imputata a qualcuno. Da qui l'arresto di "disorganizzatori" e "sabotatori", le cui perfide trame impedivano all'economia sovietica di tener fede alla propaganda. Alcuni dei primi processi farsa, il processo di Sahty del 1928 o il processo del Partito industriale del 1930, in realtà riguardarono intellettuali specializzati in ingegneria o in altre branche tecniche. Lo stesso dicasi per il processo Metro-Vickers del 1933, che suscitò molta attenzione all'estero perché, oltre ai russi, vi erano coinvolti dei cittadini britannici, tutti accusati di "spionaggio e sabotaggio" in favore della Gran Bretagna.17

Si trovò comunque anche un'altra fonte da cui attingere prigionieri- Infatti nel 1929 il regime sovietico accelerò il processo di collettivizzazione forzata nelle campagne, un cambiamento radicale, da certi

Gulag

punti di vista più profondo della stessa Rivoluzione d'ottobre. In un arco di tempo limitatissimo, i commissari rurali costrinsero milioni di contadini a cedere le loro piccole tenute e a entrare in aziende agricole collettive, spesso espellendoli dalle terre che le loro famiglie coltivavano da secoli. La trasformazione indebolì in modo permanente l'agricoltura sovietica, e creò le condizioni per le terribili, devastanti carestie del 1932 e del 1934, in Ucraina e in Russia meridionale, carestie in cui perirono 6-7 milioni di persone.18 Inoltre la collettivizzazione distrusse per sempre il senso di continuità con il passato della Russia rurale.

Furono in milioni a opporsi alla collettivizzazione, nascondendo il grano in cantina e rifiutando di collaborare con le autorità. Li etichettavano come kulaki, cioè contadini ricchi, un termine talmente vago - come "disorganizzatore" - che nessuno riusciva a darne una definizione precisa. Il possesso di una mucca in più, di una stanza da letto in più, o l'accusa di un vicino geloso, bastavano a far condannare contadini la cui povertà era evidente. Per infrangere la resistenza dei kulaki, il regime ripristinò l'antica tradizione zarista del confino amministrativo. Da un giorno all'altro arrivavano in un villaggio camion e vagoni, e portavano via famiglie intere. Alcuni kulaki venivano fucilati, altri rinchiusi nei campi a scontare la pena. Ma in fin dei conti il regime ne deportava la maggior parte. Tra il 1930 e il 1933 furono confinati in Siberia, in Kazakistan e in altre zone a bassa densità demografica dell'Unione Sovietica oltre 2 milioni di kulaki, che vi trascorsero il resto della vita come "confinati speciali", con la proibizione di abbandonare il villaggio di destinazione. Altri 100.000 vennero arrestati e inviati nel Gulag.19

Mentre dilagava la carestia, favorita dalla scarsità di precipitazioni, vi furono altri arresti. Tutto il grano disponibile veniva portato via dai villaggi, e rifiutato in modo deliberato ai kulaki. Finiva in prigione anche chi veniva colto a rubarne piccole quantità, magari per nutrire i figli. Una legge del 7 agosto 1932 prevedeva la pena di morte o una lunga condanna detentiva per tutti i "reati contro la proprietà di Stato" di questo tipo. Poco dopo fu la volta delle "spigolatrici", contadine che per sopravvivere raccoglievano il grano rimasto nei campi dopo la mietitura. Poi arrivarono altri, gente affamata condannata a dieci anni per aver rubato mezzo chilo di patate o qualche mela.20 Tali leggi spiegano perché, per tutti gli anni Trenta, i contadini costituirono la stragrande maggioranza dei detenuti dei campi di prigionia sovietici, e perché, fino alla morte di Stalin, rimasero la principale componente della popolazione carceraria.

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Gli arresti di massa ebbero un impatto enorme sul sistema concentrazionario. Quasi subito dopo l'entrata in vigore di queste leggi, gli amministratori dei campi di prigionia cominciarono a chiedere una revisione rapida e radicale dell'intero sistema. Per tutto il decennio precedente il sistema carcerario "ordinario", ancora diretto dal commissariato dell'Interno (e ancora assai più vasto delle Soloveckie, di competenza della OGPU), aveva continuato a essere sovraffollato, disorganizzato e in deficit. La situazione su scala nazionale era così grave che a un certo punto il commissariato dell'Interno tentò di ridurre il numero dei detenuti condannandone di più ai "lavori forzati senza privazione della libertà", destinandoli cioè a lavorare ma senza essere rinchiusi, per alleviare la pressione nei campi.21

Tuttavia, mentre il ritmo della collettivizzazione e la stretta della repressione aumentavano in modo vertiginoso, mentre milioni di ku-laki venivano sradicati dai luoghi d'origine, tali soluzioni cominciarono ad apparire inopportune dal punto di vista politico. Anche questa volta, le autorità stabilirono che per i pericolosi criminali, nemici del grande sforzo staliniano mirato alla collettivizzazione, ci voleva una forma di detenzione più sicura: la OGPU cominciò a progettarla.

Consapevole che l'aumento dei prigionieri accelerava il deterioramento del sistema carcerario, nel 1928 il Politbjuro del Partito comunista istituì una commissione per affrontare il problema. Ufficialmente la commissione era neutrale, e oltre alla OGPU ne facevano parte rappresentanti dei commissariati della Giustizia e dell'Interno. Fu nominato a dirigerla il compagno Nikolaj Janson, commissario alla Giustizia. La commissione aveva il compito di creare un "sistema di campi di concentramento organizzati in modo analogo ai campi della OGPU" e le sue deliberazioni riguardavano un ambito ben determinato. Nonostante il lirismo usato da Maksim Gor'kij per esaltare il valore del lavoro nella riabilitazione dei criminali, tutti i membri della commissione parlavano un linguaggio di forte impronta economica. Tutti esprimevano le stesse preoccupazioni riguardo alla "capacità di produrre reddito" e spesso discutevano di un "impiego razionale del lavoro".22

Certo, il verbale stilato dopo la riunione della commissione del 15 faggio 1929 registra poche obiezioni pratiche alla creazione di un sistema massiccio di campi: sarebbe stato difficile allestirlo, non c'erano strade che arrivassero all'estremo nord eccetera. Secondo il commissario del Lavoro era sbagliato comminare ai piccoli criminali le stesse pene dei recidivi. Il commissario dell'Interno Tolmacev os-

Gulag

servò che il sistema avrebbe fatto una cattiva impressione all'estero: gli "emigrati della Guardia bianca" e la stampa borghese straniera avrebbero affermato che "invece di allestire un sistema penitenziario mirato a riabilitare i prigionieri per mezzo del lavoro collettivo, abbiamo edificato una fortezza cekista".23

Ma la sua obiezione riguardava il fatto che il sistema appariva sbagliato, non che lo era. Nessuno dei presenti trovò nulla da ridire riguardo al fatto che i campi "modello Soloveckie" erano crudeli o letali. E nessuno fece cenno alle teorie della giustizia penale alternative di cui un tempo Lenin era tanto entusiasta, l'idea che il crimine sarebbe scomparso insieme al capitalismo. Certo nessuno parlava di rieducazione dei prigionieri, della "trasformazione della natura umana" elogiata da Gor'kij nel suo saggio sulle Soloveckie, tanto importante nella presentazione pubblica del primo complesso di campi. Invece Genrih Jagoda, rappresentante della OGPU nel comitato, spiegò con molta chiarezza i veri interessi del regime:

È già possibile e assolutamente necessario trasferire diecimila prigionieri dagli attuali luoghi di confino nella Repubblica russa, per organizzarne e sfruttarne meglio il lavoro. A parte questo, abbiamo ricevuto notizia che campi e carceri stanno straripando anche nella Repubblica ucraina. È ovvio che la politica sovietica non consente la costruzione di nuove prigioni. Nessuno stanzierà fondi per nuove prigioni. La costruzione di grandi campi invece, campi in cui il lavoro verrà sfruttato in modo razionale, è un'altra questione. Abbiamo grandi difficoltà ad attrarre i lavoratori nel nord. Se ci mandiamo molte migliaia di prigionieri, potremo sfruttare le risorse del nord ... l'esperienza delle Soloveckie dimostra che cosa si può fare in quella zona.

Jagoda proseguiva spiegando che la deportazione sarebbe stata permanente. Dopo il rilascio, i prigionieri dovevano essere trattenuti: "con una serie di provvedimenti di carattere amministrativo ed economico possiamo convincere i prigionieri liberati a rimanere nel nord, popolando così le nostre regioni più lontane".24

L'idea che i prigionieri diventassero dei coloni, così simile al modello zarista, non fu dovuta a una riflessione successiva. Mentre la commissione Janson deliberava, un altro comitato del governo sovietico aveva cominciato a indagare sulla crisi lavorativa nell'estremo nord, e a proporre varie soluzioni, come mandare i disoccupati o gli immigrati cinesi a risolvere la situazione.25 Entrambe le commissioni cercavano soluzioni allo stesso problema nello stesso momento, e la cosa non deve sorprendere. Per realizzare il piano quinquennale di Stalin, l'Unione Sovietica aveva bisogno di enormi quantità di carbone, gas, petrolio e legname, tutte materie prime disponibili in Siberia,

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Kazakistan e nell'estremo nord. Il paese, inoltre, necessitava d'oro per acquistare all'estero nuovi macchinari, e i geologi ne avevano trovato di recente nella remota regione nordorientale della Kolyma. Nonostante le temperature rigidis 747d38h sime, le condizioni di vita primitive e l'inaccessibilità dei luoghi, tali risorse andavano sfruttate a velocità da capogiro.

Nello spirito di feroce competizione imperante all'epoca tra i ministeri, in un primo momento Janson propose che il suo commissariato assumesse il controllo del sistema e allestisse una serie di campi per il taglio del legname, in modo da aumentare l'esportazione, un'importante fonte di valuta straniera. Il progetto fu accantonato, forse perché non tutti desideravano che lo gestissero il compagno Janson e la sua burocrazia di legulei. Anzi, nella primavera del 1929, quando il progetto fu d'un tratto rispolverato, le conclusioni della commissione Janson in certa misura erano cambiate. Il 13 aprile 1929 la commissione propose di istituire un sistema di campi nuovo, unitario, eliminando la distinzione tra campi "ordinari" e "speciali". Ancora più significativa è la decisione della commissione di porlo sotto il controllo diretto della OGPU.26

Quest'ultima assunse il controllo dei prigionieri dell'Unione Sovietica con straordinaria rapidità. Nel dicembre 1927 il Dipartimento speciale della OGPU controllava 30.000 detenuti, circa il dieci per cento della popolazione carceraria, soprattutto nei campi delle Solo-veckie. Dava lavoro a non più di mille persone, con un bilancio che non eccedeva lo 0,05 per cento della spesa statale. Invece il sistema carcerario del commissariato dell'Interno comprendeva 150.000 detenuti e assorbiva lo 0,25 per cento del bilancio statale. Tra il 1928 e il 1930 tuttavia la situazione si invertì. Mentre altre istituzioni governative a poco a poco cedevano i loro detenuti, le carceri, i campi e le strutture industriali a essi annesse, il numero di prigionieri sotto la giurisdizione della OGPU salì da 30.000 a 300.000.27 Nel 1931 la polizia segreta assunse anche il controllo dei milioni di "confinati speciali", per la maggior parte kulaki deportati, che in realtà erano ai lavori forzati, poiché non potevano lasciare il luogo di destinazione prescritto e il posto di lavoro, pena la morte o l'arresto.28 Verso la metà degli anni Trenta la OGPU controllava ormai tutta l'immensa forza lavoro di detenuti dell'Unione Sovietica.

Per far fronte alle nuove responsabilità, l'OGPU riorganizzò il suo Dipartimento speciale per i campi e lo ribattezzò Amministrazione generale dei campi di lavoro correzionale e degli insediamenti lavorativi. Alla fine questa designazione poco maneggevole fu abbrevia-

Gulag

ta in Amministrazione generale dei campi, in russo Glavnoe Upravlenie Lagerej. Da qui l'acronimo con cui divenne noto il dipartimento, e poi il sistema stesso: Gulag.29

I detenuti e gli storici dei campi di concentramento sovietici di massa fin dall'inizio hanno discusso riguardo ai motivi per cui erano stati creati. Erano spuntati per caso, come effetto collaterale della collettivizzazione, dell'industrializzazione e di altri processi in corso nel paese? O Stalin aveva programmato con cura la nascita del Gulag, progettando in anticipo di arrestare milioni di persone?

In passato alcuni studiosi hanno affermato che alla base dell'istituzione dei campi non c'era un progetto globale. Uno storico, James Harris, ha sostenuto che furono i dirigenti locali, e non i burocrati moscoviti, a dare l'impulso per la costruzione dei nuovi campi nella regione degli Urali. Le autorità degli Urali, costrette da un lato a soddisfare le richieste impossibili del piano quinquennale e dall'altro a far fronte alla gravissima carenza di manodopera, accelerarono il ritmo e la ferocia della collettivizzazione per quadrare il cerchio: ogni volta che strappavano un kulak dalla sua terra, creavano un altro lavoratore coatto.30 Un altro storico, Michael Jakobson, seguendo un ragionamento analogo, ritiene che le origini del sistema carcerario di massa sovietico siano state "banali": "I burocrati perseguivano obiettivi irrealizzabili di autosufficienza delle carceri e rieducazione dei detenuti. I funzionari cercavano manodopera e fondi, espandevano la rete della burocrazia e cercavano di realizzare obiettivi impossibili. Amministratori e secondini applicavano con scrupolo norme e regolamenti. I teorici giustificavano e spiegavano. Alla fine tutto veniva stravolto, modificato o abbandonato".31

In effetti non sorprenderebbe se il Gulag fosse nato per caso. All'inizio degli anni Trenta, i dirigenti sovietici e soprattutto Stalin cambiavano di continuo impostazione, adottavano una linea politica e poi la stravolgevano, quindi facevano dichiarazioni pubbliche studiate apposta per nascondere la realtà. Non è facile, quando si legge la storia di quel periodo, individuare un diabolico piano generale messo a punto da Stalin o da chiunque altro.32 Per esempio, fu Stalin stesso a lanciare la collettivizzazione, ma poi, nel marzo 1930, almeno in apparenza cambiò opinione, e se la prese con i funzionari rurali troppo zelanti cui "il successo aveva dato alla testa". Qualunque cosa volesse dire, nella pratica ebbe scarsi risultati, e lo sterminio dei kulaki continuò per anni senza battute d'arresto.

Inoltre, pare che all'inizio i burocrati della OGPU e la polizia segre-

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ta da cui fu progettata l'espansione del Gulag non avessero idee molto chiare riguardo ai loro obiettivi finali. Anche la commissione Janson prendeva delle decisioni e poi le stravolgeva. Inoltre la OGPU seguiva una linea politica in apparenza contraddittoria. Per esempio, nel corso di tutti gli anni Trenta, continuò a concedere frequenti amnistie per ovviare al sovraffollamento delle prigioni e dei campi. Alle amnistie seguivano sempre nuove ondate di repressione, e la costruzione di nuovi campi, come se Stalin e i suoi scagnozzi non sapessero mai con certezza se volevano lo sviluppo del sistema o no, o se diverse persone dessero ordini contrastanti in momenti diversi.

Nello stesso modo il sistema dei campi attraversò molti cicli: ora più repressivo, ora meno, ora di nuovo repressivo. Persine dopo il 1929, quando i campi erano impostati ormai secondo precisi criteri di efficienza economica, nel sistema permanevano alcune anomalie. Ancora nel 1937, per esempio, molti prigionieri politici erano rinchiusi in carcere con l'esplicito divieto di lavorare, un fatto apparentemente in contraddizione con la tendenza generale all'efficienza.33 E poi certi cambiamenti di carattere burocratico non erano troppo importanti. Infatti, negli anni Trenta cadde la distinzione ufficiale tra campi della polizia segreta e campi della polizia normale, ma continuò a persistere la differenza tra i "campi", destinati in linea di principio a criminali pericolosi e politici, e le "colonie", per piccoli delinquenti con condanne più brevi. Tuttavia, nella pratica in campi e colonie l'organizzazione del lavoro, l'alimentazione e la vita quotidiana erano molto simili.

Eppure, oggi un numero sempre crescente di studiosi ritiene che Stalin, pur senza avere elaborato un progetto preciso, nutrisse comunque un'incrollabile fiducia riguardo agli enormi vantaggi del lavoro dei prigionieri, e abbia continuato a nutrirla fino alla fine dei suoi giorni. Perché?

Alcuni, come Ivan Cuhin, ex agente dei servizi segreti e studioso di storia delle origini del sistema dei campi, ritengono che Stalin all'inizio abbia appoggiato il progetto molto ambizioso dei campi per consolidare il proprio prestigio. In quell'epoca, dopo una lunga e aspra lotta per il potere, non era ancora un leader affermato nel paese. Forse ritenne che nuove imprese industriali, realizzate con l'aiuto del lavoro coatto dei prigionieri, lo avrebbero aiutato a mantenere la sua posizione.34

Forse Stalin fu anche ispirato da un precedente storico più antico. Robert Tucker, fra gli altri, ha dato ampie dimostrazioni del suo interesse ossessivo per Pietro il Grande, un altro governante russo che

Gulag

ricorse in modo massiccio al lavoro di servi della gleba e prigionieri per realizzare imponenti edifici e grandiose opere di ingegneria. In un discorso al Plenum del comitato centrale pronunciato nel 1928 proprio quando stava preparandosi a lanciare il suo progetto industriale, Stalin osservò ammirato:

Quando Pietro il Grande, che aveva relazioni commerciali con i paesi più avanzati dell'Occidente, edificò a ritmo febbrile fabbriche e industrie per fornire l'esercito e potenziare le difese del paese, la sua fu un'impresa eccezionale per superare d'un balzo i limiti della sua arretratezza.35

Le parole che ho voluto sottolineare con il corsivo esprimono il rapporto della "grande svolta" di Stalin con la politica del suo predecessore settecentesco. Nella tradizione storica russa, Pietro è ricordato come un governante grande e crudele, e queste due caratteristiche non sono considerate in contraddizione. In fondo, nessuno ricorda quanti servi della gleba morirono durante la costruzione di San Pietroburgo, ma tutti ammirano la bellezza della città. Forse anche Stalin ammirava il suo esempio.

Tuttavia, l'interesse di Stalin per i campi di concentramento non ebbe certo origini razionali: forse la sua passione ossessiva per i grandi progetti edilizi e le squadre di lavoratori coatti in qualche modo era legata alla sua forma particolare di megalomania. Mussolini disse una volta di Lenin: "È un artista che ha lavorato gli uomini così come altri artisti hanno lavorato il marmo o il metallo".36 Questa definizione si adatta meglio a Stalin, il quale traeva un genuino piacere dalla visione di corpi umani in gran numero che marciavano o ballavano con perfetto sincronismo.37 Era affascinato dal ballo, dalle esibizioni ginniche con accompagnamento musicale e dalle parate in cui sfilavano gigantesche piramidi composte di corpi umani anonimi, contorti.38 Inoltre, come Hitler, Stalin era un appassionato di cinema, soprattutto dei musical hollywoodiani, con il loro enorme cast di cantanti e ballerini coordinati. Forse traeva un piacere diverso, ma i° qualche modo analogo, dalla visione degli squadroni di prigionieri che al suo comando scavavano canali e costruivano ferrovie.

Ma non importa se la sua ispirazione fosse di carattere politico, storico o psicologico: l'essenziale è che fin dalla nascita del Gulag, Stalin seguì con attenzione la vita dei campi ed esercitò un'influenza enorme sul loro sviluppo. Per esempio, la decisione cruciale di sottrarre al controllo delle normali istituzioni giuridiche tutti i campi dell'Unione Sovietica e assegnarli alla OGPU fu presa quasi sicuramente per sua volontà. Già nel 1929 Stalin aveva molto a cuore l'organizzazione.

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Si interessava alla carriera dei dirigenti della polizia segreta, e seguiva personalmente la costruzione di case confortevoli per loro e le loro famiglie.39 Invece l'amministrazione carceraria del commissariato dell'Interno non godeva affatto del suo favore, poiché i dirigenti avevano sostenuto i suoi avversari nelle aspre lotte intestine che avevano avuto luogo in quel tempo tra le fazioni del Partito.40

Tutti i membri della commissione Janson di certo erano al corrente di questi fatti, e già di per sé questo forse bastò a convincerli ad affidare l'amministrazione delle prigioni alla OGPU. Ma Stalin interveniva anche in forma diretta sulle decisioni della commissione. A un certo punto delle complesse deliberazioni, il Politbjuro ribaltò letteralmente la propria decisione originale, dichiarando di essere intenzionato a sottrarre le prigioni alla polizia segreta e a restituirle al commissariato dell'Interno. Tale ipotesi offese Stalin. In una lettera del 1930 a Vjaceslav Molotov, suo stretto collaboratore, definì quest'idea un "intrigo" orchestrato dal commissario dell'Interno, "marcio fino al midollo". Ordinò al Politbjuro di attuare la sua decisione originaria, e chiuse del tutto il commissariato dell'Interno.41 La decisione di Stalin di assegnare i campi alla OGPU ne stabilì il carattere futuro. Li sottrasse al normale controllo giudiziario e li pose sotto il saldo comando burocratico della polizia segreta, scaturita dal mondo misterioso e al di fuori della legalità della Ceka.

Anche se non esistono molte prove a conferma di questa tesi, può darsi che sia stato lui a insistere sulla necessità di costruire "campi come quelli delle Soloveckie". Come già è stato detto, i campi delle Soloveckie non furono mai redditizi, né nel 1929 né in seguito. Nell'anno lavorativo giugno 1928-giugno 1929 lo SLON ricevette ancora un sussidio di 1.600.000 rubli dal bilancio dello Stato.42 Pur se magari appariva più redditizio di altre attività locali, chiunque si intendesse di economia capiva che non si trattava affatto di competizione a"a pari. I campi per il taglio degli alberi in cui lavoravano i prigionieri risultavano sempre più redditizi delle altre imprese forestali, Per esempio, ma solo perché i contadini dipendenti dalle imprese lavavano soltanto d'inverno, quando non potevano coltivare.43 Comunque, i campi delle Soloveckie davano la sensazione di esse-produttivi, almeno a Stalin, il quale credeva anche che fossero cutizi proprio per i metodi "razionali" di Frenkel', la sua distribuzione di cibo in rapporto al lavoro e la sua eliminazione degli ex-"inutili". La conferma che il sistema di Frenkel' aveva conquista-aPprovazione ai massimi livelli si trova nei suoi risultati: oltre a essere molto presto imitato in tutto il paese, lo stesso Frenkel' fu no-

Gulag

minato capo della costruzione del canale del mar Bianco, il primo progetto importante del Gulag dell'era staliniana, una carica prestigiosa per un ex detenuto.44 In seguito, come vedremo, fu protetto dall'arresto e da una possibile condanna a morte grazie all'intervento di dirigenti ai massimi livelli.

Che Stalin preferisse il lavoro di prigionieri a quello normale è dimostrato anche dal suo interesse per i minimi particolari dell'amministrazione dei campi. Per tutta la vita chiese con regolarità notizie sulla "produttività dei detenuti" nei campi, sovente espresse in statistiche dettagliate: quanto carbone e petrolio avevano prodotto quanti prigionieri assegnavano al lavoro, quante medaglie avevano ricevuto i dirigenti.45 Si interessava soprattutto alle miniere d'oro del Dal'stroj, il complesso di campi nella zona della Kolyma, all'estremo nordest, e chiedeva notizie precise e regolari sulla geologia della Kolyma, sulla tecnologia mineraria del Dal'stroj, sulla qualità e quantità dell'oro estratto. Per avere la certezza che i suoi editti venissero attuati nei campi più remoti, inviava squadre di ispettori, e spesso chiedeva anche ai capi dei campi di farsi vedere di frequente a Mosca.46

Quando un dato progetto gli interessava, talvolta si lasciava coinvolgere ancora di più. I canali, per esempio, gli stimolavano l'immaginazione, e talvolta sembrava che volesse scavarne dappertutto in modo indiscriminato. Una volta Jagoda fu costretto a scrivere a Stalin, obiettando con educazione al suo desiderio poco realistico di scavare un canale nel centro di Mosca avvalendosi del lavoro coatto.47 A mano a mano che Stalin assumeva maggiore controllo sugli organi di potere, costringeva anche i suoi colleghi a concentrarsi sui campi. Nel 1940 il Politbjuro discuteva ormai quasi tutte le settimane un qualche progetto del Gulag.48

Ma il suo interesse non era soltanto teorico. Lo incuriosivano anche gli esseri umani detenuti nei campi: l'identità degli arrestati, il luogo in cui erano state emesse le condanne, la loro fine. Leggeva di persona, e talvolta commentava, le domande di scarcerazione inviategli dai prigionieri o dalle loro mogli, e spesso commentava con un paio di parole ("tenerlo al lavoro" o "rilasciare").49 E poi chiedeva notizie sui prigionieri o i gruppi di prigionieri che gli interessavano, come i nazionalisti dell'Ucraina occidentale.50

Alcuni dati fanno pensare che Stalin si interessasse a certi prig10' nieri non solo per motivi politici, e questo non riguarda soltanto i suoi nemici personali. Già nel 1931, prima di consolidare il proprio potere Stalin fece approvare dal Politbjuro una risoluzione con cui si gara11

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a un'influenza enorme sull'arresto di certe categorie di tecnici spe-

. alizzati.51 E non è una coincidenza se la procedura con cui in questa ima fase vennero arrestati ingegneri e specialisti induce a supporre

n livello di pianificazione più strutturato. Forse non è nemmeno un o se nel primo gruppo in assoluto di prigionieri inviati nei nuovi campi auriferi della Kolyma c'erano sette famosi specialisti di estrazione mineraria, due esperti di organizzazione del lavoro e un ingegnere idraulico con molta esperienza.52 E non è un caso, forse, se - coinè vedremo - alla vigilia della partenza di una spedizione incaricata di costruire un campo nei pressi delle riserve petrolifere della repubblica dei Komi, l'OGPU era riuscita ad arrestare uno dei geologi di punta dell'Unione Sovietica.53 Tali coincidenze non avrebbero potuto essere pianificate dai dirigenti politici locali, impegnati a fronteggiare le tensioni esistenti in quel momento.

Per finire, c'è una prova del tutto indiziaria, ma comunque interessante, da cui si può dedurre che gli arresti di massa della fine degli anni Trenta e dell'inizio degli anni Quaranta forse furono effettuati, almeno in parte, per placare il desiderio di Stalin di procurarsi manodopera coatta e non, come molti hanno ipotizzato, per punire quanti considerava potenziali nemici. Gli autori del più autorevole testo russo sulla storia dei campi osservano "il rapporto che esiste tra la redditività delle attività economiche dei campi e il numero dei prigionieri inviativi". Di certo non è casuale, sostengono, se le condanne per reati minori d'un tratto divennero più severe, proprio nel momento dell'espansione dei campi, quando c'era necessità urgente di più lavoratori detenuti.54

Alcuni rari documenti d'archivio accennano alla stessa cosa. Nel 1934, per esempio, Jagoda scrisse una lettera ai suoi subordinati in Ucraina, chiedendo 15-20.000 prigionieri, tutti "abili al lavoro": ce n era urgente necessità per ultimare il canale Moscova-Volga. La lettera è datata 17 marzo, e in essa Jagoda chiedeva anche che i capi della OGPU locale "prendessero ulteriori provvedimenti" per far arrivare i prigionieri entro il 1° aprile. Non veniva però spiegato con chiarezza dove procurarsi questi prigionieri. Furono arrestati per assolvere alla richiesta di Jagoda?55 O come ritiene lo storico Terry artin, Jagoda stava solo cercando di garantire un afflusso abbon-nte, regolare, di lavoratori nel sistema dei campi, obiettivo che di "tto non realizzò mai?

^ gli arresti avevano lo scopo di popolare i campi, risultarono di

eh me *enza quasi ridicola. Martin e altri hanno anche osservato

°§ni ondata di arresti coglieva di sorpresa i comandanti dei

Gulag

campi, e rendeva loro difficile conseguire anche solo una parvenza di efficienza economica. Inoltre gli ufficiali addetti agli arresti non sceglievano nemmeno le vittime in modo razionale; invece di limitarsi ad arrestare giovanotti sani che potevano diventare ottimi lavoratori nell'estremo nord, incarceravano in gran numero anche donne, bambini e anziani.56 La mera illogicità degli arresti di massa sembra confutare l'ipotesi di un'attenta pianificazione della mano-dopera coatta, e ha indotto molti a concludere che gli arresti venissero effettuati innanzitutto per eliminare i presunti nemici di Stalin, e solo in seconda istanza per popolare i suoi campi di prigionia.

Tutto sommato, però, queste spiegazioni dell'espansione del Gulag non si escludono a vicenda. Con ogni probabilità Stalin ordinava gli arresti sia per eliminare i nemici sia per acquisire schiavi per il lavoro. Poteva essere spinto tanto dalla sua personale paranoia quanto dalle richieste di operai provenienti dai dirigenti provinciali. Forse la formula è espressa meglio in modo più semplice: Stalin, dopo aver proposto il "modello Soloveckie" di campi di concentramento alla sua polizia segreta, selezionava le vittime, e i suoi subordinati coglievano con entusiasmo l'opportunità di obbedirgli.

IV IL CANALE DEL MAR BIANCO

Non più acque sonnolente e scogli muscosi:

qui, grazie alla forza della manodopera,

si costruiranno fabbriche

sorgeranno città

le ciminiere si staglieranno

contro i cieli del nord.

I palazzi sfolgoreranno delle luci

di biblioteche, teatri e ritrovi...

MEDVEDKOV, prigioniero del canale del mar Bianco1

Soltanto una delle obiezioni sollevate durante le riunioni della commissione Janson causò qualche preoccupazione. Pur essendo certi che la grande nazione sovietica avrebbe ovviato alla mancanza di strade, pur avendo poche remore riguardo allo sfruttamento dei prigionieri come lavoratori coatti, Stalin e i suoi accoliti continuavano a essere oltremodo suscettibili riguardo al linguaggio usato dagli stranieri per descrivere all'estero i loro campi di lavoro.

In realtà, contrariamente a quanto si crede di solito, all'epoca gli stranieri parlavano abbastanza spesso dei campi di prigionia sovietici. Alla fine degli anni Venti, in Occidente la conoscenza dell'argomento era piuttosto diffusa, forse più che alla fine degli anni Quaranta. Lunghi articoli sulle prigioni sovietiche erano comparsi sulla stampa tedesca, francese, britannica, americana, soprattutto sulla stampa di sinistra, che aveva ampi contatti con i socialisti russi incarcerati.2

Nel 1927 lo scrittore francese Raymond Duguet pubblicò un libro straordinariamente accurato sulle isole Soloveckie, Un bagne en Russie r°uge (Una colonia penale nella Russia rossa), descrivendo tutto, dalla

Il canale del mar Bianco, Russia settentrionale, 1932-1933

Uhta

Medv$zegoSk\

.' Petrozavodsk \

San Pietroburgo

Kotlas

300 Km

personalità di Naftalij Frenkel' agli orrori della tortura delle zanzare. S.A. Malsagov, un ufficiale georgiano dell'Armata bianca che riuscì a evadere dalle Soloveckie e a varcare il confine, nel 1926 pubblicò a Londra Island Hell (Isola dell'inferno), un'altra descrizione di Solo-veckij. In conseguenza delle voci circolanti su come in Unione Sovietica si abusava del lavoro dei prigionieri, la Società britannica contro lo schiavismo indisse persino un'indagine sulla questione, e stilò un rapporto in cui denunciava la presenza dello scorbuto e dava prove dei maltrattamenti.3 Un senatore francese scrisse un articolo molto citato, basato sulla testimonianza dei rifugiati russi, in cui paragonava la situazione dell'Unione Sovietica alle scoperte fatte dalla Lega delle Nazioni nel corso di un'indagine sullo schiavismo in Liberia.4

Tuttavia, dopo l'espansione dei campi avvenuta tra il 1929 e il

// canale del mar Bianco 89

1930, l'interesse degli stranieri per la sorte dei socialisti detenuti scemò, fecalizzandosi invece sulla minaccia economica rappresentata - almeno in apparenza - dai campi per gli affari dell'Occidente. Le società e i sindacati minacciati cominciarono a organizzarsi. Soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti aumentarono le pressioni per un boicottaggio delle merci sovietiche, più a buon mercato di quelle locali e che si presumeva fossero prodotte grazie al lavoro coatto. Per colmo di paradosso, il movimento per il boicottaggio appannò l'intero problema per la sinistra occidentale, che soprattutto in Europa sosteneva ancora la Rivoluzione russa, anche se molti dirigenti provavano disagio per il destino dei loro confratelli socialisti. Il Partito laburista britannico, per esempio, si oppose al bando contro le merci sovietiche perché diffidava dei motivi per cui le società lo promuovevano.5

Invece negli Stati Uniti i sindacati, e in particolare la Federazione americana del lavoro, si schierarono in favore del boicottaggio. Per farla breve, vinsero. Il Tariff Act americano del 1930 decretava: "Tutte le merci ... estratte, prodotte o manufatte sfruttando il lavoro di detenuti o il lavoro coatto ... non saranno autorizzate a entrare in alcun porto degli Stati Uniti".6 Su questa base, il dipartimento del Tesoro statunitense bloccò l'importazione di pasta di legno e fiammiferi sovietici.

Anche se il Dipartimento di Stato statunitense non riuscì ad attuare il blocco, che durò soltanto una settimana, le discussioni in materia continuarono.7 Nel gennaio 1931 il Comitato per le risorse del Congresso statunitense si riunì per esaminare disegni di legge "relativi alla proibizione di importare merci prodotte in Russia tramite il lavoro coatto".8 Il 18, 19 e 20 maggio 1931 "The Times" di Londra pubblicò una serie di articoli oltremodo particolareggiati sul lavoro coatto in Unione Sovietica, concludendo con un editoriale di condanna della recente decisione del governo britannico di concedere al paese il riconoscimento diplomatico. L'editorialista affermava che prestare denaro alla Russia avrebbe "conferito maggior potere a quanti operano apertamente per sovvertire il governo e distruggere l'impero britannico".

Il regime sovietico prese molto sul serio la minaccia di boicottaggio e varò una serie di provvedimenti per impedire che esso bloccasse l'afflusso di valuta pregiata. Alcuni avevano natura cosmetica: la commissione Janson, per esempio, abbandonò definitivamente in tutte le dichiarazioni pubbliche l'espressione konclager', o "campo di concentramento". Dal 7 aprile 1930 in poi, tutti i documenti ufficiali

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definivano i campi di concentramento sovietici ispravitel'no-trudovye lagerja (ITL), cioè "campi di lavoro correzionale". Da quel momento fu l'unico termine usato.9

Le autorità dei campi effettuarono altre modifiche cosmetiche in loco, soprattutto nell'industria del legname. A un certo punto la OGPU modificò il suo contratto con Karellis, l'ente che si occupava del taglio degli alberi in Carelia, per far apparire di non avvalersi più del lavoro di prigionieri. In quel periodo vennero tecnicamente "trasferiti" dai campi della OGPU 12.090 prigionieri. In realtà continuavano a lavorare, ma la loro presenza veniva occultata dietro la farragine burocratica.10 Anche in quest'occasione, i dirigenti sovietici si preoccuparono più delle apparenze che della realtà.

Altrove i prigionieri che lavoravano nei campi per il taglio degli alberi furono davvero sostituiti da operai liberi, o più spesso da "coloni" al confino, kulaki che non avevano maggiori possibilità di scelta dei prigionieri.11 Secondo alcuni memorialisti, talvolta questo cambiamento avveniva nel giro di ventiquattr'ore. George Kitchin, un uomo d'affari finlandese che prima di essere liberato con l'aiuto del suo governo trascorse quattro anni nei campi della OGPU, scrisse che, poco prima della visita di una delegazione straniera,

dall'ufficio centrale di Mosca arrivò un telegramma in codice che ci intimava di liquidare del tutto il nostro campo in tre giorni, e di farlo in modo tale che non ne rimanesse traccia ... furono inviati telegrammi in tutte le postazioni di lavoro per interrompere le operazioni nel giro di ventiquattr'ore, per radunare i detenuti nei centri di evacuazione, cancellare le tracce dei campi penali, come le recinzioni di filo spinato, le torrette di guardia e le insegne; per far vestire abiti civili a tutti i funzionar!, disarmare le guardie e aspettare ulteriori istruzioni.

Kitchin fu condotto a piedi fuori dalla foresta insieme a parecchie migliaia di altri prigionieri. Secondo lui, durante quella e altre evacuazioni immediate morirono oltre 1300 prigionieri.12

Nel marzo 1931 Molotov, all'epoca presidente del Consiglio dei commissari del popolo, era convinto che nell'industria forestale sovietica non lavorasse più nessun prigioniero, almeno nessun prigioniero visibile, e invitò tutti gli stranieri interessati ad andare a verifi-care di persona.13 Qualcuno c'era già stato: nell'Archivio del Partito comunista della Carelia è registrata la presenza nel 1929 di due giornalisti americani, "il compagno Durant e il compagno Wolf ", entrambi collaboratori della TASS, l'agenzia di stampa sovietica, e di tutti i "giornali radicali". I due furono accolti al suono dell'Internazionale, l'inno dei lavoratori, e il compagno Wolf promise di "raccontare agli

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operai americani come vivono quelli dell'Unione Sovietica e come stanno creando una nuova vita": non fu l'ultima occasione per sceneggiate del genere.14

Ma anche se nel 1931 ormai il movimento per il boicottaggio non esisteva più, la campagna promossa in Occidente contro il lavoro coatto in Unione Sovietica non era stata del tutto improduttiva: per-sino sotto Stalin il paese era e sarebbe rimasto molto sensibile riguardo alla propria immagine pubblica all'estero. Alcuni storici, tra cui Michael Jakobson, oggi ipotizzano che la minaccia del boicottaggio forse fu addirittura un importante fattore da cui dipese un cambiamento di strategia politica più vasto. L'industria del taglio degli alberi, che richiedeva un gran numero di operai non specializzati, aveva rappresentato un modo ideale per sfruttare i prigionieri. Ma l'esportazione di legname era una delle più importanti fonti di valuta pregiata per l'Unione Sovietica, e non si poteva correre il rischio di un altro boicottaggio. I prigionieri dovevano essere mandati altrove, preferibilmente in un posto in cui la loro presenza potesse essere esaltata, non nascosta. Le possibilità di scelta non mancavano, ma una in particolare piaceva a Stalin: la costruzione di un grande canale dal mar Bianco al Baltico, in un territorio il cui terreno era costituito in gran parte solo di granito.

Nel clima dell'epoca, il canale del mar Bianco, in russo Belomorkanal, abbreviato in Belomor, non era un caso unico. Quando ebbe inizio la sua costruzione, l'Unione Sovietica aveva già avviato l'attuazione di progetti altrettanto grandiosi, che richiedevano un massiccio impiego di manodopera, tra cui le acciaierie di Magnitogorsk, le più grandi del mondo, enormi fabbriche di trattori e automobili, e grandi nuove "città socialiste" costruite in mezzo alle paludi. Tuttavia, il canale del mar Bianco spiccava persino tra i rampolli della gigantomania degli anni Trenta.

Innanzitutto, come molti russi sapevano, il canale rappresentava la realizzazione di un sogno molto antico. I primi progetti per l'edificazione di una via d'acqua di questo tipo erano stati messi a punto nel Settecento, quando i mercanti zaristi cercavano un sistema per trasferire le navi cariche di legname e minerali dalle fredde acque del mar Bianco ai porti commerciali del Baltico senza dover compiere un viaggio di migliaia e migliaia di chilometri nel mar Glaciale artico, circumnavigando la grande penisola scandinava.

Si trattava di un progetto estremamente ambizioso, anzi sconsiderato, e forse era proprio per questo che nessuno vi si era mai impe-

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gnato. Era necessario scavare per più di 200 chilometri, costruire cinque dighe e diciannove chiuse. I progettisti sovietici intendevano costruire il canale avvalendosi di una tecnologia molto arretrata, in una regione preindustriale dell'estremo nord che non era mai stata esplorata in modo adeguato e, per usare l'espressione di Maksim Gor'kij, "dal punto di vista idrografico [era] terra incognita".16 Ma tutte queste cose forse avevano contribuito a rendere il progetto attraente per Stalin. Voleva un trionfo tecnologico, mai conseguito dal-l'ancien regime, e lo voleva il più in fretta possibile. Non pretendeva soltanto la costruzione del canale, ma anche che avvenisse entro venti mesi. Una volta ultimato, avrebbe portato il suo nome.

Stalin era il principale promotore del canale del mar Bianco, e desiderava esplicitamente che fosse posto in opera per mezzo del lavoro coatto. Prima della costruzione, rimbeccava con furia coloro che chiedevano se, considerato il volume di traffico relativamente ridotto del mar Bianco, fosse davvero necessario realizzare un progetto tanto costoso. "Mi hanno detto" scrisse a Molotov "che Rykov e Kviring vogliono affossare la questione del canale del nord, in contrasto con le decisioni del Politbjuro. Bisognerebbe fargli abbassare la cresta e dargli una bacchettata sulle dita!" Durante una riunione del Politbjuro in cui si discuteva del canale del mar Bianco, Stalin scarabocchiò in fretta alcune frasi rabbiose dalle quali si evince quanto credesse nel lavoro dei detenuti: "Per la sezione settentrionale del canale, penso di affidarmi alla GPU [lavoro coatto]. Nello stesso tempo dobbiamo incaricare qualcuno di calcolare di nuovo le spese previste per la costruzione di questa prima sezione ... Troppo".17

E certo dei desideri di Stalin non si faceva mistero. Quando il canale fu finito, i suoi principali amministratori gli attribuirono il merito di aver dimostrato "ardimento" nell'intraprendere la realizzazione del "mastodonte idrotecnico" e l'"impresa meravigliosa di non averlo fatto con la manodopera tradizionale".18 Si può intravedere l'influenza di Stalin anche nella rapidità con cui partì il progetto. La decisione di avviare la costruzione fu presa nel febbraio 1931, e dopo sette mesi appena di attività di progettazione e perlustrazioni preliminari, in settembre cominciarono i lavori.

Dal punto di vista amministrativo, fisico e persino psicologico, i primi campi di prigionia legati al canale del mar Bianco furono un prodotto dello SLON. I campi del canale furono organizzati sul modello dello SLON, utilizzavano l'attrezzatura dello SLON ed erano amministrati da quadri dello SLON. Non appena avviato il progetto, subito i dirigenti del canale vi trasferirono molti prigionieri dai cam-

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pi in terraferma e dalle isole Soloveckie. Per un certo periodo forse il vecchio SLON e le nuove burocrazie del canale del mar Bianco se ne contesero il controllo/ ma vinse l'amministrazione del canale. Alla fine lo SLON cessò di essere un'entità indipendente. La fortezza delle Soloveckie fu ristrutturata per funzionare come carcere di massima sicurezza, e l'arcipelago divenne una divisione del campo di lavoro correzionale Belomor-Baltijskij [mar Bianco-Baltico], noto come Bel-baltlag. Anche molti secondini e amministratori della OGPU si trasferirono dallo SLON al canale. Fra gli altri, come già detto, Naftalij Frenkel', che diresse sul campo l'attività del canale dal novembre 1931 alla sua ultimazione.19

Nei ricordi dei sopravvissuti, il caos associato alla costruzione del canale assume un carattere quasi mitologico. La necessità di risparmiare denaro si traduceva nel fatto che i prigionieri usavano legname, sabbia e pietre invece di metallo e cemento. Ogni volta che era possibile, si prendevano scorciatoie. Dopo molte discussioni si decise che il canale avrebbe avuto solo tre metri e mezzo di profondità, appena sufficienti per le navi. Dato che la tecnologia moderna era troppo costosa o non disponibile, i progettisti del canale si avvalsero di grandi masse di lavoratori non specializzati. Durante i ventuno mesi della costruzione i circa 170.000 prigionieri e "confinati speciali" impiegati per scavare il canale ed erigere le monumentali dighe e le chiuse usarono vanghe di legno, rudimentali seghe a mano, picconi e carriole.20

Nelle fotografie dell'epoca, tali strumenti appaiono sicuramente primitivi, ma solo una disamina attenta ci rivela quanto lo fossero. Alcuni di essi sono ancora esposti nella cittadina di Medvezegorsk, un tempo punto di accesso al canale e alla "capitale" del Belbaltlag. Medvezegorsk, che ora è un villaggio dimenticato della Carelia, si distingue soltanto per il suo albergo enorme, deserto, infestato dagli scarafaggi, e per il suo piccolo museo di storia locale. I picconi esposti sono in realtà lame di metallo appena sbozzate, legate a manici di legno con cuoio o corda. Le seghe sono lamine di metallo piatte, con denti intagliati in modo rozzo. Per frantumare i grandi massi, anziché la dinamite i prigionieri usavano "mazze", grossi pezzi di metallo avvitati a manici di legno, con cui conficcavano nella pietra cunei di ferro.

Tutto, dalle carriole ai ponteggi, era costruito a mano. Un detenuto ricorda: "Mancava qualsiasi genere di tecnologia. Persine le comuni automobili erano una rarità. Tutto veniva fatto a mano, talvolta con l'aiuto di cavalli. Scavavamo la terra a mano, e la portavamo via con le carriole, e scavavamo anche le gallerie a mano, e portavamo via le pietre".21 Persine la propaganda sovietica vantava il fatto

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che le pietre erano portate via dal canale con "il Ford Belomor... un camion pesante su quattro piccole e solide ruote di legno ricavate da ceppi".22

Le condizioni di vita erano altrettanto precarie, nonostante gli sforzi di Genrih Jagoda, il capo della OGPU che aveva la responsabilità politica del progetto. Jagoda sembrava davvero convinto della necessità di assicurare ai detenuti condizioni di vita decorose, se dovevano ultimare il canale nei tempi previsti, e spesso esortava i comandanti dei campi a trattarli meglio, a "provvedere in modo scrupoloso a fornire ai detenuti l'alimentazione, l'abbigliamento e la protezione adeguati". I comandanti obbedivano, e lo stesso fece il capo della divisione Soloveckie del progetto del canale nel 1933. Ordinò tra l'altro ai suoi subordinati di eliminare le code alla distribuzione della cena, di far cessare i furti di cibo dalle cucine e di contenere l'appello della sera in un'ora di tempo. In generale, le razioni alimentari erano più abbondanti di quelle di alcuni anni dopo, e tra i prodotti raccomandati c'erano salsicce e té. In teoria, i prigionieri ricevevano ogni anno una tenuta da lavoro completa.23

Tuttavia, l'estrema fretta e la mancanza di pianificazione provocarono inevitabilmente grandi disagi. Con il procedere dei lavori, bisognava costruire nuovi campi lungo il percorso del canale. Ogni volta i detenuti e i confinati arrivavano e non vi trovavano niente. Prima di cominciare a lavorare, dovevano costruirsi dei capannoni di legno e organizzarsi per l'approvvigionamento alimentare. Nel frattempo, talvolta succedeva che prima di riuscire a completare questi lavori preliminari morissero per il freddo durante i rigidissimi inverni della Carelia. Secondo certe stime, perirono oltre 25.000 prigionieri, una cifra da cui sono esclusi tutti coloro che, rilasciati perché ammalati o vittime di incidenti, morirono poco dopo.24 Un prigioniero, A.F. Losev, scrisse a sua moglie che provava il sincero desiderio di tornare nel ventre della prigione della Butyrka, perché qui doveva dormire su cuccette troppo affollate: "Se durante la notte ti giri sull'altro fianco, dovranno girarsi almeno altre quattro o cinque persone". La testimonianza successiva di un ragazzine, figlio di kulaki esiliati e deportato insieme a tutta la famiglia in un insediamento appena costruito lungo il canale, è ancora più disperata:

Finimmo a vivere in un capannone con due piani di cuccette. Dato che nella nostra famiglia c'erano dei bambini piccoli, ci fu assegnato un letto in basso. Le baracche erano grandi e fredde. Le stufe restavano accese venti-quattr'ore al giorno, perché in Carelia il legname abbonda ... nostro padre, da cui proveniva la maggior parte del cibo che mangiavamo, riceveva per

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tutti noi un terzo di secchio di zuppa verdastra, nel cui liquido scuro galleggiavano due o tre pomodori verdi o un cetriolo, qualche pezzo di patata gelata, mischiata con un paio d'etti di orzo o piselli.

Inoltre, il ragazzo ricorda che suo padre, impegnato nella costruzione di nuove case per i coloni, riceveva 600 grammi di pane, sua sorella 400. Doveva bastare per tutti i nove membri della famiglia.25

In quel periodo, come del resto in seguito, alcuni problemi trasparivano dai rapporti ufficiali. Durante una riunione della cellula del Partito comunista del Belbaltlag, tenutasi nell'agosto 1932, furono avanzate proteste per la cattiva organizzazione nella distribuzione del cibo, le cucine sporche e i crescenti casi di furto. Il segretario della cellula scriveva con pessimismo: "Non ho alcun dubbio che il canale non verrà costruito in tempo.. .".26

Ma la maggior parte delle persone non poteva permettersi di dubitare. Le lettere e i rapporti scritti dagli amministratori del canale durante la sua costruzione esprimevano implicitamente il panico generale. Stalin aveva decretato che il canale doveva essere ultimato in venti mesi, e i suoi costruttori si rendevano conto alla perfezione che dal rispetto dei tempi prefissati dipendevano le loro condizioni di vita future, anzi la loro stessa sopravvivenza. Per accelerare il lavoro, i comandanti dei campi cominciarono a adottare tecniche già utilizzate nel mondo lavorativo "libero", come le "competizioni socialiste" tra le squadre di lavoro, corse contro il tempo per raggiungere la norma o trasportare le pietre o scavare una fossa per primi, oppure "tirate" di una notte intera, in cui i prigionieri lavoravano "volontariamente" ventiquattro o quarantotto ore di fila. Un detenuto ricorda quando nel suo cantiere venne installato un impianto di illuminazione elettrica, in modo che l'attività potesse proseguire ventiquattr'ore su ventiquattro.27 Per le sue buone prestazioni un prigioniero ricevette in premio 10 chili di farina bianca e 5 chili di zucchero. Diede la farina ai fornai del campo, che gli prepararono diverse forme di pane. Le mangiò tutte in una volta, da solo.28

Oltre alle competizioni, le autorità del campo introdussero anche il culto dell'udarnik, il "lavoratore d'assalto". In seguito, i lavoratori d'assalto furono ribattezzati stacanovisti, in onore di Aleksej Staha-nov, un minatore efficientissimo e oltremodo produttivo. Gli udarnik e gli stacanovisti erano prigionieri che avevano superato la norma e Perciò ricevevano un supplemento alimentare e altri privilegi, tra cui il diritto (impensabile in seguito) a un nuovo abito intero ogni anno, oltre a una nuova tenuta da lavoro completa ogni sei mesi.29 Gli operai più efficienti ricevevano anche razioni alimentari assai

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migliori. Nelle mense mangiavano a tavoli separati, sotto manifesti che dicevano "Per gli operai migliori, il cibo migliore". Quelli meno bravi di loro sedevano sotto manifesti che dicevano: "Qui mangiano peggio: scansafatiche, fannulloni, poltroni".30

Per finire, gli operai più efficienti venivano rilasciati in anticipo; per ogni tre giorni di lavoro in cui la norma veniva realizzata al cento per cento ogni detenuto riscattava un giorno di pena. Quando poi il canale fu completato in tempo, nell'agosto 1933, vennero liberati 12.484 prigionieri. Molti altri ricevettero medaglie e premi.31 Un detenuto festeggiò il suo rilascio anticipato con una cerimonia in cui si svolse anche la tradizionale offerta russa del pane e del sale, mentre gli astanti gridavano: "Urrà per i costruttori del canale!". Nella foga del momento, cominciò a baciare una sconosciuta. Finirono per trascorrere la notte insieme sulle rive del canale.32

La costruzione del canale del mar Bianco è significativa sotto molti aspetti: per il caos imperante, per l'estrema fretta, per l'importanza che le attribuiva Stalin. Ma la retorica impiegata per descrivere il progetto fu davvero unica: il canale del mar Bianco fu il primo, l'ultimo e l'unico progetto del Gulag mai messo in piena luce dalla propaganda sovietica in patria e all'estero. E l'uomo scelto per spiegare, promuovere e giustificare l'impresa agli occhi dell'Unione Sovietica e del resto del mondo fu nientemeno che Maksim Gor'kij.

Questa scelta non sorprende. Ormai Gor'kij era davvero ben inserito nella gerarchla stalinista. Dopo il trionfale viaggio di Stalin in battello a vapore, nell'agosto 1933, lungo il canale ormai ultimato, Gor'kij guidò centoventi scrittori sovietici in una spedizione analoga. Gli scrittori erano (o sostenevano di essere) talmente eccitati dalla gita che quasi non riuscivano a tenere in mano il taccuino: le loro dita "tremavano per lo stupore".33 Quelli che poi decisero di scrivere un libro sulla costruzione del canale ricevettero moltissimi incoraggiamenti materiali, tra cui "un sontuoso banchetto in piedi all'Asto-ria", un lussuoso albergo di Leningrado di epoca zarista, per festeggiare la loro partecipazione al progetto.34

Anche in base agli standard piuttosto bassi del realismo socialista, il libro prodotto dai loro sforzi, Kanal imeni Statina (II canale Stalin), è un'attestazione straordinaria della corruzione degli scrittori e degli intellettuali nelle società totalitarie. Come era accaduto per la visita di Gor'kij alle Soloveckie, Kanal imeni Stalina giustifica l'ingiustificabile, e sostiene non solo di documentare la trasformazione spirituale dei prigionieri in fulgidi esemplari dell'Homo sovieticus, ma

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anche di aver creato un nuovo genere letterario. Il grosso dell'opera, di cui Gor'kij scrisse l'introduzione e la conclusione, non è il lavoro di un singolo autore, ma di un collettivo di trentasei, che unirono gli sforzi per cogliere lo spirito della nuova era con un linguaggio fiorito, ricco di iperboli, e una lieve manipolazione dei fatti. Una fotografia del libro ne riassume il tema: in essa si vede una donna in abito da detenuta che brandisce un trapano con grande determinazione. Sotto c'è la didascalia: "Trasformando la natura, l'uomo trasforma se stesso". Il contrasto con il freddo linguaggio impiegato dalla commissione Janson e con il piano economico della OGPU non potrebbe essere più spiccato.

A quanti non conoscono bene il genere, alcuni aspetti del realismo socialista di Kanal potrebbero sembrare un po' sorprendenti. Per cominciare, il libro non tenta di celare del tutto la verità, poiché descrive i problemi posti dalla mancanza di tecnologia e di specialisti esperti. A un certo punto viene citato Matvej Berman, all'epoca comandante del Gulag, che dice a un subordinato dell'OGPU:

"Vi verranno assegnati mille uomini sani. Sono stati condannati a pene diverse dal governo sovietico. Eseguirete il lavoro con questa gente."

"Mi consenta una domanda: dove sono le guardie?" chiede l'agente dell'OGPU.

"Organizzerà le squadre di guardie sul posto. Le sceglierà tra di loro."

"Benissimo, ma io di petrolio non so nulla."

"Prenda come assistente il detenuto Dukanovic, che è ingegnere."

"A che scopo? È specializzato nella trafilatura a freddo dei metalli."

"Che cosa pretende? Dobbiamo condannare i professori di cui lei ha bisogno ai campi di concentramento? Nel Codice penale non esiste una clausola del genere. E non siamo un consorzio petrolifero."

Con queste parole Berman congedò l'agente mandandolo a fare il suo lavoro. "Una follia" osservano gli autori di Kanal. Dopo "un paio di mesi", però, l'agente e i suoi colleghi si vantano l'uno con l'altro dei successi conseguiti con la marmaglia di detenuti del loro gruppo. "Io ho un colonnello che è il miglior taglialegna di tutto il campo" dichiara uno. "Io ai lavori di scavo ho un sovrintendente che è un ex cassiere condannato per malversazione" afferma un altro.35

Il messaggio è chiaro: le condizioni oggettive erano difficili, il materiale umano rozzo, ma la polizia politica sovietica, onnisciente e infallibile, nonostante tutte le difficoltà era riuscita a trasformare quegli uomini in buoni cittadini sovietici. Insomma, venivano raccontati fatti autentici - l'arretratezza tecnologica, la mancanza di specialisti competenti - allo scopo di rendere verosimile un ritratto peraltro immaginario della vita nei campi di prigionia.

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In realtà, il libro è incentrato soprattutto su aneddoti commoventi, di carattere semireligioso, su prigionieri che si "riformano" lavorando al canale. Molti dei detenuti che nascono in questo modo a nuova vita sono criminali, ma non tutti. Diversamente dal saggio di Gor'kij sulle Soloveckie, che negava o minimizzava la presenza di prigionieri politici, Kanal descrive alcuni eminenti politici convertiti. L'ingegnere Masloy, ex "disorganizzatore", "ostacolato da un pregiudizio di casta", cerca di "schermare con il ferro gli oscuri e profondi processi di rigenerazione della sua coscienza che sorgono di continuo dentro di lui". L'ingegnere Zubrik, ex sabotatore di origini operaie, "si è guadagnato con onestà il diritto di tornare in seno alla classe nella quale è nato".36

Ma Kanal imeni Statina non fu affatto l'unica opera letteraria dell'epoca a elogiare il potere rigenerante dei campi. Un altro esempio significativo si può ritrovare nel dramma di Nikolaj Pogodin Aristo-kraty, una pièce sul canale del mar Bianco, anche perché riprende un tema bolscevico già esistente, quello della "simpatia" dei ladri. Rappresentato per la prima volta nel dicembre 1934, il dramma di Pogodin (poi ripreso in un film intitolato Zakljucennye, cioè "Detenuti") ignora i kulaki e i politici che costituivano la maggior parte dei costruttori del canale, e descrive invece gli allegri tiri mancini dei banditi del campo (gli "aristocratici" del titolo) impiegando il gergo criminale in forma molto annacquata. Va detto che nella commedia ci sono un paio di note sinistre. A un certo punto un criminale "vince" una ragazza a carte, e questo vuoi dire che il suo avversario deve catturarla e costringerla a cedergli. Nell'opera di fantasia la ragazza riesce a fuggire, nella realtà probabilmente non sarebbe stata altrettanto fortunata.

Alla fine, comunque, tutti confessano i loro delitti passati, vengono illuminati e cominciano a lavorare con entusiasmo. Cantano una canzone:

Ero un feroce bandito sì,

Rubavo alla gente, odiavo il lavoro

La mia vita era nera come la notte

Ma poi mi hanno preso al canale

E il passato sembra ormai un brutto sogno

È come se fossi rinato

Voglio lavorare, vivere e cantare...37

All'epoca questo genere di cose veniva acclamato con giubilo come forma di teatro nuova ed estrema. Jerzy Gliksman, un socialista polacco che assistette a una rappresentazione di Aristokraty a Mosca nel 1935, racconta l'esperienza:

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Invece di essere al solito posto, il palcoscenico era costruito al centro dell'edifìcio, e il pubblico stava seduto in circolo intorno. Lo scopo del regista era di attrarre la gente più vicino all'azione del dramma, di colmare lo scarto tra attore e spettatore. Non c'era sipario, e la scena era troppo semplice, quasi come nel teatro elisabettiano... l'argomento, la vita in un campo di lavoro, in sé era accattivante.38

All'esterno dei campi, la letteratura di questo genere aveva una duplice funzione. Da una parte contribuiva a sostenere la campagna per giustificare di fronte a una scettica opinione pubblica estera il rapido sviluppo dei campi di prigionia, dall'altra serviva probabilmente a placare i cittadini sovietici, turbati dalla violenza della collettivizzazione e dell'industrializzazione, promettendo loro un lieto fine: persino le vittime della rivoluzione staliniana avrebbero avuto l'occasione di rifarsi una vita nei campi di lavoro.

La propaganda funzionava. Dopo aver visto Aristokraty, Gliksman chiese di visitare un campo vero. Con una certa sorpresa, fu subito condotto al campo "vetrina" di Bol'sevo, non lontano da Mosca. In seguito ricordava "bei letti bianchi e bella biancheria, bei bagni. Tutto era d'una pulizia immacolata" e conobbe un gruppo di prigionieri più giovani che gli raccontarono le stesse storie edificanti descritte da Pogodin e da Gor'kij. Conobbe un ladro che al momento studiava per diventare ingegnere. Incontrò un teppista che aveva capito gli errori della sua vita e ora gestiva il magazzino del campo. "Come potrebbe essere bello il mondo!" sussurrò un regista francese all'orecchio di Gliksman. Per sua sfortuna, cinque anni dopo Gliksman si ritrovò sull'impiantito di un vagone bestiame stipato di gente, diretto a un campo di lavoro che non aveva niente a che vedere con la struttura modello di Bol'sevo, in compagnia di prigionieri molto diversi da quelli della commedia di Pogodin.39

Anche all'interno del Gulag questo genere di pubblicità esercitava una certa influenza. Le pubblicazioni dei campi e i "giornali murali", fogli appesi nelle bacheche perché i prigionieri li leggessero, contenevano lo stesso genere di storie e poesie presentate agli esterni, anche se in una prospettiva leggermente diversa. In questo senso è esemplare il giornale "Perekovka" (Rieducazione) scritto e pubblicato dai detenuti del canale Moscova-Volga, un progetto partito nella scia del "successo" del canale del mar Bianco. "Perekovka" profondeva lodi ai lavoratori d'assalto e ne descriveva i privilegi ("Non devono fare la fila, stanno seduti a tavola e il cibo viene servito loro dalle cameriere!"), ma senza inneggiare, come gli autori di Kanal imeni Stalina, ai vantaggi della trasformazione spirituale e concentrandosi piuttosto

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sui privilegi concreti che i detenuti avrebbero potuto conseguire lavorando con maggior zelo.

E certo non perorava con lo stesso fervore una maggiore equità del sistema sovietico. Il numero del 18 gennaio 1933 ripubblicava un discorso pronunciato da Lazar' Kogan, un comandante dei campi: "Non possiamo stabilire se qualcuno è stato arrestato a ragione o a torto. Questo è compito del procuratore ... Con il vostro lavoro siete tenuti a produrre qualcosa di valido per lo Stato, e noi siamo tenuti a fare di voi qualcosa di valido per lo Stato".40

Interessante è anche la rubrica, quanto mai ingenua, dedicata dal giornale alle "proteste". I prigionieri scrivevano per lamentarsi di "bisticci e insulti" nelle baracche delle donne, oppure del "canto di inni"; delle norme impossibili da realizzare; della penuria di scarpe o di biancheria pulita; delle violenze inflitte ai cavalli senza necessità; del mercato nero al centro di Dmitrov, il quartier generale del campo; e del cattivo uso dei macchinari ("Non ci sono cattive macchine, solo cattivi operatori"). In seguito, questo genere di apertura sui problemi del campo era destinata a scomparire e sarebbe stata circoscritta alla corrispondenza privata tra gli ispettori e i loro padroni assoluti a Mosca. All'inizio degli anni Trenta, invece, la trasparenza era molto comune, sia fuori del Gulag sia dentro. Era una componente naturale dello sforzo frenetico, impellente, per migliorare le condizioni di vita, migliorare gli standard lavorativi e soprattutto tenere il ritmo con le richieste febbrili del gruppo dirigente staliniano.41

Passeggiando oggi sulle sponde del canale del mar Bianco, è difficile immaginare quell'atmosfera quasi isterica. Ci sono andata in una pigra giornata dell'agosto 1999, in compagnia di diversi storici locali. Ci siamo fermati per un attimo a Povenec a vedere il piccolo monumento alle vittime del canale, su cui è incisa una breve iscrizione: "Agli innocenti, periti mentre costruivano il canale del mar Bianco, 1931-1933". Mentre eravamo lì, un mio compagno ha insistito perché celebrassimo in forma solenne, fumando una Belomor. Ha spiegato che un tempo la marca di sigarette Belomor era la più diffusa dell'Unione Sovietica, e per decenni era rimasta l'unico monumento ai costruttori del canale.

Nelle vicinanze si ergeva un vecchio trudposelok, o "insediamento di confino", ormai praticamente deserto. Le grandi case di legno, un tempo solide, costruite nel tipico stile della Carelia, erano sbarrate. Molte avevano cominciato a deteriorarsi. Un abitante locale, originario della Bielorussia - parlava persino un po' di polacco - ci ha rac-

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contato che qualche anno prima aveva cercato di comprarne una, ma il governo locale non gliel'aveva voluta vendere. "Ora sta cadendo a pezzi" ha detto. Coltivava in un orticello dietro l'edificio zucche, cetrioli e lamponi. Ci ha offerto un liquore fatto in casa. L'orto e i suoi 150 rubli di pensione, all'epoca circa 22 dollari al mese, gli bastavano per vivere, ha detto. Ovviamente, sul canale non si riusciva a trovare lavoro.

E non stupisce: i ragazzini ci nuotavano e ci buttavano pietre; le mucche sguazzavano nell'acqua bassa e fangosa, e nelle crepe del cemento crescevano erbacce. Lungo una delle chiuse, in un piccolo capanno con le tendine rosa e, all'esterno, i pilastri di stile staliniano originali, la donna addetta al controllo del livello dell'acqua ci ha raccontato che al massimo passavano sette navi al giorno, spesso solo tre o quattro. Più di quante ne aveva viste Solzenicyn nel 1966, quando trascorse sul canale una giornata intera e osservò solo due chiatte che trasportavano legna da ardere. La maggior parte delle merci viaggiava ormai per ferrovia, come del resto avviene anche oggi, e un operaio del canale gli spiegò che il livello dell'acqua è così basso "che neanche i sottomarini ci passano da soli: li caricano sui barconi e li rimorchiano".42

Dopotutto, la via d'acqua dal Baltico al mar Bianco non era così indispensabile.

L'ESPANSIONE DEI CAMPI

Andiamo avanti e alle nostre spalle marcia allegramente tutta la squadra. Davanti a noi il successo degli stacanovisti apre una strada nuova...

Perché non conosciamo più la strada vecchia, dalle nostre galere siam sorti all'appello. Sulla via del trionfo stacanovista con fede marciamo verso una vita di libertà.

Dalla rivista "Kuznica", pubblicata nel Sazlag1

Dal punto di vista politico, all'epoca il canale del mar Bianco fu il più importante progetto del Gulag. Grazie all'interessamento personale di Stalin, non furono risparmiate le risorse per la sua costruzione. Inoltre, un'imponente campagna di propaganda assicurò che la sua realizzazione nei tempi previsti venisse strombazzata ai quattro venti. Eppure, il canale non era un esempio tipico dei nuovi progetti del Gulag, tra i quali non fu né il primo né il più vasto.

In effetti, ancora prima che la costruzione del canale cominciasse, la OGPU aveva già cominciato a inviare alla chetichella lavoratori carcerati in tutto il paese, senza trambusto e propaganda. Alla metà degli anni Trenta, il sistema del Gulag disponeva già di 300.000 detenuti, disseminati in una dozzina circa di complessi di campi e in alcuni siti più piccoli. Aveva collocato a lavorare 15.000 persone nel Dallag, un nuovo campo nelle zone più orientali. Oltre 20.000 stavano costruendo e tenendo in attività industrie chimiche nel Vislag, un campo organizzato sulla base della divisione Viserskij dello SLON, sul versante occidentale degli Urali. Nel Siblag, in Siberia occidentale, i prigionieri stavano costruendo le ferrovie settentrionali, fabbri-

L'espansione dei campi 103

cavano mattoni e tagliavano alberi, mentre i 40.000 prigionieri dello SLON erano impegnati nella costruzione di strade, nel taglio di legname per l'esportazione e nella lavorazione del 40 per cento del pescato del mar Bianco.2

Contrariamente al campo del canale del mar Bianco, non si trattava di luoghi detentivi da vetrina. Pur avendo certamente maggiore peso economico per l'Unione Sovietica, non partirono gruppi di scrittori per descriverli. La loro esistenza non era del tutto segreta, almeno non ancora, ma neppure veniva pubblicizzata: i "veri" successi del Gulag non erano destinati al consumo, né all'estero né in patria.

Con l'espandersi dei campi, anche il carattere della OGPU si modificava. La polizia segreta sovietica continuava a spiare come prima i nemici del regime, a interrogare i sospettati di essere dissidenti, e a smascherare "complotti" e "cospirazioni". Dal 1929 la polizia segreta si addossò anche parte della responsabilità per lo sviluppo economico del paese. Nel decennio successivo in un certo senso i suoi uomini furono all'avanguardia, perché spesso organizzavano l'esplorazione e anche lo sfruttamento delle risorse naturali dell'Unione Sovietica. Progettavano ed equipaggiavano spedizioni geologiche che cercavano di localizzare carbone, petrolio, oro, nichel e altri metalli nel sottosuolo della tundra gelata delle regioni artiche e su-bartiche dell'estremo nord sovietico. Decidevano quale delle enormi riserve di alberi andava tagliata prima per essere esportata come legname pregiato. Allestirono una rete sconfinata di collegamenti stradali e ferroviari per trasferire queste risorse nelle città e nei centri industriali più importanti del paese, costruendo un rudimentale sistema di trasporti in territori disabitati per migliaia e migliaia di chilometri. A volte prendevano parte di persona a tali imprese, marciando nella tundra avvolti in folte pellicce e con pesanti stivali, e telegrafando a Mosca le loro scoperte.

I prigionieri acquisirono nuovi ruoli insieme ai loro carcerieri. Anche se alcuni continuavano a svolgere lavori pesanti dietro il filo spinato, estraendo carbone o scavando canali, tra il 1930 e il 1935 i detenuti navigavano anche con le canoe lungo i fiumi a nord del Circolo polare artico, trasportavano le attrezzature necessarie per le indagini geologiche e battevano la strada verso le nuove cave di carbone e i pozzi petroliferi. Erigevano le baracche, svolgevano il filo spinato e montavano le torrette di guardia per nuovi campi. Costruivano gli impianti necessari per lavorare le materie prime, piantavano i picchetti per la ferrovia e facevano gettate di cemento per le strade. Infine si insediavano nei nuovi territori, popolando le zone vergini.

Gulag

In seguito gli storici sovietici hanno definito con lirismo questo episodio della storia sovietica l'"Apertura dell'estremo nord", ed è vero che rappresentò un'autentica rottura con il passato. Persine negli ultimi decenni di dominio zarista, quando finalmente in tutta la Russia era esplosa, sebbene in ritardo, la rivoluzione industriale nessuno aveva tentato con tanta determinazione di esplorare e po. polare le regioni più settentrionali del paese. Il clima era troppo rigido, il prezzo potenziale di vite umane troppo ingente, la tecnologia russa troppo primitiva. Il regime sovietico si lasciava turbare meno da tali preoccupazioni. Anche se in campo tecnologico non era molto più avanzato, teneva in scarsa considerazione la vita delle persone che mandava ad "aprire la strada". E se alcuni morivano, pazienza. Se ne sarebbero trovati altri.

Le tragedie abbondavano, soprattutto agli albori di questa nuova era. Di recente un documento ritrovato nell'archivio di Novosibirsk ha confermato la veridicità di un episodio particolarmente atroce, che da tempo fa parte del folclore dei sopravvissuti del Gulag. È firmato da un istruttore del comitato di Partito di Narym, in Siberia occidentale, e inviato nel maggio 1933 all'attenzione di Stalin; descrive con precisione l'arrivo di un gruppo di contadini deportati, definiti "elementi arretrati", sull'isola di Nazino, nel fiume Ob'. I contadini erano confinati, e quindi era previsto che si insediassero sul posto per coltivare la terra:

II primo convoglio comprendeva 5070 persone, il secondo 1044, per un totale di 6114 persone. Le condizioni di trasporto erano spaventose: cibo insufficiente e disgustoso, mancanza d'aria e di spazio ... Risultato: una mortalità di circa 35-40 persone al giorno. Tuttavia queste condizioni di vita si sono dimostrate un vero e proprio lusso rispetto a quello che aspettava i deportati sull'isola di Nazino ... L'isola di Nazino è un luogo totalmente vergine, senza ombra di abitazione ... Niente attrezzi, niente sementi, niente cibo ... La nuova vita è incominciata. Il giorno dopo l'arrivo del primo convoglio, il 19 maggio, ha iniziato a nevicare, e si è alzato il vento. Affamati, dimagriti, senza un tetto, senza attrezzi... i deportati si sono ritrovati in una situazione senza via di uscita. Non riuscivano neppure ad accendere dei fuochi per tentare di sfuggire al freddo. La gente ha incominciato a morire ... Il primo giorno sono stati sepolti 295 cadaveri. Solo il quarto o il quinto giorno dopo l'arrivo dei deportati sull'isola, le autorità hanno inviato per nave un po' di farina, in ragione di qualche etto a persona. Dopo aver ricevuto la loro magra razione, te persone correvano verso la riva del fiume e tentavano di diluire con l'acqua un po' della farina nella sapka [il cappello], nei pantaloni o nella giacca. Ma moltissimi deportati tentavano di ingoiare la farina così com'era, e spesso morivano soffocati. Nel corso di rutto il soggiorno sull'isola i deportati nof hanno ricevuto nient'altro che un po' di farina ...

L'espansione dei campi 105

11 20 agosto, tre mesi dopo, continuava il funzionario di Partito,

asi 4000 dei 6114 "coloni" erano morti. I sopravvissuti erano riu-iti a restare vivi mangiando la carne dei cadaveri. Secondo un altro Detenuto, che conobbe alcuni dei sopravvissuti nella prigione di Tornsk, avevano l'aspetto di "morti viventi" ed erano tutti agli arresti con l'accusa di cannibalismo.3

Anche quando il tasso di mortalità non era così tremendo, le condi-Zj0ni di vita nei più noti tra i primi progetti del Gulag potevano raggiungere livelli intollerabili. Il Bamlag, un campo organizzato per la costruzione di una tratta ferroviaria tra il lago Bajkal e l'Amur, nella zona più orientale del paese, nell'ambito della prevista rete ferroviaria espressa transiberiana, rappresenta un esempio significativo di come le cose potevano andare storte per la semplice mancanza di programmazione. La ferrovia fu costruita in fretta e furia, come il canale del mar Bianco, senza fare preparativi di sorta. I progettisti del campo eseguirono la perlustrazione del terreno, il progetto e la costruzione della ferrovia simultaneamente; la costruzione cominciò prima che fossero ultimate le esplorazioni. Ciononostante, i periti dovettero consegnare i loro rapporti sui 2000 chilometri di percorso in meno di quattro mesi, senza scarpe, abiti e strumenti adatti. Le carte esistenti erano imprecise e questo provocò errori costosi. Secondo un sopravvissuto, due squadre di operai (ciascuna addetta al controllo di una tratta di percorso diversa) "scoprirono di non poter arrivare a congiungersi e ultimare il lavoro, perché i due fiumi lungo i quali procedevano si univano solo sulle carte, mentre in realtà seguivano diversi percorsi".4

Al quartier generale del campo, nella città di Svobodnyj (che significa "libero"), appena iniziati i lavori, cominciarono ad arrivare contingenti di detenuti a ritmo continuo. Tra il gennaio 1933 e il gennaio 1936 il numero dei prigionieri passò da poche migliaia a oltre 180.000. Molti erano già deboli all'arrivo, senza scarpe e vestiti malamente, malati di scorbuto, sifilide, dissenteria, e tra loro c'erano sopravvissuti alle carestie che avevano imperversato nelle campagne dell'Unione Sovietica all'inizio degli anni Trenta. Il campo era del tutto impreparato. Al loro arrivo, i prigionieri di un contingente vennero sistemati m Baracche buie e fredde, e fu distribuito loro del pane coperto di pol-Vere. I comandanti del Bamlag non erano in grado di fare fronte al Caos, come ammettevano nei rapporti inviati a Mosca, ed erano parti-

arrnente ma^ attrezzati per affrontare il problema dei prigionieri

°'i- Di conseguenza, quelli troppo ammalati per lavorare furono

essi a razioni disciplinari e lasciati a patire la fame. Un contingente

persone morì trentasette giorni dopo l'arrivo.5 Prima che la fer-

Gulag

rovia fosse ultimata, probabilmente perirono decine di migliaia di prigionieri.

Storie simili venivano raccontate in tutto il paese. Nei cantieri ferro-viari del Sevlag, a nordest di Arcangelo, nel 1929 gli ingegneri stabili-rono che il numero dei prigionieri assegnati al loro progetto doveva essere sestuplicato. Tra aprile e ottobre di quell'anno, cominciarono ad arrivare come previsto altri contingenti di detenuti, e non trovarono nulla. Un prigioniero ricorda: "Non c'erano baracche, e nemmeno un villaggio. Da un lato si ergevano delle tende per le guardie e l'attrezzatura. Non c'era molta gente, forse 1500 persone. Per la maggior parte contadini di mezza età. Ex kulaki. E criminali. Non si vedevano intellettuali...".6

Tuttavia, anche se i complessi di campi allestiti all'inizio degli anni Trenta erano disorganizzati e impreparati a ricevere prigionieri denutriti, provenienti dalle regioni colpite dalla carestia, non tutti precipitarono in una disorganizzazione fatale. Se le circostanze nell'insieme erano favorevoli - una situazione locale abbastanza buona, abbinata a un forte sostegno da Mosca - alcuni trovavano il modo per svilupparsi. Con rapidità sorprendente elaborarono strutture burocratiche più stabili, costruirono edifici più solidi, produssero persino un'elite locale dell'NKVD. In definitiva, un piccolo gruppo colonizzò interi territori del paese, convertendoli in grandi prigioni. Due dei campi istituiti all'epoca - la spedizione Uhtinskaja e il "trust" Dal'stroj - alla fine acquisirono le dimensioni e lo status di imperi industriali. Vale la pena di esaminare più a fondo come nacquero.

Per il viaggiatore distratto, una corsa in automobile lungo l'autostrada di cemento crepato che porta dalla città di Syktyvkar, capitale amministrativa della repubblica dei Komi, alla città di Uhta, uno dei principali centri industriali della regione, sembrerebbe offrire scarso interesse. È lunga 200 chilometri e in alcuni punti si potrebbe definire consunta per l'uso; corre in mezzo a sconfinate foreste di pini e piane paludose. Anche se attraversa alcuni fiumi, non offre grandi visuali, se non la splendida monotonia della taigà, il paesaggio subartico per cui è rinomata la repubblica dei Komi (anzi tutta la Russia settentrionale).

Benché la vista non sia spettacolare, osservando con più attenzione si notano alcune stranezze. Se si sa dove guardare, in certi punti si intravedono infossature del terreno proprio lungo la strada. Sono le ultime tracce rimaste del campo di lavoro che un tempo si estendeva per tutta la lunghezza della strada, e delle squadre di prigionieri "a

L'espansione dei campi 107

. £u costruita. Dato che i cantieri edili erano provvisori, spesso i de-

nuti non venivano alloggiati in baracche ma in zemljcmka, rifugi scarti sottoterra: da qui le tracce nel terreno.

In un'altra tratta della strada si trovano i resti di un campo di tipo niù permanente, un tempo annesso a un piccolo giacimento petrolièro. Ora il sito è ricoperto di erbacce e arbusti, ma non è difficile scostarli portando alla luce assi di legno marce, forse conservatesi grazie al petrolio depositato sulle scarpe dei prigionieri, e pezzi di filo spinato. Qui non c'è un monumento commemorativo, che esiste invece a Bograzdino, un campo di transito più avanti lungo la strada, in cui erano ospitate 25.000 persone. Del campo non rimane traccia. In un altro punto lungo la strada, dietro un moderno distributore di carburante proprietà della Lukoil, una società russa di oggi, si erge una torretta di guardia di legno, circondata da rottami metallici e pezzi di filo spinato arrugginiti.

Proseguendo fino a Uhta in compagnia di qualcuno che conosca bene la città, si fa in fretta a scoprirne la storia segreta. Tutte le strade che portano nella cittadina furono costruite dai prigionieri, come tutti i palazzi di uffici e gli edifici residenziali del centro. Proprio nel cuore della città c'è un parco, progettato e costruito da architetti detenuti; un teatro in cui si esibivano gli attori incarcerati; e solide case di legno dove un tempo abitavano i comandanti del campo. Oggi i dirigenti della Gazprom, altra nuova società sovietica, vivono nella stessa strada immersa nel verde, in edifici moderni.

Eppure, nella repubblica dei Komi, Uhta non è un caso unico. Anche se in un primo momento è difficile vederle, su tutto il territorio di questa vasta regione di taigà e tundra che si estende a nord di San Pie-troburgo e a occidente degli Urali si possono trovare tracce del Gulag. I prigionieri hanno progettato e costruito tutte le città più importanti della repubblica, non solo Uhta ma anche Syktyvkar, Pecora, Vorkuta e Inta. Hanno costruito ferrovie e strade della repubblica, oltre all'in-frastruttura industriale originaria. Ai detenuti che vi vennero inviati negli anni Quaranta e Cinquanta, questo paese sembrava soltanto un immenso campo, e lo era. Molti dei suoi villaggi vengono chiamati ancora dalla popolazione con i loro nomi di epoca staliniana: "China-own", per esempio, dove era rinchiuso un gruppo di cinesi; o "Berli-n°", un tempo abitato da prigionieri di guerra tedeschi.

Le origini di questa vasta repubblica di prigioni risalgono a una

delle prime spedizioni della OGPU, la Uhtinskaja, che partì nel 1929

p esplorare quello che allora era un territorio selvaggio e disabitato.

er 8'i standard sovietici, la spedizione era relativamente ben prepa-

Gulag

rata. Aveva specialisti in sovrabbondanza, per la maggior parte già detenuti nel sistema delle Soloveckie: nel solo 1928 erano stati inviati allo SLON sessantotto ingegneri minerari, vittime delle campagne di quell'anno contro i "disorganizzatori" e i "sabotatori", accusati di frenare lo slancio dell'Unione Sovietica verso l'industrializzazione.7

Nel novembre 1928, con un tempismo misteriosamente perfetto, la OGPU arrestò anche N. Tihonovic, un noto geologo. Dopo averlo gettato nella prigione Butyrka di Mosca, però, non lo sottoposero ai consueti interrogatori ma lo portarono a una riunione per un progetto. Senza perdere tempo in preliminari, ricordava in seguito Tihonovic otto persone che non si erano presentate gli chiesero di punto in bianco come preparare una spedizione nella repubblica dei Komi. Se fosse andato lui, che abbigliamento avrebbe scelto? Quante provviste? Quali attrezzi? Quale mezzo di trasporto? Tihonovic, che era stato la prima volta nella regione nel 1900, propose due itinerari. I geologi potevano viaggiare via terra, a piedi e a cavallo, nel fango e nelle foreste della taigà deserta fino al villaggio di Syktyvkar, all'epoca il più grande della zona. In alternativa potevano scegliere la via d'acqua: dal porto di Arcangelo sul mar Bianco, navigando lungo le coste settentrionali fino alla foce della Pecora, e poi continuando nell'interno sui suoi affluenti. Tihonovic consigliò la seconda soluzione, sottolineando che le barche potevano portare più attrezzature pesanti. La spedizione, su suo consiglio, andò via mare. Tihonovic, restando detenuto, ne divenne il geologo capo.

Non si perse tempo e non si fece economia, perché i dirigenti sovietici consideravano la spedizione una priorità urgente. In maggio, l'amministrazione moscovita del Gulag incaricò due capi della polizia segreta di dirigere il gruppo: E.P. Skaja, ex capo del servizio di sicurezza all'istituto Smol'nyj, primo quartier generale di Lenin durante la rivoluzione, e in seguito capo del servizio di sicurezza al Cremlino, e S.F. Sidorov, il più importante esperto di pianificazione economica della OGPU. Più o meno nello stesso periodo, i capi della spedizione scelsero la loro "manodopera", 139 prigionieri tra i piu forti e più sani del campo di transito dello SLON a Kem', tra cui e e-rano politici, kulaki e comuni. Dopo altri due mesi di preparativi, erano pronti. Il 5 luglio 1929, alle sette del mattino, i prigionieri cominciarono a caricare l'attrezzatura sul battello a vapore dello SLON, il Gleb Bokij, e meno di ventiquattr'ore dopo presero il largo.

La spedizione via mare incontrò molti ostacoli, e non stupisce. A quanto pare a molte delle guardie si congelarono i piedi e una fugS1 durante una sosta ad Arcangelo. Anche piccoli gruppi di prigioni60

L'itinerario della spedizione Uhtinskaja, repubblica dei Komi, 1937

Isole ^ Soloveckie \ ;

Arcangelo

Kotlas

Óibju (Uhta)

Syktyvkar

300 Km

. Percorso

. Linea di confine tra foresta e tundra

riuscirono a fuggire in diversi punti del tragitto. Quando alla fine la spedizione raggiunse la foce della Pecora, risultò difficile trovare delle guide locali. I komi non volevano avere niente a che fare con i detenuti 0 la polizia segreta nemmeno a pagarli, e rifiutarono di aiutare a portare il battello controcorrente. Ciononostante, dopo sette settimane la nave alla fine arrivò. Il 21 agosto allestirono il loro campo base nel vil-laggio di Cibju, che in seguito sarebbe stato ribattezzato Uhta.

Dopo l'estenuante trasferimento, Tumore generale doveva essere

°Jtrernodo tetro. Avevano compiuto un lungo viaggio, e dove erano

rnvati? Cibju offriva poco agli esseri umani in materia di agi. Uno

P^cialista prigioniero, un geografo che si chiamava Kulevskij, ricor-

a la sua prima impressione del luogo: "Mi si strinse il cuore alla vista

paesaggio selvaggio, deserto: la torretta di guardia, di dimensioni

Ssurde, nera, solitària, le due misere capanne, la taigà e il fango... ".8

Uhtpeclag, repubblica dei Komi, 1937

Avrebbe avuto poco tempo per altre riflessioni. Verso la fine di agosto si sentivano già nell'aria segnali d'autunno. Non c'era tempo da perdere. Non appena arrivati, i prigionieri cominciarono subito a lavorare dodici ore al giorno per costruire il campo e i cantieri di lavoro. I geologi partirono alla ricerca dei punti migliori in cui perforare il terreno per estrarre il petrolio. In autunno arrivarono altri specialisti. Durante la "stagione" del 1930 giunsero anche nuovi contingenti di detenuti, prima ogni mese, poi ogni settimana. Alla fine del primo anno di spedizione, il numero dei prigionieri era arrivato quasi a mille.

Nonostante la pianificazione preventiva, in quei primi giorni sia prigionieri sia confinati vivevano in condizioni terribili, come dovunque. Per la maggior parte erano costretti ad alloggiare in tende, perche non c'erano baracche. Non c'erano nemmeno indumenti e scarpe ifl" vernali a sufficienza, e il cibo scarseggiava. Farina e carne arrivavano in quantità inferiori a quelle ordinate, e lo stesso dicasi per i medicina'

L'espansione dei campi 111

ij numero dei prigionieri malati e troppo deboli aumentò, come am-:sero in un rapporto compilato in seguito i dirigenti della spedizio-Anche l'isolamento era difficile da sopportare. I nuovi campi erano sì lontani dal mondo civile, così lontani persino dalle strade, per non arlare delle linee ferroviarie, che nella repubblica dei Komi il filo spinato non venne utilizzato fino al 1937. Fuggire era considerato inutile. Eppure, i prigionieri continuavano ad arrivare, e altre spedizioni continuavano a partire dal campo base di Uhta. Se avevano successo, ciascuna di queste spedizioni fondava a sua volta un nuovo campo base, un lagpunkt, talvolta in luoghi remoti al limite dell'impossibile, a molti giorni o settimane di marcia da Uhta. Poi fondavano a loro volta nuovi sottocampi, per costruire strade o fattorie collettive che provvedessero alle necessità dei prigionieri. In questo modo i campi si espansero come erbaccia nelle foreste deserte dei Komi.

Alcune spedizioni ebbero natura temporanea. Tale fu il destino di una delle prime, che partì da Uhta nell'estate del 1930 alla volta dell'isola di Vajgaé, nel mar Glaciale artico. Le spedizioni geologiche precedenti avevano già trovato depositi di piombo e zinco sull'isola, ma anche la spedizione Vajgac, come veniva chiamata, aveva una buona dotazione di geologi prigionieri. Alcuni di loro si comportarono in modo esemplare, al punto che la OGPU li premiò: furono autorizzati a farsi raggiungere da mogli e figli, e a vivere sull'isola con loro. Il campo era così sperduto che i comandanti a quanto pare non si preoccupavano dell'eventualità di evasioni, e consentivano ai prigionieri di andare ovunque desiderassero, in compagnia di altri detenuti o di lavoratori liberi, senza permessi o lasciapassare speciali. Per incoraggiare il "lavoro d'assalto nell'Artico", Matvej Berman, allora capo del Gulag, concesse ai prigionieri dell'isola Vajgac due giorni di sconto sulla pena per ogni giornata in cui avessero realizzato la norma.9 Ma nel 1934 la miniera fu inondata dall'acqua e l'anno dopo la OGPU trasferì dall'isola prigionieri e attrezzature.10

Altre spedizioni si dimostrarono più stabili. Nel 1931, una squadra di ventitré persone partì da Uhta per nave diretta verso nord, risalendo i corsi d'acqua verso l'entroterra, con l'intenzione di comin-lare gli scavi di un enorme giacimento carbonifero, il bacino di °rkuta, scoperto l'anno prima nella tundra artica della parte set-flcrionale della repubblica dei Komi. Come in tutte le spedizioni genere, i geologi indicavano la strada, i prigionieri manovravano .  arche, e un piccolo contingente della OGPU comandava l'opera-°ne, avanzando a piedi, a fatica, tra i nugoli di insetti che infesta-° la tundra nei mesi estivi. Trascorsero le prime notti all'addiac-

Gulag

ciò, poi costruirono in qualche modo un campo, superarono l'inverno, e la primavera seguente costruirono una miniera rudimentale-Rudnik n. 1. Servendosi di picconi, badili e carri di legno, senza at trezzature meccaniche di alcun genere, i prigionieri cominciarono a estrarre il carbone. Dopo appena sei anni Rudnik 1 era diventato \a città di Vorkuta e il quartier generale del Vorkutlag, uno dei campi più grandi e più duri di tutto il sistema Gulag. Nel 1938 Vorkuta ospitava 15.000 prigionieri e aveva prodotto 188.206 tonnellate di carbone.11

Dal punto di vista tecnico, non tutti i nuovi abitanti della repubblica dei Komi erano prigionieri. Dal 1929 le autorità avevano cominciato anche a inviare nella regione i "confinati speciali". All'inizio erano quasi tutti kulaki, che arrivavano con mogli e figli e nelle intenzioni dovevano cominciare a provvedere a se stessi coltivando la terra. Lo stesso Jagoda aveva dichiarato che ai confinati sarebbe stato concesso del "tempo libero" per coltivare l'orto, allevare maiali, andare a pescare e costruirsi la casa: "All'inizio vivranno con le razioni del campo, poi a proprie spese".12 Anche se tutto questo appare piuttosto idilliaco, in realtà nel 1930 arrivarono 5000 famiglie di confinati, oltre 16.000 persone, e come al solito non trovarono quasi nulla. C'erano 268 baracche costruite prima del novembre di quell'anno, anche se ne servivano almeno settecento. Ogni stanza era condivisa da tre o quattro famiglie. Cibo, indumenti o calzature invernali non erano sufficienti. Nei villaggi di confino mancavano i bagni, le strade, il servizio postale e i cavi telefonici.13

Anche se alcuni morivano e molti tentavano di fuggire - alla fine di luglio c'erano stati 344 tentativi di evasione - i confinati della repubblica dei Komi divennero una dotazione permanente del sistema di campi locale. In seguito le ondate di repressione ne portarono molti altri, soprattutto polacchi e tedeschi. I confinati non vivevano dietro il filo spinato, ma facevano gli stessi lavori dei prigionieri, talvolta negli stessi posti. Nel 1940 un campo per il taglio degli alberi fu trasformato in un villaggio di confinati, e questo in un certo senso dimostra che i gruppi erano intercambiabili. Molti confinati, inoltre, finirono per lavorare come guardie o amministratori nei campi-14

Con il tempo, questa espansione geografica trovò riscontro neUa denominazione dei campi. Nel 1931 la spedizione Uhtinskaja fu ribattezzata Campo di lavoro correzionale Uhto-Pecorskij, o Uhtpeclag-Nei vent'anni seguenti, l'Uhtpeclag fu anch'esso ribattezzato rnolte altre volte, riorganizzato e diviso, in conformità ai cambiamenti ge° grafici, all'espandersi del suo impero e al proliferare della sua "

L'espansione dei campi 113

zia Alla fine del decennio, in realtà, l'Uhtpeclag non era più un

ico campo, ma aveva dato origine a un'intera rete di sottocampi,

a dozzina in tutto, tra cui l'Uhtpeclag e l'Uhtizemlag (petrolio e carbone), l'Ust'vym'lag (industria forestale), Vorkuta e Inta (giacimenti carboniferi) e il Sevzeldorlag (ferrovie).15

Nel corso degli anni successivi, l'Uhtpeclag e le sue filiali si consolidarono, perciò si dotarono di nuove istituzioni e nuovi edifici in conformità alle loro esigenze sempre crescenti. C'era bisogno di ospedali e gli amministratori li costruirono, introducendo sistemi per preparare alcuni detenuti alla professione di farmacisti e infermieri. Per sopperire alle necessità alimentari, edificarono le proprie aziende agricole collettive, depositi e un proprio sistema di distribuzione. Avendo bisogno di elettricità, costruirono industrie elettriche, e per soddisfare la domanda di materiale edilizio, costruirono fabbriche di mattoni.

Necessitando di operai specializzati, addestrarono quelli che avevano. Molti degli ex kulaki erano analfabeti o semianalfabeti, e questo provocava problemi enormi quando si dovevano affrontare progetti di una certa complessità tecnica. Perciò l'amministrazione dei campi allestì scuole di formazione tecnica, che a loro volta richiesero altri edifici e nuovi quadri: insegnanti di matematica e di fisica, come pure "istruttori politici" per sovrintendere al loro lavoro.16 Negli anni Quaranta Vorkuta, una città costruita su un terreno permanentemente gelato, dove le strade dovevano essere riasfaltate e le tubature riparate ogni primavera, aveva ormai un istituto geologico e un'università, teatri, teatrini di marionette, piscine e asili.

Ma anche se l'espansione dell'Uhtpeclag non fu molto pubblicizzata, non avvenne comunque per caso. Senza dubbio il comandante locale del campo voleva che i suoi progetti progredissero, e che il suo prestigio aumentasse in misura corrispondente. Furono le esigenze immediate, non la pianificazione centrale, a portare alla creazione di molti nuovi settori del campo. Eppure esisteva una palese simbiosi tra le necessità del governo sovietico (un posto dove relegare i suoi nemici) e quelle delle autorità locali (più gente per tagliare gli alberi). Nel 1930, quando da Mosca scrissero offrendo di manda-e dei coloni condannati al confino, per esempio, i dirigenti locali ne rono molto contenti.17 Anche ai massimi livelli si discuteva del demo dell'Uhtpeclag. Vale la pena di osservare che nel novembre

2 il Politbjuro, presente Stalin, dedicò la maggior parte di una °ne a discutere del suo stato attuale e dei progetti per il futuro, nei minimi dettagli le possibilità e i rifornimenti. Dai

Gulag

verbali della riunione sembra che il Politbjuro prendesse tutte le de cisioni, o almeno vagliasse tutte le proposte di una certa importar", za: quali miniere dovevano essere sfruttate; quali ferrovie cosrruite. quante macchine, trattori e barche erano necessari; quante famigli^ di confinati poteva assorbire il campo. Il Politbjuro stanziò anche i fondi per le costruzioni: oltre 26 milioni di rubli.18

Non può essere un caso se durante i tre anni successivi a questa decisione il numero dei prigionieri giunse quasi a quadruplicarsi dai 4797 della metà del 1932 ai 17.852 della metà del 1933.19 Ai mas/ simi livelli della gerarchla sovietica, qualcuno desiderava ardentemente l'espansione deU'Uhtpeclag. Dato il suo potere e il suo prestigio, non poteva essere altri che Stalin in persona.

Nello stesso modo in cui, nella memoria collettiva, Auschwitz è diventato il lager simbolo di tutti gli altri campi di concentramento nazisti, la parola "Kolyma" rievoca le condizioni di vita più estreme del Gulag. "Kolyma" ha scritto uno storico "è un fiume, una catena montuosa, una regione e una metafora."20 Ricca di minerali, e soprattutto ricca d'oro, la vasta regione della Kolyma, nell'estremo angolo nordorientale della Siberia, sulle coste del Pacifico, con molta probabilità è la zona più inospitale della Russia. È più fredda della repubblica dei Komi - d'inverno le temperature scendono regolarmente oltre 45 gradi sotto zero - e ancora più isolata.21 Per raggiungere i campi della Kolyma, i prigionieri percorrevano tutta l'URSS in treno fino a Vladivostok, un viaggio che a volte durava tre mesi. Compivano il resto del tragitto su navi, verso nord, oltre il Giappone, attraversando il mare di Ohotsk fino al porto di Magadan, punto di accesso alla vallata fluviale della Kolyma.

Il primo comandante della Kolyma è uno dei personaggi più brillanti della storia del Gulag. Eduard Berzin, vecchio bolscevico, era stato comandante della prima divisione di fucilieri lettoni, che nel 1918 svolgevano il servizio di sicurezza al Cremlino. In seguito contribuì a sgominare i socialisti rivoluzionari, avversar! di Lenin, e a smascherare il "complotto britannico" di Bruce Lockhart.22 Nel 1926 Stalin gli assegnò il compito di organizzare il Vislag, uno dei pritf11 campi di vaste dimensioni. Si impegnò nel lavoro con enorme entusiasmo, inducendo uno storico del Vislag a definire il suo periodo a1 comando l'apice del "periodo romantico" del Gulag.23

La OGPU costruì il Vislag nello stesso periodo del canale del maf Bianco, e a quanto pare Berzin approvava molto (anzi, almeno a par°' le, con entusiasmo) le idee di Gor'kij sulla riabilitazione dei prig10

Kolyma, 1937

K O LY M A

P  KOLYMAJ

U  R S S

S1APPONE COREA

Maldjak  Sejmòan * . -Elgen Jagodnoje

" Butygjcag

.Magadan Buhta Nagaevo

500 Km

len. Trasudava benevolenza e paternalismo, e aprì per i suoi dete-

uh sale cinematografiche e circoli di discussione, biblioteche e men-

e "stile ristorante". Piantò giardini con fontane, e creò un piccolo

raino zoologico. Inoltre pagava un regolare salario ai prigionieri e

tuava la stessa politica del "rilascio anticipato in cambio di un buon

T~

Gulag

lavoro" dei comandanti del canale del mar Bianco. Non tutti beneficiavano di questi privilegi: i detenuti che erano poveri operai, o soltanto sfortunati, potevano essere spediti in qualcuno dei molti piccoli lagpunkt del Vislag per il taglio degli alberi nella taigà, dove le condizioni erano pessime e il tasso di mortalità più elevato, i detenuti venivano torturati e persino assassinati senza tanta pubblicità.24

Comunque, l'intenzione di Berzin era che il suo campo almeno in apparenza fosse un'istituzione decorosa. Tutto questo lo fa sembrare a prima vista uno strano candidato alla carica di massimo dirigente dell'Amministrazione edilizia nell'estremo nordest, il Dal'stroj, una sorta di "trust" destinato a sviluppare la regione della Kolyma. Infatti non c'era nulla di particolarmente romantico o idealistico nella fondazione del Dal'stroj. L'interesse di Stalin per la regione risaliva al 1926, quando inviò come rappresentante negli Stati Uniti un ingegnere, perché studiasse le tecniche minerarie.25 In seguito, tra il 20 agosto 1931 e il 16 marzo 1932, al Politbjuro si parlò almeno undici volte della geologia e della geografia della Kolyma, e Stalin stesso intervenne più volte nella discussione. Come era accaduto per le deliberazioni della commissione Janson sull'organizzazione del Gulag, il Politbjuro conduceva tali dibattiti, per dirla con le parole dello storico David Nordlander, "non nello stile retorico idealistico della edificazione socialista, ma piuttosto con il linguaggio pratico delle priorità degli investimenti e dei conseguenti ritorni finanziari". Nella sua corrispondenza con Berzin, Stalin parlava di questioni relative alla produttività dei detenuti, alle quote, alla produzione, non facendo mai cenno agli ideali della riabilitazione dei prigionieri.26

D'altra parte, forse il talento di Berzin di saper creare immagini pubbliche idilliache corrispondeva al desiderio dei massimi dirigenti sovietici. Infatti, anche se in seguito il Dal'stroj fu assorbito nell'amministrazione del Gulag, all'inizio in pubblico se ne parlava sempre come di un'entità a sé stante, un complesso industriale del tutto estraneo al Gulag. Le autorità fondarono senza clamore il Sev-vostlag, un campo del Gulag che prestava prigionieri al Dal'stroj. In pratica le due istituzioni non furono mai in competizione. Il capo del Dal'stroj era anche capo del Sevvostlag, e lo sapevano tutti. Sulla carta, però, erano due istituzioni ben distinte e, dal punto di vista ufficiale, venivano presentate come entità diverse.27

Questa organizzazione aveva una certa logica. Innanzitutto, poiché per il Dal'stroj era fondamentale attrarre volontari, soprattutto ingegneri e donne in età da marito (entrambi scarseggiavano nella Kolyma), Berzin condusse molte campagne di reclutamento nel tentativo

I

L'espansione dei campi 117

di persuadere dei "liberi lavoratori" a emigrare nella regione, aprendo persino degli uffici a Mosca, Leningrado, Odessa, Rostov e Novo-sibirsk.28 Forse era questa l'unica ragione per cui Stalin e Berzin volevano evitare che la Kolyma fosse collegata troppo strettamente con il Gulag: temevano che metterli in relazione potesse far fuggire potenziali reclute. Anche se non esistono prove concrete a riguardo, è possibile che tali macchinazioni servissero anche a salvare l'immagine all'estero. Come il legname sovietico, l'oro della Kolyma doveva essere venduto in Occidente, in cambio di tecnologie e macchinari di cui c'era disperato bisogno. Questo può contribuire a spiegare perché i dirigenti sovietici volevano far apparire i campi auriferi della Kolyma una "normale" impresa economica. Un boicottaggio dell'oro sovietico sarebbe stato molto più dannoso del boicottaggio del legname.

In ogni caso, l'interesse personale di Stalin per la Kolyma fu forassimo sin dall'inizio. Nel 1932 esigeva addirittura rapporti quotidiani sull'industria dell'oro e, come già detto, si interessava ai dettagli dei progetti di esplorazione del Dal'stroj e al raggiungimento delle quote previste. Inviava ispettori a esaminare i campi e pretendeva che i dirigenti del Dal'stroj si recassero di frequente a Mosca. Quando il Polit-bjuro stanziò dei fondi per il Dal'stroj, emanò anche ordini precisi sul modo in cui si doveva spendere il denaro, come era accaduto per l'Uhtpeclag.29

D'altra parte, l'"autonomia" del Dal'stroj non era del tutto fittizia. Pur dovendo rispondere a Stalin, Berzin riuscì anche a lasciare la sua impronta nella Kolyma, al punto che in seguito l'"epoca Berzin" veniva ricordata con una certa nostalgia. A quanto pare Berzin aveva preso alla lettera le mansioni assegnategli: il suo lavoro consisteva nel far sì che i prigionieri estraessero quanto più oro possibile. Non era quindi nel suo interesse affamarli, ucciderli o punirli, contavano soltanto le cifre della produzione. Sotto il primo capo del Dal'stroj, quindi, la vita era assai meno dura di quanto divenne in seguito, e i prigionieri molto meno affamati. Fu anche per questo motivo che nei primi due anni di esistenza del Dal'stroj la produzione d'oro della Kolyma aumentò di otto volte.30

Va detto che nei primi anni regnavano come altrove caos e disorganizzazione. Nel 1932 c'erano 10.000 prigionieri attivi nella regione, compreso un gruppo di ingegneri e specialisti detenuti che possedevano competenze ideali per l'obiettivo prefissato, oltre a più di 3000 "lavoratori liberi", impiegati nei campi ma non detenuti.31 A queste cifre ingenti si accompagnava un alto tasso di mortalità. Basti dire che soltanto 9928 prigionieri, dei 16.000 inviati nella Kolyma durante il

Gulag

primo anno di comando di Berzin, arrivarono vivi a Magadan.32 Gli altri, con abiti inadeguati e poche protezioni, furono lasciati a se stessi nelle bufere invernali: in seguito i sopravvissuti dopo il primo anno di residenza dissero che solo metà delle persone arrivate erano ancora vive.33

Comunque, una volta superato il caos iniziale, la situazione a poco a poco migliorò. Berzin lavorava sodo per elevare il tenore di vita, a quanto pare perché pensava, e non senza ragione, che per estrarre maggiori quantità d'oro i prigionieri dovevano stare al caldo ed essere ben nutriti. Per questo Thomas Sgovio, un sopravvissuto americano della Kolyma, scrisse che i "veterani" del campo parlavano con calore del regime di Berzin: "quando la temperatura scendeva sotto i 60 gradi, non venivano mandati a lavorare. Avevano tre giorni di riposo al mese. Ricevevano cibo nutriente in quantità adeguate. Gli zek [detenuti] ricevevano indumenti caldi, berretti di pelliccia e stivali di feltro...".34 Anche Varlam Salamov, un altro sopravvissuto della Kolyma, i cui Racconti di Kolyma sono tra i più crudi di tutto il genere sui campi, parlava così del periodo di Berzin:

un vitto eccellente, il vestiario adatto, la giornata lavorativa di quattro-sei ore in inverno e dieci in estate, e salari colossali ai detenuti, che consentivano ai medesimi di aiutare le famiglie e di tornare sul continente al termine della pena guardando con una certa tranquillità al futuro. ... A quei tempi i cimiteri per detenuti erano tanto rari che si poteva quasi credere che i koly-miani fossero immortali.35

Le condizioni di vita erano migliori che in seguito, e il comando del campo trattava i prigionieri con maggiore umanità. All'epoca, la linea di demarcazione fra i liberi lavoratori volontari e i prigionieri era sfumata. I due gruppi avevano rapporti normali: talvolta ai detenuti veniva permesso di trasferirsi dalle baracche e andare a vivere nei villaggi dei liberi lavoratori, e potevano essere promossi al ruolo di guardie armate oppure di geologi e ingegneri.36 Marija loffe, deportata nella Kolyma alla metà degli anni Trenta, fu autorizzata a tenere libri e carta, e ricordava che alla maggior parte delle famiglie confinate era concesso di vivere insieme.37

Inoltre i detenuti potevano partecipare, almeno in certa misura, agli eventi politici dell'epoca. Come per il canale del mar Bianco, nella Kolyma i detenuti che diventavano lavoratori d'assalto e gli stacanovisti venivano gratificati. Un prigioniero del Dal'stroj divenne addirittura "istruttore dei metodi di lavoro stacanovisti" e i detenuti che fornivano buone prestazioni ricevevano un piccolo distintivo e venivano dichiarati "lavoratori d'assalto della Kolyma".38

L'espansione dei campi 119

Come era accaduto neH'UhtpecTag, nella Kolyma le infrastnitture ben presto diventarono più sofisticate. Oltre alle miniere, negli anni Trenta i prigionieri costruirono le banchine e i frangiflutti del porto di Magadan, oltre all'unica strada importante della regione, la "superstrada" della Kolyma, che parte da Magadan diretta a nord. I lagpunkt del Sevvostlag erano situati per la maggior parte lungo questa strada, tanto che spesso il loro nome era costituito dal numero di chilometri che li separavano dalla città ("campo chilometro quarantasette", per esempio). I prigionieri costruirono anche la città di Magadan, che nel 1936 aveva 15.000 abitanti e continuò a svilupparsi. Tornata in città nel 1947, dopo aver scontato sette anni in campi estremamente isolati, Evgenija Ginzburg "per poco non svenne dalla sorpresa e l'ammirazione" per la velocità con cui si era sviluppata Magadan: "Solo fra qualche settimana mi accorgerò che quegli edifici si possono contare sulle dita. Ma per me, adesso, è un'autentica capitale".39

In effetti, la Ginzburg fu tra i pochi prigionieri a notare questo bizzarro paradosso. Era strano, ma vero: nella Kolyma, come nella repubblica dei Komi, il Gulag a poco a poco portava la "civiltà", se così si può chiamare, in remote zone disabitate. Si stavano costruendo strade dove prima c'erano solo foreste; sorgevano case nelle paludi. La popolazione locale veniva messa da parte per fare spazio a città, fabbriche, ferrovie. Anni dopo, una donna, figlia di un ex cuoco di campo in un avamposto remoto del Lokcimlag, uno dei campi forestali della repubblica dei Komi, mi ha raccontato come si viveva quando i campi funzionavano ancora. "Ooh, c'era un magazzino intero pieno di verdura, campi pieni di zucche, non era tutto desolato come adesso". Ha agitato il braccio in segno di disgusto verso il piccolo villaggio, verso quelle che un tempo erano le celle di punizione, rimaste disabitate. "E c'erano vere luci elettriche, e i caporioni andavano avanti e indietro quasi tutti i giorni su automobili di grossa cilindrata..."

La Ginzburg racconta le stesse cose in modo più eloquente:

Misterioso è il cuore umano! Con tutta l'anima maledico colui che ha Pensato di costruire una città in quell'eterna distesa gelata, riscaldandola c°n il sangue, e poi con le lacrime, di uomini assolutamente innocenti. E nello stesso tempo avverto chiaramente un senso di orgoglio idiota... Com'è cresciuta, come si è fatta bella, in quei sette anni di assenza, la nostra Magadan! Proprio irriconoscibile. Ammiro ogni lampione, ogni tratto d'asfalto, Persine il manifesto che annuncia alla casa della cultura la rappresentazione Bell'operetta La principessa dei dollari. Probabilmente perché ci è caro ogni Pezzette della nostra esistenza, anche il più amaro.40

Gulag

Nel 1934, nella Kolyma, nella repubblica dei Komi, in Siberia ' Kazakistan e in altre zone dell'Unione Sovietica l'espansione del G lag aveva seguito lo stesso modello delle Soloveckie. Nei primi tern . la negligenza, il caos e la disorganizzazione provocavano molte vitti me inutili. Anche in assenza di vero e proprio sadismo, la sconsidera ta crudeltà delle guardie, che trattavano i prigionieri come animai' domestici, provocò immani tragedie.

Ma con il passare del tempo, a scossoni, il sistema parve andare a posto. Dopo le punte raggiunte nel 1933, il tasso di mortalità ebbe un brusco calo, quando nel paese la carestia smise di essere acuta e i campi furono organizzati meglio. Nel 1934, secondo le statistiche ufficiali, si aggirava intorno al 4 per cento.41 L'Uhtpeclag produceva petrolio, la Kolyma oro, i campi della regione di Arcangelo legname. In tutta la Siberia si costruivano strade. Errori e cantonate erano all'ordine del giorno, ma questo valeva per tutta l'URSS. La rapidità dell'industrializzazione, la mancanza di pianificazione e la penuria di specialisti esperti rendevano inevitabili incidenti e sprechi, come di certo sapevano i dirigenti dei grandi progetti.

Nonostante gli intoppi, la OGPU stava rapidamente diventando uno dei più importanti agenti economici del paese. Nel 1934 il Dmit-lag, che costruì il canale Moscova-Volga, disponeva di quasi 200.000 prigionieri, più di quelli utilizzati per il canale del mar Bianco.42 Anche il Siblag si era sviluppato, e nel 1934 disponeva di 63.000 prigionieri, mentre sempre nel 1934 il Dal'lag, a quattro anni dalla sua fondazione, si era espanso di oltre tre volte e ospitava 50.000 prigionieri. In tutta l'Unione Sovietica erano stati fondati altri campi: il Sai/lag in Uzbekistan, dove i prigionieri lavoravano in aziende agricole collettive: lo Svir'lag, nei dintorni di Leningrado, dove si tagliavano alberi e si producevano manufatti di legno per la città; e il Karlag in Kazakistan, che impiegava i prigionieri come braccianti agricoli, operai dell'industria e persino pescatori.43

Sempre nel 1934, la OGPU venne riorganizzata e cambiò di nuovo nome, anche per riflettere il suo nuovo status e le maggiori responsabilità. Quell'anno la polizia segreta diventò ufficialmente il commissariato del popolo dell'Interno e divenne comunemente nota con un nuovo acronimo: NKVD. Con tale nome ora controllava il destin di oltre un milione di prigionieri.44 Ma la calma relativa non dovev durare. Di colpo il sistema si sarebbe trasformato del tutto, in una o voluzione che avrebbe distrutto insieme schiavi e padroni.

VI IL GRANDE TERRORE E LE SUE CONSEGUENZE

Ciò accadde allorché a sorridere

Era solo chi è morto - lieto della pace.

E, appendice inutile, si sbatteva

Leningrado intorno alle sue carceri.

E allorché, impazzite di tormento,

Condannate ormai andavano le schiere

E breve canzone di distacco

I fischi cantavano delle locomotive.

Stelle di morte incombevano su noi

E innocente la Russia si torceva

Sotto sanguinosi stivali

E copertoni di neri cellulari.

ANNA AHMATOVA, Requiem1

Se si esaminano i dati in modo obiettivo, il 1937 e il 1938, ricordati come gli anni del Grande terrore, non furono i più micidiali nella storia dei campi. E nemmeno furono caratterizzati da una grande espansione: il numero dei prigionieri aumentò molto nei dieci anni successivi, e raggiunse il culmine nel 1952, in un periodo quindi assai posteriore Aspetto a quanto comunemente si crede. Sebbene le statistiche disponibili siano incomplete, è comunque evidente che i tassi di mortalità nei campi furono più alti sia al culmine della carestia che imperversò "elle zone rurali nel 1932, sia nel 1933 e nel momento peggiore della Seconda guerra mondiale, tra il 1942 e il 1943, quando il numero complessivo dei detenuti nei campi di lavoro forzato, nelle prigioni e nei Carnpi per prigionieri di guerra si aggirava intorno ai 4 milioni.2

Colendo puntualizzare una questione essenziale per gli storici, bi-s°gna dire che l'importanza del 1937 e del 1938 è stata esagerata. Per-^o Solzenicyn sostiene che chi ha descritto gli abusi dello stalinismo 'Tisiste sempre sui soliti anni '37-38", e in un certo senso ha ragione.3

Gulag

In fondo, il Grande terrore seguì due decenni di repressione; dal 1918 in avanti avvennero regolarmente arresti e deportazioni di massa: all'inizio degli anni Venti degli avversari politici, poi, alla fine del decennio, dei "sabotatori", e quindi, all'inizio degli anni Trenta, dei kulaki. Tutti i casi di arresti di massa erano accompagnati da retate periodiche alla ricerca dei responsabili di "disordini sociali".

Il Grande terrore fu seguito a sua volta da un numero ancora maggiore di arresti e deportazioni di polacchi, ucraini e baltici dai territori invasi nel 1939; dei "traditori" dell'Armata rossa, presi prigionieri dal nemico, di persone normali che dopo l'invasione nazista del 1941 si trovavano dalla parte sbagliata della linea del fronte. In seguito, nel 1948, vennero riarrestati ex detenuti dei campi, e ancora dopo, fino alla morte di Stalin, furono incarcerati in massa gli ebrei. Ma sebbene forse le vittime del 1937-1938 siano più note, e anche se non si ripeterono mai in nessuna forma gli spettacolari "processi farsa" pubblici di quegli anni, gli arresti del Grande terrore non vanno considerati tanto il culmine della repressione, quanto piuttosto una delle ondate di repressione più inconsuete subite dal paese sotto il regime di Stalin: riguardò anche questa volta le classi privilegiate - vecchi bolscevichi, membri importanti dell'esercito e del Partito - in generale coinvolse una più vasta congerie di persone, e si concluse con un numero inaudito di esecuzioni capitali.

Invece, per la storia del Gulag, il 1937 è un vero e proprio spartiacque. Infatti fu l'epoca in cui i campi si trasformarono temporaneamente da prigioni gestite con indifferenza, in cui la gente moriva per caso, in veri e propri campi di sterminio dove il numero dei prigionieri soppressi di proposito, o semplicemente assassinati, era assai più grande di quanto non fosse avvenuto in passato. Anche se tale trasformazione fu tutt'altro che coerente, e anche se già nel 1939 lo sterminio deliberato si ridusse di nuovo - in seguito il tasso di mortalità continuò ad aumentare e calare in conseguenza degli eventi bellici e di motivi ideologici fino al 1953, anno della morte di Stalin -il Grande terrore segnò nello stesso modo la mentalità delle guardie e quella dei prigionieri.4

Sicuramente gli abitanti del Gulag, come i loro concittadini nel resto del paese, avevano avvertito le prime avvisaglie della crescente ondata di terrore. Dopo l'omicidio ancora misterioso di un famoso dirigente del Partito di Leningrado, Sergej Kirov, avvenuto nel dicembre 1934, Stalin fece approvare una serie di decreti che conferivano all'NKVD poteri assai maggiori riguardo all'arresto, al giudizio e all'esecuzione capitale dei "nemici del popolo". Già qualche setti-

// Grande terrore e le sue conseguenze 123

dopo furono applicati contro due bolscevichi di spicco, Kame-nev e Zinov'ev, entrambi in passato avversali di Stalin, che vennero arrestati insieme a migliaia di loro sostenitori e presunti sostenitori, in larga parte abitanti a Leningrado. Di conseguenza avvennero espulsioni di massa dal Partito comunista, all'inizio non molto più ingenti di altre verificatesi nei dieci anni precedenti.

A poco a poco l'epurazione diventò più violenta. Durante la primavera e l'estate del 1936, gli investigatori di Stalin si lavorarono Kamenev, Zinov'ev e un gruppo di ex seguaci di Lev Trockij, perché accettassero di "confessare", in un grande processo farsa pubblico, che ebbe luogo - come previsto - in agosto. Poi li giustiziarono tutti, insieme a molti loro parenti. A tempo debito seguirono i processi di altri importanti bolscevichi, tra cui il carismatico Nikolaj Buharin. Anche le loro famiglie ne subirono le conseguenze.

La mania degli arresti e delle esecuzioni si diffuse anche ai livelli inferiori della gerarchia di Partito e della società. Fu incitata dall'alto da Stalin, che se ne serviva per eliminare i suoi nemici, creare una nuova classe di dirigenti fedeli, terrorizzare la popolazione sovietica e riempire i campi di concentramento. A partire dal 1937, Stalin cominciò a firmare ordini che venivano inviati ai capi delle NKVD regionali, in cui si fissava il numero delle persone da arrestare (senza fornire motivazioni) in determinate zone. Alcuni dovevano essere condannati a pene di "prima categoria", cioè a morte, altri invece a pene di "seconda categorìa", cioè alla detenzione nei campi di concentramento da otto a dieci anni. I più "incalliti" del secondo gruppo dovevano essere collocati in prigioni politiche speciali, probabilmente per impedire loro di contagiare altri detenuti dei campi. Alcuni studiosi ritengono che l'NKVD stabilisse le quote a seconda del presunto livello di concentra-zione di "nemici" nelle diverse parti del paese. Comunque, è anche possibile che non esistesse alcun criterio del genere.5

Leggere tali ordini è come leggere le disposizioni di un burocrate che mette a punto l'ultima versione del piano quinquennale. Ne riportiamo uno come esempio, datato 30 luglio 1937 (vedi tabella p. 124).

Com'è evidente, l'epurazione non aveva nulla di spontaneo: i nuovi campi per i nuovi prigionieri furono addirittura preparati in anticipo. E non incontrò nemmeno grande resistenza. L'amministra-zione dell'NKVD di Mosca si aspettava entusiasmo dalle strutture Provinciali, che aderirono con zelo all'operazione. "Chiediamo l'autorizzazione a fucilare ancora settecento persone delle bande del Uasnak e altri elementi antisovietici" scrisse a Mosca nel settembre 1937 l'NKVD dell'Armenia; Stalin firmò di persona una richiesta ana-

Gulag

Repubblica la categorìa 2a categorìa Totale

RSS* dell'Azerbaigian RSS dell'Armenia 1.500 500 3.750 1.000 5.250 1.500

RSS della Bielorussia 2.000 10.000 12.000

RSS della Geòrgia RSS del Kirghizistan RSS del Tagikistan RSS del Turkmenistan 2.000 250 500 500 3.000 500 1.300 1.500 5.000 750 1.800 2.000

RSS dell'Uzbekistan 750 4.000 4.750

RSSA** della Baschiria  500 1.500 2.000

RSSA mongolo-burlata RSSA del Dagestan RSSA della Carelia 350 500 300 1.500 2.500 700 1.850 3.000 1.000

RSSA del Kabardino-Balkaria 300 700 1.000

RSSA della Crimea 300 1.200 1.500

RSSA dei Komi 100 300 400

RSSA dei Calmucchi RSSA dei Mari 100 300 300 1.500 400 1.8006

* Repubblica socialista sovietica.

** Repubblica socialista sovietica autonoma.

Ioga, e molte altre furono ratificate da lui o da Molotov: "Innalzo a 6600 unità il numero dei prigionieri di prima categoria nella regione di Krasnojarsk". Nel febbraio 1938, durante una riunione del Po-litbjuro, l'NKVD ucraina fu autorizzata ad arrestare 30.000 tra "ku-laki e altri elementi antisovietici" in più della quota stabilita.7

Una parte dell'opinione pubblica sovietica era favorevole ai nuovi arresti: l'improvvisa rivelazione dell'esistenza di enormi quantità di "nemici", molti dei quali si annidavano al vertice del Partito, spiegava di certo perché, nonostante la Grande svolta di Stalin, la collettivizzazione e il piano quinquennale, l'Unione Sovietica fosse ancora così povera e arretrata. La maggior parte della popolazione, comunque, era troppo terrorizzata e confusa dallo spettacolo di famosi rivo-luzionari che confessavano e di vicini che scomparivano durante la notte per avere opinioni su quanto stava accadendo.

Nel Gulag l'epurazione colpì innanzitutto i comandanti: molti furono eliminati. Se nel resto del paese il 1937 fu ricordato come l'anno in cui la rivoluzione divorò i suoi figli, nel sistema dei campi sarebbe stato ricordato come l'anno in cui il Gulag inghiottì i suoi fondatori, a cominciare dal vertice: Genrih Jagoda, il capo della polizia segreta,

// Grande terrore e le sue conseguenze 125

che può essere considerato il maggior responsabile dell'espansione del sistema dei campi, venne processato e fucilato nel 1938, anche se in una lettera indirizzata al Soviet supremo aveva implorato che la risparmiassero. "È duro morire" scrisse colui che aveva mandato a morte tanti altri. "Mi butto in ginocchio di fronte al Popolo e al Partito e chiedo loro di perdonarmi, di salvarmi la vita."8

Il sostituto di Jagoda, un tappetto di nome Nikolaj Ezov (era alto appena un metro e mezzo), cominciò subito a emanare disposizioni riguardo agli amici e ai collaboratori di Jagoda all'interno dell'NKVD. Attaccò anche i suoi familiari, come fece pure in seguito nei confronti di altri, arrestando sua moglie, i genitori, le sorelle, i nipoti e le nipoti. Una di esse racconta come reagì sua nonna, la madre di Jagoda, il giorno in cui fu mandata in esilio con tutta la famiglia:

"Se soltanto Gena [Jagoda] potesse vedere quello che stanno facendoci" disse piano qualcuno.

D'un tratto la nonna, che non aveva mai alzato la voce, si voltò verso l'appartamento deserto, e gridò forte: "Sia maledetto!". Varcò la soglia e la porta si chiuse sbattendo. Il suono echeggiò nella scala come l'eco di quella maledizione materna.9

Molti capi e amministratori dei campi, introdotti e promossi da Jagoda, ne condivisero il destino. Come altre centinaia di migliaia di cittadini sovietici, furono accusati di vasti complotti, arrestati e interrogati durante elaborati processi che potevano riguardare centinaia di persone. Uno dei più famosi fu incentrato su Matvej Berman, capo del Gulag dal 1932 al 1937.1 suoi anni di servizio per il Partito - ne era diventato membro nel 1917 - non gli giovarono. Nel dicembre 1938 l'NKVD lo accusò di aver diretto "un'organizzazione trockista di destra per il terrorismo e il sabotaggio" che aveva creato "condizioni privilegiate" per i detenuti dei campi, indebolito di proposito la "preparazione militare e politica" delle guardie (da cui il grande numero di evasioni) e sabotato i progetti edilizi del Gulag (da cui la lentezza dei loro progressi).

Berman non cadde da solo. In tutta l'Unione Sovietica i capi e i dirigenti dell'amministrazione furono accusati di appartenere alla stessa organizzazione di "trockisti di destra" e giustiziati d'un sol colpo. I verbali dei processi hanno un carattere surreale: è come se tutte le frustrazioni degli anni precedenti, le norme non realizzate, le strade costruite male, le fabbriche erette dai prigionieri che non funzionavano, avessero prodotto una sorta di crisi di follia.

Aleksandr Izrailev, vicecapo dell'Uhtpeclag, per esempio, fu condannato per aver "ostacolato lo sviluppo dell'estrazione di carbo-

Gulag

ne". Aleksandr Polisonov, un colonnello che lavorava nella divisi0. ne delle guardie armate del Gulag, fu accusato di avere creato per . suoi subordinati "condizioni impossibili". A Mihail Goskin, cap0 della sezione costruzioni ferroviarie del Gulag, fu imputato di aver "elaborato progetti irrealistici" per la linea ferroviaria Volocaevka-Komsomolec. Isaak Ginzburg, capo della divisione medica del Gulag, fu ritenuto responsabile dell'alto tasso di mortalità tra i prigi0. nieri, e lo accusarono di avere concesso privilegi ad altri detenuti controrivoluzionari, facendo in modo che venissero rilasciati in anticipo per motivi di salute. Questi uomini furono per la maggior parte condannati a morte, anche se a molti la condanna fu commutata in pene da scontare nei campi o in prigione, e qualcuno sopravvisse fino alla riabilitazione, nel 1955.10

Un numero impressionante dei primi amministratori del Gulag subì lo stesso destino. Fedor Ejhmans, ex capo dello SLON, poi capo del dipartimento speciale della OGPU, venne fucilato nel 1938. La-zar' Kogan, secondo capo del Gulag, nel 1939. Il successore di Ber-man alla direzione del Gulag, Izrail Pliner, mantenne la carica per un anno appena, poi venne fucilato nel 1939.11 Era come se il sistema avesse bisogno di giustificare il suo pessimo funzionamento, avesse bisogno di qualcuno da accusare. O forse parlare di "sistema" è fuorviante: forse era lo stesso Stalin ad aver bisogno di spiegare perché i suoi progetti sul lavoro coatto, elaborati con estrema cura, progredivano con tanta lentez/a e con risultati tanto diseguali.

Ci sono alcune strane eccezioni alla rovina generale. Infatti Stalin, oltre a stabilire chi andava arrestato, talvolta decideva anche chi non doveva essere accusato. Per quanto curioso, benché quasi tutti i suoi ex colleghi fossero morti, Naftalij Frenkel' riuscì a evitare la pallottola del boia. Nel 1937 era il capo del Bamlag, la linea ferroviaria Bajkal-Amur, uno dei campi più caotici e letali dell'estremo oriente. Eppure nel 1938, quando nel Bamlag vennero arrestati 48 "trockistì", per qualche motivo non fu incluso nel gruppo.

L'assenza del suo nome dalla lista degli arrestati è ancora pw strana perché il giornale del campo lo attaccava, accusandolo ape'' tamente di sabotaggio. Tuttavia il suo fascicolo fu trattenuto a Mosca per qualche misteriosa ragione. Il procuratore locale del Bamlag che conduceva le indagini su Frenkel' non riusciva a capire le ragi°' ni del ritardo. "Non capisco perché questa inchiesta è stata sottop°' sta a "decreto speciale" né chi ha emanato tale "decreto special6 * scrisse ad Andrej Vysinskij, procuratore capo dell'Unione Soviet^ "Se non arrestiamo le spie diversioniste trockiste, chi dovrei^111

// Grande terrore e le sue conseguenze 127

. arrestare?" Stalin, a quanto pare, riusciva ancora benissimo a protegga i suoi amici.^

La vicenda forse più drammatica riguardante capi dei campi si

rificò verso la fine del 1937 a Magadan. Cominciò con l'arresto di Fduard Berzin, capo del Dal'stroj. Come diretto subordinato di Jago-, Berzin doveva aver previsto che gli avrebbero presto stroncato la arriera. Probabilmente ebbe dei sospetti quando, in dicembre, arrivò un grupP0 intero di nuovi "assistenti" dell'NKVD, tra cui il maggio16 Pavlov, un ufficiale dell'NKVD di grado superiore allo stesso Ber/in. Anche se Stalin spesso presentava in questo modo ai funzionar! destinati a cadere in disgrazia i loro successori, Berzin non diede segno di diffidenza. Quando il vapore con il nome famigerato Nikolaj Ezov entrò nella baia di Nagaevo, con a bordo la nuova squadra, Berzin organizzò una banda di ottoni per accoglierla. Trascorse poi diversi giorni per passare le competenze ai suoi nuovi "collaboratori", che in pratica non lo prendevano nemmeno in considerazione, quindi si imbarcò sul Nikolaj Ezov.

Arrivato a Vladivostok, si comportò in modo normalissimo: salì sull'espresso transiberiano per Mosca. Alla partenza era passeggero di prima classe, quando arrivò era un prigioniero. A 70 chilometri da Mosca, nella cittadina di Aleksandrov, il suo treno si fermò. Il 19 dicembre 1937, nel cuore della notte, Berzin fu arrestato sulla banchina della stazione, fuori dalla capitale per non fare scalpore, e trasferito alla Lubjanka, la prigione centrale di Mosca, per essere interrogato. Lo accusarono subito di "attività controrivoluzionaria, sabotaggio e disfattismo". L'NKVD gli imputò di aver creato un'"organizzazione di spionaggio e diversione trockista nella Kolyma", che secondo l'accusa inviava oro al governo giapponese e complottava per consentire al Giappone di occupare i territori più orientali della Russia. Lo accusarono anche di spionaggio in favore dell'Inghilterra e della Germania. Evidentemente il capo del Dal'stroj si era dato molto da rare. Lo fucilarono nell'agosto 1938 nei sotterranei della Lubjanka.

L assurdità delle accuse non mutò i ritmi dell'operazione. Alla fine

1 Dicembre Pavlov, che lavorava in fretta, aveva ormai arrestato la

maggior parte dei subordinati di Berzin. I.G. Filippov, capo del Sevvo-

ag< sotto tortura rilasciò un'ampia dichiarazione che in pratica li coinvolgeva tutti. Confessò di aver reclutato Berzin nel 1934, e ammi-

c e la loro "organizzazione antisovietica" aveva progettato di rove-

^ re il governo sovietico, tra l'altro "preparando una rivolta armata

att ° P0^616 sovietico nella Kolyma... organizzando e mettendo in

azioni terroristiche contro i capi del Partito comunista e del go-

Gulag

verno sovietico ... sobillando la popolazione locale ... e incoraggiando la diffusione del sabotaggio". L'assistente capo di Berzin, Lev Epstejn, in seguito confessò di "aver raccolto informazioni riservate per la Francia e il Giappone, mentre compiva azioni di sabotaggio, disorganizzazione e saccheggi". Il medico capo del policlinico di Maga-dan fu accusato di avere "rapporti con elementi stranieri e doppiogiochisti". Alla fine dell'operazione, centinaia di persone che avevano avuto rapporti con Berzin, geologi, burocrati, ingegneri, erano morte

0 si trovavano in carcere.13

Esaminando la vicenda nel suo contesto, si scopre che l'elite della Kolyma non fu l'unica potente struttura eliminata nel 1937 e nel 1938. Alla fine dell'anno, Stalin aveva epurato dall'Armata rossa una schiera di illustri personaggi, tra cui il maresciallo Tuhacevskij, vicecommissario del popolo alla Difesa, Jon Jakir e Ubor'evic, comandanti d'armata, e altri, insieme a mogli e figli, che per la maggior parte finirono fucilati, mentre alcuni furono inviati nel Gulag.14 Anche il Partito comunista subì una sorte analoga. L'epurazione non coinvolse soltanto i potenziali nemici di Stalin ai massimi livelli del Partito, ma anche l'elite di provincia, i primi segretari di Partito, i capi dei soviet regionali e provinciali e i dirigenti di fabbriche e istituzioni importanti.

In certi posti e in determinate classi sociali l'ondata di arresti fu talmente capillare che, come scrisse in seguito Elena Sidorkina, anche lei arrestata nel novembre 1937, "nessuno sapeva che cosa a-vrebbe portato il domani"; "Le persone avevano paura di parlare tra loro o di vedersi, soprattutto le famiglie in cui il padre o la madre erano già stati "isolati". Anche i rari individui sconsiderati al punto da schierarsi con gli arrestati venivano automaticamente condannati ali' " isolamento" " .15

Ma non tutti morivano e non tutti i campi furono rastrellati: anzi,

1 capi dei campi meno noti se la passavano addirittura meglio di un ufficiale medio dell'NKVD, come dimostra il caso di VA. Barabanov, un protetto di Jagoda. Nel 1935, quando era vicecomandante del Dmitlag, Barabanov fu arrestato insieme a un collega perché era arrivato al campo "in stato di ubriachezza". Di conseguenza perse il lavoro, fu condannato a una lieve pena detentiva e nel 1938, quando avvennero gli arresti di massa degli scagnozzi di Jagoda, lavorava in un campo sperduto nell'estremo nord. Nella confusione generale, si dimenticarono della sua esistenza. Nel 1954 gli avevano ormai perdonato la passione per l'alcol: aveva di nuovo fatto carriera ed era ormai vicecomandante dell'intero Gulag.16

// Grande terrore e le sue conseguenze 129

Ma nella memoria collettiva dei campi, il 1937 non fu ricordato soltanto come l'anno del Grande terrore; fu anche l'anno in cui scomparvero definitivamente la propaganda sui successi della rieducazione dei criminali e quel poco che rimaneva delle vuote dichiarazioni sui grandi ideali. Forse accadde anche perché le persone più impegnate nella campagna si trovavano in prigione o erano morte. Jagoda, che nella memoria collettiva era collegato al canale del mar Bianco, non c'era più. Maksim Gor'kij era morto all'improvviso nel giugno 1936. L.L. Averbach, collaboratore di Gor'kij nella stesura di Kanal imeni Stalina e autore di Ot prestuplenija k trudu (Dal crimine al lavoro), un testo successivo dedicato al canale Moscova-Volga, era stato denunciato come trockista e arrestato nell'aprile 1937. Lo stesso accadde a molti altri scrittori che avevano partecipato all'opera collettiva di Gor'kij sul canale del mar Bianco.17

Ma tale cambiamento aveva anche radici più profonde. Con il radi-caliz/arsi della retorica politica e l'intensificarsi della caccia ai criminali politici, cambiò anche la situazione dei campi in cui si trovavano questi pericolosi individui. In un paese stretto nella morsa della paranoia e ossessionato dalle spie, l'esistenza stessa di campi per "nemici" e "disorganizzatori" divenne un argomento se non proprio segreto (negli anni Quaranta era comune nelle grandi città vedere prigionieri che lavoravano sulle strade e nei caseggiati), almeno da non trattare mai in pubblico. Il dramma di Nikolaj Pogodin, Aristokraty, fu messo all'indice nel 1937, per venire riesumato, ma solo per un breve periodo, nel 1956, assai dopo la morte di Stalin.18 Anche Kanal imeni Stalina di Gor'kij finì sulla lista dei libri proibiti, per ragioni ancora oscure. Forse i nuovi capi dell'NKVD non riuscivano più a sopportare le frivole lodi per il decaduto Jagoda in disgrazia. O forse la sua ottimistica descrizione dei "nemici" rieducati non aveva più senso, in un'epoca in cui continuavano a spuntare nemici nuovi e in cui, anziché rieducarli, li giustiziavano a centinaia di migliaia. Di certo le sue storie sui mansueti cekisti onniscienti non erano facilmente conciliabili con le epurazioni di massa dell'NKVD.

I comandanti del Gulag a Mosca, desiderosi di dimostrare grande zelo nell'impresa di isolare i nemici del popolo, emanarono nuovi regolamenti di segretezza interna, che comportavano costi enormi. Or-mai tutta la corrispondenza doveva viaggiare con corrieri speciali. Solo nel 1940, i corrieri dell'NKVD dovettero consegnare 25 milioni di Pacchetti segreti. Chi inviava lettere ai campi scriveva ormai solo a caselle postali, perché gli indirizzi erano diventati riservati. Anzi, i campi scomparvero dalle carte. Persine quando se ne parlava nella

Gulag

corrispondenza interna dell'NKVD si utilizzavano degli eufemismi, come "obiettivi speciali" (specobekty) o "sottosezioni" (podrazdelenija), in modo da celarne le vere attività.19

Per riferimenti più precisi ai campi e alle attività dei loro abitanti, l'NKVD escogitò un codice elaborato che poteva essere utilizzato nei telegrammi aperti. Un documento del 1940 elenca i termini in codice, alcuni dei quali sono caratterizzati da una bizzarra creatività. Per indicare le donne incinte si doveva usare la parola "libri" e per quelle con figli "ricevute". Gli uomini, invece, erano "conti". I confinati erano "spazzatura" e i prigionieri sotto indagine "buste". Un campo era un "cartello", la divisione di un campo una "fabbrica" II nome in codice di un campo era "Libero".20

Anche il linguaggio utilizzato nei campi cambiò. Fino all'autunno del 1937, nei documenti e nelle lettere ufficiali spesso i detenuti venivano indicati secondo la professione, per esempio chiamandoli "taglialegna". Nel 1940, un singolo prigioniero non era più un taglialegna, ma solo un prigioniero, un zakljucennyj', o nella maggior parte dei documenti z/k, pronunciato zek.21 Un gruppo di prigionieri divenne un kontingent (contingente o quota), termine burocratico e impersonale. E un detenuto non poteva più ottenere l'ambito titolo di stacanovista; l'amministratore di un campo inviò una lettera indignata ai suoi subordinati ordinando loro di definire i prigionieri che lavoravano molto "prigionieri che producono come lavoratori d'assalto" o "prigionieri che lavorano secondo il metodo stacanovista".

Logicamente, ormai il termine "prigioniero politico" non aveva più nessuna connotazione positiva. I politici socialisti avevano perso tutti i loro privilegi nel 1925, quando erano stati trasferiti dalle Solo-veckie. Ma ora il termine "politico" subì una radicale trasformazione. Indicava chiunque fosse condannato in base al famigerato articolo 58 del codice penale, che riguardava tutti i reati "controrivoluzionari" e aveva una connotazione decisamente negativa. I politici, chiamati talvolta "KR" (controrivoluzionari) kontra o kontrik, erano definiti sempre più spesso magi naroda, "nemici del popolo".22

Questa espressione, un epiteto giacobino usato per la prima volta da Lenin nel 1917, era stata riesumata da Stalin nel 1927 per definire Trockij e i suoi seguaci. Cominciò ad avere un significato più ampio nel 1936, quando il comitato centrale diramò alle organizzazioni di Partito delle regioni e delle repubbliche una lettera segreta "autografa di Stalin", secondo Dmitrij Volkogonov, il biografo russo del dittatore. La lettera spiegava che, pur apparendo "docile e inoffensivo", un nemico del popolo faceva di tutto per "infiltrarsi di soppiatto nel

// Grande terrore e le sue conseguenze 131

socialismo", anche se "in cuor suo non lo accettava". In altre parole, i nemici non potevano più essere individuati dalle idee che sostenevano di professare. Anche un successivo capo dell'NKVD, Lavrentij Berija, citava spesso Stalin, osservando: "È nemico del popolo non solo chi sabota, ma anche chi dubita della giustezza della linea del partito". Di conseguenza, si poteva considerare "nemico" chiunque si opponesse al governo di Stalin per qualsiasi ragione, anche se non

10 dichiarava apertamente.23

All'epoca, nei campi, "nemico del popolo" divenne l'espressione ufficiale usata nei documenti. Le donne venivano arrestate in quanto "mogli di nemici del popolo": era legittimo dal 1937, grazie a un decreto dell'NKVD, e lo stesso trattamento si applicava ai figli. Ufficialmente venivano condannati come "CSVR" (cleny sem'i vraga revoljucii), cioè "membri della famiglia di un nemico della rivoluzione".24 Molte mogli erano detenute nel campo Temnjakovskij, noto anche come Temlag, nella repubblica dei Mordvini, in Russia centrale. Anna Lari-na, moglie del dirigente sovietico in disgrazia Buharin, racconta: "In quella cella ci sentivamo tutte uguali, Tuhacevskij e Jakir, Buharin e Radek, Ubor'evic e Gamarnik: quando si è insieme anche la morte sembra bella!".25

Un'altra sopravvissuta del Temlag, Galina Levinson, ricordava che

11 regime del campo era relativamente mite, forse perché non avevano condanne, ma erano "solo "mogli"". La maggior parte di loro, notava, fino ad allora erano state "sovietiche fino al midollo" ed erano ancora convinte di essere state arrestate a causa delle macchinazioni di qualche organizzazione fascista segreta all'interno del Partito. Molte si tenevano impegnate scrivendo tutti i giorni lettere a Stalin e al comitato centrale, deprecando con ira il complotto ordito contro di loro.26

A parte le accezioni ufficiali, nel 1937 "nemico del popolo" era diventato anche un insulto. Dall'epoca delle Soloveckie, i fondatori e i progettisti dei campi avevano organizzato il sistema intorno all'idea che i prigionieri non fossero esseri umani, ma "unità lavorative": persino all'epoca della costruzione del canale del mar Bianco, Mak-sim Gor'kij aveva definito i kulaki "semianimali".27 Ora però la propaganda descriveva i "nemici" come esseri ancora inferiori, bestiame a due zampe. Inoltre, dalla fine degli anni Trenta Stalin cominciò a parlare in pubblico dei "nemici del popolo" come di "parassiti", "feccia", "immondizia", talvolta soltanto "erbaccia" da estirpare.28

Il messaggio era chiaro: gli zek non erano più considerati cittadini sovietici a pieno titolo, sempre ammesso che andassero considerati Persone. Un prigioniero osservò che subivano "una sorta di scomu-

Gulag

nica dalla vita politica" e venivano "esclusi dalle sue liturgie e dai suoi riti sacri".29 Dopo il 1937, nel rivolgersi ai prigionieri, nessuna guardia usava il termine tovarisc, "compagno", e i detenuti a volte venivano picchiati se si rivolgevano con questo appellativo alle guardie, che dovevano chiamare grazdanin, cittadino. All'interno dei campi o nelle prigioni non c'erano mai appese al muro fotografie di Stalin o di altri dirigenti. L'immagine di un treno pieno di prigionieri con i vagoni tappezzati di ritratti di Stalin e striscioni in cui si dichiarava che gli occupanti erano stacanovisti, abbastanza comune alla metà degli anni Trenta, dopo il 1937 diventò inimmaginabile. E anche celebrazioni del primo maggio, festa del lavoro, come un tempo se ne organizzavano nella fortezza di Soloveckij.30

Molti stranieri si sorprendevano per l'effetto profondo esercitato sui prigionieri da questa "scomunica" dalla società sovietica. Un detenuto francese, Jacques Rossi, autore del libro The Gulag Handbook, una guida enciclopedica della vita dei campi, racconta di come la parola "compagno" riusciva a elettrizzare i prigionieri che non la sentivano da molto tempo: "Una squadra che aveva appena ultimato un turno di undici ore e mezza accettava di restare a lavorare per il turno successivo solo perché l'ingegnere capo ... aveva detto ai detenuti: "Vi chiedo io di farlo, compagni"".31

Dopo la loro disumanizzazione, le condizioni di vita dei "politici" subirono un cambiamento molto significativo e, in certi campi, drastico. Negli anni Trenta il Gulag era generalmente disorganizzato, spesso crudele e talvolta micidiale. Ma in alcuni posti e in certi momenti, persino ai prigionieri politici era stata offerta una vera e propria possibilità di redenzione. Gli operai del canale del mar Bianco potevano leggere il giornale "Perekovka", un titolo significativo, poiché vuoi dire "riabilitazione". Nell'epilogo di Aristokraty di Pogodin è descritta la "conversione" di una ex sabotatrice, Flora Lejpman, figlia di una scozzese che aveva sposato un russo, si era trasferita a San Pietroburgo e poco dopo era stata arrestata per spionaggio. Nel 1934 Flora era andata a trovare la madre detenuta in un campo nelle foreste del nord e aveva scoperto che "tra guardie e prigionieri esisteva ancora un rapporto umano, perché il KGB di allora non era così sofisticato e non aveva i condizionamenti psicologici di alcuni anni dopo".32 La Lejpman sapeva di che cosa stava parlando, poiché anche lei fu incarcerata "alcuni anni dopo". Infatti, dopo il 1937 l'atteggiamento cambiò, soprattutto verso chi veniva arrestato in base all'articolo 58 del codice penale, cioè per reati "controrivoluzionari".

Nei campi, i politici che lavoravano come ingegneri o progettisti

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venivano sollevati dalle loro mansioni, ed erano costretti a tornare al "lavoro generico" cioè alla manovalanza non specializzata nelle miniere o nelle foreste: non si poteva più consentire ai "nemici" di occupare posti di responsabilità, per timore che compissero atti di sabotaggio. Pavlov, il nuovo dirigente del Dal'stroj, firmò di suo pugno l'ordine con cui si decretava che un geologo detenuto, I.S. Davidenko, doveva essere "utilizzato come operaio generico e non essere autorizzato in nessun caso a svolgere un lavoro autonomo". "Le attività di Davidenko dovrebbero essere sorvegliate con attenzione e sottoposte a osservazione quotidiana."33

In un rapporto protocollato nel febbraio 1939, anche il comandante del Belbaltlag dichiarava di aver "cacciato tutti i lavoratori non meritevoli di fiducia politica" e, in particolare, "tutti gli ex prigionieri condannati per reati controrivoluzionari". Da quel momento, aggiungeva con tono di autocompiacimento, le mansioni amministrative e tecniche sarebbero state riservate a "comunisti, membri del Komsomol [la lega giovanile dei comunisti] e specialisti fidati".34 Appare evidente che la produttività economica non era più la massima priorità del Gulag.

Il regime divenne più duro in rutto il sistema tanto per i criminali comuni quanto per i detenuti politici. All'inizio degli anni Trenta la razione di pane per il "lavoro generico" poteva arrivare addirittura a 1 chilogrammo al giorno, anche per coloro che non raggiungevano il cento per cento della norma, e fino a 2 chili per gli stacanovisti. Nei principali lagpunkt del canale del mar Bianco veniva servita carne dodici volte al mese.35 Alla fine del decennio, la razione garantita si era più che dimezzata, essendo scesa a 400-450 grammi, mentre chi riusciva a realizzare la norma otteneva un supplemento di 200 grammi. La razione punitiva calò a 300 grammi.36 Parlando di quell'epoca alla Kolyma, Varlam Salamov racconta:

Per trasformare un uomo giovane e sano che cominciava la sua carriera nell'aria fredda, pulita, del fronte aurifero, in un "relitto" bastava un periodo di venti-trenta giorni di lavoro quotidiano di sedici ore, senza giornate festive, abbinato alla fame sistematica, vestiti a brandelli, notti a sessanta gradi sotto zero in una tenda di tela piena di buchi... di intere brigate che cominciavano la stagione di estrazione dell'oro, non sopravviveva nessuno, salvo il capobrigata, il suo inserviente e qualche suo amico personale.37

Le condizioni peggiorarono anche perché il numero dei prigionie-11 aumentò, in alcuni posti con rapidità sconvolgente. Va detto che il Politbjuro aveva tentato di programmare in anticipo l'afflusso, e nel 1937 aveva ordinato al Gulag di avviare la costruzione di cinque

Gulag

nuovi campi per il taglio del legname nella regione dei Komi, e altri nelle "zone deserte del Kazakistan". Per accelerare i lavori di allestimento dei nuovi campi, il Gulag aveva ricevuto persino un "anticipo di 10 milioni di rubli". Inoltre, ai commissariati del popolo della Difesa, della Sanità e delle Foreste fu ordinato di trovare subito 240 ufficiali in comando e commissari politici, 150 medici, 400 aiutome-dici, 10 eminenti specialisti forestali e "50 laureati all'Accademia di tecnologia forestale di Leningrado" che lavorassero nel Gulag.38

Ciononostante, i campi esistenti furono di nuovo inondati dall'arrivo di nuove reclute, e il superaffollamento raggiunse i livelli registrati all'inizio degli anni Trenta. Secondo i calcoli di un sopravvissuto, un lagpunkt del Siblag, il campo forestale della Siberia, costruito per 250-300 persone, nel 1937 ospitava oltre 17.000 prigionieri. Anche se la cifra effettiva fosse un quarto di quella stimata, tale supervaluta-zione indica quanto si sentissero ammassati. Dato che non c'erano baracche, i detenuti allestivano delle zemljanka, e anche quelle erano talmente sovraffollate da rendere "impossibile muoversi senza pestare la mano a qualcuno". I prigionieri rifiutavano di uscire, per timore di perdere il loro posto sul pavimento. Non c'erano tazze né cucchiai, e le file per il cibo erano lunghissime. Scoppiò un'epidemia di dissenteria, e i prigionieri cominciarono ben presto a morire.

In seguito, durante una riunione di Partito, persino l'amministrazione dei campi del Siblag ricordò in forma solenne le "terribili lezioni del 1938" anche per "le giornate lavorative perdute" nella crisi.39 Il numero ufficiale delle vittime raddoppiò tra il 1937 e il 1938 nell'intero sistema dei campi. Non sono disponibili statistiche per tutte le situazioni, ma si ritiene che i tassi di mortalità fossero assai più alti nei campi dell'estremo nord, Kolyma, Vorkuta, Noril'sk, dove i prigionieri politici venivano inviati in gran numero.40

Ma i detenuti non perivano soltanto per la fame e l'eccesso di fatica. Nella nuova atmosfera, ben presto cominciò ad apparire insufficiente la reclusione dei nemici: meglio che cessassero di esistere del tutto. Insomma, il 30 luglio 1937 l'NKVD emanò l'ordine di sopprimere "ex kulaki, ladri e altri elementi antisovietici", indicando anche le quote di prigionieri del Gulag e di altri da giustiziare.41 Poi, il 25 agosto 1937, Ezov firmò un altro decreto con cui ordinava di sopprimere i detenuti delle prigioni politiche di massima sicurezza. Intimava al-l'NKVD di "ultimare entro due mesi l'operazione repressiva contro gli elementi controrivoluzionari più attivi... quelli condannati per spionaggio, diversione, terrorismo, attività sovversiva e banditismo, e quelli condannati per appartenenza a partiti antisovietici".42

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Aggiunse ai politici "banditi ed elementi criminali" attivi alle So-loveckie, che nel frattempo erano state trasformate in una prigione politica di massima sicurezza. La quota per le Soloveckie era stata fissata in anticipo: bisognava fucilare 1200 prigionieri ancora detenuti sulle isole. Un testimone ricorda il giorno in cui alcuni di essi furono convocati:

Senza alcun preavviso costrinsero tutti a uscire dalle celle aperte della fortezza per un appello generale. All'appello lesserò un elenco lunghissimo di nomi, molte centinaia, di persone destinate al trasferimento. Diedero loro due ore per prepararsi, e ordinarono di radunarsi nello stesso cortile centrale. Si verificò una terribile confusione. Alcuni corsero a raccogliere le proprie cose, altri a salutare gli amici. Dopo due ore, la maggior parte di chi doveva partire era al suo posto ... colonne di prigionieri si incamminarono a piedi con valigie e zaini .. ,43

A quanto pare, alcuni possedevano dei coltelli, con cui poi assalirono le guardie che avevano cominciato a sparare nei pressi del villaggio di Sandormoh, nella Carelia settentrionale, e ne ferirono diverse gravemente. Dopo quell'episodio, prima di fucilare i prigionieri gli agenti dell'NKVD li facevano spogliare lasciandoli solo con la biancheria intima. In seguito l'agente responsabile dell'operazione fu premiato con quello che gli archivi definiscono solo un "dono di valore", per il coraggio dimostrato nell'eseguire l'operazione. Alcuni mesi dopo fucilarono anche lui.44

Alle Soloveckie la scelta dei prigionieri da sterminare fu probabilmente casuale, ma in alcuni campi l'amministrazione approfittò dell'occasione per liberarsi di prigionieri particolarmente difficili. Forse è quanto accadde a Vorkuta, dove una buona parte dei prigionieri prescelti in realtà erano ex trockisti "veri", cioè seguaci di Trockij, alcuni dei quali avevano partecipato agli scioperi e ad altre rivolte avvenute nei campi. Un testimone racconta che, all'inizio dell'inverno 1937-38, l'amministrazione di Vorkuta aveva rinchiuso circa 1200 prigionieri, in larga parte trockisti, oltre ad altri politici e a un gruppetto di comuni, in una fabbrica di mattoni abbandonata e in una serie di grandi tende piene ("stipate") di gente. I prigionieri non ricevevano pasti caldi: "La razione quotidiana consisteva soltanto di 400 grammi di pane raffermo".45 Rimasero lì fino alla fine di marzo, quando arrivò da Mosca un nuovo gruppo di ufficiali dell'NKVD, che costituirono una "commissione speciale": chiamavano i prigionieri a gruppi di Quaranta e comunicavano loro che dovevano essere trasferiti. Ciascuno riceveva un pezzo di pane. I prigionieri nelle tende sentivano che ". portavano via a piedi e poi "rumore di spari".

Gulag

L'atmosfera dentro le tende divenne infernale. Un contadino, arrestato con l'accusa di "speculazione" - aveva venduto il suo porcel-lino al mercato -, stava sdraiato con gli occhi spalancati, e non reagiva a niente. "Che cosa ho in comune con voi politici?" gemeva di tanto in tanto. "Voi lottavate per il potere, per il rango, io voglio soltanto la mia vita." Un altro, secondo un testimone, si suicidò. Due impazzirono. Alla fine, quando erano rimaste circa cento persone, le sparatorie cessarono, nello stesso modo repentino e inesplicabile in cui erano cominciate. I capi dell'NKVD erano rientrati a Mosca. I prigionieri sopravvissuti tornarono alle miniere. In tutto il campo erano stati uccisi circa 2000 detenuti.

Non sempre Stalin ed Ezov mandavano estranei da Mosca a sbrigare il lavoro. Per accelerare il processo in tutto il paese, l'NKVD organizzava anche le "trojke", che operavano sia dentro i campi sia fuori. Una trojka è esattamente quello che ci si immagina: un gruppo di tre uomini, di solito costituito dal capo dell'NKVD regionale, il Primo segretario provinciale del Partito e un rappresentante dell'ufficio del procuratore o del governo locale. Insieme potevano condannare un prigioniero in absentia, senza diritto a un giudice, una giuria, un avvocato o un processo.46

Una volta arrivate, le trojke agivano in fretta. Il 20 settembre 1937, un giorno come tante altri, la trojka della repubblica della Carelia condannò 231 prigionieri del campo del canale del mar Bianco, il Belbalt-lag. Se si calcola una giornata lavorativa di dieci ore, senza intervalli, si impiegavano appena tre minuti per decidere la sorte di ogni persona. Molti condannati stavano scontando una pena stabilita molto prima, all'inizio degli anni Trenta. Adesso venivano accusati di nuovi reati, di solito connessi a cattiva condotta o a un atteggiamento negativo verso la rieducazione. Tra loro c'erano ex attivisti politici - menscevichi, anarchici, socialdemocratici - un'ex monaca che "rifiutava di lavorare per le autorità sovietiche" e un kulak che era stato il cuoco del campo. Lo accusarono di fomentare il malcontento tra gli stacanovisti. Le autorità sostennero che li aveva fatti aspettare di proposito in "lunghe code, perché prima distribuiva il cibo ai prigionieri comuni".47

L'isterismo non durò a lungo. Nel novembre 1938, le fucilazioni di massa cessarono bruscamente sia nei campi sia nel resto del paese. Forse l'epurazione era stata eccessiva persino per i gusti di Stalin. Magari, invece, il dittatore aveva ottenuto quello che voleva. O forse lo sterminio danneggiava troppo l'economia ancora debole. Qualunque fosse il motivo, al congresso del Partito comunista del marzo

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1939 Stalin affermò che l'epurazione era stata accompagnata da "più errori di quanto ci si sarebbe potuti aspettare".48

Non ci furono scuse o pentimenti, e non fu punito quasi nessuno. Solo qualche mese prima, Stalin aveva diramato una circolare a tutti i capi dell'NKVD, complimentandosi con loro per aver "inflitto una sconfitta schiacciante agli agenti sovversivi dello spionaggio dei servizi segreti stranieri" e per aver "epurato il paese dai sovversivi, i rivoltosi e i quadri dello spionaggio". Soltanto allora indicò alcune "carenze" dell'operazione, come le "procedure d'indagine abbreviate", la mancanza di testimoni e di prove a conferma.49

E non cessò nemmeno del tutto l'epurazione dell'NKVD. Nel novembre 1938 Stalin destituì dalla carica il presunto autore di tutti quegli "errori", Nikolaj Ezov, e lo condannò a morte. L'esecuzione avvenne nel 1940, dopo che Ezov aveva implorato la grazia della vita, proprio come Jagoda prima di lui. "Dite a Stalin che morirò con il suo nome sulle labbra."50

I protetti di Ezov caddero insieme a lui, come era accaduto qualche anno prima agli amici di Jagoda. Nella sua cella di prigione, Evgenija Ginzburg un giorno osservò che i regolamenti del campo incollati al muro erano stati tolti. Quando furono sostituiti, sull'angolo in alto a sinistra, dove prima si leggeva "Approvato. Il Commissario generale per la sicurezza di Stato: Ezov" avevano incollato della carta bianca. Ma i cambiamenti non finivano lì: "La prima volta coprirono il cognome di Weinstock [il comandante della prigione] sostituendolo con quello di Antonov. La seconda volta coprirono Antonov, e scrissero: "Direzione generale della prigione". "Così è più sicuro" ridemmo noi. "Non occorre più cambiare."".51

La produttività del sistema dei campi continuò a scendere in picchiata. Tra il 1936 e il 1937, nell'Uhtpeclag, le fucilazioni di massa, l'incremento del numero dei prigionieri malati e deboli, e la perdita di detenuti specializzati avevano fatto calare in modo vertiginoso la produzione del campo. Nel luglio 1938 fu convocata una commissione speciale del Gulag per discutere il grave deficit dell'Uhtpeclag.52 Calò anche la produzione delle miniere d'oro della Kolyma. Nemmeno l'oceanico afflusso di nuovi prigionieri riuscì a riportare a livelli Paragonabili a quelli del passato la quantità complessiva di oro e-stratto. Prima di essere deposto, lo stesso Ezov chiese altri finanziamenti per aggiornare la tecnologia obsoleta del Dal'stroj; come se fosse quello il vero problema.53

Intanto il comandante del Belbaltlag, quello che si era vantato con fierezza di avere estromesso i prigionieri politici dall'apparato

Gulag

amministrativo del campo, segnalava il "bisogno urgente di personale amministrativo e tecnico". Di certo, l'epurazione aveva reso politicamente "più sano" lo staff tecnico del campo, affermava con prudenza, ma ne aveva pure "aumentato le carenze". Nella 14a divisione del suo campo, per esempio, c'erano 12.500 prigionieri, di cui soltanto 657 non politici. Ma questi ultimi, per la maggior parte, stavano scontando gravi condanne per reati comuni, il che li rendeva inadatti a lavorare come specialisti e amministratori, mentre 184 erano analfabeti; ne restavano solo 70 da poter utilizzare come impiegati o ingegneri.54

Nel complesso, secondo le statistiche ufficiali, il volume di affari dei campi dell'NKVD calò da 3,5 miliardi di rubli del 1936 a 2 miliardi nel 1937. Calò anche il valore della produzione industriale lorda dei campi, da 1,1 miliardi di rubli a 943 milioni.55

Lo scarso rendimento e la vasta disorganizzazione della maggior parte dei campi, accompagnati dall'aumento di prigionieri malati e moribondi, non passarono inosservati a Mosca, dove nel corso delle riunioni della cellula centrale del Partito comunista dell'amministrazione generale del Gulag avvenivano discussioni oltremodo franche sull'economia concentrazionaria. A un'assemblea dell'aprile 1938 un burocrate denunciò "il caos e il disordine" dei campi nella regione dei Komi. Inoltre accusò i comandanti del campo di Noril'sk di avere realizzato una fabbrica di nichel "progettata male" e quindi di sprecare moltissimo denaro. Dato l'ammontare dei soldi spesi per allestire nuovi insediamenti nelle foreste, brontolò un altro amministratore, "avremmo potuto aspettarci di più. I nostri campi sono organizzati in modo poco sistematico. Gli edifici più importanti sono stati costruiti nel fango, e ora devono essere spostati".

Nell'aprile 1939, le proteste si intensificarono. Nei campi del nord c'era una "situazione particolarmente difficile per l'approvvigionamento alimentare", da cui conseguiva un'"altissima percentuale di operai deboli, prigionieri che non potevano lavorare affatto, e un alto tasso di mortalità e di malattie".56 Quell'anno il Consiglio dei com-missari del popolo ammise che oltre il sessanta per cento dei prigionieri dei campi soffriva di pellagra o di altre malattie causate dalla malnutrizione.57

Certo non tutti questi problemi erano da imputare al Grande terrore. Come abbiamo osservato, persino i campi forestali di Frenkel', tanto ammirati da Stalin, non erano mai stati davvero redditizi.58 Il lavoro coatto era e sarebbe sempre stato assai meno produttivo del lavoro libero. Ma non avevano ancora imparato questa lezione. Nel

// Grande terrore e le sue conseguenze 139

novembre 1938, quando Ezov fu destituito, il suo successore nella carica di capo dell'NKVD, Lavrentij Berija, cominciò quasi immediatamente a trasformare il regime dei campi, cambiando le regole, semplificando le procedure, tutto allo scopo di far diventare di nuovo i campi come Stalin li voleva: il fulcro dell'economia sovietica.

Berija non si era reso conto, almeno non ancora, che il sistema dei campi era improduttivo e dispendioso per natura. A quanto pare, invece, riteneva che i suoi dirigenti avessero dimostrato incompetenza. Era deciso a trasformare i campi in un settore davvero produttivo dell'economia sovietica, ma questa volta sul serio.

Berija non liberò mai dai campi, né allora né in seguito, un notevole numero di prigionieri condannati ingiustamente (anche se l'NKVD ne rilasciò alcuni dalle prigioni). Né allora né in seguito i campi divennero un po' più umani. La disumanizzazione dei "nemici" continuò a permeare il linguaggio delle guardie e degli amministratori fino alla morte di Stalin. I maltrattamenti dei politici, per non dire di tutti i detenuti, continuarono; nel 1939, sotto l'occhio attento di Berija, i primi prigionieri cominciarono a lavorare nelle miniere di uranio della Kolyma, in pratica senza la minima protezione dalle radiazioni.59 Berija cambiò il sistema soltanto per un aspetto: disse ai comandanti dei campi di mantenere in vita più prigionieri, e di servirsene meglio.

Anche se la linea politica seguita non fu mai chiara, in pratica Berija eliminò anche il divieto di assegnare mansioni tecniche a prigionieri politici esperti in ingegneria, o con competenze scientifiche e tecniche. In loco i comandanti avevano ancora paura a utilizzare come "specialisti" i prigionieri politici e questa situazione si protrasse fino allo smantellamento del Gulag, alla metà degli anni Cinquanta. Ancora nel 1948, i diversi dipartimenti dei servizi di sicurezza discutevano se fosse ammissibile consentire ai prigionieri politici di lavorare come specialisti; alcuni sostenevano che era troppo pericoloso dal punto di vista politico, altri affermavano che sarebbe stato diffìcile far funzionare i campi senza di loro.60 Berija non risolse mai questo dilemma, ma gli premeva troppo far diventare l'NKVD una parte produttiva dell'economia sovietica per permettere che i migliori scienziati e ingegneri del Gulag perdessero gli arti per il gelo nell'estremo nord. Nel settembre 1938 per gli scienziati detenuti cominciò a organizzare officine e laboratori speciali, chiamati dagli altri detenuti saraska. Solzenicyn, che lavorava in una saraska ("uno stabilimento di ricerca di massima segretezza, chiamato in forma ufficiale solo con un numero di codice"), la descrisse nel suo romanzo 11 primo cerchio:

Gulag

Nel vecchio edificio di proprietari terrieri nei pressi di Mosca, preliminarmente circondato di filo spinato, erano stati trasportati circa centocinquanta zek richiamati dai lager. ... A quei tempi la saraska non sapeva ancora su che cosa avrebbe dovuto effettuare le sue ricerche [a Mavrino] e si dedicava ad aprire le innumerevoli casse trasportate lì da due convogli ferroviari; si impadroniva di sedie e di tavoli comodi; selezionava la varia attrezzatura.. .61

All'inizio le saraska erano denominate "Agenzie per costruzioni speciali". Designate in seguito con un nome collettivo, il "Quarto dipartimento speciale" dell'NKVD, alla fine vi lavoravano circa mille scienziati. Talvolta Berija cercava di persona gli scienziati dotati e li faceva riportare a Mosca. Gli agenti dell'NKVD davano loro la possibilità di lavarsi, tagliarsi i capelli, rasarsi e riposarsi a lungo, poi li mandavano a lavorare nei laboratori della prigione. Una delle "scoperte" più importanti di Berija fu l'ingegnere aeronautico Tupolev, che arrivò alla sua saraska con una borsa in cui teneva un grosso tozzo di pane e qualche pezzo di zucchero (rifiutò di consegnarli, anche quando gli dissero che avrebbe mangiato di più).

Tupolev, a sua volta, stilò per Berija un elenco di persone da richiamare, tra cui Valentin Glusko, il principale progettista di motori a razzo dell'Unione Sovietica, e Sergej Korolev, che in seguito creò lo Sputnik, il primo satellite sovietico, e può essere considerato il padre di tutto il programma spaziale sovietico. Korolev tornò alla prigione della Lubjanka, dopo aver trascorso diciassette mesi nella Kolyma, durante i quali aveva perso molti denti per lo scorbuto, con l'aspetto "affamato ed esausto", a quanto affermano altri prigionieri.62 Ciononostante, in un rapporto preparato nell'agosto 1944, Berija elencava venti nuovi importanti congegni di tecnologia militare inventati nelle sue saraska, e speculava sui molti modi in cui si erano dimostrati utili per l'industria difensiva durante la guerra.63

Da certi punti di vista, si potrebbe affermare che il regime di Berija in qualche modo alleviò anche le condizioni degli zek comuni. Nel complesso, la situazione alimentare per un certo periodo migliorò. Come Berija sottolineava nell'aprile 1938, la razione alimentare di 2000 calorie al giorno, in vigore nei campi, era stata calcolata per gente chiusa in prigione, non per chi svolgeva lavori pesanti. Dato che tali razioni, già basse, si riducevano anche del settanta per cento per i furti, le truffe e le pene per scarso rendimento, molti prigionieri soffrivano la fame. Se ne dispiacque, non per compassione nei loro confronti, ma perché l'aumento dei tassi di mortalità e di malattia aveva impedito all'NKVD di realizzare i piani di produzione per il 1939. Berija chiese di ridefinire le razioni alimentari, in modo che le "poten-

// Grande terrore e le sue conseguenze 141

/ialità fisiche della manodopera dei campi venissero sfruttate al massimo in tutte le industrie".64

Anche se le razioni alimentari furono aumentate, certo il regime di Berija non promosse la riscoperta dell'umanità dei prigionieri. Anzi, il loro processo di trasformazione da esseri umani a unità lavorative era progredito parecchio. I detenuti potevano ancora essere condannati a morire nei campi, ma non per le loro tendenze controrivoluzionarie. Quelli che rifiutavano di lavorare oppure operavano per scombinare l'organizzazione del lavoro andavano condannati a "un regime disciplinare più severo, celle di punizione, alimentazione e condizioni di vita peggiori, e altri provvedimenti disciplinari". Ai "lavativi" andavano comminate altre condanne, anche la pena capitale.65

I procuratori locali cominciarono subito a indagare sugli "scansafatiche". Nell'agosto 1939, per esempio, un prigioniero venne fucilato non solo per aver rifiutato di lavorare, ma per aver esortato gli altri a fare lo stesso. In ottobre, tre detenute, evidentemente monache ortodosse, furono accusate di aver rifiutato di lavorare e di aver cantato inni controrivoluzionari: due furono fucilate e la terza ricevette un'ulteriore condanna.66

Gli anni del Grande terrore avevano lasciato il segno anche in un altro senso. Il Gulag non trattò mai più i prigionieri come esseri del tutto degni di redenzione. Il sistema del "rilascio anticipato" per buona condotta venne eliminato. Fu proprio Stalin, l'unica volta che parlò in pubblico delle procedure quotidiane seguite nei campi, a far cessare i rilasci anticipati, spiegando che danneggiavano l'attività economica connessa. Nel 1938, durante una riunione del presidium del Soviet supremo, chiese:

Non potremmo pensare a qualche altra forma di premio per il loro lavoro, medaglie o roba del genere? Ci comportiamo in modo scorretto, disturbiamo il lavoro del campo. Liberare questa gente forse è necessario, ma dal punto di vista dell'economia nazionale è un errore ... libereremo i migliori e lasceremo i peggiori.67

Nel giugno 1939 fu emanato un decreto in questo senso. Alcuni mesi dopo, un altro decreto cancellò il "rilascio anticipato condizionato" anche per gli invalidi. Quindi il numero di prigionieri malati aumentò. Per incentivare i detenuti che lavoravano sodo rimaneva soltanto l'aumento di "cibo e dotazioni", a parte le medaglie che secondo Stalin sarebbero state tanto ambite. Nel 1940, persino il Dal'-stroj aveva cominciato a distribuirne.68

Molte di queste iniziative contraddicevano le leggi dell'epoca e Scontrarono effettiva resistenza. Il procuratore capo Vysinskij e il

Il Gulag nel momento di massimo sviluppo, 1939-1953

Gulag

commissario del popolo della Giustizia Ryckov si opposero all'eliminazione del rilascio anticipato e all'imposizione della condanna a morte per quanti erano accusati di "disorganizzare la vita dei campi". Ma Berija, come Jagoda prima di lui, godeva del palese sostegno di Stalin, e vinse tutte le sue battaglie. Dal 1° gennaio 1940 all'NKVD, ottenne persino di rientrare in possesso di 130.000 prigionieri "prestati" agli altri ministeri. Berija era deciso a rendere il Gulag davvero produttivo.69

Gli effetti dei cambiamenti introdotti da Berija si manifestarono molto in fretta. Nei mesi precedenti la Seconda guerra mondiale, l'attività economica dell'NKVD ebbe una ripresa. Nel 1939 il volume di affari era di 4,2 miliardi di rubli, nel 1940 di 4,5. Negli anni della guerra, mentre i prigionieri cominciavano ad affluire nei campi, le cifre si elevarono ancora più rapidamente.70 Inoltre, nonostante l'aumento continuo del numero dei prigionieri, secondo le statistiche ufficiali, dal 1938 al 1939 si dimezzò anche il numero di morti nei campi, scendendo dal 5 al 3 per cento.71

Ormai vi erano molti più campi, e assai più grandi di quanto non fossero all'inizio del decennio. Tra il 1° gennaio 1935 e il 1° gennaio 1938 il numero dei prigionieri era quasi raddoppiato, passando da 950.000 a 1.800.000, mentre un altro milione di persone era stato condannato al confino.721 campi, che un tempo consistevano soltanto di qualche capanna e un po' di filo spinato, erano diventati autentici colossi industriali. Nel 1940 il Sevvostlag, il principale campo del Dal'stroj, conteneva quasi 200.000 prigionieri." Nel 1938 il Vorku-tlag, campo minerario sviluppatosi dal Rudnik n. 1 dell'Uhtpeclag, ospitava 15.000 prigionieri; nel 1951 ne avrebbe ospitati oltre 70.000.

Ma ce n'erano anche di nuovi. Forse il più tetro della nuova generazione era il Noril'lag, di solito noto come Noril'sk. Situato come Vorkuta e la Kolyma a nord del Circolo polare artico, si ergeva proprio al di sopra di un enorme giacimento di nichel, probabilmente il più grande del mondo. I prigionieri del Noril'sk, oltre a estrarre il nichel, costruirono anche l'impianto di lavorazione e le stazioni elet-triche lungo le miniere. Poi costruirono la città di Noril'sk, per ospitare gli agenti dell'NKVD che dirigevano miniere e fabbriche. Come i suoi predecessori, Noril'sk si sviluppò in fretta. Nel 1935 il campo conteneva 1200 prigionieri; nel 1940,19.500. Al massimo dell'espansione, nel 1952, vi erano 68.849 detenuti.74

Inoltre, nel 1937 l'NKVD fondò il Kargopol'lag, nella regione di Arcangelo, seguito nel 1938 dal Vjatlag, nella Russia centrale, e dal Kras-

// Grande terrore e le sue conseguenze   145

lag, nel distretto di Krasnojarsk, nella Siberia orientale. In sostanza erano tutti campi per il taglio degli alberi che espansero le loro attività: fabbriche di mattoni, impianti di lavorazione del legname, mobilifici. Negli anni Quaranta tutti raddoppiarono o triplicarono le dimensioni, e ormai contenevano circa 30.000 prigionieri ciascuno.75

C'erano anche altri campi, che aprivano, chiudevano e si riorganizzavano così spesso da rendere difficile estrapolare cifre precise per un dato anno. Alcuni erano abbastanza piccoli, costruiti per soddisfare le esigenze di una specifica fabbrica o industria, o di un progetto edilizio. Altri erano provvisori, nascevano per la costruzione di una strada o di una ferrovia, e poi venivano abbandonati. Le cifre erano così elevate e i problemi così complessi che alla fine l'amministrazione del Gulag istituì delle sottosezioni apposite: l'Amministrazione generale dei campi industriali, l'Amministrazione generale per la costruzione di strade, l'Amministrazione generale per il lavoro forestale e così via.

Ma non erano cambiati soltanto per dimensioni. Dalla fine degli anni Trenta, tutti i nuovi campi avevano un carattere esclusivamente industriale, senza le fontane e i "giardini" del Vislag, senza la propaganda idealistica che aveva accompagnato la costruzione della Koly-ma, senza i detenuti specializzati a tutti i livelli. Ol'ga Vasil'evna, amministratrice che lavorò come ingegnere e ispettore del Gulag e di altre attività edilizie, alla fine degli anni Trenta e negli anni Quaranta, ricordava che nei primi tempi "c'erano meno guardie, meno amministratori, meno dipendenti ... Negli anni Trenta i prigionieri venivano arruolati per mansioni di tutti i generi, impiegati, barbieri, guardie". Invece negli anni Quaranta le cose cambiarono: "Tutto cominciò ad assumere carattere di massa ... la situazione diventò più dura ... A mano a mano che i campi aumentavano di dimensioni, il regime diventava più crudele".76

In effetti si potrebbe dire che alla fine del decennio i campi di concentramento sovietici avevano raggiunto quella che sarebbe diventata la loro forma permanente. Erano ormai diffusi in quasi tutte le regioni dell'Unione Sovietica, in tutti e dodici i suoi fusi orari, e nella maggior parte delle sue repubbliche. Da Aktjubinsk a Jakutsk, non c'era un centro popolato importante che non avesse il suo campo o la sua colonia locale. Il lavoro dei prigionieri era sfruttato per costruire tutto, dai giocattoli per bambini agli aerei militari. Negli armi Quaranta, in molte località dell'Unione Sovietica sarebbe stato difficile andare in giro a sbrigare le proprie faccende quotidiane sen-Z3 imbattersi nei detenuti.

Gulag

Ma il fatto più importante è che i campi si erano evoluti. Non erano più un insieme di luoghi di lavoro gestiti in modo particolare, ma un "complesso industriale carcerario"apieno titolo, con regole e usi peculiari, sistemi di distribuzione spedali e gerarchle.77 Il Gulag era un impero vero e proprio, diretto a Mosca da un vasto apparato burocratico, che pure aveva una sua cultura specifica. Il centro emanava con regolarità direttive ai campi locali, regolando tutto, dalla linea politica di massima a questioni disecondario rilievo. Anche se i campi locali non seguivano sempre alla lettera la legge (o non riuscivano a farlo), il Gulag non ebbe mai più il carattere peculiare dei primi tempi.

Le sorti dei prigionieri continuavano a fluttuare a seconda delle scelte politiche ed economiche dell'liraone Sovietica, e soprattutto dell'andamento della Seconda guerramondiale. Ma l'epoca dei tentativi e degli esperimenti era finita. Il sistema marciava ormai a regime. All'inizio degli anni Quaranta la serie di procedure definita dai prigionieri "tritacarne" - il modo in cui avvenivano gli arresti, gli interrogatori, i trasferimenti, in cui era" regolati l'alimentazione e il lavoro - era ormai consolidata e rimase sostanzialmente la stessa fino alla morte di Stalin.

Parte seconda VITA E LAVORO NEL GULAG

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VII L'ARRESTO

Sentendo parlare di uno dei soliti arresti, non chiedevamo mai: "Perché l'hanno preso?". Ma di gente come noi ce n'era poca. Accecati dalla paura, gli altri si rivolgevano la domanda a vicenda, tanto per consolarsi: "Se le persone vengono portate via per qualche cosa, io posso stare tranquillo, non mi prenderanno, perché non ho fatto niente.'". Si lambiccavano il cervello per inventare cause e giustificazioni per ogni arresto: "Quello, però, il contrabbando lo faceva davvero", oppure "Quello lì si permetteva certe cose....... O ancora: "C'era da aspettarselo, ha un carattere infernale", "Ho sempre avuto l'impressione che in lui qualcosa non andasse", "Non è mai stato uno dei nostri" ... Per questo motivo la domanda: "Perché l'hanno preso?" era diventata per noi una domanda proibita. "Perché?" gridava infuriata Anna Andreevna, quando qualcuno dei suoi amici, contagiato dalla malattia collettiva, le rivolgeva la consueta domanda. "Come perché? È ora di capire che la gente viene presa senza un perché."

NADEÉDA MANDEL'STAM, L'epoca e i lupi1

Anna Ahmatova, la poetessa citata in questo brano dalla vedova di un altro poeta, aveva ragione e torto allo stesso tempo. Da un lato, dalla metà degli anni Venti, l'epoca in cui fu istituito l'apparato del sistema repressivo sovietico, il governo non fermava più la gente per strada gettandola in carcere senza alcun motivo o spiegazione: c'erano arresti, indagini, processi e sentenze. Dall'altro, i "reati" per cui si veniva arrestati, processati e giudicati erano privi di senso, e le procedure d indagine e di incarcerazione erano assurde, addirittura surreali.

In retrospettiva, questo è uno degli aspetti più peculiari del siste-11X3 dei campi sovietico: il più delle volte i detenuti arrivavano per yia legale, sebbene non sempre si trattasse del normale sistema giu-".hziario. Nessuno processò e giudicò gli ebrei nell'Europa occupata "ti nazisti, ma gli internati nei campi sovietici per la maggior parte

Culag

avevano subito interrogatori (per quanto sbrigativi), processi (per quanto farseschi) ed erano stati giudicati colpevoli (anche se era bastato meno di un minuto). Senza dubbio coloro che lavoravano nei servizi di sicurezza, come le guardie e gli amministratori che in seguito controllavano la vita dei prigionieri nei campi, erano motivati anche dalla convinzione di agire secondo la legge.

Ma lo ripeto: il fatto che il sistema repressivo fosse legale non significa che fosse logico. Anzi, nel 1947 non era più facile prevedere con certezza chi sarebbe stato arrestato di quanto lo fosse nel 1917. Certo divenne possibile presumere chi rischiava di essere arrestato. Specialmente durante le ondate di terrore, il regime a quanto pare sceglieva le vittime un po' perché avevano richiamato in qualche modo l'attenzione della polizia segreta - un vicino li aveva sentiti fare una battuta infelice, un superiore li aveva visti comportarsi in modo "sospetto" - ma soprattutto perché appartenevano a una categoria della popolazione che in quel momento era sotto osservazione.

Alcune di tali categorie erano abbastanza definite - verso la fine degli anni Venti ingegneri e specialisti, nel 1931 kulaki, durante la Seconda guerra mondiale polacchi e baltici dei territori occupati - altre invece erano molto vaghe. Negli anni Trenta e Quaranta, per esempio, gli "stranieri" erano sempre considerati sospetti. Per "stranieri" intendo cittadini di altri paesi, persone che magari avevano contatti all'estero, o che potevano avere qualche rapporto, immaginario o reale, con un paese straniero. Comunque si comportassero, erano sempre candidati all'arresto, e gli stranieri che in qualche modo si mettevano in vista correvano molti rischi. Robert Robinson, uno dei molti americani neri comunisti che si erano trasferiti a Mosca negli anni Trenta, in seguito scrisse: "Tutti i neri diventati cittadini sovietici che ho conosciuto all'inizio degli anni Trenta sette anni dopo erano scomparsi da Mosca".2

I diplomatici non facevano eccezione. Alexander Dolgun, per e-sempio, un giovane cittadino americano dipendente dell'ambasciata americana a Mosca, nelle sue memorie racconta come venne prelevato per strada nel 1948 e accusato, senza fondamento, di spionaggio; aveva suscitato dei sospetti un po' perché seminava con entusiasmo giovanile i "segugi" messigli alle calcagna dalla polizia segreta e un po' perché era abilissimo nel convincere gli autisti dell'ambasciata a prestargli le macchine, per cui gli agenti ipotizzavano che fosse molto più importante di quanto facesse pensare la sua posizione. Trascorse otto anni nei campi, e ritornò negli Stati Uniti solo nel 1971.

I comunisti stranieri erano spesso nel mirino. Nel febbraio 1937 Sta-lin disse una frase minacciosa a Georgi Dimitrov, segretario generale

L'arresto 151

dell'Internazionale comunista o Comintern, l'organizzazione impegnata a fomentare la rivoluzione mondiale: "Voialtri del Comintern collaborate tutti con il nemico". Su 394 membri da cui era costituito il Comitato esecutivo dell'Internazionale comunista nel gennaio 1936, nell'aprile 1938 ne erano rimasti soltanto 171. Gli altri erano stati fucilati o mandati nei campi; tra loro c'erano persone di paesi diversi: tedeschi, austriaci, iugoslavi, italiani, bulgari, finlandesi, baltici, persino inglesi e francesi. A quanto pare, una percentuale spropositata era costituita da ebrei. A conti fatti, Stalin uccise più membri del Politburo del Partito comunista tedesco di prima del 1933 di quanti ne uccise Hitler: 41 dirigenti del Partito comunista tedesco, sui 68 fuggiti in Unione Sovietica quando i nazisti presero il potere, morirono giustiziati o nei campi di prigionia. Il Partito comunista polacco forse fu decimato in modo ancora più drastico. Uno studioso ritiene che tra la primavera e l'estate del 1937 siano stati giustiziati 5000 comunisti polacchi.3

Ma non era necessario appartenere a un partito comunista straniero: Stalin se la prese anche con i compagni di strada. Tra questi ultimi, i più numerosi erano probabilmente i 25.000 "finlandesi americani": si trattava di finlandesi che erano emigrati in America, o vi erano nati, e che si erano trasferiti tutti in Unione Sovietica negli anni Trenta, quando negli Stati Uniti c'era la Grande depressione. Erano per la maggior parte operai, e molti negli Stati Uniti non trovavano lavoro. Incoraggiati dalla propaganda sovietica - fatta da reclutatori che giravano nelle comunità statunitensi di finlandesi per descrivere le meravigliose condizioni di vita e le opportunità di lavoro nell'URSS - affluirono in massa nella repubblica della Carelia, dove si parlava finlandese. Crearono problemi alle autorità quasi subito. Scoprirono che la Carelia non assomigliava poi così tanto all'America. Molti lo dicevano a voce alta a chiunque volesse ascoltare, poi cercarono di tornare negli Stati Uniti, ma invece alla fine degli anni Trenta finirono nel Gulag.4

Anche i cittadini sovietici con rapporti all'estero erano molto sospetti, soprattutto quelli appartenenti a "nazionalità della diaspora": i polacchi, i tedeschi e i finlandesi della Carelia che avevano parenti e amici oltre confine, come pure i baltici, i greci, gli iraniani, i coreani, gli argani, i cinesi e i rumeni disseminati in tutta l'URSS. Dai documenti degli archivi dell'NKVD risulta che tra il luglio 1937 e il novembre 1938, in queste "operazioni nazionali" ne furono condannati 335.513.5 Come vedremo, operazioni analoghe avvennero anche durante e dopo la guerra.

Ma non era nemmeno necessario parlare una lingua straniera per

Gulag

essere sotto osservazione. Tutti quelli che avevano qualche rapporto con un paese straniero rischiavano l'accusa di spionaggio: collezionisti di francobolli, entusiasti dell'esperanto, chiunque avesse un corrispondente o dei parenti all'estero. L? NKVD arrestò anche tutti i cittadini sovietici che avevano lavorato nella Ferrovia cinese orientale, una linea ferroviaria della Manciuria risalente al periodo zarista, e li accusò di aver passato informazioni al Giappone. Nei campi li chiamavano harbinec, perché molti di loro abitavano nella città di Harbin.6 Robert Conquest descrive l'arresto di una cantante d'opera, che durante un ballo ufficiale aveva danzato con l'ambasciatore giapponese, e di un veterinario che curava i cani degli stranieri.7

Verso la fine degli anni Trenta, anche i comuni cittadini sovietici avevano capito come funzionava, e non volevano avere niente a che fare con gli altri paesi. Karlo Stajner, un comunista croato sposato a una russa, racconta: "Era raro che un russo avesse rapporti privati con uno straniero. ... Quanto alla famiglia di mia moglie, praticamente non la conoscevo. Quando seppe che Sonia si proponeva di sposare uno straniero, la famiglia glielo sconsigliò".8 Ancora verso la metà degli anni Ottanta, quando sono andata per la prima volta in Unione Sovietica, molti russi diffidavano degli stranieri, li ignoravano ed evitavano addirittura di incrociarne lo sguardo per strada.

Eppure non tutti gli stranieri venivano fermati dalla polizia e non tutti gli accusati di avere rapporti con l'estero ne avevano davvero. Succedeva anche che la gente venisse portata via per motivi molto più stravaganti.9 Quindi alla domanda "Perché l'hanno preso?", tanto invisa ad Anna Ahmatova, si può rispondere con una serie davvero straordinaria di presunte ragioni.

Per esempio, Osip Mandel'stam, marito di Nadezda, fu arrestato per una poesia in cui criticava Stalin:

Viviamo senza neanche l'odore del paese, a dieci passi di distanza non si sentono le voci, e ovunque ci sia spazio per un mezzo discorso salta sempre fuori il montanaro del Cremlino. Le sue dita dure sono grasse come vermi, le sue parole esatte come fili a piombo. Ammiccano nel riso i suoi baffettì da scarafaggio, brillano i suoi stivali.

Ha intorno una marmaglia di ducetti dagli esili colli e si diletta dei servigi di mezzi uomini. Chi miagola, chi stride, chi guaisce se lui solo apre bocca o alza il dito.

L'arresto 153

Forgia un decreto dopo l'altro come ferri di cavallo:

e a chi lo da nell'inguine, a chi fra gli occhi, sulla fronte o sul muso.

Ogni morte è una fragola per la bocca

di lui, ossela dalle larghe spalle.10

Anche se le versioni ufficiali sono diverse, Tat'jana Okunevskaja, una delle attrici cinematografiche più amate in Unione Sovietica, riteneva di essere stata arrestata perché aveva rifiutato di andare a letto con Viktor Abakumov, capo del controspionaggio sovietico durante la guerra. A quanto disse, le mostrarono un mandato di arresto firmato proprio da lui per accertarsi che capisse il vero motivo della sua disgrazia.111 quattro fratelli Starostin, tutti quanti famosi giocatori di calcio, furono arrestati nel 1942. Rimasero sempre convinti che fosse accaduto perché la loro squadra, lo Spartak, aveva avuto la sfortuna di infliggere una sconfitta un po' troppo netta alla Dynamo, squadra del cuore di Lavrentij Berija.12

Ma non c'era nemmeno bisogno di essere straordinari. Ljudmila Hacatrjan fu arrestata perché aveva sposato uno straniero, un soldato iugoslavo. Lev Razgon racconta la storia di un contadino, Seregin, il quale quando gli dissero che qualcuno aveva ammazzato Kirov rispose: "Non me ne importa un accidente". Seregin non aveva mai sentito nominare Kirov e supponeva che si trattasse di qualcuno morto in una zuffa nel villaggio vicino. Per questo errore fu condannato a dieci anni.13 Nel 1939 molte cose, in certe situazioni, potevano procurare una condanna ai campi di concentramento: fare una battuta su Stalin o ascoltarla; arrivare tardi al lavoro; avere la disgrazia di essere indicati come "cospiratori", coinvolti in un complotto inesistente, da un amico terrorizzato o da un vicino geloso; avere quattro mucche in un villaggio in cui la maggioranza della gente ne aveva solo una; rubare un paio di scarpe; essere cugino della moglie di Stalin; rubare una penna e un po' di carta dal proprio ufficio per darli a uno scolaro che non ne aveva. In base a una legge del 1940, i parenti di una persona che aveva cercato di superare illegalmente il confine sovietico erano passibili di arresto, anche se non erano al corrente del tentativo di fuga.14 Le leggi del periodo di guerra che punivano i ritardi sul lavoro e proibivano di licenziarsi, come vedremo, aumentarono l'affluenza di "criminali" nei campi.

Oltre ad avvenire per molti diversi motivi, gli arresti variavano anche nelle modalità. Alcuni prigionieri ebbero svariati ammonimenti. Alla metà degli anni Trenta, nelle settimane precedenti il suo arresto, Aleksandr Vejsberg fu convocato parecchie volte da un agente dell'OGPU, che continuava a chiedergli come aveva fatto a di-

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ventare una "spia": Chi ti ha reclutato? Chi hai reclutato? Per quale organizzazione straniera stai lavorando? "Continuava a farmi esattamente le stesse domande, e io gli davo sempre le stesse risposte."15

Più o meno nello stesso periodo, anche Galina Serebrjakova, autrice dijunost'Marksa (La giovinezza di Marx) e moglie di un alto funzionario, veniva "invitata" ogni sera alla Lubjanka. La facevano aspettare fino alle due o alle tre di notte, la interrogavano e la rilasciavano alle cinque del mattino, poi tornava al suo appartamento. Il suo palazzo era circondato da agenti e, quando usciva, una macchina nera la seguiva. Era così convinta del suo imminente arresto che cercò di uccidersi. Ciononostante, quel tormento le venne infiltro per diversi mesi prima che la arrestassero davvero.16

Durante le ondate più imponenti di arresti di massa - di kulaki nel 1929 e nel 1930, di attivisti del Partito nel 1937 e nel 1938, di ex prigionieri nel 1948 - molti sapevano che era arrivato il loro turno solo perché tutti gli altri intorno erano stati arrestati. Elinor Lipper, una comunista olandese che era arrivata a Mosca negli anni Trenta, nel 1937 abitava all'hotel Lux, un albergo speciale per rivoluzionari stranieri: "Ogni notte qualcuno spariva dall'albergo ... al mattino, la porta di qualche altra stanza era chiusa con grossi sigilli rossi".17

In quel periodo di vero terrore, per alcuni l'arresto divenne addirittura una specie di sollievo. Nikolaj Starostin, uno dei quattro sfortunati assi del calcio, fu pedinato dagli agenti per diverse settimane, finché, esasperato, rivolse la parola a uno di loro per chiedergli una spiegazione: "Se vuole qualcosa da me, mi convochi nel suo ufficio". Sicché, quando fu tratto in arresto, non provò "sorpresa e paura" ma solo "curiosità".18

Altri, invece, vennero colti del tutto alla sprovvista. Lo scrittore polacco Aleksander Wat, all'epoca residente a Leopoli, che era occupata dai sovietici, fu invitato a una festa in un ristorante con un gruppo di altri scrittori. Chiese al ristoratore che cosa si festeggiasse. "Lo vedrà" rispose quello. Fu inscenata una rissa e lo arrestarono su due piedi.19 Alexander Dolgun, funzionario dell'ambasciata americana, fu salutato per strada da un uomo che poi risultò essere un membro della polizia segreta. L'uomo gridò il suo nome, racconta Dolgun: "Ero completamente disorientato. Mi chiesi se non si trattasse di uno squilibrato...".20 La Okunevskaja, l'attrice di cui abbiamo detto, quando venne arrestata era a letto con una brutta influenza, e chiese alla polizia di tornare un altro giorno. Le mostrarono il mandato di arresto (quello con la firma di Abakumov) e la trascinarono giù per le scale.21 Solzenicyn riporta il racconto, forse non del tutto autentico, di una

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donna, che andò al Bol'soj insieme al suo compagno, un inquirente, il quale alla fine dello spettacolo la portò direttamente alla Lubjanka.22 La scrittrice Nina Gagen-Torn, sopravvissuta ai campi, riferisce il racconto di una donna che era stata arrestata mentre ritirava la biancheria stesa in un cortile di Leningrado: era in accappatoio e aveva lasciato il figlioletto solo in casa, pensando di tornare dopo pochi minuti. Supplicò che le permettessero di portarlo con sé, ma senza successo.23

A quanto pare, le autorità cambiavano tattica di proposito: qualcuno veniva arrestato a casa, qualcuno sul lavoro, qualcuno per strada o in treno. Una lettera inviata a Stalin da Viktor Abakumov, datata 17 luglio 1947, conferma questo sospetto. Il mittente spiega infatti che di solito i prigionieri venivano "sorpresi" dalla polizia per evitare che scappassero, che resistessero, che cercassero di avvisare i compagni cospiratori controrivoluzionari, che distruggessero le prove. In alcuni casi, aggiungeva, si effettuava "un arresto segreto per la strada".24

Comunque la procedura più comune consisteva nell'arrestare la gente a casa, nel cuore della notte. In quell'epoca di arresti di massa, si diffuse la paura del "trillo alla porta" di mezzanotte. Una vecchissima barzelletta sovietica racconta quanto si spaventarono Ivan e sua moglie Masa quando udirono bussare alla porta e come si sentirono sollevati nel vedere il vicino, andato ad avvisarli che il palazzo era in fiamme. Esiste anche un proverbio sovietico al riguardo: "I ladri, le prostitute e l'NKVD lavorano soprattutto di notte".25 Di solito gli arresti notturni erano accompagnati da una perquisizione, ma con il passar del tempo anche le procedure delle perquisizioni cambiavano. Osip Mandel'stam fu arrestato due volte, nel 1934 e poi di nuovo nel 1938, e sua moglie ha descritto le differenze procedurali:

Nel '38, nessuno cercava niente, né perdeva tempo a esaminare carte. Gli agenti non sapevano nemmeno che mestiere facesse l'uomo che stavano per arrestare. Rovesciarono brutalmente i materassi, buttarono per terra tutti gli oggetti contenuti in una valigia, ficcarono le carte in un sacco, si agitarono a vuoto per qualche minuto e scomparvero, portandosi via Mandel'stam. Nel 38 l'intera l'operazione durò una ventina di minuti, nel '34 tutta la notte, fino all'alba.

Durante la precedente irruzione la polizia segreta, che ovviamente sapeva che cosa cercare, aveva esaminato con cura tutti i documenti di Mandel'stam e aveva scartato i vecchi manoscritti. La prima volta, poi, si erano accertati che fossero presenti dei "testimoni" civili oltre, nel loro caso, a un "amico" al soldo della polizia, un critico letterario conoscente del poeta, probabilmente chiamato per fare w modo che i Mandel'stam non bruciassero di nascosto le carte sen-

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tendo suonare alla porta.26 In seguito non si sarebbero più preoccupati di simili dettagli.

Gli arresti di massa di cittadini di particolari nazionalità, come quelli avvenuti nell'ex Polonia orientale e negli Stati baltici, rutti ter-ritori occupati dall'Armata rossa tra il 1939 e il 1941, di solito avvenivano in modo più improvvisato.

Janusz Bardach, un ragazzo ebreo della città polacca di Wlodzi-mierz-Wolynski, durante un arresto di massa fu costretto a fungere da "testimone" civile. La notte del 5 dicembre 1939 accompagnò un gruppo di delinquenti ubriachi della NKVD di casa in casa, a rastrellare persone che poi sarebbero state arrestate o deportate. Talvolta attaccavano i cittadini più agiati e più influenti, annotandone i nomi in un elenco; talvolta si limitavano a trascinare via dei "rifugiati", soprattutto ebrei fuggiti dalla Polonia occidentale, occupata dai nazisti, nella Polonia orientale, occupata dai sovietici, senza preoccuparsi affatto di registrarne i nomi. In una casa, alcuni rifugiati cercarono di difendersi, facendo notare che erano membri del Bund, il movimento socialista ebraico. Ciononostante, sentendo che arrivavano da Lublino, all'epoca oltre il confine, Gennadij, il capo della pattuglia dell'NKVD, cominciò a gridare:

"Sporchi rifugiati! Spie naziste!" I bambini si misero a piangere, e Gennadij si irritò ancora di più. "Fateli star zitti! O volete che me ne occupi io?"

La madre se li tirò vicini, ma non riuscivano a smettere di piangere. Gennadij afferrò le mani del maschietto, lo strappò dalle braccia della madre e lo gettò a terra. "Ti ho detto di star zitto!" La madre urlava. Il padre cercò di dire qualcosa, ma riuscì solo a tirar dentro l'aria. Gennadij sollevò il bambino e lo tenne sospeso per un attimo, guardandolo in faccia da vicino, poi lo scagliò con forza contro il muro...

Dopodiché gli uomini distrassero la casa degli amici d'infanzia di Bardach:

Da una parte c'era lo studio del dottar Schechter. Il suo scrittoio di mogano scuro stava nel mezzo e Gennadij si mosse diritto in quella direzione. Passò la mano sul legno liscio e poi, in un accesso di rabbia inaspettata, lo percosse con un piede di porco. "Porci capitalisti! Parassiti bastardi! Dobbiamo trovarli, 'sti sfruttatori borghesi!" Continuò a battere sempre più forte senza sosta, producendo diversi buchi nel legno...

Non essendo riusciti a trovare gli Schechter, gli uomini violentarono e uccisero la moglie del giardiniere.

Spesso gli addetti a tali operazioni non erano agenti dell'NKVD ma soldati di scorta ai treni dei deportati, ed erano ancora meno addestrati degli uomini della polizia segreta che effettuavano gli arre-

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Uomo c/;e e"fra per la prima volta nella cella di un carcere;

disegno di Thomas Sgovio, ultimato dopo il suo rilascio.

(The Hoover Institution on War, Revolution, and Peace, Stanford)

Nella cucina del campo: i prigionieri infila per la zuppa; disegno di Ivan Suhanov, Termitau, 1935-37. (Associazione Memorial, Mosca)

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sti "normali" di criminali "normali". Probabilmente la violenza non veniva imposta in forma ufficiale, ma poiché si trattava di soldati sovietici che arrestavano "capitalisti" nel ricco "Occidente", a quanto pare l'ubriachezza, i tumulti e persino gli stupri venivano perdonati, come accadde in seguito durante l'avanzata dell'Armata rossa in Polonia e in Germania.27

Alcuni loro comportamenti, però, erano espressamente indicati dall'alto. Per esempio, nel novembre 1940 l'Amministrazione generale delle guardie di scorta di Mosca decise che gli agenti addetti agli arresti dovevano dire ai fermati di prendere abiti caldi e oggetti personali sufficienti per tre anni, poiché in quel momento in Unione Sovietica scarseggiavano, sperando così che gli arrestati vendessero i loro averi.28 In precedenza, di solito, i soldati avevano l'ordine di non dire niente ai prigionieri riguardo alla loro destinazione, o al periodo in cui vi sarebbero rimasti. La formula prescritta era: "Perché preoccuparsi? Perché portarsi delle cose? Stiamo solo accompagnandola a un breve colloquio". A volte spiegavano ai deportati che li trasferivano in un'altra zona, più lontana dal confine, "per la loro sicurezza".29 Lo scopo era evitare che gli arrestati si spaventassero, si opponessero o scappassero. Ma il risultato era che la gente veniva privata dei mezzi più idonei per vivere in un clima rigido e inusuale.

I contadini polacchi entravano in contatto con il regime sovietico per la prima volta, quindi la loro ingenuità di fronte a simili menzogne va forse scusata, ma le stesse identiche formule funzionavano altrettanto bene con gli intellettuali di Mosca e Leningrado e con gli iscritti al Partito, spesso pienamente convinti della propria innocenza. Quando arrestarono Evgenija Ginzburg, che all'epoca era attivista del Partito a Kazan', le dissero che l'avrebbero trattenuta per "una quarantina di minuti, forse un'ora", così non le venne nemmeno in mente di salutare i figli.30 Elena Sidorkina, membro del Partito, quando la arrestarono percorse il tratto di strada fino alla prigione insieme all'ufficiale che l'aveva fermata "chiacchierando tranquillamente", certa che presto sarebbe tornata a casa.31

L'NKVD, allorché andò a prelevare Sof'ja Aleksandrovna, ex moglie del cekista Gleb Bokij, la convinse a non portare con sé un soprabito estivo ("Ma no, fuori fa caldo! Torneremo fra un'ora al massimo"); questo fece riflettere il genero, lo scrittore Lev Razgon, sulla strana crudeltà del sistema: "Perché una donna non più giovane né sana era dovuta finire in prigione senza neppure un cambio di biancheria né il necessario per la toilette, diritto concesso fin dai tempi dei faraoni?".32

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La moglie dell'attore Georgi] Zenov ebbe almeno il buonsenso di inettersi a impacchettare degli abiti di ricambio. Quando le dissero che sarebbe tornata a casa presto, rispose: "Chi finisce nelle vostre mani non ritorna presto".33 Non si discostava molto dalla verità. Il più delle volte, quando un arrestato varcava le pesanti porte di ferro di una prigione sovietica, passavano diversi anni prima che tornasse a casa.

Mentre le procedure sovietiche di arresto a volte potevano apparire quasi eccentriche, negli anni Quaranta il rituale successivo in pratica era immutabile. Qualunque fosse il motivo per cui un prigioniero varcava la soglia della prigione locale, una volta arrivato gli eventi seguivano un corso oltremodo prevedibile. Di norma, prima ancora di dire ai prigionieri perché erano stati arrestati o quale sorte riservava loro il futuro, li registravano, li fotografavano e prendevano loro le impronte digitali. Nelle prime ore, e a volte per giorni interi, incontravano soltanto i secondini, che erano completamente indifferenti alla loro sorte, non avevano la minima idea della natura dei reati loro imputati e rispondevano a tutte le domande con un'alzata di spalle indifferente.

Molti ex prigionieri ritengono che in quelle prime ore l'obiettivo deliberato fosse di spaventarli, di renderli incapaci di pensare in modo coerente. Inna Siheeva-Gajster, arrestata in quanto figlia di un nemico del popolo, si accorse che dopo poche ore di permanenza alla Lubjanka stava accadendole proprio questo:

Qui alla Lubjanka non sei già più una persona. E intorno a te non ci sono persone. Ti fanno percorrere un corridoio, ti fotografano, ti spogliano, ti perquisiscono con gesti meccanici. Tutto viene fatto in modo affatto impersonale. Cerchi uno sguardo umano, non dico una voce umana, solo uno sguardo umano, ma non lo trovi. Te ne stai scarmigliata davanti al fotografo, cerchi di rassettarti gli abiti, e ti indicano con un dito dove sederti, una voce vuota dice "di fronte" e "di profilo". Non ti vedono come un essere umano! Sei diventata un oggetto.. ,34

Se portavano gli arrestati nelle prigioni di una città importante per interrogarli (e non, come accadeva ai confinati, per caricarli subito sui treni), li perquisivano con cura, in diverse fasi. Un documento del 1937 specificava con precisione ai secondini di tener presente che "il nemico non cessa di battersi dopo l'arresto", sicché per nascondere la propria attività criminale poteva suicidarsi. Così ai Prigionieri venivano tolti bottoni, cinture, bretelle, lacci delle scarpe, giarrettiere, elastici della biancheria intima, qualsia si cosa immaginabile con cui potessero uccidersi.35 Molti si sentivano umiliati da

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questo provvedimento. Nadezda loffe, figlia di un importante bolscevico, fu privata della cintura, delle giarrettiere, dei lacci delle scarpe e delle forcine:

Ricordo quanto fui colpita dalla degradazione e dall'assurdità di quelle cose. Che cosa potevi mai farci con le forcine? Anche se a qualcuno fosse venuta l'assurda idea di impiccarsi con i lacci delle scarpe, come avrebbe fatto in pratica? Volevano soltanto metterti in una posizione disgustosa e umiliante, con la gonna che cadeva, le calze che scivolavano giù, le scarpe che strascicavano.36

Seguiva poi la perquisizione corporale, ancora peggiore. Nel romanzo 11 primo cerchio Aleksandr Solzenicyn descrive l'arresto di In-nokentij, un diplomatico sovietico. Poche ore dopo il suo arrivo alla Lubjanka, un secondino perlustrava ogni orifizio del suo corpo:

Come se Innokentij fosse un cavallo in vendita, tirandogli con le mani sporche prima una guancia, poi l'altra, un'orbita oculare poi l'altra, e convintosi che in nessun luogo, sotto la lingua, sotto le guance e dentro gli occhi, v'era nulla d'occultato, il sorvegliante con un gesto violento rovesciò indietro la testa di Innokentij così che nelle sue narici battesse la luce, poi controllò entrambe le orecchie, tirandole per i lobi, ordinò di aprire le dita, e si persuase che non c'era nulla, gli fece quindi agitare le braccia, e si persuase che pure sotto le ascelle non c'era nulla. Allora, sempre con la stessa voce meccanicamente irrefutabile, ordinò:

"Prendete in mano il membro. Tirate in su la pelle. Ancora. Così. Basta. Alzate il membro a destra in alto. A sinistra in alto. Bene, lasciatelo. Voltatevi di schiena. Divaricate le gambe. Più larghe. Chinatevi in avanti fino a terra. Più larghe le gambe. Allargate con le mani le natiche. Così. Bene. Adesso sedetevi sui calcagni. Presto! Ancora una volta!".

Quando in passato pensava all'arresto, Innokentij si dipingeva un furibondo duello morale. Si sentiva interiormente teso, pronto a una sorta di sublime difesa del proprio destino e dei propri convincimenti. Ma mai si sarebbe immaginato che la cosa fosse così semplice e stupida, così inesorabile. Gli uomini che l'avevano accolto alla Lubjanka, subordinati, limitati, erano indifferenti alla sua personalità e all'atto che l'aveva portato lì.. ,37

Lo shock prodotto da tali perquisizioni poteva essere anche peggiore per le donne. Una racconta il modo di procedere del secondino addetto alla perquisizione: "Ci tolse il reggisene, il busto con il reggicalze, e altri articoli di biancheria intima essenziali per una donna. Seguì una breve, disgustosa visita ginecologica. Io rimasi in silenzio, ma mi sentii privata di qualsiasi dignità umana".38

Durante i dodici mesi di permanenza nella prigione Aleksandrov-skij centrai, nel 1941, la memorialista T.P. Miljutina fu perquisita più volte. Le donne della sua cella venivano condotte su una scala non riscaldata, cinque per volta. Poi dicevano loro di spogliarsi compie-

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tamente, di mettere i vestiti per terra e di alzare le braccia. Si ritrovavano mani "nei capelli, nelle orecchie, sotto la lingua, anche tra le gambe", in piedi e da sedute. Dopo la prima perquisizione di questo tipo, scrive la Miljutina, "molte scoppiavano a piangere, molte avevano una crisi isterica.. .".39

Dopo la perquisizione, alcuni prigionieri venivano isolati. "L'idea distruttiva delle prime ore di carcere" continua Solzenicyn "consiste nel discriminare il prigioniero dagli altri reclusi, in modo che nessuno gli faccia animo, in modo che su di lui solo eserciti pressione il sistema che sostiene tutto l'apparato dalle mille ramificazioni."40 La cella di Evgenij Gnedin, un diplomatico sovietico figlio di rivoluzio-nari, conteneva solo un piccolo tavolo fissato al pavimento e due latrine, anch'esse fissate al suolo. Il letto pieghevole, su cui i prigionieri dormivano di notte, era fissato al muro con un bullone. Tutto, compresi i muri, le latrine, il letto e il soffitto, aveva un colore "az-zurrognolo".41 "Sembrava di essere dentro la strana cabina di una nave" ha scritto Gnedin nelle sue memorie.

Nelle ore immediatamente successive all'arresto capitava spesso di essere rinchiusi, come accadde ad Alexander Dolgun, in un boks, una cella "di circa un metro e venti per tre, una scatola vuota con una panca", e tenuti lì per alcune ore o persino alcuni giorni.42 Isaac Vogel'fan-ger, un chirurgo polacco, fu posto in una cella con le finestre aperte in pieno inverno.43 Altri, come Ljubov' Bersadskaja, una sopravvissuta che in seguito partecipò all'organizzazione di uno sciopero di prigionieri a Vorkuta, venivano isolati per l'intero periodo degli interrogatori. La Bersadskaja trascorse nove mesi in solitudine e spiega che non vedeva l'ora di essere interrogata, pur di parlare con qualcuno.44

Ma, per i novellini, una cella affollata poteva essere un'esperienza ancora più terribile dell'isolamento. La descrizione fatta da Ol'ga Adamova-Sliozberg della sua prima cella alla Butyrka sembra una scena di Hieronymus Bosch:

La cella era enorme, con il soffitto a volte e i muri macchiati. Addossate alle pareti, con un passaggio stretto nel mezzo, c'erano due file fitte di brande stipate di gente e con i panni stesi ad asciugare sui fili. Il tutto avvolto da fumo di tabacco a poco prezzo. Chi piangeva, chi strillava, chi litigava a voce alta.45

Un altro memorialista ha cercato di rievocare lo shock provato: "Una visione davvero orribile, uomini con la barba e i capelli lunghi, ta puzza di sudore e neanche un posto per sedersi o dormire. Bisogna usare l'immaginazione per cercare di capire in che razza di posto mi trovavo".46

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Secondo Aino Kuusinen, la moglie finlandese di Oleg Kuusinen, dirigente del Comintern, la prima notte l'avevano messa apposta in un luogo in cui poteva sentire i prigionieri interrogati:

Ancora oggi, dopo trent'anni, quasi non riesco a descrivere l'orrore di quella prima notte a Lefortovo. Dalla mia cella potevo sentire qualsiasi rumore proveniente dall'esterno. Lì vicino, scoprii in seguito, c'era la "Sezione interrogatori", una struttura separata che in realtà era una camera di tortura. Sentii per tutta la notte urla disumane e il sibilo ripetuto di una frusta. Un animale disperato e torturato non avrebbe potuto emettere grida spaventose come quelle delle vittime aggredite per ore e ore con minacce, percosse e maledizioni.47

Ma ovunque si trovassero la prima notte di prigione, fosse un vecchio carcere zarista, il deposito di una stazione ferroviaria, una chiesa o un monastero riattati, tutti i prigionieri dovevano affrontare un problema urgente, immediato: riprendersi dal trauma, adeguarsi alle regole speciali della vita in prigione e affrontare gli interrogatori. Dipendeva dalla rapidità con cui riuscivano a farlo se sarebbero riusciti o no a integrarsi nel sistema e, in ultima analisi, se sarebbero sopravvissuti nei campi.

Gli interrogatori sono la fase forse più nota agli occidentali del calvario vissuto dai prigionieri quando entravano nel Gulag. Sono stati descritti non solo nei libri di storia, ma anche in testi letterari occidentali, per esempio nel classico di Arthur Koestler Buio a mezzogiorno, nei film di guerra e in altre forme d'arte, popolari e colte. Gli agenti della Gestapo erano famigerati per i loro interrogatori, come pure gli inquisitori spagnoli. Le tattiche di entrambi sono entrate a far parte della cultura popolare. "Conosciamo il sistema per farti parlare" è una frase ancora usata dai bambini quando giocano alla guerra.

I prigionieri, ovviamente, vengono interrogati anche nelle società democratiche, rispettose delle leggi, talvolta in conformità alle norme, ma talvolta no. Le pressioni psicologiche usate durante gli interrogatori, persino la tortura, non sono certo una prerogativa esclusiva dell'URSS. La tecnica del "poliziotto buono e poliziotto cattivo" - uno gentile, educato, che fa le domande, e si alterna con l'investigatore infuriato - è entrata come espressione idiomatica in altre lingue, oltre a essere una tattica raccomandata nei manuali (ormai superati) della polizia americana. In molti, forse moltissimi paesi, una volta o l'altra i detenuti sono stati messi alle strette durante gli interrogatori. Nel 1966, nel processo Miranda contro Arizona, proprio la dimostrazione che erano state esercitate pressioni di questo genere ha indotto la Su-

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rema corte americana a decretare che i sospetti di un reato devono essere informati, tra l'altro, del loro diritto di rimanere in silenzio e di parlare con un avvocato.48

Ma l'eccezionaiità delle "indagini" condotte dalla polizia segreta sovietica non consisteva tanto nei metodi quanto nel numero di persone coinvolte. In alcuni periodi, nei "casi" erano spesso implicate centinaia di cittadini, arrestati in tutta l'Unione Sovietica. È caratteri-stico di questo clima un rapporto stilato dal dipartimento regionale dell'NKVD di Orenburg intitolato "Misure operative per l'eliminazione di gruppi clandestini di trockisti, buhariniani e altri gruppi contro-rivoluzionari, poste in atto dal 1° aprile al 18 settembre 1937". Secondo il rapporto, l'NKVD di Orenburg aveva arrestato 420 membri di una cospirazione "trockista" e 120 "esponenti della destra", oltre a più di 2000 membri di un'"organizzazione militare di destra nippo-cosacca", più di 1500 ufficiali zaristi e pubblici dipendenti esiliati da San Pietroburgo nel 1935, circa 250 polacchi incriminati nell'ambito dell'inchiesta sulle "spie polacche", 95 persone che avevano lavorato in Cina per la ferrovia di Harbin, considerate spie dei giapponesi, 3290 ex kulaki e 1399 "elementi criminali".

Nel complesso, l'NKVD di Orenburg arrestò oltre 9000 persone nell'arco di cinque mesi, un periodo troppo breve per esaminare con cura le prove. La cosa non era importante, poiché le indagini su ciascuna di queste cospirazioni controrivoluzionarie in realtà erano state avviate a Mosca. Le NKVD locali si limitavano a fare il proprio dovere, elencando il numero di nomi corrispondente alle quote imposte dall'alto.49

Considerato l'elevato numero di arresti, si dovettero adottare procedure straordinarie, non per questo necessariamente più spietate. Anzi, la presenza di molti prigionieri a volte costringeva l'NKVD a ridurre le indagini al minimo indispensabile. Gli imputati venivano interrogati e giudicati in modo frettoloso, talvolta con una rapida udienza in tribunale. Il generale Gorbatov racconta che la sua udienza durò "quattro o cinque minuti", e consistette nella conferma dei suoi dati anagrafici e nella domanda: "Perché non ha ammesso i suoi reati durante l'indagine?". Quindi lo condannarono a quindici anni.50

Altri non beneficiavano nemmeno di un processo: venivano condannati in absentia da un osoboe sovescanie, cioè una "commissione speciale", o da una trojka di tre funzionari, anziché da un tribunale. Accadde a Thomas Sgovio, su cui vennero svolte indagini molto superficiali. Sgovio era nato a Buffalo, nello Stato di New York, e si era trasferito in Unione Sovietica nel 1935 come emigrato politico, per-

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che era figlio di un comunista italo-americano espulso dagli Stati Uniti in Unione Sovietica per le sue attività politiche. Nei tre anni trascorsi a Mosca, a poco a poco Sgovio perse le sue illusioni e decise di tornare in patria, quindi richiese il passaporto americano che aveva restituito quando era entrato nell'URSS. Il 12 marzo 1938 fu arrestato mentre usciva dall'ambasciata americana.

I rapporti delle indagini svolte in seguito su di lui (e da lui fotocopiati decine di anni dopo in un archivio di Mosca e donati all'Hoover Institute) sono scarni rispetto a quanto egli stesso ricorda degli e-venti. Tra le prove a suo carico c'è un elenco delle cose trovate nella prima perquisizione personale: tra l'altro la sua tessera sindacale, la rubrica degli indirizzi, la tessera della biblioteca, un foglio di carta ("con delle scritte in lingua straniera"), sette fotografie, un temperino e una busta contenente francobolli stranieri. C'è una dichiarazione del capitano della Sicurezza di Stato, il compagno Sorokin, attestante che l'accusato era entrato nell'ambasciata statunitense il 12 marzo 1938, e la dichiarazione di un testimone, in cui si afferma che l'accusato aveva lasciato l'ambasciata americana alle 13.15. Il dossier contiene inoltre i verbali dell'inchiesta preliminare e dei due brevi interrogatori: ogni pagina è firmata da Sgovio e dagli inquirenti. La dichiarazione iniziale di Sgovio è la seguente: "Volevo riprendere la cittadinanza americana. Tre mesi fa mi sono recato all'ambasciata americana per la prima volta e ho fatto richiesta di riavere la cittadinanza. Oggi ci sono tornato ... l'addetto alle informazioni mi ha detto che il funzionario americano cui avevano affidato il mio caso era uscito per il pranzo e mi ha chiesto di tornare dopo un paio d'ore".51

Nell'interrogatorio successivo chiesero a Sgovio soprattutto di ripetere più e più volte i particolari della sua visita all'ambasciata. Solo una volta gli chiesero: "Ci dica tutto sulle sue attività di spionaggio!". Lui rispose: "Lo sapete che non sono una spia"; a quanto pare non insistettero, ma l'agente che lo interrogava accarezzava un tubo di gomma, del tipo usato di solito per pestare i prigionieri, con aria vagamente minacciosa.52

Gli agenti dell'NKVD non erano molto interessati al caso, ma a quanto pare non manifestarono mai alcun dubbio sul suo esito. Alcuni anni dopo, quando Sgovio chiese la revisione del caso, l'ufficio del procuratore fece quanto era di sua competenza e riassunse così l'accaduto: "Sgovio non può negare di avere presentato una richiesta all'ambasciata americana. Quindi ritengo non esistano i presupposti per riaprire il suo caso". Sgovio, incastrato perché aveva ammesso di essere entrato nell'ambasciata e di voler lasciare l'URSS, fu condanna-

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to a cinque anni di lavori forzati da una "commissione speciale", in quanto "elemento socialmente pericoloso". Il suo caso era stato considerato ordinaria amministrazione. Nella massa di arresti del momento, gli investigatori si erano limitati a fare il minimo indispensabile.53

Altri venivano condannati sulla base di elementi probatori ancora più inconsistenti, dopo indagini anche più superficiali. Il venire sospettati era già di per sé considerato un segno di colpevolezza, quindi di rado i prigionieri venivano rilasciati senza scontare almeno una parte della pena. Lev Finkel'stejn, un ebreo russo arrestato alla fine degli anni Quaranta, ebbe l'impressione che, sebbene nessuno fosse riuscito a inventare un'imputazione abbastanza plausibile contro di lui, lo avessero condannato a una lieve pena da scontare nei campi, solo per dimostrare che le istituzioni inquirenti non commettevano errori.54 Un'altra ex prigioniera, S.G. Durasova, sostiene persino che uno degli investigatori le aveva detto a chiare lettere: "Non arrestiamo mai nessuno che non sia colpevole. E anche se tu non fossi colpevole, non ti possiamo rilasciare, perché la gente direbbe che catturiamo gli innocenti".55

D'altra parte, quando aumentava l'interesse dell'NKVD - e, soprattutto, quello di Stalin - nei periodi degli arresti di massa l'atteggiamento degli inquirenti verso le persone fermate poteva rapidamente trasformarsi da indifferente in minaccioso. In certi casi, l'NKVD chiedeva addirittura agli inquirenti di fabbricare grosse quantità di prove false, come accadde, per esempio, durante l'inchiesta del 1937 su quella definita da Ezov "la più potente e probabilmente più importante rete spionistico-diversionista dei servizi segreti polacchi nell'URSS".56 Se a un estremo troviamo l'indifferenza dimostrata durante l'interrogatorio di Sgovio, l'operazione di massa contro questa presunta rete di spie polacche si colloca all'altro: i sospetti venivano interrogati al solo scopo di farli confessare.

L'operazione cominciò con l'ordine n. 00485 dell'NKVD, un ordine che costituì il modello per gli arresti di massa successivi. Nell'ordine operativo n. 00485 sono elencate in modo esplicito le categorie di persone da arrestare: tutti i prigionieri di guerra polacchi della guerra polacco-bolscevica del 1920-21 ancora rimasti; tutti i rifugiati e gli immigrati polacchi in Unione Sovietica; chiunque fosse stato membro di un partito politico polacco e tutti gli attivisti antisovietici delle regioni di lingua polacca dell'Unione Sovietica.57 In pratica era sospetto qualsiasi residente in Unione Sovietica di origine polacca, e ce n'erano molti, soprattutto nelle zone di confine tra Ucraina e Bielorussia. L'operazione fu radicale al punto che il console polacco a Kiev stilò

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un rapporto segreto in cui descriveva quanto stava succedendo e rilevava che in alcuni villaggi erano stati arrestati "tutti gli abitanti di origine polacca, anzi tutti gli abitanti con un nome che suonasse vagamente polacco", dai dirigenti delle fabbriche ai contadini.58

Tuttavia, gli arresti furono soltanto l'inizio. Dato che non esistevano le basi per incriminare qualcuno colpevole di avere un cognome polacco, l'ordine n. 00485 proseguiva esortando i dirigenti delle NKVD regionali ad "aprire le indagini in concomitanza con gli arresti": "Lo scopo fondamentale dell'inchiesta dovrebbe essere di smascherare gli organizzatori e i capi dei gruppi diversionisti, al fine di scoprirne la rete di contatti.. .".59

Questo nella pratica si tradusse, come in molti altri casi successivi, nel fatto che toccava agli arrestati stessi fornire le prove sulla cui base costruire le imputazioni contro di loro. Il sistema era semplice. In un primo tempo i polacchi venivano interrogati sulla loro appartenenza all'organizzazione di spionaggio. Poi, quando dichiaravano di non saperne niente, li pestavano o li torturavano fino a farli "ricordare". Ezov nutriva un interesse personale per il successo dell'inchiesta, sicché talvolta presenziava alle torture. Se i prigionieri protestavano in forma ufficiale per il trattamento subito, ordinava ai suoi uomini di ignorare i reclami e di "continuare nello stesso spirito". Quando i detenuti confessavano, venivano esortati a fare il nome degli altri "cospiratori". Poi il ciclo ripartiva da capo, e così la "rete di spie" si allargava sempre di più.

Dopo due anni, la "linea di indagine polacca" portò all'arresto di oltre 140.000 persone, secondo alcune stime quasi il 10 per cento del numero complessivo delle vittime della repressione durante il Grande terrore. Ma la triste fama dell'operazione polacca, per l'uso indiscriminato della tortura e delle false confessioni, si diffuse al punto che nel 1939, durante la breve reazione contro gli arresti di massa, l'NKVD stessa aprì un'inchiesta sugli "errori" compiuti. Un ufficiale coinvolto spiegò: "Non era necessario essere delicati, non serviva un permesso speciale per prendere uno a pugni in faccia, per pestarlo senza freno". A chi aveva qualche scrupolo, e sembra che ce ne fossero, avevano detto chiaro e tondo che "picchiare i polacchi a più non posso" era un ordine di Stalin e del Politbjuro.60

In realtà, anche se in seguito Stalin criticò le "procedure di indagine semplificate" dell'NKVD, alcuni elementi fanno pensare che approvasse simili metodi. Per esempio, nella sua lettera a Stalin del 1947, Abakumov osserva esplicitamente che il primo compito di un investigatore è quello di ottenere dagli arrestati una "confessione sin-

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cera e completa, non solo per dimostrarne la colpevolezza, ma anche per scoprire altri con cui è in contatto, chi ne dirige l'attività criminale e i piani ostili".61 Abakumov gira intorno al problema della tortura fisica e delle percosse, ma scrive anche che gli inquirenti sono tenuti a "studiare il carattere dell'arrestato" per stabilire se sia più opportuno sottoporlo a un regime carcerario attenuato o duro, e per sfruttarne al meglio "le convinzioni religiose, i legami familiari e personali, l'auto-stima, la vanità ecc. ... A volte, per riuscire a incastrare l'arrestato, e dargli l'impressione che gli organismi dell'MGB sanno tutto su di lui, l'inquirente può ricordargli alcuni intimi dettagli della sua vita privata, i segreti che nasconde a chi lo circonda ecc.".

Ancora oggi si discute sul perché la polizia segreta sovietica fosse così ossessionata dalla confessione, una domanda che in passato ha avuto risposte molto diverse. Secondo alcuni si trattava di una linea strategica dettata dall'alto. Roman Brackman, autore di una biografia di Stalin non molto ortodossa, The Secret File of Joseph Stalin, ritiene che il leader sovietico fosse ossessionato dall'idea di far confessare ad altri crimini commessi da lui: prima della rivoluzione aveva lavorato come agente della polizia segreta zarista, quindi provava un impellente bisogno di far ammettere agli altri che erano dei traditori. Anche secondo Robert Conquest, Stalin desiderava costringere a confessare almeno quelli che conosceva personalmente. "Stalin voleva non solo uccidere i suoi vecchi oppositori, ma distruggerli moralmente e politicamente", ma questo, certo, riguarda solo qualcuno degli arrestati, dei milioni che vi furono.

Le confessioni però erano importanti anche per gli agenti del-l'NKVD che conducevano gli interrogatori. Forse ottenerle li rassicurava sulla legittimità del loro operato: faceva apparire più umana, o almeno legale, la follia degli arresti di massa arbitrar!. Inoltre, come accadde con le "spie polacche", fornivano gli elementi necessari per arrestare altre persone. L'ossessione dei risultati - completare il piano, realizzare la norma - era intrinseca al sistema politico ed economico sovietico, e le confessioni erano "prove" concrete che un interrogatorio aveva ottenuto esiti positivi. Come scrive Conquest, "poiché una confessione era il migliore risultato che si potesse ottenere, quelli che ci riuscivano venivano considerati funzionari di successo, mentre un povero funzionario della NKVD aveva ben poche speranze di carriera".62

Indipendentemente dalle origini della fissazione dell'NKVD per le confessioni, di solito gli investigatori cercavano di ottenerle senza l'ostinazione implacabile dimostrata nel caso delle "spie polacche",

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o l'indifferenza manifestata con Thomas Sgovio. In genere, con i prj. gionieri venivano applicati entrambi gli atteggiamenti. Da un lato, gli agenti pretendevano che confessassero incriminando se stessi e altri, dall'altro sembravano mostrare indifferenza, dettata dalla negligenza, per i risultati che avrebbero potuto ottenere.

Questo sistema un po' surreale esisteva già negli anni Venti, prima del Grande terrore, e perdurò a lungo dopo la sua fine. Già nel 1931, l'ufficiale che indagava su Vladimir Cernavin, uno scienziato accusato di "disorganizzazione" e sabotaggio, lo minacciò di ucciderlo se rifiutava di confessare. A un certo punto gli disse che, se avesse confessato, gli avrebbero comminato una condanna più "mite"; il campo. Alla fine, addirittura lo implorò di fornire una falsa confessione. "Anche noi investigatori siamo spesso obbligati a mentire, anche noi diciamo cose che non possono essere registrate nel verbale e che non potremmo mai sottoscrivere" gli spiegò con tono supplichevole.63

Quando però volevano ottenere dei risultati, ricorrevano alla tortura. A quanto pare, prima del 1937 le percosse vere e proprie erano proibite. Un ex dipendente del Gulag conferma che nella prima metà degli anni Trenta erano illegali.64 Ma quando la necessità di far confessare dei dirigenti del Partito diventò più impellente, probabilmente nel 1937, si cominciò a ricorrere alla tortura fisica, una prassi di nuovo abbandonata nel 1939. Nel 1956 il dirigente sovietico Nikita Hruscev lo ammise pubblicamente: "Com'è possibile che una persona confessi dei crimini che non ha commesso? Solo in un modo, usando pressioni fisiche per costringerla, torture, inducendo uno stato di incoscienza, privandola della sua capacità di giudizio, privandola della dignità umana. Ecco come venivano estorte le "confessioni"".65

In quel periodo l'impiego della tortura si diffuse a tal punto - e veniva così spesso contestato - che, all'inizio del 1939, lo stesso Sta-lin diramò una direttiva ai dirigenti delle NKVD regionali confermando che "dal 1937 il comitato centrale consentiva l'impiego della pressione fisica [sui prigionieri] nell'ambito delle procedure del-l'NKVD". Spiegò che era permessa

soltanto con nemici del popolo così manifesti da approfittare dei metodi di indagine umani per rifiutare senza ritegno di tradire i cospiratori, con coloro che per mesi rifiutano di testimoniare e cercano di impedire lo smascheramento dei cospiratori ancora in libertà.

Proseguiva dicendo di considerarla "un metodo pienamente corretto e umano", pur ammettendo che talvolta forse era stata impiegata con "persone oneste arrestate per caso". Questa famigerata nota,

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come è evidente, attesta che Stalin non solo conosceva i metodi impiegati negli interrogatori, ma li aveva personalmente approvati.66

Per certo sappiamo che moltissimi prigionieri di quel periodo raccontano di essere stati picchiati e presi a calci, e di aver riportato fratture alle ossa del viso e lesioni interne. Evgenij Gnedin racconta che due uomini, uno a sinistra e uno a destra, l'avevano colpito alla testa e poi l'avevano percosso con una mazza. Nel caso di Gnedin, l'episodio avvenne alla presenza di Berija, nel suo ufficio alla prigione Suha-novka.67 Gli agenti dell'NKVD applicavano anche metodi di tortura conosciuti da altre polizie segrete in altre epoche: per esempio, colpivano la vittima sullo stomaco con un sacchetto di sabbia, le spezzavano le braccia o le gambe, oppure le legavano mani e piedi dietro la schiena e la appendevano al soffitto, sospesa in aria.68 Il regista teatrale Vsevo-lod Mejerhol'd ci ha lasciato un resoconto delle torture subite tra i più agghiaccianti che si ricordino. Nel suo dossier è conservata la lettera di protesta ufficiale che scrisse alle autorità:

Gli investigatori hanno cominciato a usare la forza con me, un vecchio sessantacinquenne malato. Mi tenevano sdraiato bocconi e mi picchiavano sulle piante dei piedi e sulla schiena con una striscia di gomma. Mi hanno messo a sedere su una sedia e mi hanno picchiato sul dorso dei piedi, molto forte ... Nei giorni successivi, quando in molte zone delle mie gambe si erano diffuse vaste emorragie interne, mi hanno percosso di nuovo sui lividi rosso-blu-gialli, e il dolore era talmente intenso da sembrare che mi versassero dell'acqua bollente su quelle zone sensibili. Urlavo e piangevo per il dolore. Mi hanno picchiato sulla schiena con la stessa striscia di gomma e mi hanno gonfiato la faccia, prendendomi a pugni con molto slancio ...

Una volta, dopo un interrogatorio del genere, il mio corpo tremava in modo così incontrollabile che la guardia di scorta mi ha chiesto: "Hai preso la malaria?". Mi sono sdraiato sulla branda e mi sono addormentato, dopo diciotto ore di interrogatorio, per subirne un altro un'ora dopo. Mi hanno svegliato i miei stessi gemiti, perché stavo singhiozzando come un paziente agli ultimi stadi della febbre tifoide.69

Anche se dal 1939 questo tipo di pestaggi dal punto di vista tecnico era proibito, ciò non significa che il cambiamento di linea politica rendesse più umana la procedura di indagine. Negli anni Venti, Trenta e Quaranta, centinaia di migliaia di prigionieri furono vessati non con vere e proprie percosse o aggressioni fisiche, ma con torture psicologiche come quella cui allude Abakumov nella sua lettera a Stalin. Chi si ostinava e rifiutava di confessare, per esempio, poteva essere privato a poco a poco delle sue piccole comodità materiali, Prima le passeggiate, poi i pacchi da casa o i libri, e, da ultimo, il cibo. A volte li mettevano in celle di punizione particolarmente dure,

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molto calde o molto fredde, come accadde alla memorialista Hava Volovic, cui allo stesso tempo l'inquirente impedì anche di dormire: "Non dimenticherò mai quella prima esperienza del gelo in prigione. Non riesco a descriverla; non ne sono capace. Ero tormentata dal sonno, e insieme dal freddo. Saltavo in piedi e correvo intorno alla cella, mi addormentavo in piedi, poi crollavo di nuovo sul letto, da cui poco dopo ero costretta ad alzarmi per il freddo".70

Altri venivano messi a confronto con "testimoni"; accadde a Ev-genija Ginzburg, che vide la sua amica d'infanzia Nalja "recitare come leggendo un foglietto", accusandola di connivenza con l'ambiente clandestino trockista.71 Altri ancora subivano la minaccia di ritorsioni sui loro familiari, oppure, dopo lunghi periodi di isolamento, venivano messi in cella insieme a un informatore, cui aprivano il cuore con estrema gioia. Le donne venivano violentate o minacciate di stupro. Una sopravvissuta polacca racconta:

D'un tratto, senza motivi apparenti, l'agente che mi interrogava assunse un atteggiamento da seduttore. Si alzò dalla scrivania e venne a sedersi accanto a me sul divano. Io mi alzai e andai a bere un po' d'acqua. Mi seguì e si fermò vicino a me. Lo scansai apertamente e tornai al divano. Si sedette di nuovo accanto a me. Mi alzai di nuovo per bere. Quelle manovre durarono per un paio d'ore. Mi sentivo umiliata e indifesa...72

Sin dagli anni Venti venivano usate con regolarità anche forme di tortura fisica meno brutali delle percosse. Molto presto Cernavin subì la cosiddetta prova "in piedi": i prigionieri dovevano stare ritti con la faccia contro il muro senza muoversi. Per lui durò poco, mentre ad alcuni suoi compagni di cella la prova venne inflitta in modo più duro:

Uno, l'incisore R, ultracinquantenne e di costituzione pesante, era rimasto in piedi per sei giorni e mezzo. Non gli avevano dato da mangiare né da bere, e non gli avevano permesso di dormire; lo accompagnavano in bagno solo una volta al giorno. Ma non "confessò". Dopo quel tormento non riuscì a tornare da solo in cella e le guardie dovettero trascinarlo su per le scale ... Un altro, l'artigiano B., sui trentacinque anni, che aveva una gamba amputata sopra il ginocchio e dotata di una protesi, era rimasto in piedi per quattro giorni e non aveva "confessato".73

Di solito, comunque, i prigionieri venivano soltanto privati del sonno: questa forma di tortura, in apparenza semplice, per cui a quanto pare non era necessaria un'autorizzazione speciale preventiva, era chiamata dai prigionieri "nastro trasportatore" e poteva durare molti giorni o persino settimane. Il sistema era semplice: i prigionieri venivano interrogati per tutta la notte e poi si impediva loro di dormire durante il giorno. Le guardie li svegliavano di continuo e

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li minacciavano di mandarli in cella di punizione o peggio se non riuscivano a rimanere svegli. Uno dei migliori racconti sul nastro trasportatore e sui suoi effetti fisici è quello di Alexander Dolgun, un prigioniero americano del Gulag. Durante il primo mese trascorso a Lefortovo venne privato quasi completamente del sonno (gli consentivano di dormire un'ora al giorno): "Ripensandoci, un'ora mi sembra troppo, forse non era più che qualche minuto per notte". Il cervello cominciò a giocargli brutti scherzi:

C'erano dei periodi in cui all'improvviso mi rendevo conto che non ricordavo che cos'era successo qualche minuto prima. Vuoti di memoria. Tutto cancellato...

In seguito, com'è ovvio, cominciai a cercare di dormire seduto, a vedere se il mio corpo riusciva a imparare a mantenersi eretto. Pensavo che se avesse funzionato ogni volta avrei eluso per qualche minuto l'ispezione nelle celle, perché la guardia, osservandomi dallo spioncino, non avrebbe pensato che dormivo se mi vedeva seduto ben dritto.

E andò così: mi prendevo dieci minuti di sonno qui, mezz'ora là, talvolta un po' di più se Sidorov si dava per vinto prima delle sei del mattino e i secondini mi lasciavano in pace fino alla sveglia. Ma era troppo poco. Troppo tardi. Mi sentivo scivolare via, perdevo ogni giorno di più il controllo e il senso di disciplina. Temevo di impazzire, era quasi peggio, no, molto peggio che morire...

Dolgun non confessò per diversi mesi, e questo gli diede qualcosa di cui essere fiero per il resto della sua prigionia. Ma molti mesi dopo, quando venne richiamato a Mosca dal campo nel Dzezkazgan e di nuovo pestato, firmò una confessione, pensando: "Al diavolo. Mi hanno fregato comunque. Perché non l'ho fatto tanto tempo fa, evitando di soffrire così?".74

E, in effetti, perché no? Era una domanda che si facevano in molti, dandosi risposte diverse. Alcuni, soprattutto un'alta percentuale di memorialisti, a quanto pare, tennero duro per principio, o per la convinzione - infondata - che in tal modo avrebbero evitato una condanna. "Preferirei morire che screditarmi" disse il generale Gorbatov all'agente che lo interrogava dopo averlo torturato (non specifica come). Inoltre, molti credevano, come osservano Solzenicyn, Gorbatov e altri, che una confessione particolareggiata sarebbe stata ridicola, avrebbe creato un clima paradossale, impossibile da non avvertire Persine per l'NKVD. A proposito dei suoi compagni di prigionia, Gorbatov racconta con orrore:

Mi colpirono per la loro cultura, per la loro serietà. Ero sempre più inorridito nell'apprendere che durante gli interrogatori ciascuno di loro aveva Dritto porcherie davvero inimmaginabili, confessando reati immaginari e

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coinvolgendo altre persone... Alcuni sostenevano addirittura la bizzarra teoria secondo cui, più gente finiva dentro, prima si sarebbero resi conto di quanto tutto ciò fosse assurdo e dannoso per il Partito.75

Ma non tutti concordavano sul fatto che le persone di questo tipo andassero biasimate. Lev Razgon, nelle sue memorie, replicò a Gor-batov, definendolo "presuntuoso e immorale":

Come si possono incolpare le vittime anziché i boia! Gorbatov ha avuto fortuna: o gli è capitato un giudice istruttore pigro oppure uno che non aveva ricevuto l'ordine di "spremere" l'arrestato. Medici, psicologi e psichiatri hanno già ampiamente analizzato la possibilità di usare la tortura per estorcere una falsa deposizione. Ai giorni nostri hanno a disposizione molti più materiali rispetto al Medioevo. La tortura funziona eccome!76

In retrospettiva esistono anche opinioni meno nette sull'importanza della capacità di tenere duro. Susanna Pecora, che all'inizio degli anni Cinquanta fu interrogata per oltre un anno, in quanto appartenente a uno sparuto gruppetto di giovani fondato con lo scopo donchisciottesco di opporsi a Stalin, ripensando al passato sostiene che non valeva la pena di "tenere duro". Rifiutarsi di confessare sortiva come unico effetto di prolungare gli interrogatori. Alla fine la maggior parte degli arrestati veniva comunque condannata.77

Tuttavia, il contenuto del dossier di Sgovio dimostra con chiarezza che le decisioni successive, su un rilascio anticipato, un'amnistia eccetera, in realtà venivano prese sulla base del dossier del prigioniero, compresa la confessione. In altre parole, se uno era riuscito a resistere, aveva qualche esigua possibilità di farsi revocare la condanna. Per tutti gli anni Cinquanta le procedure giudiziarie, benché surreali, vennero prese sul serio.

In sostanza, l'elemento essenziale degli interrogatori consisteva negli effetti psicologici sui prigionieri. Ancor prima di compiere il lungo viaggio verso est, ancor prima di arrivare al primo campo, in un certo senso venivano "preparati" alla loro nuova vita di lavoratori schiavi. Sapevano già di non godere dei normali diritti umani, del diritto a un giusto processo, nemmeno a una giusta udienza. Sapevano già che l'NKVD aveva il potere assoluto e che lo Stato poteva disporre di loro come voleva. Confessando un crimine che non avevano commesso, avevano diminuito il rispetto per se stessi. Ma anche in caso contrario, erano stati privati di qualsiasi genere di speranza, della fiducia che ben presto si sarebbe rimediato all'errore commesso arrestandoli.

Vili LA PRIGIONE

Uno zingaro legge le carte, una strada lontana,

una strada lontana, e una prigione.

Forse la vecchia prigione centrale

mi attende, ancora giovane, un'altra volta...

Canto tradizionale dei prigionieri russi

Gli arresti e gli interrogatori estenuavano i prigionieri, li traumatizzavano fino a farli cedere, li confondevano e li disorientavano. Ma anche il sistema carcerario sovietico, dove gli arrestati venivano tenuti prima, durante e spesso per molto tempo dopo gli interrogatori, esercitava un'influenza enorme sulle loro condizioni mentali.

Esaminati nel contesto internazionale, le prigioni sovietiche e il regime carcerario non avevano nulla di particolarmente crudele. In Unione Sovietica, in generale, il regime delle prigioni era senza dubbio più duro che in Occidente, e più duro che nelle prigioni zariste. D'altra parte, verso la metà del Novecento anche le prigioni cinesi e di altri paesi del terzo mondo erano quanto mai sgradevoli. Tuttavia, alcuni aspetti della vita quotidiana nelle carceri sovietiche, inclusi gli interrogatori, rimasero caratteristici dell'URSS. A quanto pare, erano stati specificamente studiati per preparare i detenuti alla loro nuova vita nel Gulag.

Di certo l'atteggiamento ufficiale nei confronti delle prigioni riflette il modo in cui cambiavano gli obiettivi prioritari per chi gestiva i campi. Per esempio, nell'agosto 1935, proprio quando gli arresti di prigionieri politici cominciavano ad aumentare, Jagoda emise un'ordinanza nella quale spiegava che in ogni arresto lo "scopo" più importante (ammesso che negli arresti ci fosse uno "scopo", almeno Bell'accezione normale del termine) era quello di soddisfare la do-

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manda sempre più impellente di confessioni. L'ordinanza di Jagoda affidava agli ufficiali dell'NKVD addetti agli interrogatori la decisione non soltanto sui "privilegi" dei prigionieri, ma anche sulle loro condizioni di vita più elementari. Se un detenuto collaborava, il che di solito significava confessare, gli veniva concesso di ricevere lettere, pacchi di cibo, giornali e libri, di incontrare ogni mese i familiari e di poter usufruire di un'ora d'aria. In caso contrario, poteva essere privato di tutto questo e anche perdere la sua razione di cibo.1

Invece, nel 1942, dopo l'arrivo di Berija, che si era ripromesso di convertire il Gulag in un apparato efficiente dal punto di vista economico, le priorità di Mosca erano cambiate. Nell'economia di guerra, i campi stavano diventando un fattore produttivo importante e i loro dirigenti avevano cominciato a protestare per l'arrivo di molti prigionieri del tutto inabili al lavoro. I detenuti affamati, sporchi e stanchi non riuscivano affatto a estrarre carbone o a tagliare alberi al ritmo richiesto. Pertanto, nel maggio dello stesso anno, Berija emanò nuove direttive sugli interrogatori, chiedendo ai dirigenti delle prigioni di osservare le "più elementari condizioni igieniche" e di limitare il controllo degli inquirenti sulla vita quotidiana dei prigionieri.

In base alla nuova ordinanza di Berija, i prigionieri dovevano poter passeggiare ogni giorno per "non meno di un'ora" (con la notevole eccezione dei condannati a morte, la cui qualità di vita poco importava per la produttività dell'NKVD). Gli amministratori delle prigioni dovevano provvedere a costruire un cortile speciale adibito a questo scopo: "Nessun prigioniero deve rimanere in cella durante l'ora d'aria ... i prigionieri deboli e anziani saranno aiutati dai loro compagni di cella". I secondini dovevano assicurarsi che i reclusi (salvo quelli sotto interrogatorio) dormissero otto ore, che chi aveva la diarrea ricevesse vitamine e un'alimentazione migliore, e che le parasa, i buglioli destinati ai bisogni corporali dei prigionieri, venissero riparati se perdevano. Quest'ultimo fattore era ritenuto fondamentale tanto che l'ordinanza specificava persino le dimensioni ideali dell'accessorio. Nelle celle maschili dovevano essere alti 55-60 centimetri, in quelle femminili 30-35 centimetri, e dovevano avere una capienza di 0,75 litri per detenuto.2

Nonostante questi regolamenti, dettagliati fino al ridicolo, le prigioni continuavano a essere oltremodo diverse tra loro, cosa che dipendeva, soprattutto, dalla loro ubicazione. In generale, le prigioni di provincia erano più sporche e trasandate, quelle di Mosca più pulite e micidiali. Ma persino le tre prigioni principali di Mosca erano legger-mente diverse tra loro. La famigerata Lubjanka, che domina ancora

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oggi una grande piazza nel centro della città (e a tutt'oggi è il quartier generale dell'FSB, succeduta al KGB e all'NKVD), serviva per accogliere e interrogare i più pericolosi criminali politici. Le celle erano relativamente poche - 118, secondo un documento del 1956 - e 94 erano molto piccole, potevano contenere da uno a quattro prigionieri.3 Il palazzo della Lubjanka un tempo aveva ospitato gli uffici di una compagnia di assicurazioni e alcune delle celle avevano i pavimenti di parquet, che i prigionieri dovevano lavare ogni giorno. A.M. Garaseva, un'anarchica poi diventata la segretaria di Solzenicyn, fu rinchiusa alla Lubjanka nel 1926 e ricordava che il cibo veniva ancora servito da camerieri in uniforme.4

Invece Lefortovo, pure utilizzata per gli interrogatori, era un carcere militare del diciannovesimo secolo. Le sue celle, che non erano state progettate per contenere molti detenuti, erano più buie, più sporche e più affollate. L'edificio di Lefortovo ha la forma di una kappa, e il memorialista Dmitrij Panin ce lo descrive: "Un inserviente fermo [nel mezzo] con una bandiera dirige il flusso dei prigionieri che vanno e vengono dagli interrogatori".5 Alla fine degli anni Trenta Lefortovo era sovraffollata al punto che l'NKVD aprì una "succursale" nel monastero Suhanovskij, nei dintorni di Mosca. Questa succursale, il cui nome ufficiale era "Oggetto 110", ma che i prigionieri chiamavano "Suhanovka", acquistò una terribile reputazione per via delle torture: "Non c'erano regole di ordine interno, né norme precise per le procedure di interrogatorio".6 Berija vi aveva un ufficio e assisteva di persona alle torture inflitte ai detenuti.7

La Butyrka, la prigione più antica delle tre, era stata costruita nel Settecento e in origine doveva diventare un palazzo, ma fu ben presto trasformata in carcere. Nell'Ottocento vi erano stati imprigionati personaggi illustri, tra cui Feliks Dzerzinskij e altri rivoluzionari polacchi e russi.8 Anche questa prigione, di solito usata per i detenuti che avevano già subito gli interrogatori ed erano in attesa di un trasferimento altrove, era affollata e sporca, ma l'atmosfera era più rilassata. La Garaseva racconta che mentre alla Lubjanka i secondini costringevano i detenuti a "tenersi in movimento" camminando in circolo, alla Butyrka "si poteva fare quello che si voleva". Anche lei, come altri, parla dell'ottima biblioteca carceraria, contenente una collezione messa insieme da generazioni di prigionieri, che lasciavano tutti i propri libri quando venivano trasferiti altrove.9

Inoltre, le prigioni cambiavano da un'epoca all'altra. All'inizio degli anni Trenta, moltissimi prigionieri erano condannati a mesi o Persino anni di isolamento.10 Un detenuto russo, Boris Cetverikov,

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condannato a sedici mesi di solitudine, riuscì a non impazzire lavando i vestiti, il pavimento, i muri, e cantando tutte le arie d'opera e le canzoni che conosceva.10

Anche Alexander Dolgun venne tenuto in isolamento durante l'interrogatorio e riuscì a mantenere il controllo camminando: contò quanti passi misurava la sua cella, calcolò quanti corrispondevano a un chilometro e cominciò a "passeggiare": prima attraversò Mosca fino all'ambasciata americana - "immaginavo di respirare l'aria limpida e fredda, e di stringermi nel cappotto" -, poi l'Europa e, infine, l'Atlantico, facendo ritorno negli Stati Uniti.11

Evgenija Ginzburg trascorse quasi due anni in isolamento a Jaro-slavl', nel cuore della Russia centrale, per lo più completamente sola: "Ancor oggi, se socchiudo gli occhi, riesco a ricordare la più piccola irregolarità o scalfittura di quelle pareti, verniciate nella metà inferiore di rosso sangue (il colore più diffuso nelle prigioni) e per il resto di un bianchiccio sporco". Ma poi persino la sua prigione "speciale" cominciò a riempirsi e le venne assegnata una compagna di cella. Alla fine, la maggior parte dei tjurzek, i "detenuti in prigione", vennero spostati nei campi. Come scrive la Ginzburg, "non era pratico tenere una tale moltitudine di gente per dieci o vent'anni in carcere: era incompatibile con i ritmi dell'epoca e con la sua economia".12

Negli anni Quaranta, con l'incremento degli arresti, diventò davvero troppo difficile isolare qualcuno, anche i nuovi prigionieri, anche solo per qualche ora. Nel 1947 Lev Finkel'stejn all'inizio venne portato nella prigione Vokzal (letteralmente, "stazione ferroviaria"), un'"enor-me cella comune dove subito dopo l'arresto venivano gettati tutti i fermati, priva di qualsiasi servizio". Poi li dividevano, li mandavano a fare il bagno e li rinchiudevano nelle celle.13 In realtà, l'esperienza di un sovraffollamento intollerabile era molto più comune di quella dell'isolamento. Per citare qualche esempio a caso, la prigione principale della città di Arcangelo, predisposta per accogliere 740 persone, nel 1941 arrivò a ospitarne più del doppio (da 1661 a 2380). La prigione di Kotlas, nella Russia settentrionale, attrezzata per 300 persone, ne o-spitòfinoa460.14

Le prigioni delle province più lontane potevano essere anche peggiori. Nel 1940 il carcere di Stanislawów, nella Polonia orientale recentemente occupata, per il quale era prevista una popolazione di 472 detenuti, ne ospitava 1709 e disponeva soltanto di 150 paia di lenzuola.15 Nel febbraio 1941 le prigioni nella repubblica del Tatarstan, progettate per 2710 prigionieri, ne ospitavano 6353. Nel maggio 1942, le carceri della repubblica dell'Uzbekistan, nell'Asia centrale, destinate

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a 960 prigionieri, ne alloggiavano 2754.16 II sovraffollamento era devastante soprattutto per coloro che si trovavano sotto interrogatorio: pur essendo sottoposti ogni notte a una sfibrante e persecutoria inquisizione, dovevano trascorrere la giornata in compagnia di altri. Un detenuto descrive le conseguenze:

II processo di distruzione della personalità avveniva sotto gli occhi di chiunque si trovasse in cella. Lì un uomo non poteva nascondersi nemmeno per un istante; doveva persino svuotare gli intestini in un cesso aperto, situato all'interno della cella. Se aveva voglia di piangere piangeva davanti a tutti, e la sensazione di vergogna accresceva il suo tormento. Chi aveva voglia di uccidersi, di notte, sotto il lenzuolo, cercando di lacerarsi le vene del braccio con i denti, veniva subito scoperto da qualche compagno di cella insonne, che gli impediva di portare a termine l'opera.17

Margarete Buber-Neumann sostiene anche che l'eccessivo affollamento metteva i prigionieri gli uni contro gli altri. Venivano svegliati alle quattro e mezzo del mattino:

Ci faceva lo stesso effetto di un formicaio scoperchiato. Ciascuna prendeva le sue cose per lavarsi tra le prime, se possibile, dato che ovviamente i bagni non erano affatto sufficienti per tutte. Nella stanza in cui ci lavavamo c'erano cinque lavandini e dieci rubinetti. Dico "lavandini", ma in realtà erano cinque buchi per terra e nient'altro. Si formavano immediatamente le code di fronte ai cinque buchi e ai dieci rubinetti. Immaginate se ci riuscite di andare a lavarvi la mattina con almeno una dozzina di paia d'occhi puntati addosso, sotto la pressione di urli ed esortazioni di altre che aspettano impazienti il loro turno.. ,18

Le autorità carcerarie, forse consapevoli dell'affollamento, facevano di tutto per eliminare qualsiasi parvenza di solidarietà tra i detenuti. Già un'ordinanza di Jagoda del 1935 aveva proibito ai prigionieri di parlare, gridare, cantare, scrivere sui muri della cella, lasciare tracce o segni nella prigione, fermarsi davanti alle finestre o cercare di comunicare in qualsiasi modo con gli inquilini di altre celle. Chi infrangeva queste regole poteva essere punito, privato della possibilità di fare movimento o di ricevere lettere, o persino essere inviato in apposite celle di punizione.19 Il silenzio imposto è spesso menzionato dalle persone arrestate negli anni Trenta. "Nessuna di loro pronunciava una parola e molte si intendevano a gesti" racconta la Buber-Neumann a proposito della Butyrka, dove "alcune avevano la pelle del corpo bluastra".20

In alcune prigioni, la regola del silenzio assoluto perdurò fino al decennio successivo, in altre meno: un ex prigioniero parla del "completo silenzio" della Lubjanka nel 1949, in confronto al quale "la cella

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numero 106 alla Butyrka faceva pensare a un mercato rispetto a un negozietto".21 Un altro detenuto, rinchiuso in un carcere della repubblica dei Tatari, regione di Kazan', ricorda che, quando i prigionieri cominciavano a bisbigliare, "il coperchio della botola del cibo si apriva di colpo e qualcuno sibilava "Sssh!"".22

Molti memorialisti raccontano anche come i secondini, quando trasferivano i prigionieri da una cella all'altra o li accompagnavano agli interrogatori, facevano tintinnare le chiavi, schioccavano le dita o producevano altri rumori per intimare a chi si trovava in corridoio di allontanarsi. Se incontravano qualcuno, facevano svoltare in fretta e furia il detenuto e lo infilavano in uno stanzino apposito. V.K. Jasnyj, ex traduttore di letteratura spagnola, una volta venne rinchiuso per due ore in un ripostiglio di mezzo metro quadrato alla Lubjanka.23

A quanto pare, i locali di questo genere erano molto in uso: ce n'è uno nello scantinato dell'antico quartier generale dell'NKVD a Budapest, ora trasformato in museo. Avevano lo scopo di impedire ai prigionieri di incontrare altre persone, magari implicate nel loro "caso", e di tenerli lontani da fratelli o altri parenti arrestati.

L'imposizione del silenzio rendeva snervante persino arrivare alle stanze dell'interrogatorio. Alexander Dolgun ricorda quando percorreva i corridoi ricoperti di tappeti della Lubjanka: "Mentre camminavamo, l'unico rumore era lo schiocco di lingua del guardiano ... tutte quelle porte di metallo erano grigie, grigio corazzata, e l'effetto dell'oscurità e del silenzio, e dei corridoi punteggiati da porte tutte uguali, grigie, fino a fondersi con le ombre, era opprimente e scoraggiante".24

Per impedire che i prigionieri di una cella imparassero i nomi di quelli delle altre, quando dovevano essere interrogati o trasferiti i detenuti venivano chiamati ad alta voce, non con il loro nome, ma con una lettera dell'alfabeto. Il secondino, per esempio, gridava "G", e tutti i prigionieri il cui cognome cominciava per G si alzavano e declinavano nome di battesimo e patronimico.25

L'ordine veniva mantenuto proprio come nella maggior parte delle prigioni, con una rigida regolamentazione della vita quotidiana. Zajara Veselaja, figlia di un famoso scrittore russo e "nemico", nelle sue memorie descrive una giornata tipica della Lubjanka. Cominciava con la opravka, la visita al gabinetto: ""Prepararsi per il gabinetto!" grida il secondino, e le donne si allineano in silenzio, a due a due. Una volta in bagno, avevano circa dieci minuti a disposizione, per evacuare e lavarsi, e lavare tutti i vestiti che potevano. All'opravka seguiva la

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colazione: acqua calda, magari mescolata con qualcosa che sembrava fé o caffè, oltre alla razione quotidiana di pane e due o tre zollette di zucchero. La colazione era seguita dalla visita di un secondino, che prendeva le richieste di visite mediche, e poi dall'"attività centrale della giornata", una passeggiata di venti minuti in un "cortiletto recintato, camminando in circolo in fila vicino al muro"". L'ordine venne infranto soltanto una volta, quando una sera portarono la Veselaja sul tetto della Lubjanka, senza spiegargliene il motivo, dopo che ai prigionieri era già stato ordinato di dormire. Dato che la Lubjanka si trova nel centro di Mosca, lei poteva vedere, se non la città, almeno le sue luci, che avrebbero potuto appartenere a un altro paese.26

Comunque, di solito, le giornate erano ripetitive: pranzo - zuppa della prigione, fatta con interiora o cereali, o cavolo marcio - e cena, con lo stesso menu. La sera si ripeteva la visita al bagno. Tra un'attività e l'altra, i detenuti bisbigliavano tra di loro, a volte leggevano libri. La Veselaja ricorda che le veniva concesso un libro alla settimana, ma le regole variavano da carcere a carcere, come pure la qualità delle biblioteche carcerarie, che, come ho detto, a volte erano eccellenti. In alcune prigioni, i reclusi potevano acquistare generi alimentari dal "delegato", se avevano ricevuto denaro dai parenti.

Ma oltre alla noia e alla cattiva qualità del cibo, c'erano anche altre torture. Ai prigionieri in generale, non solo a quelli sotto interrogatorio, era proibito di dormire durante il giorno. I secondini, sempre vigili, sorvegliavano dal "buco di Giuda", lo spioncino nella cella, per assicurarsi che questa regola venisse osservata. Ljubov' Bersadskaja ricorda: "Ci svegliavano alle sei, ma non ci era permesso nemmeno di sederci sul letto prima delle undici di sera. Anche durante l'ora d'aria, o sulla latrina, non dovevamo appoggiarci al muro".27

Di notte non andava meglio. Il sonno era reso difficile, se non impossibile, dalle forti luci nelle celle, che non venivano mai spente, e dalla regola che vietava ai prigionieri di dormire con le mani sotto le coperte. All'inizio la Veselaja cercò di adeguarsi: "Era difficile e scomodo, e facevo fatica ad addormentarmi ... appena mi appisolavo, comunque, istintivamente mi tiravo la coperta sul mento. Facevano cigolare la serratura e il guardiano scuoteva il mio letto: "Mani!"".28 La Buber-Neumann racconta: "Finché non ti abituavi, la notte era peggio del giorno. Provaci, a dormire di notte sotto una forte luce elettrica - ai prigionieri non veniva permesso di coprirsi la faccia -su nudi tavolacci senza neppure un sacco di paglia o un cuscino, e magari senza nemmeno una coperta, stretto tra i tuoi compagni di prigione da entrambi i lati".

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Lo strumento forse più efficace per impedire ai prigionieri di sentirsi troppo a proprio agio nel loro ambiente era la presenza di informatori, attivi in tutte le sfere della vita sovietica. Nei campi avevano un ruolo importante, ma erano anche più facili da evitare. In prigione, non risultava agevole scansarli e costringevano la gente a controllare con estrema cura le proprie parole. La Buber-Neumann racconta: "[Salvo in un caso] durante la mia carcerazione alla Butyrka non udii mai una russa pronunciare una sola parola di critica nei confronti del regime sovietico".29

I detenuti partivano dal presupposto ragionevole che ci fosse almeno un informatore per cella. Quando in una cella vivevano due persone, ognuno sospettava l'altro. Nelle celle più grandi, l'informatore era spesso identificato ed evitato dagli altri reclusi. Quando Ol'ga Ada-mova-Sliozberg arrivò la prima volta alla Butyrka, notò un posto libero per dormire vicino alla finestra. Le concessero di dormire lì, ma aggiunsero: "Purché non abbia problemi con la sua vicina". A quanto risultò poi, la donna che dormiva isolata era un'informatrice; passava tutto il suo tempo a scrivere "denunce contro le compagne di cella" e nessuno le rivolgeva la parola".

Non tutti gli informatori, però, venivano identificati con tanta facilità e la paranoia era talmente diffusa che ogni comportamento insolito poteva far nascere ostilità. La stessa Adamova-Sliozberg arrivò alla conclusione che una delle altre recluse era di certo una spia, perché l'aveva vista "lavarsi con una spugna forestiera e indossare della biancheria fuori del comune". Successivamente, arrivò a considerare la stessa donna un'amica.30 Anche Varlam Salamov osservò che essere trasferiti all'interno di una prigione, da una cella all'altra, non era un'esperienza "molto piacevole": "Suscita sempre il sospetto e la diffidenza dei nuovi compagni - non l'avranno messo qui per spiarci?".31

Senza alcun dubbio, il sistema era rigido, inflessibile e inumano. E comunque, quando potevano, i prigionieri lottavano contro la noia, contro le piccole umiliazioni continue, contro i tentativi di dividerli e di isolarli. Molti ex detenuti hanno raccontato che nelle prigioni la solidarietà tra i carcerati era in realtà più forte di quanto sarebbe stata in seguito, nei campi. Una volta arrivati nei campi, per le autorità era più facile dividere e comandare i prigionieri. Per separarli, le autorità li allettavano con la promessa di un posto più elevato nella gerarchla, di cibo migliore o di un lavoro più lieve.

In prigione, invece, tutti erano più o meno uguali. Sebbene ci fos-

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sero pressioni per indurii a collaborare, si trattava di episodi marginali. Per molti prigionieri, i giorni o i mesi passati in prigione, prima della deportazione, rappresentarono addirittura una specie di corso introduttivo alle tecniche elementari di sopravvivenza e, nonostante tutti gli sforzi delle autorità, furono la loro prima esperienza di unione contro l'ordine costituito.

Alcuni prigionieri si limitavano a imparare dagli altri detenuti dei sistemi elementari per preservare l'igiene e la dignità. In cella, Inna Siheeva-Gajster imparò a fare dei bottoni per allacciarsi i vestiti con pezzetti di pane masticato, a costruire aghi con lische di pesce, a usare fili trovati per caso per cucire gli strappi negli abiti lacerati durante la perquisizione, e altri piccoli espedienti che poi si rivelarono utili nei campi.32 Dmitrij Bystroletov, un'ex spia sovietica in Occidente, imparò anche a produrre "filo" da vecchie calze. Nei campi questi filati, come gli aghi che imparò a costruire con i fiammiferi, potevano essere scambiati con cibo.33 A Susanna Pecora, la giovane antistalinista, insegnarono "a dormire senza farsene accorgere, a cucire con i fiammiferi, a camminare senza cintura".34

Inoltre, i prigionieri mantenevano un certo controllo sulla propria vita grazie all'istituzione dello starosta, l'"anziano" della cella. Nelle prigioni, sui vagoni ferroviari e nelle baracche dei campi lo starosta era una figura riconosciuta in modo formale, le cui funzioni sono state descritte in documenti ufficiali. Tra i suoi molti compiti c'erano quelli di fare in modo che la cella fosse pulita e le code per il bagno disciplinate, e questo implicava che la sua autorità dovesse essere riconosciuta da tutti.35 Quindi gli informatori e altri favoriti dai secondini della prigione non erano candidati ideali. Alexander Weissberg racconta che nelle celle più grandi, dove potevano alloggiare oltre 200 prigionieri, "non era possibile una vita normale senza un anziano della cella che organizzasse la distribuzione del cibo, i preparativi per gli esercizi fisici e così via". Poiché la polizia segreta rifiutava di riconoscere qualsiasi forma di organizzazione dei prigionieri ("la sua logica era semplice: un'organizzazione composta da controrivoluzio-nari era un'organizzazione controrivoluzionaria"), si trovò una tipica soluzione alla sovietica, come spiega Weissberg: lo starosta veniva eletto "in modo illegale" dai prigionieri. L'amministratore della prigione veniva a saperlo dalle sue spie, dopodiché nominava ufficialmente il prescelto dai detenuti.36

Nelle celle più affollate, il compito principale dello starosta consisteva nell'accogliere i nuovi prigionieri, e garantire che tutti avessero un Posto per dormire. Quasi dappertutto, i nuovi prigionieri venivano

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mandati a dormire accanto alla parasa, il bugliolo, da cui si allontanavano a poco a poco in direzione della finestra a mano a mano che diventavano più anziani. "Non vengono fatte eccezioni" notava Elinor Lipper "per malattia o vecchiaia."37 Lo starosta risolveva anche le risse e in generale manteneva l'ordine nella cella, un compito tutt'altro che semplice. Kazimierz Zarod, un detenuto polacco, racconta di quando faceva lo starosta della cella: "I secondini mi minacciavano di continuo di qualche punizione se non mantenevo sotto controllo, almeno in certa misura, gli elementi indisciplinati, soprattutto dopo le nove di sera, quando c'era la regola del "non parlare" e quindi del "tutti a dormire"". In conclusione, anche Zarod finì in cella di punizione per non essere riuscito a controllare la situazione.38 A quanto risulta da altri resoconti, tuttavia, di solito le decisioni dello starosta venivano rispettate.

Senza alcun dubbio, comunque, i prigionieri aguzzavano l'ingegno per ovviare alla regola più rigida: l'assoluta proibizione di comunicare, tra le celle e con il mondo esterno. Nonostante la minaccia concreta di punizione, i prigionieri lasciavano biglietti per altri prigionieri nei bagni oppure gettavano dei messaggi oltre i muri. Lev Finkel'stejn cercò di gettare un pezzo di carne, un pomodoro e un pezzo di pane in un'altra cella: "Quando ci portarono al gabinetto, cercai di aprire la finestra e di spingere fuori il cibo". Lo sorpresero e lo sbatterono in cella di punizione.39 I detenuti corrompevano le guardie perché portassero dei messaggi, ma a volte i secondini lo facevano spontaneamente. Uno della prigione di Stravropol' ogni tanto trasmetteva messaggi verbali di Lev Razgon alla moglie.40

Nel 1939 un ex detenuto, che rimase quattordici mesi a Vilnius dopo l'occupazione sovietica della città, in precedenza sotto il dominio polacco, in una deposizione presentata al governo polacco in esilio spiegò come gli elementi del precedente regime carcerario polacco erano crollati a poco a poco. Uno dopo l'altro, i prigionieri avevano perso i loro "privilegi", cioè il diritto di leggere e scrivere lettere, di usare la biblioteca della prigione, di avere carta e matite, di ricevere pacchi. Vennero introdotti nuovi regolamenti comuni per la maggior parte delle prigioni sovietiche: nelle celle la luce doveva rimanere accesa tutta la notte, e le finestre venivano coperte con lamine di latta. Quest'ultima disposizione creò un'opportunità inaspettata per comunicare tra cella e cella: "Aprivo la finestra e parlavo ai miei vicini con la testa appoggiata alle sbarre. Quand'anche la sentinella in cortile mi avesse sentito, non sarebbe riuscita a capire da dove proveniva la voce, e grazie ai fogli di latta era impossibile vedere una finestra aperta".41

La prigione 183

Forse la forma più elaborata di comunicazione proibita, comunque, era il codice morse dei prigionieri, che si produceva battendo sulle pareti delle celle o sui tubi dell'acqua della prigione. Era stato creato nell'epoca zarista. Varlam Salamov ne attribuisce la paternità a un decabrista del 1843.42 Ekaterina Olickaja lo aveva imparato dai suoi compagni socialisti rivoluzionari molto prima del 1924, quando fu incarcerata.43 In effetti la rivoluzionaria russa Vera Figner parlava del codice nelle sue memorie; fu da lì che la Ginzburg ne apprese l'esistenza. Quand'era indagata, riuscì a ricordarselo abbastanza bene da servirsene per comunicare con una cella vicina.44 Era relativamente semplice: le lettere dell'alfabeto russo erano sistemate in cinque righe di sei lettere:

A E B T fl E (È)

)K 3 H K JI M

H O O P C T

y $ x D, H m

m t bl 3 K> fi

Per indicare le lettere, bisognava battere due volte, la prima per indicare la riga, la seconda la posizione.

1,2 1,3 1,4 1,5 1,6

2,2 2,3 2,4 2,5 2,6

3,2 3,3 3,4 3,5 3,6

44 4,2 4,3 4,4 4,5 4,6

5,2 5,3 5,4 5,5 5,6

Persine chi non sapeva nemmeno dell'esistenza del codice, o non l'aveva imparato da altri, a volte riusciva a decifrarlo ed esistevano dei metodi diffusi per insegnarlo. A volte chi lo conosceva trasmetteva più e più volte l'alfabeto e un paio di domande semplici, nella speranza che la persona invisibile dall'altra parte del muro afferrasse il significato. Alexander Dolgun lo imparò così a Lefortovo e lo memorizzò aiutandosi con i fiammiferi. Quando, alla fine, fu in grado di "parlare" al detenuto della cella accanto, e capì che quello stava chiedendogli "Chi sei?", fu invaso da "un fiotto di amore puro per quell'uomo che da tre mesi mi stava domandando chi fossi".45

Non sempre il codice ebbe la stessa diffusione. Nel 1949, alla Butyrka, Zajara Veselaja non riuscì "a trovare nessuno che conoscesse "l'alfabeto della prigione"" e sulle prime pensò che la tradizione si fosse perduta. In seguito comprese di essersi sbagliata, perché altri le dissero di averlo usato, e perché una volta un secondino sen-

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tendo battere si precipitò nella sua cella, chiedendo da dove provenisse il rumore.46 Ne esistevano altre varianti. Lo scrittore e poeta russo Anatolij Zigulin, sostiene di avere inventato un codice, sempre basato sull'alfabeto, con cui il gruppo di amici e lui (erano stati arrestati tutti insieme) comunicavano nel corso delle indagini.47

In certi luoghi e in certi periodi, i sistemi escogitati dai detenuti per organizzarsi erano più elaborati. Salamov, nel suo racconto / co-milati dei poveri, ne descrive uno citato anche da altri.48 Derivava dall'introduzione di una norma iniqua: verso la fine degli anni Trenta, a un certo punto, le autorità d'un tratto decisero che i detenuti sotto interrogatorio non potevano ricevere pacchi dai parenti, perché anche "due panini, cinque mele e un paio di mutande vecchie in carcere bastavano per trasmettere qualsiasi messaggio". Le famiglie potevano inviare soltanto denaro, e anche quello in cifre tonde, affinchè le somme non venissero sfruttate per trasmettere "messaggi". Ma non tutte le famiglie dei prigionieri avevano denaro da mandare. Alcuni erano troppo poveri, altri troppo lontani, e alcuni magari erano stati i primi a denunciare i familiari. Quindi, anche se alcuni prigionieri una volta alla settimana potevano accedere allo spaccio della prigione per acquistare burro, formaggio, salsicce, tabacco, pane bianco, sigarette, altri dovevano sopravvivere con la povera dieta della prigione e, cosa ancor più importante, durante la "festa generale", cioè il "giorno dello spaccio", si sentivano "fuori posto".

Per risolvere questo problema, i detenuti della Butyrka riesumarono un'espressione forgiata nel periodo iniziale della rivoluzione e organizzarono i "comitati dei poveri". Ogni prigioniero versava il 10 per cento del suo denaro, con cui il comitato comprava provviste di cibo per i prigionieri che non ne avevano. Questo sistema restò in uso per alcuni anni, fino a quando le autorità decisero di eliminare i comitati promettendo ad alcuni prigionieri "ricompense" di vario tipo se rifiutavano di parteciparvi. Le cellule dei comitati reagirono, e comunque chi non accettava di partecipare veniva messo al bando. "Tuttavia quanti erano disposti a un passo del genere?" si chiede Salamov: "a contrapporsi all'intero collettivo dei detenuti, persone con le quali si viveva ventiquattr'ore su ventiquattro, così che solo nel sonno si poteva trovare scampo agli sguardi malevoli e ostili dell'intero consorzio umano?".

Per quanto possa sembrare strano, questo racconto è uno dei pochi, nel vasto repertorio di Salamov, a concludersi con una nota positiva: "I kombedy sarebbero sorti... come ... un minuscolo spazio in cui un collettivo di uomini, compatto come sempre accade in prigio-

La prigione 185

ne - e mai nella vita libera o nel lager - applica le proprie risorse spirituali per affermare con insistenza il basilare diritto di ogni uomo a vivere a suo modo".49

In questa unica forma di solidarietà organizzata tra carcerati il più pessimista degli scrittori aveva trovato un barlume di speranza, che però il trauma delle deportazioni e l'orrore dei primi sconcertanti giorni nei campi avrebbero soffocato in fretta.

IX

TRASFERIMENTO, ARRIVO, SELEZIONE

Ricordo il porto di Vanino ed il fragore della nave oscura quando varcammo il barcarizzo fino alla fredda, tenebrosa stiva.

Gli zek sballottati tra le onde soffrivano il mare profondo urlava tutto intorno e innanzi a loro c'era Magadan la capitale della Kolyma.

Non grida, ma pietosi gemiti

eruppero da ogni petto

quando lasciarono la terraferma.

La nave rollava, beccheggiava, scricchiolava...

Canto dei prigionieri sovietici

Nel 1827 la principessa Marija Volkonskaja, moglie del decabrista Sergej Volkonskij, lasciò la famiglia, il figlio e la sua vita tranquilla a San Pietroburgo per raggiungere il marito confinato in Siberia. Il suo biografo ne ha raccontato il viaggio, all'epoca considerato talmente faticoso da essere quasi insopportabile:

La slitta correva, giorno dopo giorno, verso l'orizzonte sterminato. Marija, come racchiusa in una capsula temporale, era in uno stato di esaltazione febbrile. Il viaggio dava una sensazione di irrealtà, per la mancanza di sonno e la scarsità del cibo. Si fermò soltanto a una stazione di posta a caso per un té bollente al limone, dall'onnipresente samovar di ottone. La velocità inebriante della slitta, tirata da tre cavalli lanciati al galoppo, divorava le distese deserte. "Avanti... avanti!" gridavano i conducenti, tergendosi i grandi pennacchi di neve sollevati dagli zoccoli dei cavalli, e i campanelli dei finimenti trillavano senza sosta, avvertendo che il veicolo si avvicinava...1

Trasferimento, arrivo, selezione 187

Più di un secolo dopo, la compagna di cella di Evgenija Ginzburg lesse sospirando di invidia una descrizione analoga del viaggio di un'aristocratica attraverso gli Urali: "Avevo sempre ritenuto che fosse impossibile eguagliare il martirio delle decabriste".2

Non esistevano slitte e cavalli che trasportassero a "velocità inebriante" i prigionieri del ventesimo secolo attraverso le innevate distese siberiane, e non si poteva ordinare un bicchiere di té al limone bollente attinto da samovar di ottone alle stazioni di posta. Forse la principessa Volkonskaja pianse durante il viaggio, ma nei prigionieri che arrivarono dopo di lei anche soltanto il suono della parola etap, il "trasferimento", nel gergo dei carcerati, seccava la lingua, provocando un fremito di paura, anzi terrore. Ogni viaggio era un balzo straziante nell'ignoto, la separazione dai compagni di cella ormai ben conosciuti e da situazioni già note, per quanto miserande. E, per di più, il trasferimento dei prigionieri dal carcere a una prigione di transito, a un campo, e da un campo all'altro all'interno del sistema, era estenuante sul piano fisico e davvero crudele. In un certo senso rappresentava l'aspetto più inesplicabile della vita del Gulag.

Per chi affrontava questa prova per la prima volta, si trattava di un avvenimento oltremodo simbolico. L'arresto e l'interrogatorio costituivano un'iniziazione al sistema, ma il viaggio in treno attraverso la Russia rappresentava una rottura geografica con la vita precedente e l'inizio di una nuova esistenza. Nei treni che partivano da Mosca e Leningrado diretti a nord e a est, il livello delle emozioni era sempre altissimo. Thomas Sgovio, l'americano che non era riuscito a riavere il suo passaporto, racconta che cosa accadde quando il suo treno partì per la Kolyma: "II nostro treno lasciò Mosca la sera del 24 giugno. Era l'inizio di un viaggio verso est che sarebbe durato un mese. Non riesco a dimenticare quel momento. Settanta uomini ... si misero a piangere".3

I trasferimenti lunghi avvenivano quasi sempre a tappe. Se gli zek provenivano dalle carceri di grandi città, li portavano ai treni su camion che nell'aspetto stesso rivelavano l'ossessione dell'NKVD per la segretezza. Dall'esterno, i "corvi neri", come venivano chiamati, parevano dei normali camion per il trasporto merci. Negli anni Trenta spesso avevano dipinta sulle fiancate la parola "pane", ma in seguito si ricorse a espedienti più elaborati. Un prigioniero arrestato nel 1948 ricorda di aver viaggiato su due camion contrassegnati rispettivamente dalle scritte POLPETTE DI MOSCA e FRUTTA E VERDURA.4

L'interno era suddiviso "in minuscole cabine, assolutamente buie, in ciascuna delle quali viene cacciata una persona. Manca l'aria",

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racconta una detenuta.5 Altri, allestiti su un progetto del 1951, avevano soltanto due lunghe panche, su cui i prigionieri si pigiavano uno addosso all'altro.6 I contadini e le persone trasferite all'inizio delle deportazioni di massa dagli stati baltici e dalla Polonia orientale se la passavano ancora peggio. Venivano spesso stipati "come sardine" in normali camion leggeri, come mi ha raccontato una volta un vecchio lituano: il primo prigioniero allargava le gambe, il secondo si sedeva in mezzo e allargava a sua volta le gambe; andavano avanti così finché il camion era pieno.7 Tali sistemazioni erano scomode soprattutto quando dovevano salire a bordo molte persone, e il viaggio fino alla stazione poteva durare una giornata intera. Durante i trasferimenti da zone un tempo polacche, nel febbraio 1940, i bambini morivano congelati ancora prima di arrivare ai treni e gli adulti erano colpiti da forme di assideramento grave, che pregiudicavano per sempre l'uso delle braccia e delle gambe.8

Nelle città di provincia, le regole sulla segretezza erano meno rigorose e i prigionieri a volte percorrevano a piedi la città per raggiungere la stazione ferroviaria, un'esperienza che spesso dava loro l'ultima visione fugace della vita civile, e che offriva ai civili la rara visione fugace dei prigionieri. Janusz Bardach racconta quanto lo sorprese la reazione dei cittadini di Petropavlovsk quando videro i prigionieri marciare per le strade:

Erano per la maggior parte donne, avvolte in scialli e lunghi cappotti di feltro. Rimasi sorpreso quando sentii alcune di loro gridare alle guardie: "Fascisti!", "Assassini!", "Perché non andate piuttosto a combattere al fronte?"... Cominciarono a tirare palle di neve alle guardie. Furono sparati in aria diversi colpi di fucile; le donne indietreggiarono di alcuni passi, continuando però a mandare maledizioni e a seguirci. Buttarono qua e là all'interno della nostra colonna involucri, pagnotte, patate, fette di pancetta, avvolte in pezzi di panno. Una donna si tolse lo scialle e il cappotto e li diede a un uomo che aveva ben poco addosso. Io presi un paio di manopole di lana fatte a maglia.9

Tali comportamenti hanno una lunga tradizione in Russia: Do-stoevskij racconta delle casalinghe che a Natale mandavano ai detenuti delle prigioni zariste "panelli della più pura farina ... in gran quantità".10 Ma negli anni Quaranta erano ormai piuttosto rare. In molte località, tra cui Magadan, rinomata per questo fatto, vedere dei prigionieri per strada era comune al punto da non provocare alcuna reazione.

A piedi o sui camion, i prigionieri finalmente raggiungevano le stazioni ferroviarie. Talvolta si trattava di normali stazioni, talvolta

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invece erano speciali: "un appczzamento di terreno circondato da filo spinato", come ricorda Lev Finkel'stejn, che racconta anche come i prigionieri venivano sottoposti a una serie di rituali particolari prima di poter salire a bordo:

C'è una colonna enorme di prigionieri che vengono contati e ricontati, ricontati ancora. Il treno è lì ... e poi arriva l'ordine di viaggio: "In ginocchio!". Le operazioni di carico rappresentavano un momento delicato, qualcuno poteva mettersi a correre. Quindi si accertavano che tutti stessero in ginocchio. Ed era meglio non alzarsi, perché in quel momento avevano il grilletto facile. Poi contavano le persone, le mettevano nei vagoni e chiudevano. Il treno non si muoveva mai, potevi restartene lì per ore, e d'un tratto "Si va!" e si partiva.11

Dall'esterno i vagoni ferroviari spesso avevano un aspetto assolutamente normale, ma erano molto più protetti degli altri. Edward Buca, arrestato in Polonia, esaminò il suo con lo sguardo attento di una persona intenzionata a fuggire. Ricorda che "ogni vagone era avvolto da diversi giri di filo spinato, c'erano piattaforme esterne in legno per la scorta, in testa e in coda a ogni vagone erano state installate luci elettriche e gli stretti finestrini erano protetti da spesse sbarre di ferro". In seguito, Buca controllò il fondo del vagone per vedere se anche lì c'erano sbarre di ferro. C'erano.12 Finkel'stejn racconta: "O-gni mattina sentivi martellare: gli agenti di scorta avevano delle mazze di legno e battevano sempre sui treni, per accertarsi che nessuno cercasse di fuggire, di fare un buco".13

Per i prigionieri speciali, raramente veniva organizzato un trasferimento particolare. Anna Larina, moglie del dirigente sovietico Buha-rin, non viaggiò insieme ad altri detenuti, ma venne sistemata nello scompartimento degli agenti di scorta.14 Invece la stragrande maggioranza dei prigionieri e dei confinati viaggiava insieme, in treni di due tipi. I primi erano gli stolypinka, o "vagoni Stolypin" (così chiamati per un riferimento ironico al primo ministro zarista di inizio secolo, il più energico e il più riformista, che, a quanto pare, li aveva introdotti). Si trattava di normali vagoni riadattati per i prigionieri. Potevano essere uniti in lunghissimi convogli, oppure uno o due agganciati ai treni normali. Un ex passeggero racconta:

Una stolypinka sembra un normale vagone di terza classe russo, salvo che ha molte sbarre di ferro e inferriate. Ovviamente i finestrini sono sbarrati. Gli scompartimenti sono divisi da rete di acciaio invece di pareti, sembrano gab-bie, e un lungo recinto di ferro separa gli scompartimenti dal corridoio. Questa disposizione consente alle sentinelle di tenere sempre d'occhio tutti i prigionieri del vagone.15

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Anche i vagoni Stolypin erano sempre affollatissimi:

Su ciascuna delle cuccette superiori stavano sdraiati due uomini, a testa-piedi. Su quelle di mezzo erano in sette, con la testa verso la porta e uno perpendicolare ai loro piedi. Sotto ciascuna delle cuccette inferiori c'era un uomo, altri quattordici erano appollaiati sulle cuccette e sui fagotti ammucchiati sul pavimento tra le cuccette e la porta. La notte quelli al livello più basso riuscivano in qualche modo a sdraiarsi uno accanto all'altro.16

Ma c'era un altro inconveniente, più importante. Nei vagoni Stolypin, le sentinelle tenevano i prigionieri continuamente sotto sorveglianza, sicché avevano modo di vedere che cosa mangiavano, ascoltare le loro conversazioni e decidere quando e dove potevano andare di corpo. Di conseguenza, in pratica tutti i memorialisti che raccontano dei treni riferiscono degli orrori associati alla necessità di urinare e defecare. Una volta, talvolta due al giorno, talvolta nemmeno una, gli agenti accompagnavano i prigionieri al gabinetto, oppure fermavano il treno per lasciarli scendere: "II momento peggiore è quando, dopo una lunga discussione con le sentinelle, ci lasciano scendere e ciascuno cerca un posto sotto il vagone per liberarsi, senza curarsi di chi lo vede da ogni lato".17

Per quanto imbarazzanti potessero essere queste soste, i deportati affetti da malattie intestinali o altri problemi medici si trovavano in una posizione molto peggiore; uno ricorda: "I detenuti che non riuscivano a trattenersi se la facevano addosso lamentandosi, e spesso imbrattavano anche chi stava loro accanto. Persine in quei gruppi accomunati dalle difficoltà, ad alcuni riusciva difficile non odiare gli sventurati cui capitava".18

È per questo motivo che in realtà alcuni prigionieri preferivano l'altra forma di trasporto, i carri bestiame. Erano esattamente quello che viene in mente a nominarli: vagoni vuoti, non necessariamente attrezzati per gli esseri umani, talvolta con una piccola stufa al centro, a volte dotati di cuccette. Pur essendo più rudimentali dei vagoni Stolypin, i carri bestiame non erano divisi in scompartimenti e c'era più spazio per muoversi. Inoltre erano dotati di "gabinetti", cioè dei buchi sul fondo, grazie ai quali non c'era bisogno di implorare e supplicare i guardiani.19

Tuttavia, anche i vagoni aperti potevano dare origine a particolari tormenti. A volte, per esempio, le aperture sul pavimento si intasavano. Sul treno di Buca, l'apertura si ostruì per il ghiaccio. "Allora che cosa abbiamo fatto? Abbiamo urinato in una fessura tra il pavimento e la porta, e cacato in un pezzo di stoffa, facendo un bel pacchettino e sperando che da qualche parte avrebbero fermato il treno e aperto la

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porta per poterlo gettare fuori."20 Sui treni gremiti di deportati, in cui venivano caricati tutti insieme uomini, donne e bambini, i buchi nel pavimento provocavano diversi problemi. Un'ex deportata, esiliata all'inizio degli anni Trenta in quanto figlia di un kulak, ricorda persone "tremendamente imbarazzate" di dover urinare davanti agli altri, ed era grata di poterlo fare "dietro le gonne di mia madre".21

La tortura vera non derivava dal sovraffollamento, dai gabinetti o dall'imbarazzo, ma dalla mancanza di cibo e, soprattutto, di acqua. Talvolta, a seconda dell'itinerario e del tipo di treno, durante il viaggio i prigionieri ricevevano cibo caldo. A volte invece no. Di solito la "razione solida" di un prigioniero in trasferimento era costituita da pane, distribuito in piccoli pezzi di trecento grammi al giorno, o anche in quantità maggiori, più o meno due chili, che dovevano durare per un viaggio di trentaquattro giorni.

Insieme al pane, di norma ai prigionieri veniva distribuito del pesce salato, per cui poi erano tormentati dalla sete.22 Ciononostante, ricevevano di rado più di un boccale d'acqua al giorno, persino in estate. Era una consuetudine talmente diffusa che riappaiono di continuo racconti della sete terribile provata durante il viaggio: "Una volta non ci hanno dato acqua per tre giorni, e la notte di Capodanno del 1939, vicino al lago Bajkal, siamo stati costretti a leccare i ghiaccioli neri che pendevano dai vagoni" scrive un ex zek.23 Un altro ricorda che, durante un viaggio di ventotto giorni, gli diedero da bere solo tre volte, durante le soste occasionali "per portar via i cadaveri".24

Soffrivano persino quelli che ricevevano una tazza d'acqua al giorno. La Ginzburg ricorda la straziante decisione che i prigionieri dovevano prendere: bere l'intera tazza al mattino o cercare di tenerla da parte? "Chi invece conserva l'acqua per berne un sorso ogni tanto fino a sera non gode di un minuto di tranquillità. Tutte tengono d'occhio il bicchiere, trepidano per esso."25 Se erano abbastanza fortunati da avere boccali: una prigioniera avrebbe ricordato fino alla fine dei suoi giorni il tragico momento in cui le rubarono la teiera, che era riuscita a portare con sé. Nella teiera poteva tenere l'acqua senza versarla, e questo le consentiva di sorseggiarla durante il giorno. Senza, non aveva più un recipiente per l'acqua ed era tormentata dalla sete.26

I ricordi di Nina Gagen-Torn, caricata su un treno di deportati che si fermò per tre giorni fuori Novosibirsk in piena estate, sono ancora Peggiori. La prigione di transito della città era strapiena: "Era luglio. Molto caldo. I tetti dei vagoni Stolypin diventarono incandescenti e ci sdraiammo nelle cuccette come focacce in un forno". Nella sua car-

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rozza decisero di indire uno sciopero della fame, anche se le sentinelle li minacciavano di condanne aggiuntive, più severe. "Non vogliamo prendere la dissenteria" gridò loro la donna. "Siamo sdraiati nella nostra merda da quattro giorni." Alla fine le sentinelle, sia pur con riluttanza, consentirono loro di bere un po' d'acqua e di lavarsi.27

Anche una prigioniera polacca si ritrovò in un treno che ebbe motivo di fermarsi, ma sotto la pioggia. Naturalmente i prigionieri cercarono di prendere l'acqua che colava dal tetto. Ma "quando tendemmo i boccali tra le sbarre delle finestre, la sentinella seduta sul tetto gridò che avrebbe sparato, tale comportamento era vietato".28

D'inverno i viaggi non erano necessariamente migliori. Un'altra deportata polacca ricordava di non avere ricevuto niente durante il tragitto verso oriente se non "pane gelato e acqua ghiacciata".29 In estate e in inverno, altri detenuti vissero particolari tormenti. Quando un treno di deportati si fermava, diversamente dal solito, in una normale stazione, i prigionieri si precipitavano fuori per comprare cibo da gente del posto. "I nostri ebrei hanno fatto una corsa per le uova" racconta un passeggero polacco. "Preferirebbero morire che mangiare cibo non kasher."30

Le persone molto vecchie e molto giovani soffrivano moltissimo. Barbara Armonas, una lituana sposata a un americano, venne deportata insieme a un grosso gruppo di lituani, uomini, donne e bambini. Tra loro c'era una donna che aveva partorito quattro ore prima e una vecchia di ottantatré anni, paralizzata, che non riusciva a tenersi pulita: "Poco dopo, ogni cosa intorno a lei puzzava, e lei era ricoperta di piaghe aperte". C'erano anche tre neonati:

I loro genitori avevano grossi problemi con i pannolini perché era impossibile lavarli regolarmente. Talvolta quando il treno si (fermava dopo un temporale le madri saltavano fuori per lavare i pannolini nei rigagnoli. Intorno alle pozze d'acqua nascevano delle risse perché alcuni volevano lavare i piatti, altri lavarsi la faccia, altri ancora volevano lavare i pannolini sporchi, tutti nello stesso momento ... i genitori facevano ogni sforzo per mantenere puliti i bambini. I pannolini usati venivano fatti asciugare e scossi. Si strappavano lenzuola e camicie per farne pannolini e a volte gli uomini si avvolgevano i pannolini bagnati intorno alla vita nel tentativo di farli asciugare più in fretta.

I bambini piccoli non se la passavano meglio dei neonati:

Certe giornate erano molto calde, e l'odore greve dei vagoni diventava insopportabile; molta gente si ammalava. Nel nostro vagone, un bambino di due anni aveva la febbre alta e continuava a piangere per il dolore. L'unico aiuto che i suoi genitori ricevettero fu un po' di aspirina ... Continuava a peggiorare e alla fine morì. Alla fermata successiva in una foresta scono-

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sciuta i soldati scaricarono il suo corpo dal treno e probabilmente lo seppellirono. Il dolore e la rabbia impotente dei genitori spezzavano il cuore. In condizioni normali e con delle cure mediche forse il bambino non sarebbe morto. E a quel punto nessuno sapeva nemmeno con certezza dove fosse seppellito.31

Per i nemici in arresto, diversamente dai deportati, i trasferimenti venivano talvolta organizzati in modo particolare, ma non per questo in condizioni migliori. Marija Sandratskaja fu arrestata quando il suo bambino aveva due mesi, e quindi la caricarono su un treno pieno di madri che allattavano. Per diciotto giorni, sessantacinque donne e sessantacinque neonati viaggiarono in due carri bestiame non riscaldati, se non da due stufe minuscole e molto fumose. Non c'erano razioni speciali, e neanche acqua calda per fare il bagno ai bambini e per lavare i pannolini, che di conseguenza diventarono "verdi per la sporcizia". Due donne si uccisero, tagliandosi la gola con del vetro. Un'altra impazzì. I loro tre bambini vennero curati dalle altre madri. La stessa Sandratskaja ne "adottò" uno. Alla fine dei suoi giorni, era ancora convinta che solo l'allattamento avesse salvato il suo bambino, ammalato di polmonite. Naturalmente non le era stato possibile avere delle medicine.

All'arrivo nella prigione di transito di Tomsk, la situazione non migliorò. Quasi tutti i bambini si ammalarono. Due morirono. Due madri tentarono il suicidio, ma le fermarono. Altre cominciarono lo sciopero della fame. Al quinto giorno di sciopero, le donne ricevettero la visita di una commissione dell'NKVD: una gettò loro il suo bambino. Solo quando arrivarono al Temlag, il campo delle donne destinato soprattutto alle "mogli" arrestate, la Sandratskaja riuscì a organizzare un asilo per i piccoli e, alla fine, a convincere i familiari a venire a prendere suo figlio.32

Per quanto la sua storia possa apparire strana e inumana, la Sandratskaja non fu l'unica a vivere un'esperienza del genere. Anche un ex medico dei campi ha raccontato di aver viaggiato con "un convoglio di bambini" insieme a quindici madri che allattavano i figli, più venticinque altri piccoli e due "bambinaie". Li avevano condotti a piedi sotto scorta fino alla stazione, caricati non su un treno normale ma su un vagone Stolypin con le finestre sbarrate e senza cibo adeguato.33

Di tanto in tanto tutti i convogli ferroviari facevano delle soste, che non erano necessariamente momenti di tregua. I prigionieri venivano fatti scendere dai treni, caricati su camion e trasferiti nelle carceri di transito. In quei posti vigeva un regime simile a quello delle prigioni

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dove si svolgevano gli interrogatori, solo che i carcerieri erano ancor meno interessati al benessere delle persone affidate loro, perché probabilmente non le avrebbero riviste mai più. Di conseguenza, il regime delle prigioni di transito era del tutto imprevedibile.

Karol Harenczyk, un polacco deportato dall'Ucraina occidentale nella Kolyma all'inizio della Seconda guerra mondiale, descrive i relativi vantaggi delle molte prigioni di transito in cui aveva soggiornato. In un questionario compilato su richiesta dell'esercito polacco, annotò che la prigione di Leopoli era asciutta, con "buone docce" e "piuttosto pulita". Invece il carcere di Kiev era "affollato, indescrivibilmente sporco" e pieno di pidocchi. A Har'kov, nella sua cella di 96 metri quadrati si stipavano 387 detenuti e migliaia di pidocchi. Ad Aremovsk, la prigione era "quasi completamente buia" e non era prevista l'ora d'aria: "II pavimento di cemento non è pulito, a terra ci sono resti di pesce. Il sudiciume, il fetore e la mancanza di aria fanno venire il mal di testa e le vertigini", al punto che i detenuti andavano in giro a quattro zampe. A Vorosilovgrad, invece, la prigione era "abbastanza pulita", e i detenuti potevano evacuare due volte al giorno fuori dalle celle. Nel campo di transito di Starobel'sk, i prigionieri potevano uscire per sgranchirsi le membra soltanto una volta alla settimana per mezz'ora.34

Probabilmente le prigioni di transito più primitive erano quelle sulla costa del Pacifico, dove i prigionieri sostavano prima di essere imbarcati sulle navi dirette alla Kolyma. Negli anni Trenta ce n'era solo una: Vtoraja recka, vicino a Vladivostok. Ma era talmente sovraffollata che nel 1938 vennero costruiti altri due campi di transito: Buhta Nahodka e Vanino. E comunque le baracche non erano ancora sufficienti per le migliaia di reclusi che aspettavano le navi.35 Un prigioniero si ritrovò a Buhta Nahodka alla fine del luglio 1947: "Tenevano 20.000 persone all'addiaccio; di edifici neanche a parlarne; se ne stavano lì, si sdraiavano, vivevano per terra".36

La situazione dei rifornimenti idrici non era molto migliore che sui treni anche se, in piena estate, i detenuti venivano alimentati a base di pesce salato: "Nel campo erano esposti dappertutto cartelli con la scritta: "Non bevete acqua non bollita". Eravamo decimati da due epidemie, il tifo e la dissenteria. I prigionieri non badavano ai cartelli e bevevano l'acqua che stillava per terra in vari punti del campo ... è evidente per chiunque con quanta disperazione cercassimo un sorso d'acqua per placare la sete".37

Per i detenuti reduci da viaggi di molte settimane - e i memorialisti raccontano di aver viaggiato in treno oltre quarantasette giorni

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per raggiungere Buhta Nahodka38 - le condizioni dei campi di transito sulla costa del Pacifico erano quasi insopportabili. Uno riferisce che quando il suo convoglio raggiunse il campo, il 70 per cento dei suoi compagni soffriva di cecità notturna, un effetto collaterale dello scorbuto, e di diarrea.39 E non si poteva contare sulle cure mediche. Il poeta Osip Mandel'stam morì a Vtoraja recka nell'ottobre 1938 senza medicine né terapie adeguate o cure appropriate, in uno stato di paranoia e di delirio.40

Nei campi di transito sul Pacifico i detenuti non troppo debilitati riuscivano a procurarsi un po' di pane extra: potevano trasportare secchi di cemento, scaricare vagoni merci e scavare latrine.41 A dire il vero alcuni ricordano Buhta Nahodka come "l'unico campo in cui i prigionieri imploravano di lavorare". Una polacca racconta: "Nutro-no solo chi lavora, ma siccome ci sono più prigionieri che lavoro, alcuni muoiono di fame ... La prostituzione fiorisce come gli iris nei prati sibcriani".42

Altri ancora, ricorda Sgovio, sopravvivevano con il commercio:

C'era un grande spazio aperto che chiamavano mercato. I prigionieri vi si radunavano e barattavano... Il denaro non aveva alcun valore. Le cose più richieste erano il pane, il tabacco e pezzi di giornale che utilizzavamo per le sigarette. C'erano criminali comuni che scontavano la pena come addetti alla manutenzione e domestici. Scambiavano pane e tabacco con gli abiti dei nuovi arrivati, poi rivendevano i nostri indumenti ai cittadini esterni in cambio di rubli, accumulando così un gruzzolo per il giorno in cui sarebbero stati liberati nel mondo sovietico. Durante il giorno il mercato era il punto più affollato del campo. Lì, nello squallore comunista, vidi quella che in realtà era la forma più feroce di libera imprenditoria.43

Ma per i prigionieri gli orrori del viaggio non finivano con i treni e i campi di transito. L'ultima tratta del loro viaggio per la Kolyma avveniva per nave, proprio come per i detenuti che in precedenza risalivano il fiume Enisej da Krasnojarsk a Noril'sk, o ancora prima su chiatte, attraversando il mar Bianco da Arcangelo a Uhta. Soprattutto tra i detenuti imbarcati sulle navi per la Kolyma, erano in pochi a non avere la sensazione di compiere un viaggio verso l'abisso, di attraversare lo Stige allontanandosi dal mondo conosciuto. Molti non erano mai saliti su una nave.44

Quanto alle imbarcazioni, non avevano niente di straordinario. Sulla rotta per la Kolyma erano in servizio vecchie navi da carico a vapore olandesi, svedesi, inglesi e americane, imbarcazioni non progettate per il trasporto di passeggeri. Erano state riadattate per la loro nuova funzione, ma in genere le modifiche avevano carattere cosmeti-

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co. Portavano dipinte sulle ciminiere le lettere D.S. (per Dal'stroj), sui ponti c'erano postazioni per le mitragliatrici e nella stiva erano state allestite rudimentali cuccette di legno, in sezioni separate da griglie di ferro. La grande flotta del Dal'stroj, destinata in origine al trasporto di enormi quantità di cavi, venne battezzata Nikolaj Ezov. Quando Ezov cadde in disgrazia, fu ribattezzata Feliks Dzerzinskij, modifica che richiese una costosa registrazione ex novo sulle linee di navigazione internazionali.45

Poche altre concessioni venivano fatte al carico di esseri umani: durante la prima parte del viaggio, quando le imbarcazioni passavano vicino alle coste del Giappone, i detenuti erano costretti a restare sotto coperta. In quei primi giorni, il portello che metteva in comunicazione il ponte con la stiva rimaneva ermeticamente chiuso, per paura che comparisse all'orizzonte qualche rara nave da pesca giapponese.46 In realtà, questi trasferimenti erano considerati segreti al punto che, quando nel 1939 l'Indigirka, una nave del Dal'stroj su cui erano caricati 1500 passeggeri, per la maggior parte detenuti che tornavano sul continente, andò ad arenarsi su un banco di scogli nelle vicinanze dell'isola giapponese di Hokkaido, l'equipaggio preferì lasciarne morire la maggior parte pur di non chiedere aiuto. Naturalmente, a bordo mancavano le attrezzature per il salvataggio e l'equipaggio non voleva rivelare il reale contenuto della sua "nave da carico": anche se in zona c'erano molte imbarcazioni, non volle lanciare l'SOS. Alcuni pescherecci giapponesi prestarono spontaneamente aiuto alla nave, ma senza successo: nell'incidente perirono oltre mille persone.47

Anche quando non avvenivano catastrofi, i prigionieri soffrivano per la segretezza, che imponeva una reclusione forzata. Le sentinelle gettavano il cibo nella stiva e lasciavano che si azzuffassero. L'acqua veniva distribuita in secchi calati dall'alto. E comunque sia l'acqua sia il cibo scarseggiavano, come del resto l'aria. Secondo quanto riferisce la socialrivoluzionaria Ekaterina Olickaja, sulla sua nave l'aria era talmente viziata che la gente cominciò a vomitare subito dopo l'imbarco.48 Anche Evgenija Ginzburg, appena scese nella stiva, si sentì male: "Mi pare di tenermi in piedi soltanto perché manca lo spazio per cadere". Una volta sottocoperta racconta: "Un'afa intensa, viscida. Siamo in molte, moltissime. Ci sediamo, ci sdraiarne sul pavimento sporco l'una a ridosso dell'altra. Stiamo sedute a gambe divaricate, perché fra le gambe possa trovar posto un'altra compagna".49

Una volta doppiata la costa giapponese, talvolta ai prigionieri era consentito salire in coperta per poter usare i pochi gabinetti della na-

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ve, insufficienti per migliaia di persone. I memorialisti raccontano di quando aspettavano "due ore", "sette o otto ore", o addirittura "tutto il giorno" per entrare nei gabinetti.50 Thomas Sgovio li descrive:

Avevano allestito sulla fiancata della nave una specie di cabina improvvisata ... era piuttosto complicato arrampicarsi dal ponte oscillante sulla balaustra e dentro la cabina. I prigionieri più anziani e quelli che non erano mai stati in mare avevano paura a entrarvi. Alla fine vincevano la propria riluttanza per una sollecitazione della guardia e la necessità di liberarsi. Giorno e notte, per tutto il viaggio, c'era una lunga coda sulla scala. Potevano entrare nella cabina solo due uomini alla volta.51

I tormenti fisici della vita di bordo venivano addirittura eclissati dalle torture escogitate dagli stessi prigionieri, o meglio dai criminali comuni. Si trattava di un fenomeno diffuso soprattutto verso la fine degli anni Trenta e l'inizio degli anni Quaranta, quando i criminali comuni ebbero una profonda influenza sul sistema dei campi, essendo mescolati ai politici in modo indiscriminato. Alcuni politici avevano già incontrato dei criminali comuni sui treni. Aino Kuusinen ricorda: "L'aspetto peggiore del viaggio erano i giovani criminali ai quali venivano assegnate le cuccette superiori, che indulgevano in indecenze di ogni genere: sputavano, lanciavano insulti osceni e arrivavano al punto di urinare sui prigionieri adulti".52

Sulle navi la situazione era peggiore. Elinor Lipper, trasferita nella Kolyma alla fine degli anni Trenta, racconta che i politici "giacevano pigiati gli uni contro gli altri sul pavimento incatramato della stiva perché i criminali si erano impossessati del ponte. Se uno di noi si azzardava ad alzare il capo, veniva bombardato dall'alto con teste e in-teriora di pesce. Quando qualche criminale con il mal di mare rimetteva, il vomito ci arrivava direttamente addosso".53

Venivano bersagliati soprattutto i prigionieri polacchi e baltici, che avevano vestiti migliori e possedevano cose più costose dei sovietici. Una volta un gruppo di comuni spense le luci della nave e aggredì un gruppo di detenuti polacchi, uccidendone alcuni e derubando gli altri. "I polacchi che erano lì e che non morirono" scrive un sopravvissuto "per il resto della loro vita avrebbero saputo di essere stati all'inferno".54

La promiscuità di maschi e femmine aveva conseguenze assai Peggiori di quella tra comuni e politici. Dal punto di vista tecnico, era proibita: sulle navi, uomini e donne andavano tenuti separati. In Pratica, si potevano corrompere le sentinelle in modo che lasciassero entrare gli uomini nella stiva delle donne, con gravi conseguenze. Del "tram della Kolyma", la banda degli stupratori di bordo, si par-

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lava in tutto il sistema dei campi. Elena Glink, una sopravvissuta, racconta:

Cominciavano gli stupri su ordine dell'"autista" del tram ... poi, al grido Koncaj bazar! (Basta casino.'), si ritiravano con riluttanza, lasciando il posto all'uomo successivo, pronto in attesa ... le donne morte venivano trascinate per i piedi alla porta e ammonticchiate oltre la soglia. A quelle rimaste veniva fatta riprendere coscienza, buttando loro acqua addosso, e ricominciavano i turni. Nel maggio 1951, a bordo del Minsk [famoso in tutta la Kolyma per il suo "grande tram"] i cadaveri delle donne venivano gettati a mare. I sorveglianti non annotavano nemmeno i nomi delle decedute.. ,55

Secondo la Glink, a bordo di tali navi nessuno fu mai punito per gli stupri. Su questo punto concorda anche Janusz Bardach, il polacco che nel 1942, adolescente, viaggiò su una nave diretta nella Kolyma. Era presente quando un gruppo di criminali decise di fare un'incursione nella stiva delle donne. Li vide praticare un foro nella griglia di ferro che separava i membri dei due sessi:

Appena una donna veniva tirata fuori dall'apertura, gli uomini le stracciavano le vesti di dosso e, anche in due o tre alla volta, la assalivano. Potevo vedere i bianchi corpi delle vittime dibattersi, le gambe scalciare con tutta la forza, le mani roteare nell'aria, come artigli, in disperata difesa. Le donne mordevano, graffiavano, piangevano, gemevano. Gli stupratori rispondevano a sberle ... Quando i violentatori rimasero a corto di donne, ci furono alcuni energumeni che, scorrazzando furiosi, andarono a caccia di uomini giovani. Alla carneficina furono aggiunti quindi questi ragazzi che, immobilizzati supini sul pavimento, piangevano e sanguinavano.

Nessuno degli altri prigionieri cercò di fermare gli stupratori: "Centinaia di uomini guardavano la scena sporgendosi dai loro posti, ma nessuno intervenne". Secondo Bardach, l'aggressione si concluse soltanto quando i sorveglianti in coperta bersagliarono d'acqua la stiva. In seguito vennero issate in superficie alcune donne morte e ferite. Nessuno venne punito.56

"Chiunque abbia visto l'inferno dantesco sosterrebbe che non è nulla in confronto a quanto accadeva su quella nave" afferma un altro sopravvissuto.57

Ci sono molte altre storie di trasferimenti, alcune tragiche al punto che i protagonisti non riescono a raccontarle. I viaggi erano talmente orrendi da diventare, nella memoria collettiva dei sopravvissuti, un enigma altrettanto difficile da decifrare quanto quello del Gulag. Nell'ottica di una psicologia più o meno umana si riesce a spiegare la crudeltà dei comandanti dei campi, i quali subivano forti pressioni e, come vedremo, dovevano applicare delle regole e realizzare dei piani-

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Persine le azioni degli inquirenti possono essere spiegate, perché la loro sopravvivenza dipendeva dalla capacità di estorcere confessioni ed erano stati scelti proprio per il loro sadismo. Invece risulta assai più difficile comprendere perché un normale agente di scorta di un convoglio rifiutasse di far bere i prigionieri che morivano di sete, di somministrare un'aspirina a un bambino con la febbre, o di proteggere donne stuprate a morte da una banda di delinquenti.

Ovviamente, non esistono prove che gli agenti di scorta dei convogli avessero l'ordine esplicito di torturare i prigionieri in trasferimento. Anzi, esistevano norme complesse riguardo a come proteggere i deportati, e le autorità reagivano male quando venivano infrante, come accadeva abbastanza spesso. Un decreto del dicembre 1941, intitolato "Sul miglioramento dell'organizzazione del trasferimento di detenuti", descriveva con calore l'"irresponsabilità" e talvolta il comportamento "criminale" di alcuni agenti di scorta dei convogli e dei dipendenti del Gulag: "Di conseguenza alcuni detenuti sono arrivati al luogo di destinazione in uno stato di denutrizione, e quindi per un certo periodo non potranno lavorare".58

In un decreto ufficiale del 25 febbraio 1940 si denunciava con indignazione il fatto che non soltanto erano stati caricati sui treni diretti ai campi settentrionali prigionieri malati e inabili, ma anche che molti altri non avevano ricevuto cibo e acqua a sufficienza, abiti adatti alla stagione e che non erano seguiti dai loro fascicoli personali, andati dispersi. Insomma, i prigionieri arrivavano in campi dove nessuno sapeva per quale motivo fossero stati condannati e a quanti anni. Dei 1900 prigionieri inviati nell'estremo nord su un convoglio nel 1939, all'arrivo soltanto 590 avevano "una limitata abilità al lavoro", perché erano troppo deboli o troppo malati. Ad alcuni restavano soltanto pochi mesi da scontare, e altri avevano già finito. Per la maggior parte non disponevano di abiti caldi e avevano "calzature inadeguate". Nel novembre 1939 vennero trasferiti per 500 chilometri su camion scoperti altri 272 prigionieri, nessuno dei quali aveva cappotti invernali, quindi molti si ammalarono e alcuni in seguito morirono. Tutti questi fatti venivano riferiti con l'indignazione e la rabbia dovute, e gli agenti di scorta negligenti venivano puniti.59

Le questioni relative alle prigioni di transito erano regolate da svariate disposizioni. Il 26 luglio 1940, per esempio, un'ordinanza descriveva l'organizzazione delle prigioni di transito, chiedendo esplicitamente ai loro comandanti di allestire bagni, sistemi di disinfestazione dai parassiti e cucine efficienti.60 La sicurezza e l'incolumità della flotta carceraria del Dal'stroj erano considerate altrettanto

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importanti. Nel dicembre 1947, a seguito di un'esplosione di dinamite su due navi ancorate nel porto di Magadan, che provocò 97 morti e 224 feriti, da Mosca accusarono le autorità portuali di "comportamento negligente e criminale". I presunti responsabili furono processati e subirono condanne penali.61

I dirigenti moscoviti del Gulag erano al corrente degli orrori subiti dai detenuti durante il trasferimento per mare. In un rapporto del 1943 l'ispettorato dell'ufficio dei procuratori di Noril'sk denunciava il fatto che i prigionieri giunti via nave, risalendo su chiatte l'Enisej, "spesso si trovavano in condizioni fisiche deplorevoli": "Circa 500 detenuti, dei 14.125 arrivati a Noril'sk nel 1943, sono stati ricoverati in ospedale a Dudinka [il porto di Noril'sk] il giorno del loro arrivo o l'indomani; oltre 1000 sono stati dichiarati temporaneamente inabili al lavoro, perché non avevano ricevuto cibo".62

Nonostante lo scalpore suscitato, con il tempo il sistema dei trasferimenti non cambiò in modo significativo. Vennero diffuse ordinanze, proteste. Ancora il 24 dicembre 1944, arrivò alla stazione di Komsomol'sk, in estremo oriente, un convoglio che persino secondo il sostituto procuratore del sistema del Gulag presentava condizioni esecrabili. Il suo rapporto ufficiale sullo stato del "convoglio SK 950", un treno costituito di cinquantuno vagoni, rimane una sorta di punto più basso, persino nella storia da incubo delle deportazioni del Gulag:

I prigionieri sono arrivati su vagoni non riscaldati che non erano stati riadattati per un trasferimento di detenuti. In ogni vagone, c'erano diecidodici cuccette, su cui non potevano stare più di diciotto persone, mentre ce ne erano stipate fino a quarantotto. I vagoni non erano dotati di serbatoi d'acqua a sufficienza, quindi il rifornimento era discontinuo, talvolta per molti giorni e notti. Ai prigionieri veniva distribuito pane congelato, e per dieci giorni non hanno ricevuto nulla. Sono arrivati vestiti con uniformi estive, sporchi, coperti di pidocchi, con chiari segni di congelamento ... i prigionieri ammalati erano stati adagiati sui pavimenti dei vagoni senza cure mediche, e molti erano morti. I cadaveri venivano tenuti nei vagoni per lunghi periodi.

Delle 1402 persone trasferite con il convoglio SK 950, arrivarono in 1291: 53 erano morti durante il viaggio, 66 erano stati lasciati in ospedali lungo il percorso. All'arrivo, altri 335 furono ricoverati in ospedale per congelamenti di terzo o quarto grado, polmonite e altre malattie. A quanto pare il convoglio aveva viaggiato per sessanta giorni, restando fermo per ventiquattro su linee secondarie "a causa della cattiva organizzazione". Persino in questo caso estremo, il ca-

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pò del convoglio, un certo compagno Habarov, ricevette soltanto "censura con ammonimento".63

Molti sopravvissuti di trasferimenti analoghi hanno cercato di spiegare i grotteschi maltrattamenti dei prigionieri affidati ad agenti di scorta giovani, inesperti, non agli assassini consumati impiegati nel sistema carcerario. Nina Gagen-Torn sostiene: "Non esistevano prove di malvagità, solo la completa indifferenza delle sentinelle. Non ci consideravano persone. Eravamo un carico di esseri viventi".64 Anche Antoni Ekart, un polacco arrestato dopo l'invasione sovietica del 1939, era convinto della stessa cosa:

La mancanza d'acqua non era prevista apposta per torturarci, ma dipendeva dal fatto che gli agenti di scorta avrebbero dovuto sobbarcarsi un lavoro in più, e senza un ordine preciso. Al comandante della scorta questo problema non interessava affatto e gli agenti non avevano voglia di accompagnare diverse volte al giorno i detenuti ai pozzi o ai rubinetti delle stazioni, con il rischio di evasioni.65

Ma secondo alcuni prigionieri non si trattava soltanto di indifferenza: "La mattina, il capo del convoglio venne nel corridoio ... rimase fermo con il volto rivolto al finestrino, volgendoci le spalle, e ci coprì di insulti, gridando: "Ne ho abbastanza di voi!"".66

Anche Solzenicyn fa riferimento alla noia, o meglio alla noia mista a rabbia per l'obbligo di svolgere un lavoro così degradante, per giustificare questo fenomeno altrimenti inspiegabile. Cercò persino di identificarsi psicologicamente con le guardie di scorta. Eccoli lì, pieni di cose da fare e sotto organico e per di più "dovevano andare a prendere l'acqua con i secchi, e per giunta trasportarla per un lungo tratto, una cosa insultante: perché un soldato sovietico deve trasportare acqua come un asino per dei nemici del popolo?". Ma secondo lui c'era di peggio:

E poi ci vuole troppo tempo per distribuire l'acqua, i detenuti non hanno tazze loro, a quelli che le avevano le hanno confiscate, dunque bisognerebbe farli bere con le due tazze della scorta e prima che abbiano bevuto tutti bisogna stare lì a versare e porgere, versare e porgere. . . . Ma i soldati di scorta sopporterebbero tutto questo, porterebbero anche l'acqua e farebbero bere quei maiali se, dopo aver bevuto a sazietà, non chiedessero di essere portati al gabinetto. Funziona così: se non li si fa bere per ventiquattro ore, non chiedono di andare al gabinetto; se li fai bere una volta, lo chiedono una volta sola; ti lasci impietosire e li fai bere due volte, due volte li dovrai scortare al gabinetto. Tutto sommato conviene non farli bere.67

Qualunque fosse la motivazione all'origine di questo comportamento, indifferenza, noia, rabbia, orgoglio ferito, l'effetto sui dete-

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nuti era devastante. Di solito, quando arrivavano ai campi non erano solo disorientati e umiliati per le esperienze vissute in prigione e durante gli interrogatori, ma anche esausti sul piano fisico, e maturi per la fase successiva del loro viaggio nel sistema del Gulag: l'ingresso nel campo.

Se non era buio, se non erano ammalati, e se provavano abbastanza curiosità da alzare gli occhi, la prima cosa che vedevano arrivando era il cancello del campo. Il più delle volte sopra c'era un cartello. All'ingresso di un lagpunkt della Kolyma "era appeso un arcobaleno di compensato coperto da uno striscione che diceva: IN URSS IL LAVORO È UNA QUESTIONE DI ONORE E DI GLORIA, DI VALORE ED EROISMO!".68 Barbara Armonas fu accolta in una colonia di lavoro alla periferia di Irkutsk dallo striscione: È CON IL LAVORO CHE PAGHERÒ IL MIO DEBITO ALLA PATRIA.69 Arrivando alle Soloveckie nel 1933, quando ormai erano diventate una prigione di massima sicurezza, un altro prigioniero vide un cartello che diceva: CON IL PUGNO DI FERRO PORTEREMO L'UMANITÀ ALLA FELICITÀ!70 Anche Jurij Cirkov, arrestato all'età di quattordici anni, alle Soloveckie si trovò di fronte un cartello che diceva: TRAMITE IL LAVORO, LIBERTÀ!, uno slogan oltremodo imbarazzante, perché molto simile a quello esposto sui cancelli di Auschwitz: ARBEIT MACHT FREI (II lavoro rende liberi).71

Come l'arrivo in prigione, anche l'arrivo di un nuovo etap in un campo presentava dei rituali: i detenuti della prigione, esausti dopo il trasferimento, dovevano essere trasformati in zek produttivi. Karol Colonna-Czosnowski, un prigioniero polacco, ricorda:

Dopo l'arrivo al campo impiegarono molto tempo a contarci ... Quella sera l'operazione sembrava interminabile. Dovemmo disporci innumerevoli volte in scaglioni di cinque, e a ogni fila veniva ordinato di avanzare di tre passi, mentre molti ufficiali dell'NKVD dall'aria preoccupata scandivano a voce alta: "Oditi, ava, tri..." e scrivevano indaffarati ogni cifra sui loro grandi blocchi. A quanto pare, la cifra dei detenuti vivi, sommata a quella dei detenuti fucilati per strada, non produceva il totale previsto.72

Dopo la conta, uomini e donne vennero portati ai bagni e rasati completamente. Questa procedura, praticata in base a ordini ufficiali per motivi igienici73 - si presumeva, in genere a ragione, che i prigionieri in arrivo dalle carceri sovietiche fossero infestati di pidocchi -, aveva anche indubbiamente un importante significato rituale. Soprattutto le donne ne parlano con orrore e ripugnanza, e non stupisce. Spesso dovevano spogliarsi e aspettare nude il proprio turno, esposte allo sguardo dei soldati. Ekaterina Olickaja, sottoposta al rituale quan-

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do arrivò nella Kolyma, racconta: "Per la prima volta, si fecero udire grida di protesta. Le donne restano sempre donne".74 Ol'ga Adamova-Sliozberg visse la stessa esperienza in una prigione di transito:

Non ricordo se a Sverdlovsk o a Irkutsk ci fermammo per un giorno; qui ci consegnarono il libretto sanitario. Al piano terra ci spogliammo e stavamo già per salire di sopra, quando vedemmo i soldati della scorta allineati lungo la ringhiera delle scale. Ci sentimmo imbarazzate.

Eravamo quasi tutte in piedi, a occhi bassi, con delle chiazze rosse sul viso. Alzai gli occhi e incontrai lo sguardo di un ufficiale, il comandante della scorta. Questi mi guardò di sottecchi e disse: "Su, su, alla svelta".

A un tratto mi sentii più leggera. Mi venne quasi da ridere.

"Che mi frega di loro, non sono mica uomini, non sono niente di più del toro Vas'ka che mi faceva paura quando ero piccola" pensai...75

Una volta lavati e rasati, uomini e donne subivano la seconda fase del processo destinato a trasformarli in anonimi zek, la distribuzione degli indumenti. Sull'autorizzazione ai detenuti di indossare i loro indumenti personali le regole variavano a seconda dell'epoca e del campo. A quanto pare, in realtà la decisione dipendeva dal capriccio dei funzionar! locali dei campi. "In un lagpunkt potevi indossare i tuoi indumenti, in un altro no" ricorda Galina Smirnova, che all'inizio degli anni Cinquanta era detenuta nell'Ozerlag.76 Non sempre era importante: quando raggiungevano il campo, molti prigionieri avevano gli indumenti ridotti a brandelli, quando non erano già stati loro rubati.

Chi non aveva vestiti doveva indossare le uniformi distribuite dal campo, sempre vecchie, lacere, confezionate male e scomode. Alcuni, soprattutto le donne, avevano l'impressione che gli abiti consegnati loro rientrassero in un piano complessivo con lo scopo deliberato di umiliarli. Anna Andreevna, moglie dello scrittore e spiritualista Da-niil Andreev, in un primo momento fu inviata in un campo dove i prigionieri potevano indossare i propri abiti. In seguito, nel 1948, la trasferirono in un altro dove non era consentito. Trovò questa regola davvero offensiva: "Ci avevano portato via tutto, ci avevano portato via il nostro nome, qualsiasi cosa dì cui è costituita la personalità di un individuo, e ci rivestivano con un abito informe, che non riesco nemmeno a descrivere".77

Non si faceva alcuno sforzo per cercare le taglie adatte ai prigionieri. "Ciascuno riceveva una maglia intima lunga con mutande" racconta Janusz Bardach "una casacca nera, pantaloni imbottiti, un giaccone lungo pure imbottito, un berretto di feltro con il paraorec-cnie, stivali con la suola di gomma e guanti foderati di pelo di lana. Questi capi venivano distribuiti senza badare alle caratteristiche in-

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dividuali, e stava poi ai singoli trovare le misure più adatte. Tutto quello che mi venne dato era troppo grande e passai delle ore a fare scambi."78

Un'altra detenuta, altrettanto critica riguardo alla moda in auge nei campi, scrive che furono distribuiti loro "corti cappotti imbottiti, calze imbottite fino alle ginocchia e calzature di corteccia di betulla. ... Sembravamo bizzarri mostri. Ci restava poco di nostro. Avevamo venduto tutto alle carcerate, o meglio barattato in cambio di pane. Calze e sciarpe di seta suscitavano una tale ammirazione che eravamo obbligate a venderle. Sarebbe stato troppo pericoloso rifiutare".79

Dato che gli abiti stracciati sembravano fatti apposta per privarli della dignità, in seguito molti prigionieri facevano di tutto per migliorarli. Una donna racconta che all'inizio non le importava degli abiti "vecchissimi e sciupati". In seguito, però, cominciò a rammendare i buchi, a fare tasche e a migliorare i vestiti, "come altre donne", perché in questo modo si sentiva meno degradata.80 In generale, le donne capaci di cucire o di trapuntare i tessuti riuscivano a guadagnare razioni supplementari di pane, perché qualsiasi miglioramento anche minimo all'uniforme comune era molto apprezzato: come vedremo, la capacità di distinguersi, di sembrare un po' meglio degli altri veniva messa in rapporto con una posizione sociale più elevata, una salute migliore, maggiori privilegi. Varlam Salamov capì bene il significato di questi piccoli cambiamenti:

Al lager la biancheria per uso personale può essere sia "individuale" sia "comune". Sono espressioni burocratiche, ufficiali, al pari di altre perle linguistiche. ... La biancheria "individuale" è quella un po' più nuova e di qualità un po' migliore, tenuta da parte per il personale di servizio del lager, "caporali" presi tra i detenuti e altri consimili privilegiati. ... La biancheria "comune" invece è proprio in comune. La distribuiscono direttamente ai bagni, dopo che ci si è lavati, in cambio di quella sporca che è stata nel contempo raccolta e contata. Neanche a parlarne, naturalmente, di scegliere la propria misura. La biancheria pulita è una pura lotteria, e lo spettacolo di persone adulte, in lacrime per aver ricevuto degli indumenti puliti tutti bucati in cambio di quelli sporchi ma in buono stato, mi è sempre parso strano, e tanto doloroso da piangerne anch'io. Niente riesce a distogliere l'uomo dalle proprie disgrazie, che del resto costituiscono la trama stessa della vita.81

Eppure, il trauma di essere lavati, rasati e vestiti come degli zek era solo la prima fase di una lunga iniziazione. Subito dopo, i prigionieri subivano una delle procedure più delicate della loro vita da reclusi: la scelta e l'inclusione in categorie di lavoratori. La selezione influenzava ogni aspetto della vita di un detenuto, dalla sua posizione sociale nel campo al tipo di baracca in cui sarebbe vissuto, al la"

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voro che gli sarebbe stato assegnato. E, prese nel complesso, queste cose erano a loro volta determinanti per la sua sopravvivenza.

Devo ammettere di non aver trovato in nessun memoriale racconti riguardo a "selezioni" del genere praticato nei campi di sterminio tedeschi. Non ho trovato cioè descrizioni di selezioni regolari destinate a separare i prigionieri deboli e a fucilarli. Di certo tali atrocità avvenivano - un memorialista delle Soloveckie afferma di averne subito una82 - ma di consueto, almeno verso la fine degli anni Trenta e l'inizio degli anni Quaranta, le cose andavano diversamente. I prigionieri deboli non venivano eliminati quando arrivavano nei campi più isolati, anzi per un periodo li mettevano in "quarantena", per evitare che diffondessero le loro malattie e per farli "ingrassare", perché si rimettessero in salute dopo i lunghi mesi trascorsi in prigione e il viaggio spaventoso. A quanto pare, lo affermano i detenuti, i dirigenti dei campi prendevano sul serio questa procedura.83

Alexander Weissberg, per esempio, ricevette cibo buono e gli consentirono di riposare prima di mandarlo in miniera.84 Dopo un lungo viaggio di trasferimento neU'Uhtizemlag, Jerzy Gliksman - il socialista polacco che un tempo a Mosca aveva tanto apprezzato la rappresentazione di Aristokraty di Pogodin - ricevette tre giorni di riposo, durante i quali lui e i suoi compagni appena arrivati furono trattati come "ospiti".85 Petr Jakir, figlio di un generale sovietico, al Sevurallag venne messo in quarantena per quattordici giorni.86 Evgenija Ginz-burg ricorda i primi giorni trascorsi a Magadan, la città più importante della Kolyma, come "un vortice di dolore, di vuoti di memoria e un oscuro abisso di incoscienza". Insieme ad altri era stata trasferita dalla nave Curma in un ospedale, dove in due mesi recuperò del tutto la salute. Alcuni erano scettici. "Un agnellino da macellare" le diceva Liza Seveleva, un'altra prigioniera. "A che serve questa convalescenza? Quando uscirete di qui vi sbatteranno subito nel campo comune e in una settimana tornerete a essere un cadavere come sul £urma..."87

Una volta di nuovo in forma, se gli era stato concesso di rimettersi, e una volta vestito, se gli erano stati dati nuovi vestiti, per il detenuto cominciavano davvero la selezione e la segregazione. Dal 1930, il Gu-lag emanava ordini molto perentori e complicati riguardo alla classificazione dei prigionieri. In teoria, l'assegnazione del lavoro si basava su due tipi di criteri: da un lato l'"origine sociale" e la condanna, dall'altro lo stato di salute. Nei primi tempi, i detenuti venivano ripartiti in tre categorie: quelli della "classe operaia", non colpevoli di reati controrivoluzionari, con condanne non superiori ai cinque anni; li della "classe operaia", non condannati per reati controrivolu-

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zionari, con condanne superiori ai cinque anni; e i condannati per crimini controrivoluzionari.

A ciascuna di queste tre categorie di lavoratori veniva poi assegnato uno dei tre regimi di detenzione: privilegiato, leggero e di "prima categoria" o duro. Venivano poi esaminati da una commissione medica, che stabiliva se erano in condizione di svolgere un lavoro pesante o un lavoro leggero. Tenendo conto di tali criteri, l'amministrazione del campo assegnava quindi le mansioni a ogni prigioniero. Poi, per ciascuno veniva stabilita una razione alimentare, a seconda della percentuale della norma che riusciva a realizzare nel suo lavoro: razione di base, di lavoro, "rinforzata" o "punitiva".88 Le categorie cambiarono più volte. Per esempio, nel 1939 le disposizioni di Berija dividevano i prigionieri in "abili a lavori pesanti", "abili a lavori leggeri" e "invalidi" (chiamate talvolta gruppi A, B e C), il cui numero veniva controllato con regolarità dall'amministrazione centrale di Mosca, che disapprovava molto i campi con troppi "invalidi".89

Questa procedura era tutt'altro che sistematica. Aveva aspetti formali, imposti dai comandanti dei campi, e aspetti informali, perché i prigionieri praticavano degli adeguamenti e contrattavano tra loro. Nella maggior parte dei casi, la prima esperienza di classificazione nei campi risultava piuttosto brutale. George Bien, un giovane ungherese catturato a Budapest alla fine della Seconda guerra mondiale, paragonò il procedimento di selezione subito nel 1946 alla tratta degli schiavi:

Veniva ordinato a tutti di uscire in cortile e di spogliarsi. Quando chiamavano il tuo nome dovevi presentarti a una commissione medica per farti visitare. La visita consisteva nel pizzicarti la pelle delle natiche per stabilire la massa muscolare. Determinavano la tua forza fisica dalla consistenza muscolare, e se passavi l'esame venivi ammesso e i tuoi documenti finivano in una pila a parte. Lo facevano donne in camice bianco, e avevano poco da scegliere in quella massa di morti viventi. Selezionavano i prigionieri più giovani, indipendentemente dai muscoli.90

Anche Jerzy Gliksman usò l'espressione "tratta degli schiavi" per descrivere il processo di selezione subito a Kotlas, il campo di transito che forniva detenuti ai campi a nord di Arcangelo. I secondini svegliarono i prigionieri nel cuore della notte e ordinarono loro di radunarsi, la mattina dopo, con tutti i loro oggetti personali. Dovettero presenziare tutti, anche quelli gravemente ammalati. Poi furono condotti fuori dal campo, nella foresta. Un'ora più tardi arrivarono in una vasta radura, dove furono fatti schierare in colonna, in file di 16 uomini:

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Avevo notato per tutto il giorno funzionar! sconosciuti, in uniforme e in abiti civili, che giravano tra i prigionieri, ordinando ad alcuni di togliersi la fufajka [giacca], tastando loro le braccia, le gambe, esaminando i palmi delle mani, ordinando ad altri di curvarsi. A volte intimavano a un detenuto di aprire la bocca e gli esaminavano i denti, come mercanti di cavalli a una fiera di paese ... alcuni cercavano tecnici e fabbri o tornitori esperti; altri magari avevano bisogno di carpentieri edili; a tutti mancavano sempre uomini con un fisico forte per farli lavorare come taglialegna, agricoltori, mandarli nelle miniere di carbone e ai pozzi di petrolio.

Gliksman si rese conto che agli esaminatori premeva soprattutto di non "farsi fregare prendendo senza volere zoppi, invalidi, o ammalati, insomma gente buona solo a mangiar pane a tradimento. ... Era per questo motivo che di tanto in tanto venivano inviati degli agenti speciali a scegliere fra i detenuti il materiale umano adeguato".91

Sin dall'inizio apparve anche evidente che le regole esistevano per essere infrante. Nel 1947, al campo Temnikovskij, Nina Gagen-Torn venne sottoposta a una selezione particolarmente umiliante, ma che si concluse in modo positivo. All'arrivo nel campo, il suo convoglio venne mandato subito alle docce, gli abiti furono inviati alla stanza di disinfezione. Poi li condussero in un locale, ancora bagnati fradici e nudi: dissero loro che ci sarebbe stata una "visita sanitaria". Dei "medici" li avrebbero esaminati, e lo fecero insieme al responsabile della produzione del campo e ai secondini:

II maggiore avanzò lungo la fila, esaminando in modo sommario i corpi. Stava scegliendo della mercé per la produzione, per la fabbrica di confezioni tessili! Per l'azienda agricola collettiva! Per la zona! Per l'ospedale! Il responsabile della produzione si appuntò i cognomi.

Ma quando udì il suo, la guardò e chiese:

"Che rapporto esiste tra te e il professor Gagen-Torn?"

"Figlia."

"Mandala in ospedale, ha la scabbia, ha delle macchie rosse sul ventre."

Poiché non aveva macchie sul ventre, la Gagen-Torn suppose a ragione, come scoprì poi, che l'uomo un tempo avesse conosciuto e ammirato suo padre e volesse evitarle, almeno per il momento, i lavori duri.92

II comportamento dei prigionieri nei primi giorni di vita nei campi, durante e dopo il processo di selezione, influenzava molto il loro destino. Nei tre giorni di riposo concessigli all'arrivo al Kargopol'lag, Per esempio, il romanziere polacco Gustaw Herling valutò la sua situazione: "vendetti i miei stivali alti da ufficiale per novecento grammi di pane a un urka [un criminale comune] della brigata di scaricatori ferroviari". In cambio, il criminale attivò i suoi conoscenti nell'ammi-

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lustrazione del campo per aiutare Herling a ottenere un lavoro da facchino nel centro di approvvigionamento alimentare. Gli spiegò che si trattava di un lavoro duro, ma che almeno avrebbe potuto rubare razioni supplementari di cibo, ed effettivamente era così. Inoltre gli venne subito concesso un "privilegio". Il comandante del campo gli raccomandò

di rifornirmi al magazzino del campo di un buslat [una giacca imbottita con le maniche lunghe], un berretto coi paraorecchi, pantaloni imbottiti, guanti impermeabili, e valenki [scarpe di pelle di pecora, vacchetta o cavallo] della miglior qualità, cioè nuove o appena un po' usate: un equipaggiamento completo quale normalmente è dato solo alle migliori brigate "stacanoviste" di prigionieri.93

Esistevano anche altri modi per curare i propri interessi. All'arrivo all'Uhtizemlag, Gliksman si rese subito conto che la qualifica di "specialista", risultata per lui vantaggiosa nel campo di transito di Kotlas (era stato classificato economista esperto), non aveva valore in quello di lavoro. Ma intanto si accorse che, nei primi giorni trascorsi al campo, i suoi conoscenti russi più scaltri non si preoccupavano delle formalità ufficiali:

La maggior parte degli "specialisti" utilizzava i tre giorni liberi per visitare uffici e dipartimenti del campo alla ricerca di vecchie conoscenze, e conduceva losche trattative con alcuni funzionari. Erano tutti eccitati e preoccupati. Ciascuno aveva i suoi segreti e temeva che qualcun altro gli guastasse le possibilità aggiudicandosi il lavoro più comodo ambito da tutti. Nel giro di pochissimo tempo, la maggioranza di queste persone sapeva dove andare, a che porta bussare e che cosa dire.

Di conseguenza, un medico polacco con tutte le carte in regola venne mandato a tagliare alberi nella foresta, mentre un ex magnaccia ricevette un lavoro d'ufficio come contabile, "pur non avendo la minima nozione di contabilità ed essendo inoltre semianalfabeta".94

I prigionieri che riuscivano a scansare i lavori manuali in realtà avevano elaborato le basi di sopravvivenza, ma soltanto le basi. Ora, dovevano imparare le strane regole che governavano la vita quotidiana dei campi di lavoro forzato.

X LA VITA QUOTIDIANA

II rintocco di una campana lontana

penetra in cella con l'aurora.

Sento la campana che mi chiama:

"Dove sei? Dove sei?"

"Eccomi!" ... E poi l'incontro tra le lacrime,

che sono lacrime di prigionia ...

Non per amore di Dio,

ma per te, Russia.

SEMEN VILENSKIJ1

Secondo le valutazioni sino a oggi più precise, tra il 1929 e il 1953 nel dominio del Gulag esistevano 476 complessi di campi.2 Ma questa cifra è fuorviante. In realtà, ciascun complesso comprendeva decine, o addirittura centinaia, di unità più piccole. Tali unità, i lagpunkt, non sono ancora state contate, e probabilmente non sarà mai possibile farlo, perché alcune erano temporanee, altre permanenti, e altre ancora dal punto di vista tecnico nei diversi periodi dipendevano da complessi diversi. E nemmeno si possono stabilire con certezza usi e consuetudini di ciascun lagpunkt. Persine quando era Berija a dirigere il sistema, cioè in pratica dal 1939 fino al 1953, anno della morte di Stalin, nel Gulag le condizioni di vita e di lavoro continuarono a presentare differenze enormi, da un anno all'altro e da un luogo all'altro, ma persino all'interno dello stesso complesso di campi.

"Ogni campo è un mondo a sé, una città distinta, un paese diverso" ha affermato l'attrice sovietica Tat'jana Okunevskaja, e ogni campo aveva le sue peculiarità.3 Nei grandi campi industriali dell'estremo nord la vita era molto diversa da quella di un complesso dedito ad attività agricole nel sud della Russia. Durante il periodo più difficile della Seconda guerra mondiale, quando ogni anno su quat-

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irò zek ne moriva uno, era molto diversa che all'inizio degli anni Cinquanta, quando i tassi di mortalità equivalevano quasi a quelli registrati nel resto del paese. Vivere in un campo diretto da un comandante abbastanza tollerante non era lo stesso che stare in uno comandato da un sadico. Inoltre i lagpunkt erano molto diversi tra loro in termini di capienza, da alcune migliaia a poche decine di prigionieri, e di durata. Alcuni si sono conservati dagli anni Venti fino agli anni Ottanta, quando avevano ormai assunto la funzione di carceri per criminali comuni. Altri, come quelli allestiti per costruire strade e ferrovie in Siberia, duravano appena un'estate.

Comunque, prima della guerra, nella maggioranza dei campi la vita e il lavoro avevano caratteristiche comuni. L'atmosfera variava ancora da un lagpunkt all'altro, ma le enormi fluttuazioni nella politica nazionale che avevano caratterizzato gli anni Trenta ormai erano finite. Invece, la burocrazia inerte che in Unione Sovietica finì per controllare in pratica qualsiasi aspetto della vita, a poco a poco assunse anche il controllo del Gulag.

In questo senso esistono differenze significative tra i regolamenti e gli ordini sommari e un po' vaghi sui campi emanati nel 1930 e le regole più minuziose stabilite nel 1939, quando Berija assunse il controllo del sistema. Si direbbe che tali differenze riflettano un mutamento nel rapporto tra gli organi centrali di controllo, l'amministrazione del Gulag a Mosca, e i comandanti locali dei campi. Durante i primi dieci anni di esistenza del Gulag, ancora in fase sperimentale, le disposizioni scritte non intendevano imporre un'immagine ai campi, e quasi non parlavano del comportamento dei detenuti. Tracciavano uno schema generale, e lasciavano ai comandanti in loco il compito di riempire i vuoti.

Invece le disposizioni successive erano molto specifiche ed entravano davvero nei dettagli: in pratica stabilivano regole per qualsiasi aspetto della vita, dal metodo di costruzione delle baracche alla dieta quotidiana dei detenuti, in linea con le nuove finalità del Gulag.4 A quanto pare, dopo il 1939 Berija, probabilmente con l'approvazione di Stalin, non volle più che i campi del Gulag fossero lager di sterminio, come davvero talvolta erano tra il 1937 e il 1938. Comunque, questo non vuoi dire che agli amministratori premesse più di prima salvare vite umane, per non parlare del rispetto della dignità dei detenuti. Dal 1939 in avanti, gli obiettivi prioritari di Mosca avevano carattere economico: i prigionieri dovevano essere inseriti nel piano di produzione del campo come ingranaggi di un motore.

Quindi le normative diramate da Mosca imponevano uno stretto

La vita quotidiana 211

controllo sui reclusi, che si poteva ottenere condizionandone la vita. In teoria, come abbiamo detto, nei campi gli zek venivano classificati in base alla condanna, alla professione e alla trudosposobnost ', la "capacità lavorativa" di ognuno. In linea di principio, ciascuno veniva destinato a un lavoro, e aveva una serie di norme da realizzare. Sempre teoricamente, si provvedeva alle necessità essenziali della vita di ogni zek - cibo, vestiario, alloggio, uno spazio per vivere - in base alla sua efficienza nel realizzare tali norme. In teoria, ogni aspetto della vita del campo era pianificato per aumentare la produttività: persino la Se-zione"educativo-culturale" esisteva soprattutto perché i dirigenti del Gulag ritenevano che avrebbe indotto i prigionieri a lavorare di più. In teoria, le squadre di ispezione esistevano per garantire che tutti questi aspetti della vita del campo funzionassero in armonia. In teoria, ogni zek aveva persino il diritto di lamentarsi, con il comandante, con Mosca, con Stalin, se il campo non funzionava secondo le normative.

In realtà, però, le cose andavano diversamente. Le persone non sono macchine, i campi non erano fabbriche pulite ed efficienti, e il sistema non funzionò mai come previsto. I secondini erano corrotti, gli amministratori rubavano e i detenuti elaborarono dei sistemi per contrastare o sovvertire le regole. All'interno dei campi, i prigionieri riuscirono addirittura a creare proprie gerarchie ufficiose, talvolta conformi e talvolta contrastanti con la gerarchla ufficiale prevista dall'amministrazione. Nonostante le visite regolari di ispettori provenienti da Mosca, spesso seguite da rilievi e lettere indignate del governo centrale, pochi campi corrispondevano al modello teorico. Nonostante l'apparente serietà con cui venivano accolte le proteste dei prigionieri - esistevano commissioni apposite per esaminarle -esse diedero luogo di rado a veri cambiamenti.5

Fu il divario tra la concezione dei campi dell'amministrazione moscovita e la loro realtà, tra le regole scritte e la prassi seguita, a conferire alla vita nel Gulag il suo carattere peculiare, surreale. In teoria, da Mosca l'amministrazione del Gulag regolava nei minimi dettagli l'esistenza dei prigionieri. In pratica, ogni aspetto della vita era condizionato anche dalle relazioni dei prigionieri con chi li comandava e dai loro rapporti interpersonali.

"Zona": dietro il filo spinato

Lo strumento fondamentale degli amministratori era, per definizione, il controllo sullo spazio in cui i prigionieri vivevano: era la w-w"/ o "zona carceraria". Per legge, una zona poteva essere quadrata o

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rettangolare. "Allo scopo di garantire una migliore sorveglianza", non erano consentite forme irregolari.6 All'interno di tale quadrato o rettangolo, non c'era molto di interessante. Gli edifici di un lagpunkt tipico per la maggior parte erano piuttosto simili. Le fotografie scattate dagli amministratori di Vorkuta e conservate negli ardirvi di Mosca mostrano una serie di rudimentali strutture di legno, distinguibili soltanto per le insegne, che denotano la "cella di punizione" o la "mensa".7 Di solito, al centro del campo c'era un grande spazio aperto vicino al cancello, dove due volte al giorno i detenuti dovevano mettersi sull'attenti per essere contati. In generale, le baracche dei secondini e le case degli amministratori, pure di legno, si trovavano subito fuori dal cancello principale.

A distinguere la zona dagli altri luoghi di lavoro era, ovviamente, il recinto che la circondava. Nel suo The Gulag Handbook Jacques Rossi descrive la recinzione:

Di solito è costituita da pali di legno conficcati nel terreno per un terzo dell'altezza. Vanno da due metri e mezzo a sei, a seconda delle condizioni locali. Tra i pali sono tesi in orizzontale da sette a quindici tratti di filo spinato, lunghi circa sei metri. Tra un palo e l'altro sono tesi due pezzi di filo in diagonale.8

Se il campo o la colonia si trovava nei pressi o all'interno di una città, di norma il recinto di filo spinato era sostituito da un muro, oppure da una recinzione di mattoni o di legno, in modo che nessuno, avvicinandosi, potesse vedere all'interno. Erano ben costruiti: per esempio un'alta palizzata di legno innalzata all'inizio degli anni Trenta a Medvezegorsk, il quartier generale del canale del mar Bianco, per delimitare la zona carceraria, era ancora in piedi nel 1998, quando ho visitato la città.

Per entrare nel recinto, prigionieri e secondini dovevano attraversare la vahta, o "posto di guardia". Durante il giorno, gli agenti in servizio alla vahta controllavano chiunque entrasse nel campo e ne uscisse, esaminavano i lasciapassare dei lavoratori liberi quando entravano, e degli agenti di scorta quando conducevano fuori i prigionieri. Nel campo Perm'-36, che è stato riportato alle condizioni originali, nella vahta c'è un passaggio bloccato da due cancelli. I detenuti, uno per uno, dovevano varcare il primo e poi fermarsi nell'angusto spazio intermedio per essere perquisiti o controllati. Solo a quel punto potevano attraversare il secondo cancello. Somigliava un po' al sistema utilizzato all'ingresso delle banche.

Tuttavia, non erano solo il filo spinato e i muri a delimitare i con-

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fini della zona. Nella maggioranza dei casi, alcuni agenti sorvegliavano i prigionieri da alte torrette di legno. Inoltre, talvolta intorno al campo c'erano dei cani, legati con catene a un filo metallico teso rutto intorno alla zona. I cani, guidati da agenti specializzati, erano addestrati ad abbaiare quando i prigionieri si avvicinavano, e a seguire la traccia di chiunque cercasse di fuggire. Insemina, a rinchiudere i prigionieri non c'erano soltanto i mattoni e il filo spinato, ma una barriera visiva, acustica e olfattiva.

Li tratteneva anche la paura, talvolta sufficiente a farli restare in campi senza alcuna recinzione. Margarete Buber-Neumann era detenuta in un campo a regime attenuato in cui "non c'erano mura ma si raccontava che le sentinelle sparassero senza preavviso su chiunque avesse osato allontanarsi di 500 metri dal campo".9 Era una situazione inconsueta: nella maggioranza dei campi, le sentinelle avrebbero sparato "senza preavviso" molto prima. Nei regolamenti emanati nel 1939, Berija intimava a tutti i comandanti di creare una terra di nessuno intorno ai recinti, una fascia larga almeno cinque metri.10 D'estate le sentinelle aprivano il fuoco sulla terra di nessuno a intervalli regolari, e d'inverno la lasciavano coperta di neve, in modo che le orme dei fuggitivi fossero sempre visibili. Il limite della terra di nessuno era segnalato a volte dal filo spinato, a volte da cartelli con la scritta ZAPRETNAJA ZONA (zona vietata). Talvolta questa fascia di terra era definita "zona della morte", perché le sentinelle erano autorizzate a sparare a chiunque vi entrasse.11

Tuttavia, le recinzioni - palizzate, muri, cani e barricate che circondavano i lagpunkt - non erano inespugnabili. Mentre i campi di concentramento tedeschi erano completamente impenetrabili, in isolamento ermetico, assoluto, come afferma un esperto,12 in questo senso il sistema sovietico era diverso.

Tanto per cominciare, divideva i prigionieri in due categorie, kon-vojnyj e bezkonvojnyj, "con sorveglianza" e "senza sorveglianza". Gli appartenenti all'esigua minoranza della seconda categoria potevano uscire dal recinto senza scorta, allo scopo di sbrigare commissioni per i secondini, recarsi a lavorare per la giornata in una tratta ferroviaria non sorvegliata, o addirittura perché vivevano in appartamenti privati fuori dalla zona. Quest'ultimo privilegio era stato introdotto nei primi anni di esistenza dei campi, nel periodo di caos successivo al 1930.13 In seguito fu revocato in modo esplicito diverse volte, ma continuava a esistere. Una serie di disposizioni diramate nel 1939 ricordava ai comandanti dei campi: "È fatto divieto a tutti i Prigionieri, senza eccezioni, di vivere fuori della zona in villaggi, ap-

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partamenti privati, o case appartenenti al campo". In teoria, i campi dovevano ricevere un'autorizzazione speciale persino per consentire ai reclusi di vivere in alloggi sorvegliati, se erano fuori dalla zona.14 Nella pratica, queste regole venivano spesso trascurate. Nonostante l'editto del 1939, i rapporti stilati dagli ispettori in epoca molto successiva elencano un gran numero di violazioni. Un ispettore denunciò il fatto che nella città di Ordzonikidze i prigionieri se ne andavano tranquilli per le strade, frequentavano i mercati, entravano in appartamenti privati, bevevano e rubavano. In una colonia detentiva di Leningrado, a un prigioniero era stato concesso l'uso di un cavallo, con cui fuggì. Nella colonia di lavoro n. 14, a Voronez, una guardia armata lasciò 38 prigionieri in strada senza sorveglianza per entrare in un negozio.15

L'ufficio del procuratore di Mosca inviò una lettera a un altro campo, nei pressi della città siberiana di Komsomol'sk, con cui accusava i comandanti di aver concesso ad almeno 1763 prigionieri lo status di "senza sorveglianza". Di conseguenza, scriveva il procuratore con indignazione, "si può sempre incontrare qualche detenuto in qualsiasi parte della città, istituzione e appartamento privato".16 Censurò anche un altro campo, che consentiva a centocinquanta prigionieri di vivere in appartamenti privati, una violazione al regolamento che aveva provocato "casi di ubriachezza, di teppismo e persino furti ai danni della popolazione locale".17

Nemmeno all'interno dei campi i detenuti erano del tutto privi di libertà di movimento. Anzi, è proprio questa una delle bizzarrie dei campi di concentramento, uno dei fattori per cui si differenziano dalle prigioni: molti prigionieri, quando non lavoravano e non dormivano, potevano entrare e uscire dalle baracche a piacere. Inoltre, fuori dagli orari di lavoro potevano anche stabilire, almeno entro certi limiti, come passare il tempo. Solo i prigionieri soggetti alla ka-torga, il regime duro istituito nel 1943, e in seguito quelli rinchiusi in "campi a regime speciale" fondati nel 1948, di notte venivano rinchiusi nelle baracche, una regola da cui erano molto contrariati e cui in seguito si ribellarono.18

Quando arrivavano nei campi dopo l'atmosfera claustrofobica delle carceri sovietiche, spesso i detenuti provavano stupore e sollievo per il cambiamento. Parlando del suo arrivo all'Uhtpeclag uno zek racconta: "Quando ci ritrovammo all'aria aperta diventammo di ottimo umore".19 Ol'ga Adamova-Sliozberg ricorda il suo arrivo al campo di Magadan: "I primi tre giorni non lavorammo, riposammo e discutemmo sui vantaggi della nostra nuova condizione":

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La popolazione del lager (circa mille persone) ci sembrava enorme; quanta gente con cui parlare, quante nuove possibili amicizie!

La natura. Ci muovevamo dentro il campo recintato da filo spinato, guardavamo il cielo, le piccole colline all'orizzonte, ci accostavamo agli alberi sofferenti e li carezzavamo. Aspiravamo l'aria umida del mare, provavamo sui nostri volti la sensazione suscitata dalla pioggia che cominciava a farsi gelata (eravamo in agosto); ci sedevamo sull'erba umida e toccavamo con le mani la terra. Da quattro anni queste sensazioni, così necessarie per potersi sentire persone normali, ci erano estranee.20

Lev Finkel'stejn concorda:

Ti fanno entrare, scendi dal furgone del carcere, e resti sorpreso per molti fatti. Innanzitutto i detenuti circolano liberi senza sorveglianza per sbrigare qualche faccenda, una cosa qualsiasi. In secondo luogo hanno un aspetto del tutto diverso dal tuo. Il contrasto risultava ancora più evidente quando io ero nel campo e scaricavano nuovi detenuti. Avevano tutti la faccia verdastra, a causa della mancanza di aria fresca, del cibo inadatto e tutto il resto. I prigionieri del campo hanno un colorito più o meno normale. Ti ritrovi tra persone di aspetto passabile, che godono di una relativa libertà.21

Con il passar del tempo, di solito quest'apparente "libertà" della vita nel campo di lavoro veniva a noia. In prigione, si poteva ancora credere che ci fosse stato un errore e che presto sarebbe arrivata la scarcerazione, spiega un detenuto polacco, Kazimierz Zarod: "Eravamo ancora attorniati dal fasto della civiltà, oltre le mura del carcere c'era una grande città". Invece nel campo si ritrovò a circolare libero in mezzo a "uno strano assortimento di uomini ... ogni senso di normalità era svanito. Con il passar dei giorni mi sentii invadere da una specie di panico che a poco a poco si mutò in disperazione. Cercai di rintuzzare questa sensazione nel fondo della coscienza, ma piano piano si fece strada in me l'idea di essere prigioniero di un cinico atto di ingiustizia da cui in apparenza non c'era scampo".22

Il peggio era che tale libertà di movimento poteva trasformarsi molto in fretta e senza difficoltà in anarchia. Durante il giorno nel lagpunkt era pieno di sentinelle e funzionar!, che invece di notte spesso svanivano. Ne rimanevano un paio alla vahta, ma gli altri si ritiravano fuori dalla recinzione. I detenuti si rivolgevano agli agenti in servizio alla vahta solo quando ritenevano che la loro vita fosse in pericolo. Un sopravvissuto racconta che dopo una rissa tra prigionieri politici e comuni - un fenomeno diffuso nel dopoguerra, come vedremo - i comuni, sconfitti, "corsero nella vahta" a chiedere aiuto. Li trasferirono il giorno dopo in un altro lagpunkt, perché l'amministrazione preferì evitare una strage di massa.23 Un'altra sopravvissuta, convinta che un criminale comune volesse violentarla e forse

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ucciderla, "si presentò" nella vahta, e chiese di essere chiusa per la nottata nella cella di punizione del campo in modo da poter stare al sicuro.24

E comunque la vahta non era una zona di sicurezza su cui si potesse contare. Non sempre gli agenti di servizio accoglievano le richieste dei prigionieri. A volte, quando venivano a sapere di qualche soverchieria perpetrata da un gruppo di prigionieri su un altro, si mettevano a ridere. Tanto le fonti ufficiali quanto i memoriali attestano casi in cui degli agenti armati, venendo a sapere di omicidi, torture o stupri avvenuti tra i prigionieri, ignoravano la questione o la liquidavano con una risata. Gustaw Herling racconta un episodio di stupro di gruppo avvenuto di notte in un lagpunkt del Kargopol'lag e scrive che la vittima "emise un acuto grido gutturale, pieno di lacrime e soffocato dalla sua gonna. Una voce addormentata gridò dalla torretta di guardia più prossima: "Via, via, ragazzi, che fate? Non vi vergognate?". La spinsero via dalla panca e, come una bambola di pezza ridotta a brandelli, la trascinarono dietro la baracca, alla latrina".25

In teoria, le regole erano severe: i prigionieri dovevano rimanere dentro la zona. In pratica invece venivano disattese. E i comportamenti che dal punto di vista tecnico non infrangevano le norme, per quanto violenti o pericolosi, non erano sempre puniti.

"Rezim": regole di vita

La zona delimitava la libertà di movimento dei detenuti nello spazio.26 Ma era il rezim - o "regime", come viene tradotto di solito - a regolarne il tempo. Per farla breve, il regime era il complesso di norme e procedure su cui si basava il funzionamento del campo. Se la libertà di movimento di uno zek nella zona era delimitata dal filo spinato, a scandire le sue ore c'era una serie di ordini e di sirene.

Da un lagpunkt all'altro la severità del regime variava molto, sia per le priorità sempre diverse sia secondo il tipo di prigionieri detenuti nel campo. Nei diversi periodi, c'erano campi per invalidi a regime attenuato, campi a regime ordinario, campi a regime speciale e campi a regime punitivo. Ma il sistema di base rimaneva lo stesso. Il regime determinava quando e come dovevano svegliarsi i detenuti, come andavano accompagnati al lavoro, quando e come doveva avvenire la distribuzione del cibo, quando e per quanto tempo potevano dormire.

Nella maggioranza dei campi, la giornata del prigioniero ufficialmente cominciava con il razvod, la procedura con cui i detenuti veni-

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vano divisi in squadre, o brigate, e accompagnati a piedi sul luogo di lavoro. Venivano svegliati da una sirena o da un altro segnale. Una seconda sirena li avvertiva che la prima colazione era terminata e si cominciava a lavorare. Quindi i detenuti si allineavano davanti ai cancelli del campo per l'appello del mattino. Valeri] Frid, sceneggiatore di film sovietici e autore di un testo di memorie di straordinaria vivacità, ha descritto la scena:

Le brigate si organizzavano di fronte al portone. L'addetto alla distribuzione dei compiti aveva una tavoletta, sottile per le piallature, su cui era scritto il numero delle brigate e dei lavoratori (la carta scarseggiava, e le cifre venivano grattate via con un vetro e riscritte il giorno dopo). L'agente di scorta e l'addetto alla distribuzione verificavano se c'erano tutti, e in caso positivo venivano condotti a lavorare. Se mancava qualcuno, tutti dovevano aspettare che cercassero il lavativo.27

Secondo le direttive di Mosca, questa attesa non doveva durare più di un quarto d'ora.28 Com'è ovvio, racconta Kazimierz Zarod, spesso si prolungava di parecchio, nonostante il maltempo:

Alle tre e trenta del mattino dovevamo trovarci in mezzo al piazzale, in file di cinque, in attesa della conta. Spesso le guardie si sbagliavano, e dovevano contarci una seconda volta. Una mattina in cui nevicava, fu un'operazione lunga, tremenda a causa del freddo. Se gli agenti erano ben svegli e concentrati, di solito la conta durava una mezz'ora, ma se si sbagliavano, potevamo restare fermi in piedi anche per un'ora.29

Nonostante tali intoppi, in alcuni campi si prendevano provvedimenti per "sollevare il morale dei prigionieri". Sempre Frid racconta: "Da noi il razvod avveniva con l'accompagnamento di un suonatore di fisarmonica. Un detenuto, esonerato da qualsiasi altro lavoro, eseguiva melodie allegre".30 Kazimierz Zarod descrive anche lo strano fenomeno della banda mattutina, composta da detenuti musicisti, professionisti e dilettanti:

Ogni mattina la "banda" stava accanto al portone e suonava musica di stile militare; ci esortavano a marciare in "modo energico e allegro" verso la nostra giornata di lavoro. Dopo aver suonato fino a quando gli ultimi della colonna avevano varcato il portone, i musicisti lasciavano gli strumenti e, accodandosi alla colonna, si univano agli operai diretti nella foresta.31

Dopo il razvod, i prigionieri venivano condotti a lavorare. Le guardie tutti i giorni gridavano la frase di prammatica: "Un passo a destra o un passo a sinistra sarà considerato un tentativo di evasio-ne, e la scorta sparerà senza preavviso. In marcia!" e i prigionieri, sempre in fila per cinque, si avviavano al luogo di lavoro. Se era molto lontano, venivano accompagnati da guardie e cani. La proce-

r

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dura per il ritorno la sera era la stessa. Dopo un'ora per la cena, i prigionieri venivano di nuovo messi in fila. E di nuovo gli agenti li contavano (se i detenuti avevano fortuna) e li ricontavano (se non ne avevano). Nelle direttive di Mosca era previsto più tempo per la conta serale, da trenta a quaranta minuti, forse perché si riteneva che le evasioni dal posto di lavoro fossero più probabili.32 Poi un'altra sirena segnalava il momento di dormire.

Le regole e gli orari non erano incisi su pietra. Anzi nel tempo il regime cambiava, spesso diventando più duro. Jacques Rossi afferma: "La caratteristica fondamentale del regime penitenziario sovietico è il suo sistematico inasprimento, l'introduzione graduale del puro sadismo arbitrario nello stato giuridico della legge", e c'è qualcosa di vero.33 Negli anni Quaranta, il regime divenne più duro, le giornate di lavoro più lunghe, quelle di riposo meno frequenti. Nel 1931, i prigionieri della spedizione Vajgac, una sezione della spedizione Uhtinskaja, lavoravano sei ore al giorno in tre turni. Anche i lavoratori nella Kolyma all'inizio degli anni Trenta avevano un orario normale, meno ore in inverno e di più in estate.34 Ma nel corso del decennio la lunghezza della giornata lavorativa raddoppiò. Alla fine degli anni Trenta, le donne dello stabilimento di confezione in cui era impiegata Ekaterina Olickaja lavoravano "dodici ore al giorno in locali afosi e poco ventilati", e anche nella Kolyma la giornata lavorativa era stata prolungata a dodici ore.35 In seguito la Olickaja lavorò in una squadra edilizia: da quattordici a sedici ore al giorno, con cinque minuti di intervallo alle 10 del mattino e alle 4 del pomeriggio, oltre a un'ora di pausa per il pranzo a mezzogiorno.36

Non accadde soltanto a lei. Nel 1940, la giornata lavorativa nel Gulag era stata ufficialmente portata a undici ore, anche se spesso questa regola veniva disattesa.37 Nel marzo 1942, l'amministrazione del Gulag a Mosca inviò un lettera furibonda a tutti i comandanti dei campi, ricordando loro la norma per cui "ai prigionieri deve essere consentito di dormire non meno di otto ore". La lettera spiegava che molti comandanti avevano ignorato questa regola, concedendo ai loro detenuti solo quattro o cinque ore di sonno per notte. Perciò, sostenevano i dirigenti, "i prigionieri stanno perdendo la loro capacità di lavorare e stanno diventando "lavoratori deboli" e invalidi".38

Le violazioni continuarono soprattutto nel periodo bellico, con l'aumento della domanda di produzione. Nel settembre 1942, dopo l'invasione tedesca, l'amministrazione del Gulag portò ufficialmente la giornata lavorativa dei prigionieri che costruivano attrezzature ae-

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roportuali a dodici ore, con un'ora di pausa per il pranzo. Lo schema era lo stesso in tutta l'URSS. Durante la guerra, nel Vjatlag si registrarono casi in cui la giornata lavorativa era di sedici ore.39 Nell'estate del 1943 a Vorkuta la giornata lavorativa era di dodici ore, anche se nel marzo 1944 venne di nuovo ridotta a dieci ore e mezzo, probabilmente per gli alti tassi di mortalità e malattia.40 Anche Sergej Bonda-revskij, durante la guerra detenuto in una saraska, i laboratori speciali per scienziati reclusi, ricorda che lavorava undici ore al giorno, con alcuni intervalli. In una giornata tipica, lavorava dalle 8 alle 14 e dalle 16 alle 19, poi la sera dalle 20 alle 22.41

Comunque, le regole venivano infrante spesso. Uno zek assegnato a una squadra di estrazione dell'oro nella Kolyma doveva passare al setaccio centocinquanta carriole di sabbia al giorno. Chi alla fine della giornata non ultimava la quantità prescritta doveva continuare fino a quando non aveva finito, talvolta anche fino a mezzanotte. Poi tornavano a casa, mangiavano la zuppa e si alzavano di nuovo alle cinque del mattino per rimettersi al lavoro.42 Alla fine degli anni Quaranta l'amministrazione del campo di Noril'sk applicò un principio simile ai prigionieri che lavoravano alle fondamenta di nuovi edifici nello strato di ghiaccio permanente: "Dopo dodici ore ti tiravano su dalla buca, ma solo se avevi finito il tuo lavoro. Se no si limitavano a lasciarti lì".43

Di solito durante il giorno non venivano concesse molte pause, come ha raccontato in seguito un sopravvissuto detenuto durante la guerra, che lavorava in una fabbrica tessile:

Alle sei dovevamo essere in fabbrica. Alle dieci avevamo un intervallo di cinque minuti per fumare una sigaretta, cosa per cui dovevamo correre in uno scantinato a duecento metri di distanza, l'unico posto nei locali della fabbrica in cui fosse permesso. L'infrazione di tali regole era punita con altri due anni di detenzione. All'una c'era una mezz'ora di intervallo per pranzo. Con una tazzina di terraglia in mano bisognava precipitarsi a tutta velocità alla mensa, fare una lunga coda, ricevere dei disgustosi semi di soia sgraditi alla maggioranza delle persone ed essere di ritorno a ogni costo in fabbrica quando le macchine cominciavano a funzionare. Poi stavamo lì fermi al nostro posto fino alle sette di sera.44

Anche il numero dei giorni di riposo era stabilito dalla legge. Ai prigionieri comuni ne era concesso uno alla settimana, a quelli in regime di rigore due al mese. Ma in pratica anche queste regole variavano. Già nel 1933, l'amministrazione moscovita del Gulag emanò un'ordinanza in cui ricordava ai comandanti dei campi l'importanza per i prigionieri dei giorni di riposo, molti dei quali erano stati abolì-

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ti per la fretta pazzesca di completare il piano.45 Dieci anni dopo era cambiato ben poco. Durante la guerra, Kazimierz Zarod aveva un giorno libero ogni dieci.46 Un altro racconta che ne aveva uno al mese.47 Gustaw Herling spiega che i giorni liberi erano ancor più rari:

Secondo i regolamenti, i prigionieri avevano diritto a un intero giorno di riposo per ogni dieci giorni di lavoro. Ma in pratica risultava che anche un giorno libero al mese minacciava di abbassare il livello di produzione del campo, e perciò era invalsa l'usanza di annunziare la solenne ricompensa di un giorno di riposo solo quando il campo avesse superato il piano di produzione per un trimestre ... Naturalmente, non avevamo nessuna possibilità di conoscere le cifre o il piano di produzione; era soltanto una condizione fittizia che ci poneva interamente alla mercé delle autorità del campo.48

Persino nei pochi giorni liberi, a volte succedeva che i detenuti fossero costretti a fare lavori di manutenzione all'interno del campo: pulire le baracche e i gabinetti, spalare la neve in inverno.49 Il tutto dipendeva da un ordine particolarmente caustico di Kogan, il comandante del Dmitlag. Infastidito dai numerosi rapporti in cui si riferiva che i cavalli del campo stramazzavano per la fatica, Kogan esordiva così: "II crescente numero di casi di infermità e collasso dei cavalli ha diverse cause, tra cui il sovraccarico, le difficili condizioni delle strade, e l'assenza di periodi di assoluto riposo sufficienti per permettere agli animali di recuperare le forze".

Quindi proseguiva emanando nuove direttive:

\. La giornata lavorativa dei cavalli del campo non deve superare le dieci ore, senza contare l'intervallo obbligatorio di due ore per l'alimentazione e il riposo.

2. In media, i cavalli non devono percorrere oltre trentadue chilometri al giorno.

3. Si deve concedere ai cavalli una giornata di regolare riposo ogni otto giorni, e quel giorno il riposo deve essere completo.5"

Purtroppo non si fa cenno alla necessità per i detenuti di una giornata di regolare riposo ogni otto giorni.

"Barato"; il luogo di abitazione

Nella maggior parte dei campi quasi tutti i detenuti vivevano nelle baracche. Erano pochi comunque i campi in cui le baracche fossero state costruite prima del loro arrivo. I deportati così sfortunati da essere mandati a costruire un nuovo campo vivevano in tende, o senza alcun rifugio.

Lo dice anche una loro canzone:

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Abbiam viaggiato in fretta nella tundra e poi d'un tratto il treno si è fermato. Intorno a noi, solo foreste e fango ma proprio qui costruiremo il canale.51

Ivan Sulimov, detenuto a Vorkuta negli anni Trenta, venne scaricato insieme a un gruppo di detenuti in un "piatto appczzamento di terra nella tundra polare": ordinarono loro di montare delle tende, di preparare un falò e di cominciare a costruire un "recinto di lastre di pietra, circondato da filo spinato" e delle baracche.52 Janusz Siemin-ski, un polacco detenuto nella Kolyma dopo la guerra, una volta fu inserito in una squadra assegnata alla costruzione ex novo di un nuovo lagpunkt in pieno inverno. Di notte i prigionieri dormivano per terra. Morirono in molti, soprattutto quelli che non riuscivano a conquistarsi un posto vicino al fuoco.53 Anche i prigionieri che nel dicembre 1940 arrivarono nel campo Prikaspijskij nell'Azerbaigian dormirono "all'addiaccio sul suolo bagnato", come racconta irritato un ispettore.54 E non sempre si trattava di situazioni provvisorie. Ancora nel 1955, in alcuni campi i detenuti erano alloggiati nelle tende.55

Se e quando i prigionieri costruivano le baracche, si trattava sempre di edifici in legno di estrema semplicità. Il progetto veniva inviato da Mosca quindi le descrizioni sono piuttosto ripetitive: tutti i detenuti parlano di costruzioni lunghe, rettangolari, di legno, con le pareti non intonacate, le fessure riempite di fango e, all'interno, file e file di letti a castello, anch'essi fatti di materiale povero. A volte c'era un rozzo tavolo grezzo, a volte no. A volte c'erano panche su cui sedersi, a volte no.56 Nella Kolyma e in altre regioni dove il legno scarseggiava, i prigionieri costruivano baracche di pietra, sempre altrettanto in fretta e in economia. Quando non era possibile l'isolamento termico, si usavano metodi più antiquati. In alcune fotografie scattate nell'inverno del 1945, le baracche di Vorkuta sono quasi invisibili: i tetti erano molto spioventi ma assai bassi rispetto al terreno, perché così la neve che si accumulava intorno li isolava dal freddo.57

Spesso, le baracche non erano edifici veri e propri ma zemljanka, cioè ricoveri sotterranei. All'inizio degli anni Quaranta A.P. Evstoni-cev visse in una zemljanka in Carelia:

Una zemljanka era un posto liberato dalla neve, in cui veniva rimosso lo strato superficiale di terra. Le pareti e il tetto erano fatti di tronchi grezzi. L'intera struttura veniva ricoperta di un altro strato di terra e neve. L'entrata del rifugio era completata con una porta di tela ... in un angolo c'era una botte d'acqua. Nel mezzo una stufa metallica con il tubo, sempre di metallo, che usciva dal tetto, e un barile di kerosene.58

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Nei lagpunkt temporanei costruiti lungo i cantieri di strade e ferrovie, le zemljanka erano onnipresenti. Come si è detto nel V capitolo, se ne vedono ancora le tracce sul ciglio delle strade costruite dai detenuti nell'estremo nord e sugli argini del fiume vicino alle parti più antiche della città di Vorkuta. Talvolta i prigionieri vivevano in tende. Un memoriale dei primi tempi del Vorkutlag racconta di come nel giro di tre giorni furono innalzate "quindici tende con letti a castello a tre piani" per i cento prigionieri, oltre a una zona con quattro torrette di guardia e il recinto di filo spinato.59

Ma le baracche vere e proprie raggiungevano di rado i livelli di qualità, comunque bassi, stabiliti a Mosca. Erano quasi sempre terribilmente sovraffollate, anche dopo la fine del caos della fine degli anni Trenta. Un rapporto relativo a un'ispezione in ventitré campi, stilato nel 1948, rilevava con indignazione che nella maggior parte "i detenuti non avevano più di un metro, o un metro e mezzo di spazio vitale a persona" e che le condizioni igieniche erano carenti: "I detenuti non hanno un posto proprio per dormire, e neppure lenzuola e coperte personali".60 Talvolta c'era ancora meno spazio. Margarete Buber-Neumann riferisce che, al suo arrivo nel campo, non c'era posto per dormire nelle baracche e quindi fu costretta a passare le prime notti nel lavatoio.61 In teoria ai normali prigionieri dovevano essere assegnati dei letti detti vagonka, un riferimento alle cuccette dei vagoni letto. Erano a due piani, e a ogni piano c'era posto per due detenuti, quindi per quattro in tutto. In molti campi, i prigionieri dormivano su giacigli ancora meno sofisticati, gli splosnye nary, lunghi tavolacci di legno nemmeno divisi in cuccette distinte. I prigionieri si sdraiavano semplicemente uno accanto all'altro, in una lunga fila. Questi giacigli comuni erano considerati antigienici, quindi gli ispettori criticavano di continuo il loro impiego. Nel 1948 l'amministrazione centrale del Gulag emanò una direttiva in cui disponeva che fossero tutti sostituiti con i vagonka.62 Ciononostante Anna Andreevna, detenuta in Mordo-via tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta, dormì sugli splosnye nary, e ricorda che molti altri prigionieri erano sdraiati per terra ai suoi piedi.63

Anche le assegnazioni di biancheria erano arbitrarie, e variavano molto da un campo all'altro, nonostante le norme rigorose (e piuttosto modeste) decise a Mosca. I regolamenti stabilivano che tutti i prigionieri dovessero avere un asciugamano nuovo all'anno, una federa ogni quattro anni, lenzuola ogni due anni, e una coperta ogni cinque anni.64 In realtà "il letto di ogni detenuto era dotato di un cosiddetto pagliericcio", come racconta Elinor Lipper:

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Dentro non c'era mai paglia, e di rado del fieno, che scarseggiava anche per il bestiame; contenevano invece trucioli di legno o gli abiti di ricambio, se un detenuto ne possedeva ancora. Inoltre c'erano una coperta di lana e una federa che si poteva imbottire con qualsiasi cosa uno avesse, data l'assenza di guanciali.65

Altri non avevano niente. Ancora nel 1950, Isaak Fil'stinskij, uno specialista di lingua araba arrestato nel 1948, nel Kargopol'lag dormiva avvolto nel cappotto, con stracci d'accatto come guanciale.66

Inoltre la direttiva del 1948 stabiliva che nelle baracche i pavimenti di terra fossero tutti sostituiti con pavimenti di legno. Ma ancora negli anni Cinquanta Irena Arginskaja viveva in una baracca con il pavimento difficile da pulire, perché era fatto di creta.67 Anche quando i pavimenti erano di legno, spesso non si potevano pulire perché mancavano le spazzole. Descrivendo le sue esperienze a una commissione dopo la guerra, una polacca raccontò che nel suo campo di notte c'era sempre un gruppo di prigionieri addetto alla pulizia di baracche e gabinetti mentre gli altri dormivano: "Bisognava raschiare via con i coltelli il fango dal pavimento delle baracche. Le russe si arrabbiavano perché non eravamo capaci, e ci chiedevano come facevamo a casa nostra. Non passava loro neanche per la testa che il pavimento più sporco può essere strofinato con una spazzola".68

Anche il riscaldamento e l'illuminazione erano spesso rudimentali, ma pure questo variava moltissimo da un campo all'altro. Un detenuto afferma che in pratica le baracche erano buie: "Le lampadine elettriche emanavano una luce giallo-bianca che si vedeva appena, e le lampade a kerosene fumavano e puzzavano di rancido".69 Altri si lamentavano per il problema opposto, e cioè che le luci di solito rimanevano accese tutta la notte.70 Alcuni detenuti dei campi della regione di Vorkuta non avevano problemi di riscaldamento, perché potevano portare a casa dalle cave dei pezzi di carbone, ma Susanna Pecora, in un lagpunkt vicino alle miniere di carbone di Inta, ricorda che d'inverno dentro le baracche faceva "talmente freddo che i capelli si appiccicavano al letto per il gelo, l'acqua si congelava nella tazza".7! Da loro nelle baracche non c'era nemmeno l'acqua corrente: veniva portata dentro a secchi dalla dezurnaja, una donna anziana, ormai inabile per i lavori pesanti, che puliva e sorvegliava le baracche durante il giorno.72

Ma c'era di peggio: le baracche erano infestate da un "odore tremendamente pesante" per l'enorme quantità di abiti sudici e am-nruffiti messi ad asciugare sulle cuccette, i tavoli e dovunque fosse Possibile appendere qualcosa. Nei dormitori dei campi speciali, do-

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ve di notte le porte venivano chiuse e le finestre sbarrate, il puzzo rendeva "quasi impossibile respirare".73

L'assenza di gabinetti non migliorava certo la qualità dell'aria. Nei campi dove di notte i prigionieri venivano chiusi a chiave nelle loro baracche, dovevano servirsi di una parala, il bugliolo, proprio come in prigione. Un detenuto scrisse che al mattino era impossibile sollevare la parala "per cui veniva trascinata sul pavimento scivoloso. Il contenuto si rovesciava immancabilmente".74 Un'altra detenuta, Ga-lina Smirnova, arrestata all'inizio degli anni Cinquanta, ricorda: "Se si trattava di una cosa seria, aspettavi fino al mattino, altrimenti c'era un puzzo terribile".75

Negli altri casi i gabinetti erano latrine, e le latrine si trovavano fuori dalle baracche, a volte a una certa distanza; questo costituiva una seria difficoltà nel freddo dell'inverno. "I gabinetti, di legno, si trovavano all'aperto" racconta la Smirnova di un altro campo "per-sino quando c'erano trenta o quaranta gradi sotto zero".76 Thomas Sgovio descrive le conseguenze:

Fuori, di fronte a ogni baracca, conficcarono un palo di legno e lo fissarono al terreno. Un altro decreto! Ci proibirono di urinare in qualsiasi località del campo salvo le latrine o il palo cui era legato in cima uno straccio bianco. Chiunque fosse stato colto a violare il decreto sarebbe stato condannato a dieci giorni di cella di punizione... Il decreto era stato emanato perché alcuni detenuti, non volendo percorrere il lungo tratto per raggiungere le latrine, urinavano sui sentieri scavati nella neve. Il terreno era disseminato di chiazze gialle. Alla fine della primavera, quando la neve si scioglieva, c'era un puzzo terribile ... Due volte al mese abbattevamo le piramidi di ghiaccio sporco e ne portavamo i pezzi fuori dalla zona.. J7

La sporcizia e il sovraffollamento non erano solo problemi di ordine estetico, o questioni di scomodità relativamente secondarie. Le cuccette affollate e la mancanza di spazio potevano anche risultare letali, soprattutto nei campi in cui si lavorava ventiquattr'ore su ventiquattro. In uno di essi, in cui i prigionieri lavoravano in tre turni, giorno e notte, secondo un memorialista "in qualsiasi ora del giorno c'era qualcuno che dormiva nella baracca. Lottare per riuscire a dormire equivaleva a lottare per la vita. Parlando del problema del sonno, le persone si ingiuriavano, si azzuffavano, si uccidevano persino. Nelle baracche c'era sempre la radio accesa al massimo volume, ed era molto odiata".78

Il problema di dove dormire era davvero cruciale, e proprio per questo le condizioni relative agli alloggi rappresentavano uno strumento fondamentale di controllo sui detenuti, utilizzato in modo

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consapevole dall'amministrazione. Negli archivi centrali del Gulag a Mosca si conservavano con cura fotografie di diversi tipi di baracche, destinate a diversi tipi di prigionieri. Le baracche degli otlicnik - i "migliori", cioè "i lavoratori d'assalto" - avevano letti singoli con materassi e lenzuola, pavimenti di legno e quadri alle pareti. I prigionieri, pur non sorridendo ai fotografi, almeno leggevano i giornali e sembravano ben nutriti. Invece le baracche rezim, cioè punitive, destinate ai lavoratori poco efficienti o indisciplinati, al posto dei letti avevano tavolacci di legno puntellati su sostegni di legno grezzo. Persine in queste fotografie, scattate a fini propagandistici, i prigionieri rezim non avevano materassi ed erano raffigurati mentre si dividevano le coperte.79

In alcuni campi, ben presto la procedura per la distribuzione dei posti letto divenne molto elaborata. Lo spazio costituiva un lusso tale che avere posto e una certa riservatezza era considerato un grande privilegio, accordato soltanto ai membri dell'aristocrazia del campo. I prigionieri di alto rango - i capisquadra, gli addetti a stabilire le norme e altri - spesso erano autorizzati a dormire in baracche più piccole, con meno gente. A Solzenicyn, al quale quando arrivò in un campo di Mosca in un primo tempo fu affidata la mansione di "capomastro", venne assegnato un posto in baracche dove

invece delle cuccette c'erano letti normali, un comodino per due e non per un'intera brigata; di giorno la porta si chiudeva e si poteva lasciare lì la roba; infine c'era un fornello elettrico semilegale e non c'era bisogno di far ressa davanti alla grande cucina comune nel cortile.80

Era considerato un lusso incredibile. Alcuni lavori tra i più ricercati - carpentieri, addetti alla manutenzione degli attrezzi - conferivano il diritto molto ambito di dormire in officina. Anna Rozina - quando lavorò come calzolaia nel campo Temnikovskij - dormiva nel laboratorio dei ciabattini e aveva anche il "diritto" di andare in bagno più spesso, e riteneva ciò un grande privilegio.81

In quasi tutti i campi, i medici, anche quelli detenuti, erano autorizzati a dormire in locali separati, un privilegio che rispecchiava la loro particolare condizione sociale. Il chirurgo Isaac Vogel'fanger si considerava privilegiato perché gli era consentito di dormire su una branda in una "stanzetta adiacente alla sala di ricevimento" dell'infcrmeria del campo: "Quando andavo a dormire, mi sembrava che dall'alto la luna sorridesse". Insieme a lui dormiva ilfel'dser del cam-PO, cioè l'"assistente medico", che godeva dello stesso privilegio.82

A volte, per gli invalidi erano previste condizioni speciali. L'attrice

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Tat'jana Okunevskaja riuscì a farsi mandare in un campo per invalidi in Lituania, dove "le baracche erano spaziose, con molte finestre, luminose, pulite, e non c'erano cuccette sopra il livello della testa".83 j prigionieri mandati a lavorare nelle saraska di Berija, i "laboratori speciali" per ingegneri e tecnici di talento, disponevano di alloggi migliori di tutti gli altri. A Bol'sevo, una saraska nei dintorni di Mosca, le baracche erano "grandi, luminose, pulite e riscaldate da rudimentali cucine economiche" anziché da stufette metalliche. I letti erano dotati di biancheria e cuscini; la luce di notte veniva spenta e c'era una doccia individuale.84 Naturalmente i detenuti che vivevano in questi alloggi speciali sapevano di poter essere mandati via da un momento all'altro, e questo costituiva uno stimolo a lavorare sodo.

Spesso all'interno delle baracche si creava un'altra gerarchla informale. Nella maggior parte di esse, le decisioni critiche sull'assegnazione dei posti letto venivano prese dai gruppi che nei campi erano più forti e più uniti. Sino alla fine degli anni Quaranta, quando i grossi gruppi nazionali - ucraini, baltici, ceceni, polacchi - diventarono più forti, i prigionieri meglio organizzati, come vedremo, erano in genere i criminali comuni. Di norma, dormivano sulle cuccette più in alto, dove c'era aria migliore e più spazio, bastonando e picchiando chi non era d'accordo. Chi dormiva nelle cuccette inferiori, aveva meno potere. Quelli che dormivano per terra, i prigionieri sui gradini più bassi della gerarchla del campo, soffrivano moltissimo, come racconta un detenuto:

Questo livello era chiamato "settore kolhoz" ed era dove i ladri costringevano a stare i kolhozniki, svariati intellettuali e sacerdoti in età avanzata, e persino alcuni dei loro, che avevano infranto il codice morale dei ladri. Quelli di sopra non si limitavano a gettare oggetti dalle cuccette superiori e inferiori. I ladri versavano anche escrementi, acqua, la zuppa del giorno prima. E il settore del kolhoz doveva sopportare tutto, perché se protestavano sarebbero stati bersagliati ancora di più di schifezze ... si sentivano male, soffocavano, perdevano conoscenza, diventavano pazzi, morivano di tifo, dissenteria, si suicidavano.85

In ogni caso, i detenuti non potevano migliorare la loro situa/ione, nemmeno i politici. Mentre lavorava comefel'dser (assistente medico), Karol Colonna-Czosnowski, prigioniero politico polacco, venne scelto in una baracca estremamente affollata da Grisa, il "boss" criminale del campo: "Diede una solenne pedata a uno dei suoi cortigiani, e quello la interpretò come l'ordine di lasciarmi il posto, e liberò subito il suo sedile. Ero imbarazzato, e dichiarai che preferivo non sedermi così vicino al fuoco, ma ciò non si conformava alla vo-

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lontà del mio ospite, lo capii quando un seguace di Grisa mi diede uno spintone". Quando recuperò l'equilibrio, si ritrovò seduto sul giaciglio ai piedi di Grisa: "Evidentemente voleva che stessi lì...".86 Colonna-Czosnowski non fece obiezioni. Anche solo per poche ore, era molto importante dove potevi sederti o posare la testa.

"Banja": il bagno

La sporcizia, il sovraffollamento e la carenza di igiene provocavano invasioni di cimici e pidocchi. Negli anni Trenta, in una vignetta "umoristica" pubblicata su "Perekovka", il giornale del canale Moscova-Volga, era rappresentato uno zek cui venivano consegnati degli abiti. Sotto c'era la didascalia: "Ti danno vestiti "puliti", ma pieni di pidocchi". Un'altra aveva la dicitura "E mentre dormi nelle baracche, le cimici mordono come granchi".87 E con il passare degli anni il problema non si attenuò. A quanto riferisce un prigioniero polacco, durante la guerra un suo conoscente cominciò a esserne ossessionato: "Come biologo, gli interessava sapere quanti pidocchi possono vivere in un certo spazio. Contandoli sulla sua camicia ne trovò sessanta, e un'ora dopo altri sessanta".88

Negli anni Quaranta i dirigenti del Gulag erano ormai pienamente consapevoli del pericolo letale di tifo provocato dai pidocchi e sul piano ufficiale sferrarono una strenua battaglia contro i parassiti. In teoria, era obbligatorio fare il bagno ogni dieci giorni. In teoria, tutto il vestiario doveva essere bollito in unità di disinfestazione, quando i detenuti arrivavano al campo e poi a intervalli regolari, per distruggere tutti i parassiti.89 Come abbiamo visto, i barbieri del campo rasavano completamente uomini e donne al loro arrivo, e poi a intervalli regolari tosavano loro il capo. Il sapone, anche se in piccole quantità, di norma era compreso nella lista dei prodotti da distribuire ai prigionieri: nel 1944, per esempio, ne erano previsti 200 grammi al mese per ogni prigioniero. Alle donne, ai figli dei detenuti e ai prigionieri ricoverati negli ospedali ne era assegnato un supplemento di 50 grammi, ai minori di 100 grammi, e ai prigionieri che facevano "lavori particolarmente sporchi" di 200 grammi. Queste quantità esigue dovevano servire sia per l'igiene personale sia per lavare la biancheria e i vestito-90 (II sapone continuò a scarseggiare, dentro e fuori dai campi. Anzi, nel 1991 i lavoratori delle miniere di carbone sovietiche scesero in sciopero anche perché non ne avevano.)

Non tutti però erano convinti dell'efficacia delle procedure seguite nei campi per eliminare i pidocchi. In realtà, racconta un prigioniero

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"il bagno sembrava aumentare la potenza sessuale dei pidocchi".9i Varlam Salamov aggiunge: "Questa camera [di disinfestazione] non elimina comunque i pidocchi; è una pura formalità e un dispositivo per infliggere qualche tormento in più ai detenuti".92

Dal punto di vista tecnico, Salamov aveva torto. La procedura non era stata creata per tormentare i condannati, lo ribadisco, l'amministrazione centrale del Gulag aveva diramato davvero direttive molto severe, ordinando ai comandanti di combattere i parassiti, e in innumerevoli rapporti di ispezioni si inveisce contro il fallimento a questo riguardo. In una relazione del 1933 sulla situazione nel Dmi-tlag ci sono pesanti critiche relative alle baracche femminili, che erano "sporche, senza lenzuola e coperte": "Le donne si lamentano per l'enorme quantità di cimici, che la Divisione sanitaria non contrasta".93 Il rapporto di un'inchiesta condotta nel 1940 sulle condizioni dei campi settentrionali riferisce riguardo a un lagpunkt: "I pidocchi e le cimici nelle baracche influiscono negativamente sulla possibilità dei detenuti di riposare". Nel campo di lavoro correzionale di Novo-sibirsk, invece, "il cento per cento dei detenuti [risultava] affetto da infezione da pidocchi ... a causa delle cattive condizioni igieniche, c'è un'alta incidenza di malattie della pelle e di disturbi allo stomaco ... risulta evidente che le condizioni malsane del campo sono molto, molto costose".

Intanto in un lagpunkt c'erano state due epidemie di tifo, in altri i prigionieri erano "neri per la sporcizia", proseguiva il rapporto con grande apprensione.94 Un anno sì e uno no nei rapporti delle ispezioni sottoposti al giudizio del procuratore del Gulag compaiono lamentele riguardo ai pidocchi e ordini irosi di eliminarli.95 Nel 1937, dopo un'epidemia di tifo, nel Temlag vennero licenziati il dirigente del lagpunkt e il suo assistente responsabile del settore sanitario: furono entrambi processati con l'accusa di "negligenza criminale e inoperosità".96 C'erano premi, oltre alle punizioni: nel 1933, ai detenuti di una baracca del Dmitlag venne concessa una vacanza dal lavoro perché avevano liberato tutti i loro letti dalle cimici.97

Il rifiuto dei detenuti di fare il bagno veniva preso molto sul serio. Irena Arginskaja, che all'inizio degli anni Cinquanta si trovava in un campo speciale per politici a Kengir, ricordava le donne di una particolare setta religiosa presente nel campo che, per ragioni chiare soltanto a loro, si rifiutavano di fare il bagno:

Un giorno ero rimasta nelle baracche perché ero ammalata, e mi avevano esentata dal lavoro. Comunque entrò una guardia e ci disse che tutti i detenuti malati dovevano aiutare a lavare le "monache". Si svolse la scena se-

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guente: fu tirato un carro fino alla loro sezione di baracche e noi dovevamo portarle fuori e farcele salire. Protestavano, ci tiravano calci e botte, e così via. Ma quando riuscimmo a farle salire sul carro si misero tranquille senza cercare di scappare. Poi trascinammo il carro fino ai bagni, le facemmo scendere e le conducemmo dentro, le spogliammo; e ci rendemmo conto del motivo per cui le autorità del campo non potevano consentire che non si lavassero. Quando toglievi loro gli abiti, ne cadevano pidocchi a manciate. Poi le mettemmo sotto l'acqua e le lavammo. Intanto si facevano bollire i loro indumenti per uccidere i pidocchi.. ,98

La Arginskaja ricorda anche come a Kengir, dove l'acqua abbondava, "in teoria potevi andare ai bagni tutte le volte che volevi". Secondo Leonid Sitko, un ex prigioniero di guerra in Germania, nei campi sovietici c'erano meno pidocchi che in quelli tedeschi. Trascorse dei periodi nello Steplag e nel Minlag, dove "potevi fare il bagno ogni volta che volevi... potevi persino lavarti i vestiti".99 Alcune fabbriche e luoghi di lavoro erano dotati di docce; Isaak Fil'stinskij le trovò al Kargopol'lag, dove i prigionieri potevano utilizzarle durante il giorno, anche se altri detenuti soffrivano per la carenza d'acqua.100

Tuttavia, la cinica descrizione delle condizioni igieniche fatta da Salamov non è del tutto infondata. Infatti, anche se agli amministratori locali veniva ordinato di prendere sul serio la questione dei bagni, spesso accadeva che si limitassero a seguire la procedura prevista per la disinfestazione dai pidocchi e il bagno, senza interessarsi davvero ai risultati. O non c'era abbastanza carbone per mantenere l'apparecchiatura alla temperatura necessaria per la disinfestazione, oppure i responsabili non potevano prendersi la pena di farlo bene, o, ancora, da mesi non venivano distribuite le razioni di sapone, che magari erano state rubate. Nel lagpunkt Dizel'nyj, nella Kolyma, nei giorni del bagno "a ogni prigioniero venivano dati un pezzettino di sapone e una grossa brocca d'acqua calda. Versavano cinque o sei brocche di quel tipo in una vasca e bastava per tutti: ci si lavavano e sciacquavano cinque o sei persone". Nel lagpunkt di Sopka, "l'acqua veniva portata, come le altre merci, su una linea ferroviaria stretta e una strada stretta. D'inverno la ricavavano dalla neve, anche se non ce n'era molta, perché il vento la spazzava via ... I lavoratori tornavano dalla miniera coperti di polvere e non c'erano tinozze dove lavarsi".101

Spesso l'operazione di far lavare i detenuti annoiava le guardie, che concedevano loro solo qualche minuto nei bagni, giusto per la forma.i°2 Nel 1941, in un lagpunkt del Siblag, un ispettore indignato scoprì che "i prigionieri non facevano il bagno da due mesi" per mero disinteresse dei secondini.103 E nei campi peggiori, in cui la dignità umana dei detenuti veniva trascurata apertamente, il bagno poteva

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diventare una vera e propria tortura. Descrivono in molti l'atrocità del momento del bagno, ma nessuno bene come Salamov, che dedica un intero racconto agli orrori dei bagni nella Kolyma. Nonostante lo sfinimento, i prigionieri dovevano aspettare per ore il loro turno: "I detenuti vengono portati ai bagni prima o dopo il lavoro. Al termine di molte ore di lavoro al gelo (ma anche d'estate è faticoso), quando tutte le speranze e i pensieri sono concentrati sul desiderio di arrivare il più presto possibile ai tavolacci e al cibo per poi addormentarsi, perdere tutto quel tempo ai bagni diventa insopportabile".

Per prima cosa, gli zek dovevano stare in fila, fuori al freddo; poi venivano ammassati in affollati spogliatoi, costruiti per quindici persone e che ne contenevano più di cento. Nel frattempo sapevano che le loro baracche erano state pulite e perquisite. I loro scarsi averi, vasellame e pezze per i piedi, erano stati gettati nella neve:

Questo rapido proliferare di tanti piccoli oggetti di pertinenza è tipico dell'essere umano, sia egli un povero diavolo qualsiasi o qualcuno consacrato dalla fama. ... Il detenuto accumula oggetti allo stesso modo. È un operaio e deve poter disporre almeno di filo per cucire e toppe per rappezzare; nonché, magari, di una vecchia scodella di riserva. Anche queste cose venivano buttate via durante le periodiche pulizie, e dopo ogni bagno ciascuno doveva rifarsi il corredo domestico, a meno che non fosse riuscito a seppellirlo in un nascondiglio sicuro sotto la neve profonda.

Una volta dentro, spesso c'era così poca acqua che era impossibile lavarsi. Ai prigionieri veniva dato "un catino in legno d'acqua non caldissima ... non c'è mai acqua in più, e nessuno è in grado di comprarne". I capanni per il bagno non erano neanche riscaldati e faceva freddo: "Questa sensazione aumenta per via di migliaia di spifferi provenienti da porte e fessure... il riscaldamento è carente". Inoltre, all'interno c'era "sempre ... frastuono, fumo, urla e grida ("urlano come ai bagni" è un'espressione corrente)".104

Anche Thomas Sgovio descrive questa scena infernale e racconta che, a volte, per indurre i prigionieri della Kolyma a entrare nel bagno dovevano picchiarli :

L'attesa fuori che quelli dentro uscissero, poi lo spogliatoio che era freddo, le disinfestazioni obbligatorie e il processo di fumigazione dove buttavamo in un mucchio i nostri stracci - non ti davano mai indietro i tuoi - gli alterchi e le imprecazioni "ehi, figlio di puttana, quella giacca è mia", la scelta della biancheria comune umida, con le cuciture piene di uova di pidocchi, la rasatura del corpo compiuta dal barbiere del campo... poi, quando finalmente era il nostro turno di entrare nel bagno, prendevamo una tinozza di legno, ci davano una tazza di acqua calda, una di acqua fredda e un pezzette di sapone nero dall'odore pestilenziale.105

La vita quotidiana 231

Poi, quando tutto era finito, ricominciava il processo umiliante della distribuzione dei vestiti, racconta Salamov, sempre ossessionato dalla consegna della biancheria intima: "Molto prima che inizi la distribuzione, quelli che si sono appena lavati si raccolgono in folla vociante davanti allo sportello. Discettano, disputano di com'era la biancheria distribuita la volta prima, e di com'era quella di cinque anni prima al Bamlag.. ."106

Inevitabilmente, il diritto di fare il bagno in relativa comodità acquisì una stretta connessione con il sistema dei privilegi. Al Temlag, per esempio, chi faceva lavori particolari aveva diritto a farlo più spesso.107 Già di per se stessa la possibilità di lavorare nel capanno dei bagni, grazie a cui si aveva a disposizione l'acqua pulita, e si poteva concedere o negare ad altri il diritto a tale prossimità, di solito era molto ambita. Alla fine, nonostante gli ordini perentori, severis-simi, drastici, provenienti da Mosca, la comodità, l'igiene e la salute dei prigionieri dipendevano in modo assoluto dal capriccio e dalla situazione locale.

Insomma, ecco un altro aspetto normale della vita stravolto, trasformato da umile piacere in quello che Salamov definisce "un avvenimento negativo per i detenuti, qualcosa che rende ancora più penose le loro condizioni di vita. ... testimonia quella perdita del senso delle proporzioni, quella confusione nella scala dei valori che è la più rilevante peculiarità conferita dal lager a tutti coloro che scontano un periodo di pena".108

"Stolovaja": la sala da pranzo

Nella vasta letteratura sul Gulag, che riflette le esperienze di persone molto diverse, le descrizioni dei campi sono numerose e variate. Ma c'è un aspetto che rimane immutato da un campo all'altro, da un anno all'altro, da un memoriale all'altro: la descrizione della ba-landa, la brodaglia servita ai prigionieri una o talora due volte al giorno.

In generale gli ex prigionieri concordano sul fatto che il mezzo litro di brodaglia distribuito ai detenuti una o due volte al giorno aveva un sapore rivoltante, era di consistenza acquosa e contenuto sospetto. Galina Levinson ha scritto che era fatta "con cavolo e patate andati a male, a volte un pezzo di grasso di maiale, a volte teste di aringhe".109 Barbara Armonas ricordava una zuppa fatta con "pol-m°ni di pesce o di animale e qualche patata".110 Secondo Leonid "non conteneva mai carne".111

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Un altro prigioniero ricorda una zuppa di carne di cane, immangiabile per un francese che lavorava con lui: "un uomo proveniente da un paese occidentale non sempre riesce a superare una barriera psicologica, nemmeno quando patisce la fame" concludeva.112 Persino La-zar' Kogan, il comandante del Dmitlag, una volta si lamentò: "Alcuni cuochi si comportano come se non stessero preparando pasti sovietici, ma piuttosto brodaglia per porci. A causa di questo atteggiamento, il cibo che preparano è inadeguato, spesso insipido e sciapo".113

La fame comunque era uno stimolo potente: la zuppa magari era immangiabile in normali circostanze, ma nei campi, dove la maggioranza delle persone pativa la fame, i prigionieri la divoravano di gusto. E la loro fame non era un prodotto del caso: li tenevano a stecchetto apposta, perché la regolamentazione del cibo, dopo quella del tempo e dello spazio vitale, era lo strumento di controllo più importante dell'amministrazione.

Per questa ragione, nei campi la distribuzione di cibo ai detenuti diventò una scienza piuttosto elaborata. Le norme alimentari per particolari categorie di prigionieri e lavoratori venivano stabilite nei minimi dettagli a Mosca e cambiate di frequente. L'amministrazione del Gulag ne calibrava di continuo le cifre, calcolando e ricalcolando la quantità minima di cibo necessaria perché i prigionieri continuassero a lavorare. Molto spesso i comandanti ricevevano nuovi ordini in cui erano elencate le quantità delle razioni. Alla fine diventarono documenti lunghi e complessi, scritti in un pesante linguaggio burocratico.

Un esempio tipico è la disposizione dell'amministrazione del Gulag sulle razioni emessa il 30 ottobre 1944. Si stabiliva una norma "garantita" o di base per la maggioranza dei prigionieri: 550 grammi di pane al giorno, 8 grammi di zucchero, e una serie di altri prodotti che in teoria andavano utilizzati per preparare la balanda, la zuppa di mezzogiorno e la kasa, il semolino servito a colazione e a cena: 75 grammi di grano saraceno o di tagliatelle, 15 grammi di carne o di derivati della carne, 55 grammi di pesce o di prodotti del pesce, 10 grammi di grasso, 500 grammi di patate o verdure, 15 grammi di sale e 2 grammi di "surrogato di té".

A questa lista di prodotti erano aggiunte alcune annotazioni. I comandanti dei campi dovevano diminuire di 50 grammi le razioni di pane ai prigionieri che realizzavano la norma solo al 75 per cento, di 100 grammi per quelli che la realizzavano al 50 per cento. Chi superava la norma, invece, doveva ricevere tra l'altro 50 grammi in più di grano saraceno, 25 di carne e 25 di pesce.114

Per fare un paragone, nel 1942, un anno in cui la fame si fece sentire

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in modo più grave in tutta l'Unione Sovietica, le guardie dei campi in teoria dovevano ricevere 700 grammi di pane, quasi un chilo di verdure fresche e 75 grammi di carne, con speciali integrazioni per chi viveva in zone montane.115 I prigionieri che lavoravano nelle saraska durante la guerra godevano di un regime alimentare assai migliore, perché in teoria avevano diritto a 800 grammi di pane e 50 di carne contro i 15 concessi ai normali detenuti. In più, ricevevano quindici sigarette al giorno e fiammiferi.116 Le donne incinte, i minori internati, i prigionieri di guerra, i liberi lavoratori e i bambini residenti negli asili dei campi avevano razioni leggermente migliori.117

In alcuni campi si cercò di calibrare le razioni in modo ancora più elaborato. Nel luglio 1933, il Dmitlag emanò un'ordinanza dove si elencavano razioni diverse per i detenuti che realizzavano fino al 79 per cento della norma, dall'80 all'89 per cento, dal 90 al 99 per cento, dal 100 al 109 per cento, dal 110 al 124 per cento e dal 125 per cento in su.118

Come si può immaginare, per distribuire in modo corretto quantità di cibo così precise agli aventi diritto, quantità che talvolta variavano ogni giorno, era necessaria un'attività burocratica imponente, difficile da affrontare per molti campi. Si dovevano tenere a portata di mano fascicoli gonfi di istruzioni, in cui era specificato quando e quali prigionieri dovevano ricevere qualcosa. Persine i lagpunkt più piccoli dovevano compilare svariati documenti, elencando la percentuale della norma realizzata quotidianamente da ogni detenuto, e la quantità di cibo spettante. Per esempio nel piccolo lagpunkt di Kedrovyj Sor, una sezione dell'Intlag costituita da aziende agricole collettive, nel 1943 esistevano almeno tredici diverse razioni alimentari. Il contabile del campo, probabilmente un prigioniero, doveva stabilire la razione dovuta a ciascuno dei mille detenuti. Prima doveva tracciare a mano delle righe con la matita su lunghi fogli di carta, e poi aggiungere nomi e numeri a penna, riempiendo pagine e pagine di calcoli.119

Nei campi più grandi, la burocrazia era anche più intricata. L'ex capo contabile del Gulag, A.S. Narinskij, ha raccontato come agli amministratori di un campo, impegnati a costruire una linea ferroviaria nell'estremo nord, venne l'idea di distribuire scontrini per il cibo ai Prigionieri in modo che ricevessero ogni giorno la giusta razione. Ma era difficile persino procurarsi degli scontrini in un sistema in cui la carenza di carta era cronica. Non riuscendo a trovare una soluzione migliore, decisero di utilizzare biglietti degli autobus, che ci mettevano tre giorni ad arrivare. Questo problema "minacciava in continuazione di dissestare tutto il sistema della distribuzione alimentare".120

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D'inverno, anche trasportare il cibo fino ai lagpunkt più remoti costituiva un problema, specialmente per quelli privi di un forno proprio. Narinskij scrive: "Persine quando il pane era ancora caldo, trasportandolo in veicoli merci per 400 chilometri a 50 gradi sotto zero si gelava al punto da diventare inutilizzabile non solo per il consumo umano, ma persino come combustibile".121 Nonostante le complesse istruzioni diramate nel nord riguardo ai sistemi per immagazzinare d'inverno le scarse verdure e le patate, grosse quantità gelavano e diventavano immangiabili. D'estate, invece, carne e pesce andavano a male e altri cibi si deterioravano. I magazzini male organizzati venivano spesso distrutti da incendi o si riempivano di topi.122

In molti campi si creavano kolhoz, cioè aziende agricole collettive indipendenti, o lagpunkt caseari, ma spesso funzionavano male. In un resoconto sul kolhoz di un campo di lavoro forzato, tra gli altri problemi si denunciava la mancanza di personale tecnico preparato, di pezzi di ricambio per i trattori, di una stalla per il bestiame del caseificio e l'inefficienza dei preparativi per la stagione del raccolto.123

Di conseguenza, anche quando non pativano davvero la fame, i detenuti soffrivano quasi sempre di ipovitaminosi, un problema considerato più o meno grave dalle autorità. Dato che le pastiglie di vitamine non arrivavano, molti costringevano i prigionieri a bere la hvoja, una bevanda fermentata preparata con aghi di pino, di dubbia efficacia.124 Per fare un paragone, le norme per gli "ufficiali delle forze armate" prevedevano espressamente l'uso di vitamina C e di frutta secca per compensare la scarsità di vitamine delle normali razioni. I generali e gli ammiragli, inoltre, avevano l'autorizzazione ufficiale a ricevere formaggio, caviale, pesce in scatola e uova.125

Già la stessa distribuzione della zuppa, con o senza vitamine, talvolta risultava difficile durante i freddi inverni nell'estremo nord, soprattutto se veniva servita a mezzogiorno, sul posto di lavoro. Nel 1939, un medico della Kolyma presentò una protesta formale al capo del campo, facendo notare che i prigionieri avevano dovuto mangiare all'aperto e che il cibo si congelava mentre lo mangiavano.126 Anche il sovraffollamento costituiva un problema per la distribuzione del cibo: un detenuto racconta che nel lagpunkt contiguo alla miniera di Maldjak a Magadan, c'era un solo sportello per oltre settecento persone.127

Inoltre, la distribuzione del cibo poteva essere intralciata anche da eventi estranei ai campi: durante la Seconda guerra mondiale, per esempio, spesso cessava del tutto. Gli anni peggiori furono il 1942 e " 1943, quando i territori occidentali dell'Unione Sovietica erano in lar-

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ga parte occupati dalle truppe tedesche, e il resto del paese era quasi tutto impegnato a contrastarle. La fame imperversava dappertutto, e il Gulag non rappresentava una priorità. Vladimir Petrov, detenuto nella Kolyma, ricorda che per cinque giorni al suo campo il cibo non venne distribuito affatto: "Nella miniera era cominciata una carestia vera. Cinquemila uomini non avevano un pezzo di pane".

Anche le posate e i piatti mancavano sempre. Petrov racconta: "La zuppa che arrivava ancora calda si copriva di ghiaccio mentre uno di noi aspettava il cucchiaio da un altro che stava usandolo. Questo forse può spiegare perché la maggioranza degli uomini preferiva mangiare senza cucchiaio".128 Un'altra detenuta riteneva di essere riuscita a sopravvivere perché "aveva scambiato del pane per una ciotola smaltata da mezzo litro ... Se hai la tua ciotola, puoi avere le prime razioni, e il grasso è tutto in superficie. Gli altri devono aspettare finché la tua ciotola non è disponibile. Mangi e poi la passi a un altro, che la da a un altro ancora .. .".129

Altri prigionieri si fabbricavano da soli ciotole e cucchiai di legno. Nel piccolo museo situato al quartier generale dell'Associazione Me-morial di Mosca sono esposti svariati articoli fatti in casa di questo genere, oggetti capaci di suscitare una profonda commozione.130 Come sempre, l'amministrazione centrale del Gulag era pienamente al corrente di tali carenze, e di tanto in tanto cercava di provvedere in qualche modo: una volta le autorità elogiarono un campo in cui i barattoli vuoti venivano utilizzati con intelligenza proprio a questo scopo.131 Ma anche quando posate e piatti esistevano, spesso non c'era modo di pulirli: un'ordinanza del Dmitlag proibiva "in modo categorico" ai cuochi dei campi di somministrare cibo nei piatti sporchi.132

Per tutte queste ragioni, le disposizioni relative alle razioni emanate da Mosca, in cui già era previsto il minimo necessario per sopravvivere, non costituiscono un'indicazione attendibile su quanto i prigionieri mangiavano davvero. E non è necessario ricorrere soltanto ai memoriali dei prigionieri per sapere che i reclusi dei campi sovietici erano affamati. Lo stesso Gulag inviava ispezioni periodi-che nei campi, e registrava che cosa mangiavano in realtà i prigionieri, rispetto a quello che avrebbero dovuto mangiare. Anche in questo caso colpisce la discordanza surreale con gli elenchi accurati delle razioni alimentari stilati a Mosca.

Un'indagine del 1942 sul campo di Volgostroj, per esempio, riferi-va che in un lagpunkt c'erano ottanta casi di pellagra, una malattia da Malnutrizione: "La gente sta morendo di fame" riferiva il rapporto in modo asciutto. Nel Siblag, un grande campo della Siberia occidenta-

Gulag

le, un viceprocuratore sovietico scoprì che nei primi tre mesi del 194} le disposizioni relative alle razioni alimentari erano state "violate in modo sistematico ... carne, pesce e grassi vengono distribuiti molto di rado ... lo zucchero non viene distribuito affatto". Nel 1942, nella regione di Sverdlovsk, il cibo preparato nei campi non conteneva "grassi, pesce o carne, e spesso nemmeno verdura" e, nel Vjatlag, "in luglio il cibo era scarso, quasi immangiabile e privo di vitamine per la mancanza di grassi, carne, pesce, patate ... l'alimentazione è tutta a base di farina e di cereali".133

Ad alcuni prigionieri, a quanto pare, il cibo veniva negato perché il campo non riceveva i rifornimenti previsti. Si trattava di un problema cronico: a Kedrovyj Sor, i contabili del lagpunkt tenevano un elenco di tutti i prodotti alimentari che potevano rimpiazzare quelli previsti per i detenuti ma non disponibili: oltre al formaggio al posto del latte, la lista indicava anche gallette secche al posto del pane, funghi al posto della carne e more di bosco al posto dello zucchero.134 Quindi non è affatto sorprendente se la dieta dei prigionieri differiva molto da quella prevista sulla carta a Mosca. Il rapporto di un'ispezione effettuata nel Birlag nel 1940 riferisce: "II pranzo degli zek che lavorano è costituito da acqua e 130 grammi di cereali; il secondo è pane nero, circa 100 grammi. A colazione e a cena mangiano la stessa zuppa". Da un colloquio con il cuciniere, inoltre, l'ispettore venne a sapere che le norme teoriche non venivano mai rispettate, che non arrivavano né pesce, né carne, né verdure o grassi. Il rapporto concludeva che nel campo non c'erano "soldi per comprare cibo o vestiario ... e senza soldi nessuna organizzazione di rifornimento vuole collaborare". In conseguenza vennero registrati oltre cinquecento casi di scorbuto.135

Molto spesso, comunque, quando i generi alimentari arrivavano a un campo venivano subito rubati. I furti si verificavano quasi a tutti i livelli. Di solito il cibo veniva sottratto durante la preparazione da chi lavorava in cucina o nei depositi. È il motivo per cui i detenuti cercavano lavori - come cucinare, lavare i piatti, lavorare nei depositi - che consentivano di accedere al cibo: per poterlo rubare. La Ginzburg una volta si "salvò" grazie a un lavoro di lavapiatti nella mensa maschile. Oltre a poter consumare "vero brodo di carne e delle frittelle cotte in olio di girasole", si accorse che gli altri prigionieri avevano soggezione di lei. Un uomo le si avvicinò mentre mangiava. Accanto al cibo, "un senso frammisto di profonda invidia e di umile ammirazione per coloro che erano riusciti a raggiungere una simile posizione nella vita gli fece tremare la voce".136

Persino dei lavori come provvedere alla mietitura nelle fattorie

La vita quotidiana 237

del campo o sbucciare patate erano molto ambiti, e i detenuti pagavano per ottenerli, per essere in condizione di rubare del cibo. In seguito, la Ginzburg fu addetta anche al governo dei polli destinati alla tavola dei dirigenti del campo. Lei e la sua collega approfittarono appieno della situazione: "Condivamo la kasa del campo con olio di fegato di merluzzo preso a prestito dalle galline. Con l'avena degli uccelli preparavamo il kisel'. Infine mangiavamo ogni giorno tre uo-va in due, uno nel brodo comune e uno a testa, così, come ghiottoneria a parte. (Non volevamo prenderne di più per non ridurre gli indici di fecondità delle galline. Poiché proprio da questi veniva giudicato il nostro lavoro.)".137

I furti avvenivano anche su scala assai più vasta, soprattutto nelle cittadine dell'estremo nord in cui c'erano dei campi di lavoro, dove tutti ritenevano valesse la pena di rubare, per la carenza di cibo tra i lavoratori liberi, le guardie dei campi e i prigionieri. Ogni anno nei campi venivano stilati rapporti sui beni sottratti. In quelli del lag-punkt di Kedrovyj Sor, soltanto per l'ultimo trimestre del 1944 si denunciavano ammanchi di derrate alimentari e denaro per un valore di oltre 20.000 rubli.13"

Su scala nazionale, le cifre salivano in modo vertiginoso. In un rapporto del 1947 di un ufficio inquirente, per esempio, sono registrati molti furti, uno dei quali avvenuto nel Vjatlag, dove dodici persone, tra cui il dirigente del magazzino del campo, si erano appropriate di generi alimentari e verdure per un valore di 170.000 rubli. In un altro rapporto dello stesso anno si calcolava che, su 34 campi indagati nel secondo trimestre del 1946, fossero state rubate in totale 70 tonnellate di pane, 132 di patate e 17 di carne. L'ispettore che stilò il rapporto concludeva: "II complesso sistema di alimentazione dei prigionieri agevola il furto di pane e di altri prodotti alimentari". Inoltre criticava il "sistema per cui i lavoratori liberi si nutrivano tramite tessere di razionamento", e le squadre di ispezione interne dei campi, i cui membri erano completamente corrotti.139

In certi casi il sistema delle ispezioni provocò delle conseguenze: in alcuni campi, il timore di ripercussioni indusse i dirigenti a rispettare la lettera, se non lo spirito, della legge. Un detenuto del campo, Per esempio, riceveva mezzo bicchiere di zucchero alla fine del mese e se lo mangiava. Per il comandante del campo era il modo per assicurarsi di ricevere la somma stabilita dalla burocrazia di Mosca. Per i prigionieri era una festa, "il giorno dello zucchero".140

Tutto sommato, non tutti facevano la fame. Anche se la maggior Parte dei prodotti alimentari spariva prima di finire nella zuppa, c'è-

Gulag

ra un alimento fondamentale quasi sempre disponibile: il pane. U pane del Gulag, come la zuppa, è stato descritto molte volte. Talvolta veniva ricordato soprattutto perché era cotto male: un prigioniero racconta che era duro al punto da "sembrare un mattone", e così scarso da poterlo finire "in due bocconi".141 Un detenuto dice che era "pane davvero "nero" perché la crusca residua colorava il pane di nero e gli dava una consistenza ruvida". Notava inoltre che veniva cotto con acqua abbondante, e quindi era "umido e pesava molto, perciò in realtà ce ne davano meno dei 700 grammi previsti".142

Altri ricordano che i prigionieri si contendevano le pagnotte più secche, meno acquose.143 Nel breve racconto di Salamov "Cherry-Brandy", è descritta la morte immaginaria di Osip Mandel'stam, che avvicinandosi alla fine perde interesse per cose del genere: "Non cercava con occhi avidi il pezzo con la crosta, non piangeva se la crosta toccava a un altro, non si ficcava in bocca con dita tremanti il pezzette di pane".144

Nei campi dove la fame si sentiva di più, negli anni in cui la fame si sentiva di più, il pane assumeva una connotazione quasi sacrale, e si sviluppò un preciso rituale per il suo consumo. Per esempio, i ladri del campo rubavano senza ritegno quasi qualsiasi altra cosa, ma i ladri di pane erano considerati particolarmente odiosi e imperdonabili. Durante il suo lungo viaggio in treno verso la Kolyma, Vladimir Petrov osservò: "rubare era consentito, e si poteva portare via qualsiasi cosa alla portata del ladro e in conformità alla sua fortuna, ma c'era un'eccezione: il pane. Il pane era sacro e inviolabile, senza distinzioni tra la popolazione del convoglio". Petrov per la verità era stato eletto starosta del convoglio, e in questa veste fu incaricato di pestare di santa ragione un ladruncolo che aveva rubato del pane. Fece quello che doveva.145 Anche Thomas Sgovio racconta che la legge non scritta dei criminali nei campi della Kolyma era: "Ruba qualunque cosa salvo la santa razione di pane". Anche lui vide "più di un prigioniero picchiato a morte per aver violato la sacra tradizione".146 Kazimierz Zarod ricorda la stessa tradizione:

Se un detenuto rubava abiti, tabacco o quasi qualsiasi altra cosa e veniva scoperto, poteva aspettarsi di essere pestato dagli altri prigionieri, ma la legge non scritta del campo, e ho saputo da altri campi che era uguale dappertutto, prescriveva che un detenuto scoperto a rubare il pane di un altro andasse condannato a morte.147

Nelle sue memorie, Dmitrij Panin, amico intimo di Solzenicyn, racconta con precisione come poteva essere eseguita la condanna: "Un trasgressore colto a rubare del pane veniva gettato per aria da

La vita quotidiana 239

altri prigionieri e lasciato cadere a terra; l'operazione si ripeteva diverse volte, danneggiando i suoi reni. Poi lo gettavano fuori dalle baracche come una carogna".

Panin, come molti altri sopravvissuti che si trovavano nei campi durante il periodo di fame della guerra, parla anche con eloquenza dei rituali seguiti da alcuni prigionieri per consumare il pane. Se ne ricevevano solo una volta al giorno, la mattina, dovevano prendere una decisione straziante: mangiarlo tutto in una volta, o conservarne un po' per il pomeriggio. Conservandolo, si correva il rischio di perdere o di farsi rubare quel prezioso quarto di pagnotta. D'altra parte, un pezzo di pane costituiva qualcosa da desiderare con impazienza durante il giorno. Queste indicazioni di Panin riguardo alla seconda opzione sono di certo una straordinaria testimonianza sulla scienza di come evitare la fame:

Quando ti danno la tua razione provi il desiderio forrissimo di prolungare il piacere di mangiarla, la tagli in minuti pezzetti regolari e fai delle palline con i frammenti di mollica. Con fili e bastoncini costruisci una bilancia improvvisata e pesi ogni pezzo. In questo modo cerchi di prolungare l'operazione del mangiare per tre ore o più. Ma questo equivale a un suicidio!

Non metterci mai per nessun motivo più di mezz'ora a finire la tua razione. Ogni pezzo di pane va masticato a lungo, per consentire allo stomaco di digerirlo con la maggior facilità possibile, così che possa rilasciare nell'organismo la massima quantità di energia ... se dividi sempre la tua razione e ne accantoni un pezzo per la sera sei rovinato. Mangialo tutto sul posto; d'altra parte, se lo inghiottisci troppo in fretta, come fanno le persone affamate in circostanze normali, ti accorci la vita...148

Comunque, gli zek non erano gli unici abitanti dell'Unione Sovietica ossessionati dal pane e dai molti modi di mangiarlo. Ancora adesso, un mio conoscente russo non mangia pane scuro di nessun genere, perché, quando era bambino in Kazakistan, durante la guerra, non consumava altro. E Susanna Pecora, che negli anni Cinquanta era detenuta nel Minlag, una volta udì per caso due contadine russe anch'esse prigioniere, donne che conoscevano la vita senza di esso, parlare del pane appena distribuito:

Una teneva un pezzo di pane e lo accarezzava: "Oh, hlebuska ["panuc-cio", vezzeggiativo simile a quello con cui si chiamerebbe un bambino] mio!" disse con gratitudine "ti distribuiscono tutti i giorni". L'altra disse: "Potremmo farlo seccare e mandarlo ai bambini. In fondo hanno fame. Ma non penso che ci autorizzerebbero a spedirlo.. .".149

Dopo quell'episodio, mi ha raccontato la Pecora, ci pensava due volte prima di lamentarsi per la penuria di cibo nei campi.

I

XI IL LAVORO

I

Chi è ammalato, inabile,

o troppo debole per la miniera

è retrocesso al campo inferiore

ad abbattere gli alberi della Kolyma.

È molto semplice quando lo leggi

nero su bianco.

Ma non riesco a dimenticare

la catena di slitte sulla neve

e gli uomini aggiogati.

Sforzando il petto incavato, trascinano i carri.

Sui pendii scoscesi sostano per riposare

o incespicano... Il greve carico rotola giù

e a momenti li farà cadere...

Tutti hanno visto incespicare un cavallo. Noi abbiamo visto mettere le briglie agli uomini... ELENA VLADIMIROVA, Kolyma1

"Rabocaja zona": la zona di lavoro

II lavoro era lo scopo fondamentale della maggioranza dei campi sovietici. Era l'occupazione principale dei prigionieri e la preoccupazione essenziale degli amministratori. La vita quotidiana era organizzata in funzione del lavoro e il benessere dei prigionieri dipendeva dall'efficienza con cui lavoravano. Ciononostante, è difficile spiegare nel complesso che cosa rappresentasse davvero il lavoro nei campi: l'immagine del detenuto nella tempesta di neve, che con un piccone estrae oro o carbone, è solo uno stereotipo. Di detenuti di questo tipo ce n'erano molti - milioni, come indicano le cifre relative ai campi della Kolyma e di Vorkuta -, ma oggi sappiamo che anche

// lavoro 241

nel centro di Mosca esistevano campi di detenzione in cui i detenuti progettavano aeroplani, altri nella Russia centrale in cui i prigionieri costruivano e tenevano in funzione centrali nucleari, campi addetti alla pesca sulle coste del Pacifico, campi di aziende agricole collettive nella parte meridionale dell'Uzbekistan. Negli archivi del Gulag a Mosca abbondano le fotografie di prigionieri con i loro cammelli.2

Senza dubbio, la gamma di attività produttive svolte all'interno del Gulag era ampia quanto nell'Unione Sovietica in generale. Uno sguardo alla Guida al sistema dei campi di lavoro correzionale nell'URSS, l'elenco più completo dei campi attualmente noto, rivela l'esistenza di campi organizzati intorno a miniere d'oro, cave di carbone, miniere di nichel, cantieri di superstrade e ferrovie, fabbriche di armi, industrie chimiche, impianti siderurgici, centrali elettriche; campi nati per la costruzione di aeroporti, di quartieri residenziali, di impianti di depurazione delle acque, di estrazione della torba, taglio degli alberi e lavorazione del pesce.3 Gli amministratori del Gulag conservavano addirittura un catalogo di fotografie delle merci prodotte dai detenuti. Tra l'altro, vi sono fotografie di miniere, missili e altri armamenti; pezzi di automobili, serrature per le porte, bottoni; tronchi che galleggiano sui fiumi; mobili di legno, sedie, stipi, cabine telefoniche e barili; scarpe, ceste e tessuti (con attaccati i campioni); coperte, cuoio, berretti di pelliccia, cappotti di pelle di montone; coppe, lampade e barattoli di vetro; sapone e candele; persino giocattoli, piccoli carri armati di legno, mulini e conigli meccanici che suonano il tamburo.4

Nei molti campi, e in ciascuno di essi, i lavori erano diversi, anche se in quelli forestali molti detenuti abbattevano soltanto gli alberi. I prigionieri condannati a pene fino a tre anni lavoravano in "colonie di lavoro correzionale", campi a regime attenuato di solito organizzati intorno a una sola fabbrica o destinati a un'unica attività. Invece nei campi più vasti talvolta c'erano diverse industrie: miniere, una fabbrica di mattoni e una centrale elettrica, ma anche cantieri edilizi per la costruzione di edifici residenziali o di strade. In essi rutti i giorni i detenuti scaricavano treni merci, guidavano camion, raccoglievano ortaggi, lavoravano in cucine, ospedali e asili per i bambini. Inoltre, anche se in modo ufficioso, lavoravano come domestici, bambinaie e sarti per i comandanti dei campi, le guardie e le loro mogli.

I prigionieri con condanne lunghe spesso riuscivano a fare diversi lavori, cambiando spesso a seconda della fortuna del momento. Nei quasi vent'anni trascorsi nei campi, Evgenija Ginzburg tagliò alberi, scavò fossati, pulì la residenza degli ospiti del campo, lavò piatti, ac-

Gulag

cudì polli, fece il bucato per le mogli dei comandanti del campo e si occupò dei figli dei detenuti. Alla fine divenne infermiera.5 Negli undici anni trascorsi nei campi, Leonid Sitko, un altro prigioniero politico, fece il saldatore, lo scalpellino in una cava, il muratore in una squadra edilizia, il facchino in uno scalo ferroviario, il minatore in una miniera di carbone e il falegname in una fabbrica di mobili, dove costruiva tavoli e librerie.6

Benché all'interno del sistema dei campi i lavori variassero quanto nel mondo esterno, i lavoratori detenuti in generale si dividevano in due categorie: quelli assegnati agli obscie raboty, i "lavori generali", e i pridurok, termine che si può tradurre con "elementi fidati". Gli appartenenti a questa categoria, come vedremo, di solito erano considerati una casta separata. I lavori generali, svolti dalla stragrande maggioranza dei prigionieri, erano proprio quelli che si possono immaginare: lavori non specializzati, duri, molto pesanti sul piano fisico. "Il primo inverno che trascorsi al campo, quello del 1949-50, fu particolarmente difficile per me" racconta Isaak Fil'stinskij. "Non avevo una professione che potesse essere utile nei campi, ed ero costretto a passare da un posto all'altro, svolgendo lavori generici di vario tipo, e cioè segare, trasportare, tirare, spingere eccetera, in altre parole andare ovunque saltasse in testa di mandarmi all'addetto all'assegnazione delle mansioni."7

A parte quelli che alla prima assegnazione delle mansioni avevano avuto fortuna - di solito gli ingegneri edili o specializzati in altre professioni utili nei campi, oppure quelli che avevano già accettato di fare gli informatori - di norma gli zek, quando avevano portato a termine la settimana o più di quarantena, venivano adibiti ai lavori generali. Inoltre li assegnavano a una squadra, un gruppo composto da un minimo di 4 a un massimo di 400 detenuti che, oltre a lavorare insieme, mangiavano insieme e di solito dormivano nelle stesse baracche. Ogni squadra era diretta da un caposquadra, un prigioniero di fiducia con una posizione elevata, addetto a distribuire i compiti, controllare il lavoro e garantire che la sua squadra realizzasse la norma di produzione.

Le autorità erano consapevoli dell'importanza del caposquadra, che godeva di una posizione sociale a metà strada tra i prigionieri e gli amministratori. Nel 1933, il capo del Dmitlag mandò una direttiva a tutti i suoi subordinati, ricordando loro la necessità di "trovare tra i nostri operai stacanovisti persone capaci, così preziose nel nostro lavoro"; di conseguenza, proseguiva, "il caposquadra è la persona più importante, più significativa nel cantiere edilizio".8

// lavoro 243

Lo scavo di una fossa; disegno di Benjamin Mkrtcjan, Ivdel, 1953. (Associazione Memorial, Mosca)

Agonia di uno "zek"; ritratto di Sergej Rejhenberg, Magadan. (Associazione Memorial, Mosca)

Gulag

Dal punto di vista del singolo prigioniero, il rapporto con il capo, squadra non era soltanto importante, poteva influenzare la qualità della sua vita, anzi determinare se sarebbe vissuto o morto, corne racconta un detenuto:

La vita di una persona dipende molto dalla sua brigata e dal suo caposquadra, dato che si trascorrono giorno e notte in loro compagnia. A lavorare a mensa e in cuccetta, sempre le stesse facce. I membri della brigata possono lavorare tutti insieme, in gruppi o da soli. Possono aiutarti a sopravvivere, o contribuire a distruggerti. O partecipazione e aiuto, o indifferenza e ostilità. Il ruolo del caposquadra non è meno importante. Conta anche chi sia, quali compiti e obblighi ritenga di avere: servire i capi a spese tue e a proprio vantaggio, trattare i membri della sua brigata come esseri inferiori, servi e lacchè, o essere tuo compagno di sfortuna e fare tutto il possibile per facilitare la vita dei membri della brigata.9

In effetti alcuni capisquadra minacciavano e spaventavano i loro lavoratori. Durante la prima giornata trascorsa nelle miniere di Ka-raganda, Alexander Weissberg svenne per la fame e lo sfinimento: "il caposquadra, urlando come un toro impazzito, si voltò nella mia direzione, mi si buttò addosso con tutto il peso del suo corpo possente, mi prese a calci e pugni e alla fine mi assestò sulla testa un colpo tale che caddi per terra, semisvenuto, coperto di lividi e con il sangue che mi colava sulla faccia...".10

In altri casi, il caposquadra consentiva alla sua squadra di operare come un gruppo organizzato di persone di pari livello, insistendo perché i prigionieri lavorassero di più anche se non erano di quell'avviso. Nel romanzo Una giornata di Ivan Denisovic, il protagonista di Solzenicyn a un certo punto fa una riflessione sulla squadra: "E non una squadra come "fuori", dove Ivan Ivanovic prende la sua paga e Petr Ferrovie la sua. Nel campo la squadra è fatta in modo che il capo non abbia bisogno di aizzare i detenuti, ma siano i detenuti ad aizzarsi l'un l'altro. Lì si usa così: o un supplemento di rancio per tutti, o crcpate tutti".11

I compagni di squadra di Vernon Kress, un altro prigioniero della Kolyma, gli inveirono contro e lo picchiarono perché non reggeva i ritmi di lavoro, e alla fine dovette andare in una squadra "debole", i cui membri non ricevevano mai la razione completa.12 Anche a Jurij Zorin capitò di far parte di una squadra di veri stacanovisti, costituita soprattutto da lituani che non tolleravano scansafatiche nel gruppo: "Non può immaginare come lavoravano, con zelo e bene ... se pensavano che lavorassi male, ti gettavano fuori dalla brigata lituana".13

Se ti capitava la sfortuna di finire in una "cattiva" brigata, e non riu-

lì lavoro 245

scjvi a corrompere qualcuno o a trovare un modo per cavartela, rischiavi di morire di fame. M.B. Mindlin, che in seguito è stato tra i fon-Datori dell'Associazione Memorial, una volta nella Kolyma fu inserito in una squadra costituita in larga parte da georgiani e diretta da un caposquadra georgiano. Si rese conto molto in fretta che i membri della squadra avevano paura del loro capo quanto delle guardie, e che inoltre, essendo "l'unico ebreo in una squadra di georgiani", non avrebbe ricevuto certo un trattamento di favore. Un giorno lavorò molto sodo, perché sperava di ottenere la razione massima, un chilo e due erti di pane. Il caposquadra però non volle riconoscergli il lavoro svolto e gliene fece assegnare solo 700 grammi. Mindlin pagò una bustarella e riuscì ad andare in un'altra squadra, dove trovò un'atmosfera del tutto diversa: il nuovo caposquadra si preoccupava davvero per i suoi subalterni, e all'inizio gli concesse persino di svolgere lavori più leggeri, per consentirgli di rimettersi in forze: "Chiunque entrava nella sua squadra si considerava fortunato e si salvava dalla morte". In seguito, divenne caposquadra egli stesso, e si assunse la responsabilità di distribuire le bustarelle, per assicurare a tutti i membri della squadra il migliore trattamento possibile dai cucinieri del campo, dagli addetti al taglio del pane e da altre persone importanti.14

L'atteggiamento del caposquadra era importante perché, nella maggior parte dei casi, i lavori generali dovevano dare risultati efficaci e verificabili. Mentre nei campi tedeschi, secondo un eminente studioso, il lavoro doveva servire soprattutto come strumento "di tortura e di maltrattamento", i prigionieri sovietici erano tenuti a realizzare degli obiettivi previsti dal piano di produzione del campo.15 Certo questa regola aveva delle eccezioni. A volte, dei secondini stupidi o sadici assegnavano davvero ai detenuti compiti inutili. Susanna Pecora ricorda di essere stata incaricata di portare avanti e indietro dei secchi pieni di argilla: "un lavoro del tutto inutile". Uno dei "capi" responsabili del posto in cui lavorava le disse a chiare lettere: "Non so che farmene del tuo lavoro, quello che mi importa è farti soffrire", una frase che negli anni Venti era familiare ai prigionieri delle Solove-ckie.16 Negli anni Quaranta, come vedremo, era ormai nata una rete di campi di punizione, con finalità di carattere non precipuamente economico, ma repressivo. Comunque anche in essi i detenuti dovevano produrre qualcosa.

Nella maggior parte dei casi, comunque, l'obiettivo non era far soffrire i prigionieri, o meglio, per essere più precisi, nessuno si curava se soffrissero o no. Era assai più importante che fossero inseriti nel piano di produzione del campo e che rispettassero la norma di

Gulag

produzione. La norma poteva corrispondere a qualsiasi cosa: nn certo numero di metri cubi di alberi da abbattere, di fossati da sca vare, di carbone da trasportare. E le norme erano considerate tre-mendamente importanti. I campi erano tappezzati di manifesti che esortavano i prigionieri a rispettarle. Tutto l'apparato "educativo-culturale" dei campi era incentrato sullo stesso messaggio. Le mense e lo spiazzo al centro di alcuni campi erano dotati di enormi lavagne, su cui venivano registrate le percentuali della norma realizzate dalle squadre.17

Gli addetti alla definizione delle norme (normirovscik), un compito per cui si riteneva ci volesse grande competenza, le calcolavano con molta cura e con criteri scientifici. Jacques Rossi, per esempio, racconta che per gli addetti alla spalatura della neve le norme variavano a seconda che la neve fosse appena caduta, leggera, un po' ghiacciata o ghiacciata (perché bisognava premere con il piede sulla pala), molto ghiacciata o gelata (perché bisognava lavorare con i picconi). E, in ogni caso, "esisteva una serie di coefficienti per calcolare la distanza, l'altezza della neve spalata e così via".18

Tuttavia, anche se in teoria il procedimento per stabilire le norme di lavoro e per determinare chi le avesse realizzate era scientifico, in realtà difettava per la corruzione, le irregolarità e le incongruenze. Per cominciare, ai prigionieri venivano assegnate norme corrispondenti a quelle dei lavoratori liberi: si supponeva che le portassero a termine allo stesso modo dei tagliaboschi o dei minatori di professione. Ma in linea di massima i detenuti non erano taglialegna o minatori di professione, e spesso non sapevano bene che cosa dovevano fare. E poi, dopo i lunghi soggiorni in prigione e i viaggi tremendi nei vagoni bestiame non riscaldati, non erano nemmeno in condizioni fisiche normali.

Più un prigioniero era inesperto ed esausto, più stava male. Evge-nija Ginzburg da una classica descrizione di due donne, entrambe intellettuali non abituate ai lavori pesanti, entrambe indebolite da anni in prigione, che cercavano di abbattere gli alberi:

Per tre giorni, io e Calia [Gal'ja] cercammo di fare l'impossibile. Povere piante! Quanto dovevano soffrire cadendo sotto i nostri colpi maldestri! Come potevamo noi, inesperte e sfinite, abbattere una pianta? L'accetta falliva schizzandoci in faccia piccole schegge. Segavamo convulsamente, senza ritmo, dentro di noi incolpandoci a vicenda di incapacità sebbene non ci muovessimo apertamente nessun rimprovero, consapevoli che litigare era un lusso che non potevamo permetterci. La sega si inceppava continuamente. Ma il momento peggiore veniva quando la pianta, così tagliuzzata, fina!" mente si apprestava a cadere e noi non riuscivamo a capire da che parte si

Il lavoro 247

rebbe inclinata. Una volta Calia ricevette un tremendo colpo in testa, ma ['infermiere di turno si rifiutò perfino di medicare la ferita con tintura d'io-ij0- "È un vecchio trucco! Voleva farsi esonerare al primo giorno!".

Alla fine della giornata, il caposquadra dichiarò che Evgenija e Galla avevano realizzato il diciotto per cento della norma, e le "retribuì" per la l°ro modesta prestazione: "Poiché il tozzo di pane che ricevevamo "in proporzione alla produzione" era minuscolo, durante la marcia nel bosco per raggiungere il posto di lavoro, cadevamo sfinite dalla debolezza". Nel frattempo, il caposquadra continuava a ripetere che "non intendeva dare pane del popolo in pasto a controrivoluzio-nari e sabotatori che non raggiungevano la norma produttiva".19

Nei campi dell'estremo nord, soprattutto in quelli della Kolyma e delle regioni di Vorkuta e Noril'sk, tutti al di sopra del Circolo polare artico, il clima e il terreno aumentavano le difficoltà. In quelle regioni artiche, contrariamente a quanto di solito si crede, l'estate spesso era insopportabile quanto l'inverno. Persine là, le temperature possono salire oltre i trenta gradi centigradi. Quando la neve si scioglie, la superficie della tundra diventa fangosa, quindi camminare risulta difficile, e le zanzare si spostano in nugoli grigi, con un brusio tale che è impossibile udire qualsiasi altra cosa. Un prigioniero racconta:

Le zanzare si insinuavano nelle maniche, dentro i pantaloni. Avevamo la faccia gonfia per le punture. Sul luogo di lavoro ci portavano il pranzo e, mentre mangiavi, la zuppa a volte le zanzare riempivano la ciotola, come semolino di grano saraceno. Ti sciamavano negli occhi, nel naso e in gola, e avevano un sapore dolciastro, come il sangue. Più ti agitavi e le scacciavi, più ti attaccavano. Il sistema migliore era di ignorarle, di vestirti più leggero e invece di un cappello con la zanzariera di portare un serto d'erba o di corteccia di betulla.20

Gli inverni, naturalmente, erano molto, molto freddi. Le temperature potevano scendere a 30, 40 o 50 gradi sotto zero. Memorialisti, poeti e romanzieri hanno fatto ogni sforzo per descrivere che sensazione si provava a lavorare con un gelo simile. Uno racconta di un freddo tale che "un semplice movimento improvviso di una mano nell'aria provocava un forte sibilo".21 Un altro dice che la mattina di Natale si svegliò e scoprì di non riuscire a muovere la testa:

Al risveglio, il mio primo pensiero fu che in qualche modo il pezzo di stoffa che prima di andare a dormire mi ero avvolto intorno alla testa e alle orecchie sì fosse impigliato nelle assi della cuccetta, ma quando cercai di mettermi a sedere, mi si staccò dalla testa. Sollevandomi su un gomito, tirai con forza la stoffa e mi resi conto che era congelata sul tavolaccio. Il mio fiato e quello degli aomini nella capanna restava sospeso nell'aria come fumo.22

Gulag

Un altro spiega: "Era pericoloso smettere di muoversi. Durante la conta saltavamo, facevamo delle corsette e ci davamo delle pacche addosso per tenerci caldi. Mi massaggiavo di continuo le dita dei piedi e aprivo e chiudevo le mani ... se si toccava uno strumento di metallo con la mano nuda, la pelle a volte si lacerava, e andare in bagno era molto rischioso. Un attacco di diarrea poteva lasciarti nella neve per sempre". Quindi, alcuni detenuti se la facevano nei calzoni: "Lavorare accanto a loro era molto sgradevole, ma quando poi si tornava all'accampamento e la temperatura si alzava un po', il fetore diventava ancora più insopportabile. Quelli che si facevano i bisogni addosso venivano spesso picchiati e buttati fuori".23

Dal punto di vista climatico, alcuni lavori generali erano peggiori di altri. Nelle miniere di carbone dell'Artico, ricorda un detenuto, l'aria sottoterra era più tiepida, ma sui minatori gocciolava di continuo acqua ghiacciata: "II minatore diventa una specie di gigantesco ghiacciolo, il suo organismo comincia a gelarsi per un periodo lungo e costante. Dopo tre o quattro mesi di quel lavoro infernale, i prigionieri cominciano ad ammalarsi in massa .. .".24

Isaak Fil'stinskij fu anche addetto a uno dei lavori invernali più spiacevoli del Kargopol'lag: scegliere i tronchi da lavorare. Significava stare a bagno tutto il giorno, e anche se l'acqua era calda - veniva pompata dall'impianto elettrico -, l'aria non lo era:

In inverno, nella regione di Arcangelo l'aria si manteneva a una temperatura costante di quaranta-quarantacinque gradi sotto zero, quindi sulla vasca per la selezione c'era sempre una fitta nebbia. Era molto umido e molto freddo allo stesso tempo ... il lavoro non era molto difficile, ma dopo mezz'ora-quaranta minuti avevi il corpo tutto intriso e avvolto dall'umidità, il mento, le labbra e le ciglia coperti di brina, e il gelo ti era penetrato dentro le ossa, attraverso i patetici indumenti del campo.25

D'inverno il lavoro peggiore era quello nelle foreste. Infatti, oltre a essere fredda, la taigà era spazzata periodicamente da violente, improvvise bufere di neve, chiamate buran o purga. Dmitrij Bystroletov, un prigioniero del Siblag, vi si trovò in mezzo:

In quel momento il vento cominciò a ululare in modo selvaggio e spaventoso, costringendoci a buttarci a terra. La neve mulinava nell'aria, e tutto scomparve: le luci del campo, le stelle, l'aurora boreale, e restammo soli in una nebbia bianca. Cercammo il più in fretta possibile di trovare la via di ritorno allargando le braccia, scivolando e incespicando goffamente, cadendo e sollevandoci l'un l'altro. D'un tratto un tuono ci esplose sulla testa. Riuscii a malapena ad aggrapparmi al mio compagno, quando una pioggia violenta di ghiaccio, neve e sassi cominciò a riversarsi sulle nostre facce. Il vortice di neve rendeva impossibile respirare, impossibile vederci.. .26

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Anche Janusz Bardach venne sorpreso da un buran, mentre lavorava in una cava nella Kolyma. Insieme alla scorta, lui e gli altri prigionieri ritornarono al campo seguendo i cani da guardia, legati uno all'altro con la corda:

Non riuscivo a vedere niente dietro alla schiena di Jurij, e mi aggrappavo alla corda come se fosse un salvagente ... I punti di riferimento conosciuti erano scomparsi, e non avevo idea della distanza che dovevamo percorrere ed ero certo che non saremmo mai potuti tornare indietro. Inciampai con il piede su qualcosa di morbido, un detenuto che aveva lasciato andare la corda. "Alt!" gridai. Ma non ci fermammo. Nessuno sentiva la mia voce. Mi abbassai e tirai il suo braccio verso la corda. "Qui!". Cercai di tenergli la mano sulla corda. "Aspetta!" Non serviva. Quando gli lasciai il braccio, ricadde a terra. Il duro comando di Jurij di andare avanti mi spinse a proseguire ...

Quando la squadra di Bardach ritornò al campo, mancavano tre detenuti. Di solito, "i corpi dei prigionieri dispersi non venivano ritrovati fino alla primavera successiva, magari a soli cento metri dal comprensorio [la zona]".27

Il vestiario regolamentare distribuito ai prigionieri li proteggeva poco dalle intemperie. Nel 1943, per esempio, l'amministrazione centrale del Gulag ordinò di dare ai prigionieri, tra l'altro, una camicia estiva (che doveva durare due stagioni), un paio di pantaloni estivi (che dovevano durare due stagioni), una giacca invernale di cotone imbottito (che doveva durare due anni), pantaloni invernali imbottiti (che dovevano durare diciotto mesi), stivali di feltro (che dovevano durare due anni) e biancheria intima per nove mesi.28 In pratica, nemmeno questi miseri indumenti arrivavano mai in quantità adeguata. Da un'ispezione effettuata in ventitré campi nel 1948 risultò che le scorte di "abiti, biancheria e scarpe" erano insufficienti. Non si trattava di una valutazione pessimistica. Nel campo di Krasnojarsk, meno della metà dei prigionieri aveva le scarpe. A Nò-rii' sk, nell'estremo nord, solo il 75 per cento disponeva di stivali caldi, e appena l'86 per cento di indumenti pesanti. A Vorkuta, pure nell'estremo nord, solo il 25-30 per cento dei detenuti aveva biancheria intima, e solo il 48 per cento stivali caldi.29

I prigionieri supplivano con mezzi improvvisati alla mancanza di calzature: se le facevano con corteccia di betulla, pezzi di tessuto, Pneumatici vecchi. Nella migliore delle ipotesi, queste strane creazioni erano rozze e scomode per camminare, soprattutto nella neve alta. Nel peggiore dei casi, lasciavano passare l'acqua, il che significava congelamento assicurato.30 Elinor Lipper descrive le calzature fatte in casa, che nel suo campo venivano chiamate ce-te-ze, ab-

II

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breviazione di Òeljabinskij Traktornyj Zavod, la fabbrica di trattori H-Celjabinsk:

Erano fatte di tela di sacco leggermente imbottita e trapuntata con gambali alti e larghi che arrivavano al ginocchio, e con il piede rinforzato al tallone e in punta con tela cerata o similpelle. La suola era costituita di tre sezioni incrociate di gomma ricavata da pneumatici di automobile usati. L'insieme si legava sui piedi e sotto il ginocchio con dei lacci, in modo che la neve non passasse ... dopo averle usate per un giorno, però, si deformavano e le suole molli si spampanavano. Assorbivano l'umidità a una velocità incredibile, soprattutto quando erano fatte con sacchi che erano serviti per contenere il sale.. .31

Un altro detenuto descrive calzature improvvisate dello stesso genere: "Erano aperte sui lati, quindi di fianco le dita dei piedi restavano scoperte. Non si riusciva a fissare per bene le pezze ai piedi, perciò le dita rimanevano esposte al gelo". Portando quelle scarpe, in effetti, si congelò i piedi e, a suo parere, fu proprio questo a salvargli la vita, perché non poteva più lavorare.32

I prigionieri avevano svariate teorie sui sistemi per ovviare al freddo. Per riprendersi dal gelo alla fine della giornata, per esempio, alcuni dopo il lavoro correvano nelle baracche e si affollavano intorno alla stufa, così vicino che a volte i loro vestiti prendevano fuoco: "Si diffondeva un odore disgustoso di stracci bruciati che faceva pizzicare le narici".33 Altri lo ritenevano un comportamento imprudente. Alcuni detenuti più esperti dissero a Isaak Fil'stinskij che affollarsi intorno alla stufa o al fuoco del campo era pericoloso, perché il repentino sbalzo di temperatura provocava la polmonite: "L'organismo umano è fatto in modo tale che per quanto freddo ci sia il corpo si adatta e si abitua. Nel campo io seguii sempre questo saggio principio e non presi mai nemmeno un raffreddore".34

Era previsto che i dirigenti dei campi, quando il clima era particolarmente rigido, facessero qualche concessione. In base alle norme, i detenuti di alcuni campi settentrionali avevano diritto a razioni supplementari. Tuttavia, a quanto risulta dalla documentazione relativa al 1944, potevano ammontare a 50 grammi di pane al giorno in più, pochi morsi, una quantità insufficiente a compensare il freddo estremo.35 In teoria, quando faceva troppo freddo, o quando minacciava di scoppiare una tempesta, i prigionieri non dovevano lavorare. Vladimir Petrov sostiene che nella Kolyma, sotto il regime di Berzin, i detenuti smettevano di lavorare quando la temperatura raggiungeva i 50 gradi sotto zero. Nell'inverno del 1938-39, dopo la destituzione di Berzin, la temperatura doveva scendere a 60 gradi sotto zero perché il lavoro venisse interrotto. E nemmeno questa regola veniva

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pjnpre rispettata, afferma Petrov, poiché nel giacimento d'oro l'uni-

0 in possesso di un termometro era il comandante del campo. Quindi "nell'inverno del 1938-39 solo per tre giorni fu concessa va-

nza dal lavoro per le basse temperature, contro i quindici dell'in-verno del 1937-38".3o

Un altro memorialista, Kazimierz Zarod, racconta che nel suo camp0 di prigionia, durante la Seconda guerra mondiale, il lavoro si interrompeva a una temperatura di 49 gradi sotto zero, e ricorda che una volta alla sua squadra addetta al taglio degli alberi fu ordinato di tornare al campo durante il giorno, poiché il termometro aveva raggiunto i -53: "Raccogliemmo l'attrezzatura in tutta fretta, ci mettemmo in colonna e riprendemmo la strada di ritorno al campo".37 Bardach ricorda che, negli anni della guerra, nella Kolyma la regola era -50 gradi, "mentre il vento, per quanto gelato, non veniva mai preso in considerazione".38

Tuttavia, le condizioni climatiche non costituivano l'unico ostacolo alla realizzazione della norma. In molti campi le norme erano davvero troppo alte. In parte si trattava di una conseguenza collaterale della logica della pianificazione centrale sovietica, secondo cui la produttività delle imprese doveva aumentare ogni anno. Ekateri-na Olickaja ricorda che le sue compagne della fabbrica di confezioni facevano ogni sforzo per realizzare la norma, perché desideravano conservarsi quel lavoro, al caldo e al coperto. E dato che ci riuscivano, l'amministrazione continuava ad aumentarla, per cui diventò irrealizzabile.39

Le norme continuavano a innalzarsi, anche perché sia i detenuti sia gli addetti alla loro definizione mentivano, sovrastimando la produzione realizzata e quella da realizzare. Sicché capitava che, con il passar del tempo, le norme raggiungessero livelli astronomici. Alexander Weissberg racconta che persino nei lavori considerati più facili c'erano norme incredibili: "Ciascuno si trovava di fronte un compito in apparenza impossibile. I due addetti alla lavanderia dovevano lavare i vestiti di 800 persone in dieci giorni".40

Inoltre, superare le norme previste non produceva sempre i vantaggi sperati. Antoni Ekart ricorda un incidente: il ghiaccio sul fiume accanto al suo campo si ruppe, e c'era il rischio di un allagamento: "Diverse squadre costituite dai detenuti più forti, compresi tutti gli stacanovisti", lavorarono come pazzi per due giorni, in pratica senza una pausa. In premio ricevettero mezza aringa ciascuno e un quarto di pacchetto di mahorka [tabacco grossolano]".41

In tali condizioni - lunghe giornate di lavoro, rari giorni liberi e

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poco riposo durante il lavoro - gli incidenti erano molto frequenti All'inizio degli anni Cinquanta, ordinarono a un gruppo di detenute inesperte di soffocare un incendio nella boscaglia vicino all'Ozerlag Una di esse ricorda che in quell'occasione "diverse persone morirono bruciate".42 Lo sfinimento e il clima spesso si rivelavano una combinazione letale, come testimonia Alexander Dolgun:

Era freddo, le dita intorpidite non riuscivano a reggere manici e leve, tronchi e casse, e accadevano molti incidenti, spesso fatali. Un uomo rimase schiacciato mentre faceva rotolare dei tronchi giù da un carro piatto usandone altri due come rampa. Rimase sepolto sotto una ventina di tronchi o più che rotolarono giù tutti insieme, e lui non fu abbastanza svelto. Le guardie spinsero il cadavere fuori dalla strada, e quando scese la sera la massa sanguinolenta e irrigidita era lì ad aspettarci perché la portassimo a casa.43

A Mosca tenevano statistiche sugli incidenti, che a volte provocavano nervosi scambi epistolari tra gli ispettori e i comandanti dei campi. Secondo quella compilata per il 1945, solo nelle miniere di carbone di Vorkuta si verificarono 7124 incidenti, in 482 dei quali vi furono feriti gravi e in 137 dei morti. Gli ispettori imputarono la colpa alla penuria di lampade per minatori, ai guasti elettrici e all'inesperienza degli operai che venivano sostituiti di frequente. Calcolarono indignati che le giornate lavorative perse a causa degli incidenti erano state 61.492.44

Il lavoro era intralciato anche dalla pessima organizzazione e trascuratezza nella gestione. Bisogna riconoscere che in generale la cattiva gestione riguardava tutte le normali attività in Unione Sovietica, ma la situazione era ancora peggiore all'interno del Gulag, dove non si dava grande importanza alla vita e alla salute dei lavoratori, e i pezzi di ricambio stentavano ad arrivare a causa del clima e delle immense distanze. Il caos regnava nel Gulag sin dai tempi del canale del mar Bianco, e continuò per tutti gli anni Cinquanta, sebbene ci fossero assai più attività meccanizzate. Per chi lavorava nelle foreste "non c'erano seghe a catena, trattori per il trasporto dei tronchi, né elevatori meccanici".45 Chi era impiegato nelle fabbriche tessili riceveva "attrezzi insufficienti o inadeguati". Perciò, secondo un detenuto, "tutte le cuciture dovevano essere pressate con un grosso ferro che pesava due chili. Durante il turno un operaio doveva stirare 426 paia di pantaloni, gli si intorpidiva la mano per il peso, le gambe si gonfiavano e gli facevano male".46

Inoltre, i macchinari si guastavano in continuazione, un fattore di cui non sempre si teneva conto nel calcolare le norme. Nella stessa fabbrica tessile, "i tecnici venivano chiamati di continuo. Erano per

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la maggi°r parte detenute. Le riparazioni duravano ore, perché le donne non erano esperte. Diventava impossibile raggiungere il livello di produzione obbligatorio, perciò non ci davano il pane".47

Negli annali dell'amministrazione del Gulag il tema dei macchinali rotti e dei tecnici inesperti ricorre di continuo. I dirigenti regionali dei campi che nel 1934 parteciparono alla Conferenza di Partito dell'Estremo Oriente a Habarovsk si lamentavano per le continue disfunzioni delle attrezzature fornite e per la scarsa preparazione dei tecnici, a causa delle quali non riuscivano a realizzare le norme relative alla produzione dell'oro.48 Una lettera del 1938, inviata al sottosegretario dell'Interno responsabile del Gulag, denunciava: "I trattori sono rotti nel 40-45 per cento dei casi". Ma spesso non funzionavano nemmeno i metodi di lavoro più primitivi. Una lettera dell'anno precedente sottolineava che il 25 per cento dei 36.491 cavalli utilizzati dal Gulag non era in condizione di lavorare.49

Inoltre, le industrie del Gulag risentivano molto della carenza di ingegneri e di amministratori. Nei progetti del sistema pochi tecnici specializzati lavoravano di propria volontà, e chi si offriva volontario spesso non aveva le competenze richieste. Nel corso degli anni si cercò in ogni modo di attirare nei campi lavoratori liberi, con l'offerta di fortissimi incentivi. Già verso la metà degli anni Trenta, nel paese svolgevano attività di propaganda numerosi reclutatori del Dal'stroj, che offrivano privilegi speciali a chiunque firmasse un contratto di due anni. Esso prevedeva per i primi due anni stipendi più alti del 20 per cento rispetto alla media sovietica, e un ulteriore 10 per cento negli anni seguenti, con vacanze retribuite, la possibilità di accedere a prodotti alimentari e articoli speciali, e una generosa pensione.50

La stampa sovietica parlava con grande entusiasmo e ostentazione dei campi dell'estremo nord. Un esempio di questo tipo di propaganda uscì in inglese, sul periodico "Sovietland", destinato agli stranieri. In un articolo dell'aprile 1939 dedicato a Magadan, un classico nel suo genere, la rivista parlava con entusiasmo del magico fascino della città:

Magadan di notte è un mare di luce, uno spettacolo straordinario e affascinante. È una città viva e piena di movimento a ogni ora del giorno e della notte. Vi abitano persone la cui esistenza è regolata da un rigido programma di lavoro. La precisione e la prontezza diventano velocità, e la velocità diventa lavoro facile e allegro.. .51

Nemmeno un cenno al fatto che la maggioranza di coloro la cui vita era "regolata da un rigido programma di lavoro" erano detenuti. Comunque non aveva importanza: gli sforzi per attrarre esperti di

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valore fallirono, sicché il Gulag dovette continuare a basarsi sui detenuti che ci capitavano per caso. Un prigioniero racconta che la sua squadra edilizia fu inviata a 600 chilometri a nord di Magadan per costruire un ponte. Quando arrivarono, si resero conto che nella squadra nessuno in precedenza aveva mai partecipato alla costruzione di un ponte. Un ingegnere detenuto fu incaricato di preparare il progetto, anche se non era specializzato in quel settore. Fecero quanto richiesto, ma il ponte fu spazzato via alla prima inondazione.52

In ogni caso, si trattò di un disastro di secondaria importanza, rispetto ad alcuni altri. Interi progetti del Gulag, in cui erano impegnate migliaia di persone ed enormi risorse, risultavano disastrasi e mal concepiti in modo eclatante. Forse il più famoso fu il tentativo di costruire una linea ferroviaria tra la regione di Vorkuta e la foce del fiume Ob', sul mar Glaciale artico. Il governo sovietico decise di realizzare il progetto nell'aprile 1947. Un mese dopo, cominciarono in contemporanea le perlustrazioni del terreno, le perizie e la costruzione. Inoltre i detenuti avviarono l'edificazione di un nuovo porto a capo Kamennyj, dove il fiume Ob' sfocia nel mare.

Come sempre, insorsero delle complicazioni: mancavano i trattori, quindi i prigionieri al loro posto utilizzavano vecchi carri armati. Per compensare la mancanza di macchinari i progettisti facevano lavorare troppo i prigionieri. La normale giornata lavorativa era di undici ore, e nelle lunghe giornate estive persino i lavoratori liberi a volte rimanevano in attività dalle nove del mattino fino a mezzanotte. Alla fine dell'anno, le complicazioni diventarono più serie. L'equipe dei periti aveva stabilito che capo Kamennyj non andava bene per il porto: l'acqua non era abbastanza profonda per le grandi navi, e il terreno si era dimostrato troppo instabile per l'industria pesante. Nel gennaio 1949, Stalin convocò una riunione a mezzanotte, durante la quale i dirigenti sovietici decisero di cambiare località e progetto ferroviario: la linea non doveva più dirigersi a ovest, per collegare l'Ob' con la regione di Vorkuta, ma a est, per raggiungere lo Enisej. Sorsero due nuovi campi, i cantieri edilizi n. 501 e n. 503. Cominciarono a posare i binari contemporaneamente. L'idea era di incontrarsi a metà strada. Distavano 1300 chilometri uno dall'altro.

I lavori proseguirono. Secondo una fonte, nel momento di massima attività lavoravano alla ferrovia 80.000 persone, secondo un'altra 120.000. Il progetto divenne noto come "la linea della morte". Risultò che era quasi impossibile costruire nella tundra artica. In estate, quando il terreno che d'inverno era sempre gelato si tramutava rapidamente in fango, bisognava controllare di continuo che i binari

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non si piegassero o sprofondassero. Ciononostante, i vagoni deragliavano spesso. Date le difficoltà con cui arrivava il materiale, per costruire la ferrovia i detenuti cominciarono a utilizzare il legno anziché l'acciaio, e questa decisione determinò il fallimento del proget-to. Nel 1953, quando Stalin morì, a un'estremità avevano steso 500 chilometri di binari, all'altra 200. Il porto esisteva solo sulla carta, poche settimane dopo il funerale di Stalin l'intero progetto, che era costato 40 miliardi di rubli e decine di migliaia di vite umane, fu definitivamente abbandonato.53

Episodi analoghi, per quanto su scala minore, avvenivano ogni giorno in tutto il Gulag. Nonostante il freddo, l'inesperienza e la cattiva gestione, la pressione sugli amministratori dei campi non si allentava mai, né tantomeno quella sui prigionieri. I dirigenti erano sottoposti a continue ispezioni e a programmi di verifica, e spronati incessantemente a migliorare. Contavano i risultati, anche se fittizi. Sebbene ai detenuti, pienamente consapevoli della cattiva qualità dei lavori eseguiti, potesse apparire ridicolo, in realtà si trattava di un gioco di una serietà mortale. In esso furono in molti a non sopravvivere.

KVC: la Sezione educativo-culturale

Se le fotografie del Bogoslovlag, datate 1945 e conservate con cura in un album, non avessero la segnatura degli archivi dell'NKVD, si potrebbe scusare un osservatore occasionale che non si fosse accorto che ritraggono un campo di prigionia. Nelle immagini ci sono giardini ben curati, fiori, cespugli, una fontana e un gazebo in cui i prigionieri potevano sedersi e riposare. L'ingresso del campo è contrassegnato da una stella rossa e uno slogan: CON TUTTE LE NOSTRE FORZE PER LA POTENZA FUTURA DELLA PATRIA! Anche i ritratti di detenuti che ador-nano un altro album, archiviato lì accanto, sono difficili da conciliare con l'immagine corrente dei prigionieri del Gulag. Si vedono un uomo allegro con una zucca in mano; mucche che tirano un aratro; il comandante di un campo sorridente mentre coglie una mela. Accanto alle foto ci sono dei grafici. Uno indica la produzione prevista per il campo, l'altro l'attuazione del piano.54

Tutti gli album, confezionati, incollati e classificati quasi con la diligenza di scolaretti che realizzano un progetto di classe, erano prodotti dalla stessa istituzione: la Kul'turno-Vospitatel'naja Òasi' del Gulag, cioè la Sezione educativo-culturale, o KVC, come la chiamavano di solito i detenuti. La KVC, o l'istituzione equivalente, esisteva sin dalle origini del Gulag. Nel 1924 sulla prima edizione di "SLON", il giornale

Gulag

delle Soloveckie, comparve un articolo sul futuro delle carceri in Russia: "La politica di lavoro correzionale russa deve rieducare i prigionieri abituandoli a partecipare al lavoro produttivo organizzato"^

Quasi sempre, però, il vero obiettivo della propaganda del campo era di far aumentare le cifre relative alla produzione. Accadde anche durante la costruzione del canale del mar Bianco, il periodo in cui, come abbiamo visto, la propaganda sulla rieducazione era più squillante e forse più sincera. A quell'epoca, il culto nazionale dei lavoratori d'assalto era all'apice. I pittori del campo ritraevano i migliori lavoratori del canale, attori e musicisti detenuti organizzavano in loro onore concerti straordinari. Gli stacanovisti venivano persino invitati ad assemblee oceaniche, in cui si intonavano canzoni e si leggevano discorsi. A una riunione del genere, tenutasi il 21 aprile 1933, seguirono due giorni di "lavoro d'assalto": i 30.000 stacanovisti continuarono a lavorare per quarantotto ore filate.56

Questo genere di attività fu abbandonato senza cerimonie nella seconda metà degli anni Trenta, quando i prigionieri diventarono "nemici" e non potevano più essere definiti "stacanovisti". Ma nel 1939, quando Berija assunse la direzione dei campi, a poco a poco la propaganda riprese. Sebbene nessun "successo" di qualche progetto del Gulag venisse più strombazzato in tutto il mondo com'era accaduto per il canale del mar Bianco, nei campi ricomparve il linguaggio della rieducazione. Negli anni Quaranta, in teoria la KVC di ogni campo aveva almeno un istruttore, una piccola biblioteca e un "circolo", dove si allestivano spettacoli teatrali e concerti, si organizzavano conferenze politiche e si svolgevano dibattiti. Thomas Sgovio ne descrive uno: "La sala principale, con posti a sedere per una trentina di persone, aveva le pareti di legno, dipinte a colori vivaci, e alcuni tavolini, presumibilmente destinati alla lettura. Ma non c'erano libri, giornali o riviste. Perché? I giornali erano preziosi come l'oro. Li usavamo per le sigarette".57

A partire dagli anni Trenta, i principali "clienti" della KVC si supponeva fossero i detenuti comuni. Proprio come non era chiaro se si dovesse consentire ai politici di svolgere mansioni da specialisti, non si sapeva nemmeno se valesse la pena di sprecare del tempo per cercare di rieducarli. Una direttiva emanata dall'NKVD nel 1940 riguardo all'attività cultural-educativa nei campi dichiarava a chiare lettere che i colpevoli di reati controrivoluzionari non rappresentavano un obiettivo adeguato per la rieducazione. Durante gli spettacoli teatrali erano autorizzati a suonare strumenti musicali, ma non a parlare o a cantare.58

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Tuttavia, come spesso accadeva, il più delle volte gli ordini venivano ignorati. E, come spesso accadeva, la vera funzione delle KVC nella vita del campo differiva da come l'avevano intesa i massimi dirigenti del Gulag a Mosca. Se nella capitale si sperava che le KVC inducessero i detenuti a lavorare di più, questi ultimi li sfruttavano invece per i loro scopi: per sostegno morale e per la sopravvivenza.

A giudicare dalle apparenze, nei campi gli istruttori cultural-edu-cativi cercavano davvero di insegnare il valore del lavoro ai prigionieri, proprio come facevano i funzionari del Partito comunista nel mondo esterno alla zona. Nei campi più grandi, le KVC pubblicavano dei giornali. Talvolta erano veri e propri quotidiani, con cronache e lunghi articoli sui successi del campo, pezzi di "autocritica", cioè commenti su quello che non funzionava, tipici di tutta la stampa sovietica. A parte un breve periodo all'inizio degli anni Trenta, tali giornali erano destinati soprattutto ai lavoratori liberi e agli amministratori.59

Per i prigionieri, c'erano anche i "giornali murali", concepiti non per la distribuzione (dopo tutto la carta scarseggiava) ma per essere esposti in bacheche apposite. Un detenuto sostiene che i giornali murali erano "una caratteristica dello stile di vita sovietico, nessuno li leggeva mai, ma uscivano regolarmente". Spesso avevano la "rubrica umoristica": "Ovviamente, pensavano che i lavoratori affamati a-vrebbero letto gli articoli della rubrica e, dopo essersi spanciati dalle risate, avrebbero coperto di infamia i lavativi scansafatiche che non volevano ripagare con un onesto lavoro il loro debito alla patria".60

Per quanto molti li considerassero una buffonata, l'amministrazione centrale del Gulag di Mosca prendeva oltremodo sul serio i giornali murali. Secondo una direttiva, dovevano "riportare gli esempi di lavoro più edificanti, rendere popolari i lavoratori d'assalto e denigrare gli scansafatiche". Non era consentito pubblicare nessun ritratto di Stalin: in fondo si trattava di criminali, non di "compagni", individui ancora esclusi dalla vita sovietica, che non erano autorizzati nemmeno ad alzare lo sguardo sul loro leader. L'atmosfera di segretezza spesso assurda creatasi nei campi nel 1937 continuò a regnare per tutti gli anni Quaranta: i giornali pubblicati all'interno del Gulag non potevano essere portati fuori.61

Oltre a pubblicare i giornali murali, le KVC proiettavano anche dei film. Gustaw Herling vide un musical americano, "pieno di donne con corpetti attillati, uomini in abiti da sera e cravatte di gala svolazzanti", e un film di propaganda che si concludeva con "il trionfo della giustizia": "L'inesperto studente riusciva primo nella gara socialista di lavoro e, con occhi sfavillanti, pronunziava un discorso

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che glorificava lo Stato dove il lavoro manuale era stato innalzato al massimo posto d'onore".62

Intanto, alcuni criminali comuni approfittavano delle sale buie dove si proiettavano i film per compiere vendette e omicidi. "Ricordo che alla fine di una proiezione vidi il corpo di un morto portato via in barella" racconta un detenuto.63

Le KVC organizzavano anche partite di calcio, gare di scacchi, concerti e spettacoli definiti pomposamente "attività creative di autoformazione". Un documento di archivio elenca il seguente repertorio di una compagnia di canto e danza dell'NKVD, in tournée per i campi:

1. La ballata di Stalin

2. La meditazione dei cosacchi su Stalin

3. La canzone di Berij'a

4. Inno della Patria

5. La lotta per la Patria

6. Tutto per la Patria

7. La canzone dei combattenti dell'NKVD

8. La canzone dei cekisti

9. La canzone di un lontano posto di frontiera 10. La marcia delle guardie di confine.6^

C'erano anche alcuni numeri più leggeri come "Fumiamo" e "La canzone del Dnepr", che almeno inneggiava a un fiume e non a un'istituzione della polizia segreta. Il repertorio teatrale comprendeva anche alcuni drammi di Cehov. Ciononostante, la maggioranza delle opere artistiche era destinata, almeno in teoria, allo sviluppo culturale dei prigionieri, non al loro divertimento. Un'ordinanza diramata da Mosca nel 1940 affermava: "Gli spettacoli devono servire a educare i detenuti, sviluppando in loro la coscienza nel lavoro".65 Come vedremo, i prigionieri impararono anche a sfruttare gli spettacoli per la propria sopravvivenza.

Tuttavia, la Sezione educativo-culturale non si limitava aH'"attività creativa di autoformazione", che non era l'unico strumento per alleviare il carico del lavoro. La KVC doveva anche raccogliere suggerimenti su come migliorare o "razionalizzare" l'attività dei prigionieri e considerava questo compito di vitale importanza. Nel rapporto semestrale a Mosca da un campo di Nizne-Amursk si dichiarava in tutta serietà di aver raccolto proposte per 302 razionalizzazioni, 157 delle quali erano state realizzate con un risparmio di 812.332 rubli.66

Isaak Fil'stinskij osserva anche, con grande ironia, che alcuni detenuti si dedicarono a volgere l'iniziativa a proprio vantaggio. Uno, un ex autista, affermò di poter costruire un congegno che avrebbe con-

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sentito alle automobili di andare a ossigeno. Esaltati dalla prospettiva di questa "razionalizzazione" oltremodo importante, i dirigenti del carnpo gli assegnarono un laboratorio perché potesse sviluppare l'idea: "Non so se gli credevano o no. Si limitavano a seguire le istruzioni del Gulag. In ogni campo dovevano esserci persone addette alle razionalizzazioni e alle invenzioni ... e, chi lo sa, magari Vdovin a-vrebbe scoperto qualcosa, e loro si sarebbero aggiudicati il premio Stalin!"- Alla fine il bluff di Vdovin fu svelato, quando un giorno tornò dal laboratorio con una gigantesca struttura costruita con rottami metallici, di cui non riuscì a spiegare lo scopo.67

Nei campi, come nel mondo esterno, continuavano a svolgersi le "competizioni socialiste", gare di lavoro in cui i detenuti si misuravano su chi riusciva a produrre di più. Inoltre festeggiavano i lavoratori d'assalto per la loro presunta capacità di triplicare e quadruplicare le norme. Nel IV capitolo ho descritto le prime campagne di questo genere, che cominciarono negli anni Trenta, ma continuarono anche nel decennio successivo, con assai meno entusiasmo ed esagerazioni ancora più assurde. I partecipanti potevano vincere svariati premi. Alcuni si aggiudicavano razioni maggiori o un miglioramento delle condizioni di vita. Altri ricevevano benefici meno concreti. Nel 1942, per esempio, il premio per un buon risultato poteva essere una knizka otlicnika, un certificato che attestava lo status di lavoratore "eccellente". Era dotato di un calendarietto, con uno spazio per annotare le percentuali quotidiane di adempimento delle norme, una parte vuota per i progetti di "razionalizzazione", un elenco dei diritti del possessore del certificato (avere il posto migliore nelle baracche, le migliori uniformi, il diritto illimitato a ricevere pacchi ecc.) e una citazione di Stalin: "II lavoratore operoso si sente un libero cittadino del suo paese, una sorta di attivista sociale. E se lavora sodo, e da alla società tutto ciò che può dare, è un eroe del lavoro".68

Non tutti prendevano molto sul serio questo tipo di premi. Antoni Ekart, un prigioniero polacco, descrive una campagna del lavoro:

Fu montato un albo d'onore di compensato su cui venivano trascritti i risultati delle competizioni del lavoro socialista appena annunciati. Talvolta vi appariva un rozzo ritratto del lavoratore "d'assalto" primo classificato e si riportavano i dati dei record conseguiti. Cifre quasi incredibili, attestanti una produzione cinque o addirittura dieci volte superiore a quella prevista. Si riferivano allo scavo di fossati con la vanga. Anche il detenuto più incolto capiva che era impossibile scavare cinque o dieci volte più della norma...69

Tuttavia, il compito fondamentale degli istruttori della KVC consisteva nel convincere i "renitenti" che lavorare era nel loro interesse,

Gulag

piuttosto che restare rinchiusi nelle celle di punizione, o cercare di tirare avanti con le razioni ridotte. Come logico, non erano in molti a prendere sul serio le loro prediche: esistevano troppi altri sistemi per persuadere i detenuti a lavorare. E comunque alcuni si convincevano, con somma gioia dei dirigenti moscoviti del Gulag, che in realtà credevano molto nell'istituzione e indicevano riunioni periodiche degli istruttori della KVC per discutere questioni del tipo: "Quali motivazioni di fondo ha chi rifiuta di lavorare?" oppure: "Abolendo la giornata libera dei detenuti a quali conseguenze pratiche si va incontro?".

A una riunione del genere, svoltasi durante la Seconda guerra mondiale, gli organizzatori si scambiarono le proprie impressioni. Uno ammise che alcuni "lavativi" non potevano lavorare perché erano troppo deboli per tirare avanti con le razioni loro assegnate. Ma era convinto che persino chi sta per morire di fame può essere stimolato: lui aveva detto a uno scansafatiche che il suo comportamento equivaleva a "un coltello piantato nel collo del suo fratello al fronte". Era bastato per convincerlo a ignorare la propria fame e a lavorare di più. Un altro asserì di aver mostrato le fotografie di "Leningrado in lotta" ad alcuni lavativi, che si erano messi subito tutti al lavoro. Un terzo raccontò che nel suo campo le squadre migliori potevano decorare le proprie baracche, e che i lavoratori migliori venivano incoraggiati a piantare dei fiori nei loro appezzamenti. Sul verbale della riunione, conservato negli archivi, accanto a quest'ultimo intervento qualcuno ha annotato: Moroso!, "Bene!".70

Tali scambi di idee erano considerati importanti al punto che, con la guerra in pieno corso, la Sezione educativo-culturale moscovita del Gulag si prese il disturbo di pubblicare un opuscolo sull'argomento. Il titolo aveva palesi richiami religiosi: Ritorno alla vita. L'autore, un certo compagno Loginov, descrive i suoi rapporti con alcuni detenuti "lavativi". Avvalendosi di abili tecniche psicologiche li aveva convcrtiti uno per uno a credere nel valore del lavoro duro.

Sono storie piuttosto scontate. In una, per esempio, Loginov spiega a Ekaterina S., la colta moglie di un uomo condannato a morte per "spionaggio" nel 1937, che la sua vita distrutta può riacquistare significato nel contesto del Partito comunista. A un altro prigioniero, Samuel Gol'dstejn, espone le "teorie razziali" di Hitler, e gli spiega che cosa potrebbe comportare per lui "il nuovo ordine di Hitler" in Europa. Gol'dstejn è talmente ispirato da questo eccezionale (per l'URSS) richiamo alle sue origini ebraiche da voler partire subito per il fronte. Loginov gli dice: "Oggi la tua arma è il tuo lavoro", e lo convince a lavorare di più. "La tua vita è necessaria alla tua patria, e

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anche tu" dice a un altro detenuto che, a queste parole, si rimette a lavorare con le lacrime agli occhi.71

Il compagno Loginov era palesemente fiero del suo compito, e vi si dedicava con grande energia. Il suo entusiasmo era autentico. Anche le ricompense ricevute in cambio furono tangibili: V.G. Na-sedkin, allora dirigente dell'intero sistema del Gulag, fu molto compiaciuto dei suoi sforzi, ordinò di diffondere l'opuscolo in tutti i campi e ricompensò l'autore con un premio di mille rubli.

Invece non è molto chiaro se Loginov e i suoi lavativi credessero veramente in ciò che stava facendo. Per esempio, non sappiamo se Loginov si rendesse conto, almeno in una certa misura, dell'assoluta innocenza di molte delle persone che "riportava alla vita". E non sappiamo se quelli come Ekaterina è. (sempre che esistesse) si riconvertissero davvero ai valori sovietici, o se d'un tratto avessero capito che un'apparente conversione avrebbe procurato loro cibo migliore, un miglior trattamento o un lavoro più lieve. Del resto, queste due possibilità non si escludono a vicenda. Forse l'esperienza di "vedere la luce" e di rientrare a far parte della società sovietica aiutava le persone, traumatizzate e disorientate perché d'un tratto avevano mutato lo status di utili cittadini in quello di detenuti disprezzati, a riprendersi psicologicamente dallo shock, oltre a procurare loro una situazione migliore grazie alla quale si salvarono la vita.

In realtà la domanda "Credevano in quello che facevano?" rientra in una questione assai più vasta, un problema alle radici stesse della natura dell'Unione Sovietica: i suoi dirigenti hanno mai creduto in quello che facevano? Il rapporto tra la propaganda e la realtà sovietica è sempre stato curioso: la fabbrica funziona a malapena, nei negozi non c'è niente da comprare, le signore anziane non possono permettersi il riscaldamento, eppure per la strada gli striscioni proclamano il "trionfo del socialismo" e le "eroiche realizzazioni della patria sovietica".

Dentro i campi di prigionia e fuori, il paradosso era identico. Nella sua storia di Magnitogorsk, una città industriale staliniana, Ste-phen Kotkin osserva che sul giornale carcerario della locale colonia di lavoro correzionale le biografie dei detenuti riabilitati erano scritte in "un linguaggio straordinariamente simile a quello dei buoni lavoratori all'esterno della colonia: lavoravano, studiavano, facevano sacrifici e cercavano di migliorarsi".72

Tuttavia, nei campi il clima era ancora più surreale. Se nel mondo libero molti avevano già notato la "comicità" dell'enorme divario fra propaganda e realtà sovietica, nel Gulag il paradosso assumeva

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caratteri ancora più straordinari. I detenuti, anche se venivano sempre chiamati "nemici" e avevano la proibizione esplicita di rivolgersi agli altri chiamandoli "compagno", o di guardare un ritratto di Stalin, dovevano comunque lavorare per la gloria della patria socialista, proprio come i liberi cittadini, e partecipare ad "attività creative di autoformazione" come se fossero spinti dal puro amore per l'arte. Tutti si rendevano conto benissimo di quest'assurdità. Arma Andreevna, durante il periodo di detenzione, lavorò come "artista", aveva cioè il compito di dipingere quegli slogan. Era un lavoro molto lieve rispetto agli standard, le preservò la salute e forse le salvò la vita. Intervistata anni dopo, mi ha detto di non riuscire neanche a ricordarli. Mi ha detto che, secondo lei, "se li inventavano i capi": "Cose tipo "Dedichiamo al lavoro tutte le nostre forze" o roba del genere... Li scrivevo molto in fretta e, dal punto di vista tecnico, molto bene, ma non mi ricordo una parola di quello che scrivevo. Era una specie di meccanismo di autodifesa".73

Anche Leonid Trus, detenuto all'inizio degli anni Cinquanta, fu colpito dall'inutilità degli slogan affissi agli edifici del campo, e ripetuti dagli altoparlanti:

II campo aveva un impianto radio che trasmetteva regolarmente notizie sui nostri successi nel lavoro e denigrava chi lavorava male. Erano trasmissioni molto rudimentali, ma me ne ricordavano alcune ascoltate quando ero libero. Mi convinsi che non erano diverse, solo che in libertà la gente era più dotata, e sapeva parlare di tutta quella roba in modo più carino ... ma in generale [il campo] era come la vita libera, gli stessi manifesti, gli stessi slogan, con la differenza che lì dentro sembravano più assurdi. "Hanno intrapreso il lavoro, hanno ultimato il lavoro" per esempio. Oppure "In URSS il lavoro è questione di onestà, di gloria, di valore e di eroismo", una frase di Stalin. O tutti gli altri slogan come "Siamo per la pace", "Vogliamo la pace nel mondo intero".74

Gli stranieri, che non erano abituati alla presenza di slogan e cartelloni, trovavano ancora più bizzarro il lavoro dei "rieducatori". Antoni Ekart ha descritto una tipica riunione di indottrinamento politico:

II metodo impiegato era il seguente. Un uomo della KVC, un agitatore di professione con la mentalità di un bambino di sei anni, spiegava ai detenuti quanto fosse nobile mettere i propri sforzi al servizio del lavoro. Spiegava loro che le persone nobili sono patrioti, che tutti i patrioti amano la Russia sovietica, il paese migliore del mondo per i lavoratori, che i cittadini sovietici sono orgogliosi di far parte di questo paese eccetera eccetera per due ore abbondanti, tutto questo davanti a un pubblico che aveva sulla pelle le prove dell'assurdità e dell'ipocrisia di tali affermazioni. Ma l'accoglienza fredda non turbava l'oratore, che continuava a parlare. Alla fine prometteva a

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tutti i lavoratori "d'assalto" una paga più alta, razioni maggiorate e condi-zioni migliori. Si possono immaginare gli effetti su quanti subivano la disciplina della fame.75

Un altro deportato polacco ebbe la stessa reazione a una conferenza di propaganda cui presenziò in un campo sibcriano:

L'oratore andò avanti per ore e ore, cercando di dimostrare che Dio non esiste, che è soltanto un'invenzione della borghesia. Dovevamo considerarci fortunati a esserci ritrovati nel paese dei soviet, il più perfetto del mondo. Lì nei campi dovevamo imparare a lavorare e diventare finalmente persone dignitose. Di tanto in tanto cercava di impartirci qualche nozione: quindi ci disse che "la terra è rotonda", convintissimo che ne fossimo all'oscuro; ma secondo lui non sapevamo neppure, per esempio, che Creta è una "penisola" e che Roosevelt era un ministro straniero. Ci rivelava queste verità con la convinzione incrollabile della nostra ignoranza assoluta; infatti com'era possibile che noi, cresciuti in uno Stato borghese, avessimo il vantaggio di un'istruzione, per quanto elementare ... sottolineava con soddisfazione che non potevamo nemmeno sognarci di riconquistare la libertà, che la Polonia non sarebbe mai più risorta...

Per sfortuna del povero oratore, continua il polacco, il suo lavoro fu del tutto inutile: "Più continuava a blaterare, più nel nostro intimo ci ribellavamo e speravamo, nonostante tutto. I visi si riempirono di determinazione".76

Un altro polacco, Gustaw Herling, definisce le attività culturali del suo campo un "residuo dei regolamenti disposti a Mosca ai tempi nei quali i campi erano davvero istituzioni correzionali e educative. Gogol' avrebbe approvato questa obbedienza cieca a una finzione ufficiale così opposta alla consuetudine generale del campo: era come educare le "anime morte"".77

Non si tratta di opinioni inusitate: le si ritrova nella maggior parte dei memoriali, in molti dei quali la KVC non è nemmeno citata, o è citata solo per irriderla. Quindi, parlando della funzione della propaganda nei campi, è difficile riuscire a valutare quanto fosse importante per l'amministrazione centrale. Del resto, si può affermare con fondati motivi (e molti lo fanno) che la propaganda nei campi, come tutta la propaganda sovietica, era soltanto una farsa, che nessuno ci credeva, che l'amministrazione se ne serviva all'unico scopo di prendere in giro i detenuti, in modo abbastanza infantile e trasparente.

E, d'altra parte, se la propaganda, i manifesti e le riunioni di indottrinamento politico erano soltanto farse, se nessuno ci credeva, perché vi investivano tanto tempo e denaro? Solo tra le carte dell'amministrazione del Gulag, ci sono centinaia e centinaia di documenti attestanti l'intensa attività della Sezione educativo-culturale.

Gulag

Nei primi tre mesi del 1943, per esempio, nel pieno della guerra, tra i campi e Mosca avveniva un frenetico scambio di telegrammi, perché i comandanti locali cercavano con tutti i mezzi di procurarsi degli strumenti musicali per i detenuti. Intanto i campi organizzarono una gara sul tema "La Grande guerra patriottica del popolo sovietico contro gli occupanti tedeschi fascisti": vi parteciparono cinquanta pittori e otto scultori detenuti. In quell'epoca in cui in tutto il paese scarseggiava la manodopera, gli organi centrali disposero che ogni campo si dotasse di un bibliotecario, di un addetto alla proiezione cinematografica per mostrare i film di propaganda, e di un kul'torga-nizator, un prigioniero assistente dell'istruttore culturale, che avrebbero contribuito alla "battaglia" per migliorare le condizioni igieni-che, elevare il livello culturale dei detenuti, organizzare attività artistiche, e avrebbero aiutato a insegnare ai prigionieri a "capire correttamente le questioni di politica contemporanea".78

Inoltre, gli istruttori culturali stilavano rapporti semestrali o trimestrali sul proprio lavoro, spesso elencando in modo dettagliato i risultati conseguiti. L'istruttore della KVC del Vosturallag, un campo che all'epoca ospitava 13.000 prigionieri, ne mandò uno di ventuno pagine anche nel 1943. Il rapporto esordisce ammettendo che, nella prima metà del 1943, il piano industriale del campo "non era stato completato". Nella seconda metà dell'anno, però, si erano presi provvedimenti. La Sezione educativo-culturale aveva contribuito a "mobilitare i prigionieri perché realizzassero e superassero gli obiettivi di produzione stabiliti dal compagno Stalin", a "rimettere in salute i detenuti e prepararli per l'inverno" e a "colmare le carenze in ambito educativo-culturale".79 Il responsabile della KVt del campo elencava poi i metodi impiegati. Notava con orgoglio che nella seconda metà dell'anno si erano svolte 762 conferenze politiche, cui avevano assistito 70.000 prigionieri (probabilmente molti partecipavano più volte). Inoltre, la KVC aveva organizzato 444 riunioni di informazione politica, cui avevano partecipato 82.400 prigionieri, pubblicato 5046 "giornali murali", letti da 350.000 persone; organizzato 232 concerti e spettacoli, proiettato 69 film e organizzato 38 compagnie teatrali. Una di esse aveva composto persino una canzone, citata con orgoglio nel rapporto:

La nostra squadra è unita.

Il dovere ci chiama.

Il cantiere ci aspetta.

Il fronte ha bisogno del nostro lavoro.80

// lavoro 265

Si possono cercare delle spiegazioni per questo enorme impegno. Forse, all'interno della burocrazia del Gulag, la Sezione educativo-culturale aveva la funzione di capro espiatorio: se il piano non veniva completato, non si dovevano imputare le responsabilità alla cattiva organizzazione, alla malnutrizione, a una gestione del lavoro caratterizzata da una stupida crudeltà o alla mancanza di stivali di feltro, ma a una propaganda insufficiente. Forse la pecca era nella rigida burocrazia del sistema: se dai vertici avevano decretato che bisognava fare propaganda, tutti si sforzavano di obbedire a quell'ordine senza porsi domande sulla sua assurdità. Forse i dirigenti di Mosca avevano una conoscenza del Gulag così superficiale che credevano davvero di poter indurre a lavorare di più delle persone affamate con 444 riunioni di informazione politica e 762 conferenze. Tuttavia, visto il materiale di cui disponevano grazie alle ispezioni nei campi, tale ipotesi non sembra verosimile.

O forse non esiste una spiegazione sensata. Quando l'ho chiesto a Vladimir Bukovskij, il dissidente sovietico che in seguito ha trascorso anni in prigionia, lui ha alzato le spalle. Mi ha spiegato che è proprio questo paradosso a rendere unico il Gulag: "Nei nostri lager non si aspettavano solo che tu fossi uno schiavo, ma che cantassi e sorridessi mentre lavoravi. Non volevano soltanto opprimerci, volevano che gliene fossimo grati".81

XII PUNIZIONE E PREMIO

Per chi non c'è stato, verrà il suo turno. Chi c'è stato, non lo scorderà mai.

Proverbio sovietico sulle prigioni1

SIZO: le celle di punizione

Pochissimi campi di concentramento sovietici esistono ancora, per quanto in rovina. Ma accade un fatto curioso: si è conservato un certo numero di stmfnoj izoljator, "celle di isolamento punitivo", o (per usare l'immancabile sigla) SIZO. Non rimane niente del lagpunkt n. 7 deH'Uhtpeclag, eccetto il carcere di rigore, che ora ospita l'autofficina di un meccanico armeno. Non ha toccato le sbarre alle finestre, nella speranza, dice, "che Solzenicyn si compri l'edificio". Non rimane niente del lagpunkt agricolo di Ajzerom, nel Lokcimlag, salvo, anche in questo caso, l'edificio di punizione, oggi trasformato in abitazione per diverse famiglie. Una delle donne più anziane che ci vive elogia la solidità di una porta. Ha ancora un grosso "spioncino" nel mezzo, attraverso il quale un tempo le guardie sorvegliavano i prigionieri e passavano loro le razioni di pane.

La resistenza degli edifici ne attesta la solidità originaria. Il blocco di isolamento era spesso l'unica costruzione in mattoni di un campo di legno, e rappresentava la zona all'interno della zona. Tra le sue pareti vigeva un rezim all'interno del rezim. "Un tetro edificio in pietra", così un detenuto descrive il blocco di isolamento nel suo campo: "cancelli esterni, cancelli interni e, tutt'intorno, posti per sentinelle armate".2

Negli anni Quaranta, a Mosca avevano elaborato complesse istruzioni, in cui si prescriveva come costruire i blocchi di punizione e

Punizione e premio 267

quali regole applicare a quanti dovevano viverci dentro. Ogni lagpunkt o gruppo di lagpunkt, nel caso dei più piccoli, aveva il suo blocco, di solito subito fuori dalla zona, oppure, quando era all'interno, "circondato da un recinto impenetrabile", a una certa distanza dagli altri edifici del campo. Secondo un detenuto, le misure di protezione forse non sarebbero state necessarie, perché molti prigionieri cercavano di evitare il blocco di punizione "girando al largo, senza neppure guardare nella direzione di quei grigi muri di pietra, forati da aperture che sembravano emanare una fredda e vuota oscurità".3

Ciascun complesso di campi, poi, doveva avere un blocco di punizione centrale vicino al quartier generale, fosse a Magadan, Vorkuta o Noril'sk. Il blocco centrale, in realtà, spesso era un carcere assai grande che, secondo le regole, doveva "essere situato il più lontano possibile da zone popolose e vie di transito, doveva essere ben sorvegliato e garantire un rigoroso isolamento". Le guardie andavano scelte tra "i fucilieri più fidati, disciplinati ed esperti, lavoratori liberi". Le carceri centrali erano dotate di celle per più persone e celle singole. Queste ultime dovevano trovarsi in edifici speciali separati, ed erano riservate agli "elementi particolarmente incalliti". I prigionieri in isolamento non venivano condotti a lavorare. Inoltre non potevano fare movimento, né tenere tabacco, carta e fiammiferi. Tali restrizioni si aggiungevano a quelle "ordinarie" applicate nelle celle normali: niente lettere, niente pacchi, niente colloqui con i parenti.4

In apparenza, l'esistenza delle celle di punizione contraddice i princìpi economici di base su cui si fondava il Gulag. Mantenere edifici speciali e guardie in più costava molto. Tenere dei prigionieri inoperosi era dispendioso. E dal punto di vista dell'amministrazione, le celle non costituivano un'ulteriore forma di tortura, ma rappresentavano una parte integrante dell'impegno di indurre i detenuti a lavorare di più. Il regime punitivo, insieme alle restrizioni alimentari, aveva lo scopo di spaventare gli otkazcik, coloro che non volevano lavorare, e di punire chi veniva sorpreso a commettere un reato, un omicidio o un tentativo di fuga.

Poiché questi due reati di solito venivano commessi da tipi diversi di detenuti, in alcuni campi nelle celle di punizione regnava un'atmosfera particolare. Da un lato erano piene di criminali di professione, i cui reati più probabili erano l'omicidio e la tentata evasione. Ma, con il passar del tempo, cominciò ad affluirvi anche un'altra categoria di Prigionieri: i religiosi e le monaska, le "monache", che rifiutavano per Principio di lavorare per il demonio sovietico. Aino Kuusinen, per esempio, si trovava nel lagpunkt di Pot'ma, il cui comandante aveva

Gulag

costruito speciali baracche di punizione per un gruppo di donne profondamente religiose che "non volevano lavorare la terra e passavano il tempo a pregare ad alta voce e a cantare inni". Le donne non mangiavano con gli altri prigionieri, ma ricevevano razioni punitive nelle loro baracche. Andavano alle latrine due volte al giorno, sotto scorta armata: "Di tanto in tanto il comandante andava da loro con la frusta, e la baracca risuonava di grida di dolore: di solito prima di percuotere le donne le spogliavano, ma nessuna crudeltà riusciva a farle desistere dalle loro pratiche di preghiera e digiuno".5 Alla fine le portarono via. Secondo Kuusinen, le fucilarono.

Occupavano le celle anche altri "renitenti" recidivi. Anzi, la loro stessa esistenza dava una possibilità di scelta ai detenuti. Potevano lavorare, oppure starsene lì per qualche giorno, tirando avanti con razioni ridotte, soffrendo il freddo e i disagi, ma senza sfinirsi nella foresta. Lev Razgon racconta la storia del conte Tyszkiewicz, un aristocratico polacco che si trovava in un campo sibcriano per il taglio degli alberi: si rese conto che con le razioni stabilite non sarebbe riuscito a sopravvivere, quindi si rifiutò di lavorare. Aveva calcolato che, anche con le razioni punitive, sarebbe riuscito a mantenersi in forze:

Ogni mattina, prima che i detenuti venissero scortati a lavorare fuori dal campo, quando le colonne di zek erano già formate nel cortile, due guardie andavano a prendere Tyszkiewicz nella cella di punizione. Aveva la faccia e la testa rasata coperte di peluria grigia e portava un vecchio soprabito a brandelli e mollettiere. L'ufficiale della sicurezza del campo cominciava il suo esercizio di istruzione quotidiana. "Be', conte del cazzo, stupido conte del cazzo, hai intenzione di lavorare oggi?"

"No, signore, non posso lavorare" rispondeva lui con ferrea determinazione.

"Oh, non può, questo bastardo!" L'ufficiale di sicurezza spiegava in pubblico al conte che cosa pensava di lui e dei suoi parenti stretti e lontani, e che cosa gli avrebbe fatto in un futuro molto prossimo. Questo spettacolo era fonte di soddisfazione generale per gli altri detenuti nel campo.6

Tuttavia, sebbene Razgon racconti la storia con umorismo, una strategia del genere comportava rischi altissimi, poiché il regime di punizione non era concepito per essere piacevole. Ufficialmente la razione punitiva quotidiana per i detenuti che non erano riusciti a realizzare la norma era costituita da 300 grammi di "pane nero di segala", 5 grammi di farina, 25 grammi di grano saraceno o di pasta, 27 grammi di carne e 170 grammi di patate. Per quanto si tratti già di quantità minime, i reclusi nelle celle di punizione ricevevano ancora di meno: 300 grammi di "pane nero di segala" al giorno, con acqua calda e "cibo liquido caldo", cioè zuppa, solo una volta ogni tre giorni.7

Punizione e premio 269

Comunque, per la maggior parte dei prigionieri il disagio principale del regime di punizione non era la sofferenza fisica, l'edificio isolato o il cibo scarso, quanto i tormenti arrecati dai capricci del coman-<jo locale. Per esempio, i tavolacci per più persone potevano venire sostituiti con una semplice panca. Oppure preparavano il pane con grano non lavorato. O, ancora, il "cibo caldo liquido" era davvero molto liquido. Janusz Bardach fu collocato in una cella di punizione con il pavimento ricoperto d'acqua e le pareti umide e ammuffite:

Avevo la biancheria già zuppa e tremavo. Il collo e le spalle mi si irrigidirono e arrivarono i crampi. Il grezzo legno bagnato della panca stava marcendo, specie negli spigoli... La panca era così stretta che non potevo stendermi sulla schiena e, mettendomi sul fianco, le gambe uscivano dal bordo. Dovevo tenerle raccolte tutto il tempo. Era difficile decidere su quale fianco girarmi, perché se mi mettevo su un lato la faccia andava a toccare il muro viscido e se mi mettevo sull'altro la schiena si inzuppava.8

Freddo e umidità erano abituali. Anche se i regolamenti stabilivano che nelle celle di punizione la temperatura non doveva essere inferiore a 16 gradi, spesso trascuravano di riscaldarle. Gustaw Her-ling racconta che, quando fu posto in isolamento, "le finestre delle piccole celle non avevano vetri e neppure una tavola che le coprisse, sicché la temperatura era pressappoco come quella esterna". Descrive le cose concepite apposta per rendere scomode le celle:

La mia cella era così bassa che potevo toccare il soffitto con la mano... Era impossibile sedersi sulla cuccetta superiore senza incurvare la schiena contro il soffitto, e in quella più bassa si poteva entrare solo con il movimento di un palombaro, con la testa prima, e in ultimo facendo scivolare il proprio corpo sul legno, come un nuotatore su un banco di sabbia. La distanza tra il bordo della cuccetta e il secchio presso la porta era meno di un normale mezzo passo.9

I comandanti del campo potevano anche decidere se autorizzare i detenuti a indossare i vestiti in cella (molti potevano tenere solo la biancheria) e se mandarli a lavorare o no. Se non lavoravano, venivano tenuti tutto il giorno al freddo senza potersi muovere. Se lavoravano, soffrivano davvero la fame. Nadezda Ul'janovskaja fu tenuta per un mese a razione punitiva, e doveva anche lavorare. "Avevo sempre fame" racconta. "Ormai parlavo solo di cibo."10 I prigionieri avevano il terrore di essere mandati in punizione proprio a causa di questi improvvisi cambiamenti di regime. "Piangevano lì dentro come bambini, promettendo di comportarsi bene solo per uscir fuori" racconta Herling."

Nei complessi di campi più grandi, i tormenti erano più variati:

Gulag

non solo le celle, ma intere baracche e persino interi lagpunkt di punizione. Nel 1933 il Dmitlag, il campo che costruì il canale Moscova-Volga, istituì un "lagpunkt a regime duro [per] chi rifiutava di lavorare, fuggiva, rubava ecc.". I dirigenti decisero che, per motivi di sicurezza, il nuovo lagpunkt doveva essere recintato da due barriere di filo spinato anziché una; che i prigionieri dovevano essere condotti al lavoro da una scorta rinforzata; e che dovevano fare lavori pesanti in luoghi da cui fosse difficile fuggire.12

Più o meno nello stesso periodo, nel Dal'stroj fu allestito un lagpunkt di punizione che, alla fine degli anni Trenta, era ormai uno dei più famigerati del Gulag: Serpantinnaja, o Serpantinka, si trovava sul pendio settentrionale delle colline sovrastanti Magadan. Era stato ubicato apposta in un luogo in cui c'era pochissimo sole, più freddo e più buio che negli altri campi della vallata (già freddi e bui per gran parte dell'anno), dotato di fortificazioni più imponenti di altri lagpunkt e tra il 1937 e il 1938 fu anche utilizzato come luogo per le esecuzioni.13 Lo nominavano per spaventare i prigionieri, per i quali l'invio a Serpantinka equivaleva a una condanna a morte. Uno dei pochissimi sopravvissuti del lagpunkt descrive le baracche, "sovraffollate al punto che i prigionieri facevano i turni per sedersi a terra mentre tutti gli altri rimanevano in piedi. Al mattino, la porta si apriva e venivano pronunciati i nomi di dieci o dodici detenuti. Non rispondeva nessuno. I primi che capitavano a tiro venivano trascinati fuori e fucilati".14

In realtà, non si sa molto di Serpantinka, anche perché sono pochi quelli riusciti a sopravvivere e a parlarne. Ancora meno sappiamo dei lagpunkt di punizione di altri campi, come Iskitim, per esempio, il lagpunkt di punizione del complesso del Siblag, costruito intorno a una cava di calcare. I prigionieri vi lavorarono senza alcun tipo di macchinari o attrezzature, estraendo il calcare con le mani. Prima o poi, molti morivano a causa della polvere, che provocava malattie polmonari e altre affezioni respiratorie.15 Anna Larina, la giovane moglie di Buharin, vi venne inviata per un breve periodo. La maggior parte degli altri prigionieri di Iskitim, e dei suoi morti, sono ancora anonimi.16

Tuttavia non sono stati completamente dimenticati. La loro sofferenza ha colpito con tanta forza l'immaginazione della popolazione locale di Iskitim che, decine di anni dopo, l'affiorare di una nuova sorgente d'acqua fresca su una collina prossima all'ex campo è stata considerata un miracolo. Dato che, secondo la leggenda, la gola sottostante la sorgente era il luogo in cui venivano giustiziati in massa i prigionieri, la sacra acqua è stata considerata un modo di Dio per ri-

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cordarli. Verso la fine dell'inverno, in una giornata siberiana ancora gelida, con la terra coperta da un metro di neve, ho guardato le schiere di fedeli che risalivano la collina fino alla sorgente, per riempire tazze e bottiglie di plastica d'acqua pulita e sorseggiarla con reveren-za, lanciando di tanto in tanto uno sguardo solenne alla gola lì sotto.

"Poctovyj jascik": la casella postale

Lo SIZO era la punizione più estrema del sistema penale. Ma il Gulag a volte premiava anche i suoi reclusi: la carota e il bastone. Perché oltre al cibo, la possibilità di dormire, e le mansioni di lavoro, il campo controllava anche i contatti dei detenuti con il mondo esterno. Ogni due anni, gli amministratori del Gulag di Mosca diramavano istruzioni in cui si prescriveva la quantità di lettere, pacchi e denaro che i reclusi potevano ricevere, oltre alla frequenza e alle modalità delle visite di parenti cui erano autorizzati.

Proprio come le norme sulle celle di punizione, anche quelle relative ai contatti con l'esterno cambiavano nel corso del tempo. O forse sarebbe più esatto affermare che in generale nel tempo i contatti con l'esterno si ridussero. La normativa del 1930 riguardo al regime detentivo, per esempio, indicava soltanto che i prigionieri potevano inviare e ricevere un numero illimitato di lettere e pacchi. Anche gli incontri con i parenti erano consentiti senza particolari restrizioni, ma il loro numero, non specificato, dipendeva dalla condotta dei detenuti.17

Nel 1939, invece, le disposizioni divennero molto più dettagliate. Stabilivano in modo esplicito che gli unici detenuti autorizzati a incontrare i parenti erano quelli in pari con la norma di produzione, e per giunta soltanto ogni sei mesi. A chi superava le norme era concesso un incontro al mese. Furono introdotte anche limitazioni riguardo ai pacchi: se ne poteva ricevere solo uno al mese, ma i detenuti condannati per crimini controrivoluzionari potevano riceverne solo uno ogni tre.18

Anzi, nel 1939 esisteva ormai una serie completa di regole sulla corrispondenza. Alcuni prigionieri politici potevano ricevere lettere una volta al mese, altri solo ogni tre mesi. I censori del campo proibivano moltre in modo esplicito ai prigionieri di scrivere su certi temi: non si doveva menzionare il numero dei detenuti, esporre dettagli sul regirne carcerario, nominare i secondini, o parlare delle attività svolte nel campo. Le lettere che infrangevano tali norme, oltre a finire confiscate dai censori, venivano riportate con precisione nel dossier personale, Probabilmente perché costituivano una prova di "spionaggio".19

Gulag

Le normative cambiavano in continuazione, venivano rettificate e adattate alle circostanze. Negli anni della guerra, per esempio, furono eliminate tutte le restrizioni al numero dei pacchi di generi alimentari-forse le autorità speravano che i parenti contribuissero all'alimentazione dei detenuti, la quale in quel momento costituiva un problema molto arduo per l'NKVD. Dopo la guerra, invece, i diritti ai contatti con il mondo esterno dei detenuti in campi disciplinari speciali per criminali violenti, e in quelli per prigionieri politici, furono di nuovo limitati. Potevano scrivere solo quattro volte all'anno, e ricevere lettere solo da membri della famiglia molto stretti, come genitori, fratelli, coniugi e figli.20

Proprio a causa della complessità e della varietà dei regolamenti, che peraltro cambiavano molto spesso, in realtà anche i contatti con il mondo esterno dipendevano dal capriccio dei comandanti. I prigionieri reclusi in celle, baracche o lagpunkt di punizione di certo non ricevevano mai lettere e pacchi. E nemmeno i prigionieri sgraditi per qualsiasi motivo alle autorità. Inoltre, alcuni campi erano troppo isolati e perciò la posta non arrivava affatto.21 Altri erano disorganizzati al punto che non ci si preoccupava di distribuirla. Dopo un sopralluogo in un campo, un ispettore dell'NKVD scrisse disgustato: "Pacchi, lettere e denaro non vengono distribuiti ai prigionieri, ma giacciono a migliaia in depositi e avamposti".22 In molti campi, le lettere venivano ricevute con mesi di ritardo, se mai arrivavano. Molti prigionieri si resero conto soltanto molti anni dopo del numero di lettere e pacchi che erano andati perduti. Nessuno può stabilire se fossero stati rubati o persi. Invece a volte le lettere arrivavano ai detenuti cui era stato decretato il divieto assoluto di riceverne, in barba agli sforzi dell'amministrazione.23

D'altra parte, talvolta i censori dei campi - oltre a fare il proprio dovere distribuendo le lettere - consentivano addirittura che alcune missive passassero senza venir aperte. Dmitrij Bystroletov ne ricorda una, una "giovane komsomol'ka", cioè membro della Lega dei giovani comunisti, che consegnava ai detenuti le lettere chiuse e non esaminate dalla censura: "Non rischiava solo un pezzo di pane, ma la libertà: per una cosa del genere, l'avrebbero condannata a dieci anni".24

Come ovvio, esistevano sistemi per aggirare la censura sulla corrispondenza e la limitazione sul numero delle missive consentite. Anna Rozina una volta ricevette una lettera di suo marito che era stata cotta dentro una torta: quando arrivò, lui era già stato giustiziato. Vide anche detenuti liberati dal campo con lettere cucite negli abiti, o portate di nascosto nel mondo esterno celate nelle suole delle scarpe.25 In un

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camp0 a regime leggero, Barbara Armonas inviava lettere per mezzo di prigionieri che lavoravano senza scorta fuori dalla zona.26

Anche il generale Gorbatov descrive come mandò a sua moglie una lettera non censurata da un treno di deportati, con un metodo di cui parlano in molti. Per prima cosa, comprò il mozzicone di una niatita da un criminale comune:

Diedi il tabacco al detenuto, ne ricevetti in cambio la matita e, mentre il treno ripartiva, scrissi una lettera sulle cartine da sigarette, numerandole tutte. Poi feci una busta con l'involucro della mahorka, e la sigillai con pane bagnato. Per accertarmi che la mia lettera non venisse portata dal vento nei cespugli sulla linea ferroviaria, la zavorrai con una crosta di pane, legata con fili tolti dall'asciugamano. Infilai tra la busta e la crosta una banconota da un rublo e quattro cartine, ciascuna contenente la richiesta a chi avesse ritrovato la lettera di metterci un francobollo e spedirla. Mi avvicinai di nascosto al finestrino del vagone mentre passavamo da una stazione importante e la buttai giù.. ,27

La moglie la ricevette di lì a poco.

Alcune restrizioni riguardo alla corrispondenza non erano citate negli ordini. Magari si poteva anche scrivere, ma non sempre si riusciva a trovare gli strumenti per farlo, come racconta Bystroletov: "Nel campo la carta è preziosissima, perché i prigionieri ne hanno un estremo bisogno, ma è un genere introvabile: che cosa significa il grido "Oggi è giorno di posta! Consegnate le lettere!" se non c'è niente su cui scrivere, se soltanto pochi fortunati possono farlo, mentre gli altri restano tetri nelle loro cuccette?".28

Un detenuto racconta di aver scambiato del pane con due pagine strappate da La questione del leninismo, un libro di Stalin. Tra le righe scrisse una lettera ai suoi familiari.29 Persine gli amministratori dei campi, nei lagpunkt più piccoli, dovevano escogitare soluzioni creative. A Kedrovyj Sor, per i documenti ufficiali un contabile usava vecchia carta da parati.30

Le regole sui pacchi erano ancora più complicate. Le istruzioni inviate ai comandanti prescrivevano in modo esplicito che i detenuti dovevano aprire i pacchi alla presenza di una guardia, autorizzata a confiscare qualsiasi cosa proibita.31 Nella pratica, il ricevimento di un pacco era spesso accompagnato da un complesso cerimoniale. Innanzitutto, il detenuto veniva avvisato della sua fortuna. Poi, le guardie lo scortavano nel deposito in cui erano tenuti sotto chiave i suoi oggetti personali. Quando apriva il pacco, le guardie esaminavano e aprivano qualsiasi cosa, ogni cipolla, ogni salsiccia, per assicurarsi che non contenessero messaggi segreti, armi potenziali o de-

Gulag

naro. Se tutto superava l'ispezione, il detenuto poteva prendere qualcosa. Il resto restava in deposito, fino alla successiva visita autorizzata. Ovviamente, i detenuti in SIZO o in disgrazia per altri motivi non potevano usufruire dei generi alimentari inviati loro da casa.

Questo sistema aveva delle varianti. Un detenuto si rese conto che se lasciava i pacchi nel deposito qualcosa spariva subito, rubato dalle guardie. Escogitò quindi un sistema per appendersi alla cintura una bottiglia piena di burro, nascondendola nei pantaloni: "11 mio corpo la riscaldava, era sempre liquida". La sera spalmava il burro sul pane.32 Dmitrij Bystroletov si trovava in un lagpunkt privo di deposito, quindi doveva dimostrarsi ancora più creativo:

Allora lavoravo nella tundra, in un cantiere edilizio, e abitavo in una baracca di operai dove non si poteva lasciare niente, e non si poteva portare niente sul posto di lavoro: i soldati all'ingresso del campo sequestravano qualsiasi cosa trovassero e se la mangiavano, e qualsiasi cosa lasciassi veniva rubata e mangiata dal dneval'nyj [il detenuto addetto a pulire e sorvegliare le baracche]. Bisognava mangiare tutto subito. Estrassi un chiodo dai tavolacci della baracca, feci due buchi in una lattina di latte condensato e cominciai a bermelo sotto la coperta. Ma ero talmente esausto che mi addormentai, e il liquido senza prezzo colò inutilmente nella paglia sporca del materasso.33

I pacchi comportavano anche complicati problemi morali, perché non tutti ne ricevevano. Si dovevano dividere o no? E se sì, era meglio dividerli solo con gli amici, o con i potenziali difensori? In prigione, si era riusciti a organizzare dei "comitati dei poveri", ma nei campi era impossibile. Qualcuno divideva con tutti, per gentilezza o per il desiderio di dimostrarsi disponibile. Altri spartivano solo con la cerchia degli amici intimi. E talvolta, ricorda un prigioniero, "succedeva che uno mangiasse dei biscotti a letto, di notte, perché era spiacevole mangiare di fronte agli altri".34

Negli anni più duri della guerra, nei campi più difficili del nord, i pacchi potevano rappresentare il punto di discrimine tra la vita e la morte. Un memorialista, l'attore cinematografico Georgi] Zenov, afferma di essere stato salvato letteralmente da due pacchi. Glieli aveva spediti sua madre da Leningrado nel 1940, e gli erano arrivati tre anni dopo, "nel momento più critico, quando ero affamato, avevo perso ogni speranza e stavo morendo lentamente di scorbuto..."

In quell'epoca, Zenov lavorava nei bagni di un lagpunkt della Kolyma, perché era troppo debole per lavorare nella foresta. Quando venne a sapere di aver ricevuto due pacchi, in un primo momento non ci credette. Poi, quando si convinse che era vero, chiese al ca-

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o degli inservienti dei bagni di poter andare al quartier generale

^ell'amministrazione centrale del campo, distante 9 chilometri, do-

si trovava il magazzino. Dopo due ore e mezzo tornò: "Ho fatto a

^alapena un chilometro". Poi, vedendo un gruppo di capi del cam-

0 su di una slitta, gli venne "un'idea fantastica": "E se avessi chiesto di andare con loro?". Dissero di sì, e quello che successe dopo fu "come un sogno". Zenov salì sulla slitta, percorse i 9 chilometri, scese con grande difficoltà, aiutato dai capi dell'NKVD, entrò nel magazzino, chiese i suoi pacchi vecchi di tre anni e li aprì:

Nei tre anni in cui i pacchi mi avevano inseguito di indirizzo in indirizzo, tutto quello che ci avevano messo dentro, zucchero, salsicce, lardo, caramelle, aglio, cipolla, biscotti, cracker, sigarette, cioccolata e tutta la carta in cui era avvolta ogni cosa si era mescolato, come in una lavatrice, ed era diventato una massa compatta con l'odore dolciastro della putrefazione, della terra, del tabacco e dell'aroma di caramelle ...

Mi avvicinai al tavolo, ne staccai un pezzo con un coltello e lo ingoiai in fretta, di fronte a tutti, senza quasi masticare, senza distinguere i gusti o gli odori, insomma temendo che qualcuno potesse interrompermi o portarmelo via...35

"Dom svidanij": la Casa degli incontri

Comunque non erano le lettere e i pacchi a suscitare nei prigionieri le emozioni più forti, o la più grande angoscia. Assai più strazianti risultavano gli incontri con i parenti, di solito il coniuge o la madre. Erano consentiti solo ai prigionieri che avevano realizzato la norma e rispettato le regole del campo: i documenti ufficiali li definiscono in modo esplicito un premio per "aver lavorato bene, in modo scrupoloso, a ritmo serrato".36 E la promessa di poter ricevere la visita di un parente era di certo una motivazione potentissima per comportarsi bene.

Ovviamente non tutti i detenuti avevano la possibilità di ricevere visite. In primo luogo, i familiari dovevano avere il coraggio morale sufficiente per mantenersi in contatto con il congiunto "nemico". Per arrivare nella Kolyma, a Vorkuta, Noril'sk o in Kazakistan, pur viaggiando come liberi cittadini, ci voleva un certo ardimento fisico. Oltre a patire i disagi del lungo viaggio in treno verso una città remota e primitiva, per raggiungere il lagpunkt il visitatore doveva poi percorrere un tratto a piedi, o farsi dare un passaggio nel cassone di un camion su strade accidentate. Talvolta, poi, magari era costretto ad aspettare diversi giorni o più, e a mendicare da comandanti sprezzanti l'autoriz-2azione a incontrare il detenuto, e a volte tale autorizzazione veniva

Gulag

negata senza motivo. Quindi bisognava affrontare il lungo viaggio di ritorno, seguendo lo stesso tedioso tragitto.

A parte tutte le altre difficoltà, talvolta la tensione psicologica degli incontri era terribile. Le mogli che andavano a trovare il marito, spiega Herling, sentivano "la sconfinata sofferenza del prigioniero senza capirla appieno, e senza potere in alcun modo aiutarlo: i lunghi anni di separazione hanno distrutto gran parte del loro sentimento verso i mariti ... Il campo, distante e sbarrato, getta la sua ombra minacciosa anche su di loro. Non sono prigioniere, ma sono imparentate con quei nemici del popolo.. .".37

Le mogli non erano le uniche a provare questi sentimenti contrastanti. Un detenuto racconta la storia di una donna che aveva portato la figlia di due anni a trovare suo padre. All'arrivo, le disse di "dare un bacio a papa". La bimba corse dalla guardia e le diede un bacio sul collo.38 La figlia dello scienziato missilistico sovietico S.P. Korolev ricorda ancora quando la portarono a trovare suo padre che si trovava in una saraska. Le avevano detto che era lontano, a combattere nell'aviazione. Quando entrò nel carcere, si sorprese perché il cortile era piccolo e chiese alla madre dove atterrasse l'aereo di suo padre.39

Nelle prigioni, e in certi campi, gli incontri erano invariabilmente brevi, e di solito avvenivano alla presenza di un secondino: tale regola provocava tensioni enormi. "Avevo voglia di parlare, di parlare a ruota libera, di raccontare tutto quello che mi era successo quell'anno" racconta un prigioniero a proposito dell'unico incontro con la madre che gli venne concesso. Era difficile trovare le parole, e inoltre "se cominciavi a parlare, a descrivere qualcosa, la guardia sempre attenta ti interrompeva: "Non si può!"".40

Ancora più tragica è la storia raccontata da Bystroletov, al quale nel 1941 venne concessa una serie di incontri con la moglie, sempre alla presenza di una guardia. Era venuta da Mosca per dirgli addio: dopo il suo arresto, si era ammalata di tubercolosi e stava per morire. Nel congedarsi si protese e gli sfiorò il collo, un fatto proibito dal punto di vista tecnico. I visitatori non potevano entrare in contatto fisico con i detenuti. La guardia le spostò il braccio in modo sgarbato, lei cadde per terra tossendo e sputando sangue. Bystroletov racconta che "perse la testa" e cominciò a picchiare la guardia, facendola sanguinare. Solo la guerra scoppiata proprio quel giorno lo salvò da una terribile punizione: nel caos che seguì, si dimenticarono della sua aggressione al secondino. Quanto alla moglie, non la rivide mai più.41

Tuttavia, non sempre le guardie erano presenti. Anzi, nei

Punizione e premio 277

e nei campi più grandi, a volte ai prigionieri venivano concessi incontri di diversi giorni, senza la presenza di secondini. Negli anni Quaranta, di solito tali incontri avvenivano in un'apposita "Casa degli incontri", il Doni svidanij, un edificio costruito allo scopo sui confini del campo. Herling ne descrive una:

La casa stessa, vista dalla strada che portava al campo del villaggio, faceva una piacevole impressione. Era costruita di travi di pino grezze, con le crepe riempite di stoppa; il tetto aveva una buona copertura di tegole ... Alla porta fuori dal recinto, che poteva essere adoperata solo dai visitatori liberi, si saliva con pochi solidi scalini di legno; tende di cotone pendevano alle finestre, e sui davanzali stavano sospese lunghe cassette di fiori. In ogni stanza v'erano due letti puliti, una grande tavola, due panche, un catino e una brocca d'acqua, un ripostiglio per i vestiti e una stufa di ferro; vi era persino un portalampada. Che cosa poteva desiderare di meglio di questa casetta modello piccolo borghese un prigioniero, che aveva vissuto per anni in una cuccetta comune in una baracca sudicia? I nostri sogni di vita in libertà partivano da quella stanza.42

Eppure, coloro che avevano atteso con ansia quel "sogno di libertà", se l'incontro andava male, come spesso accadeva, si sentivano assai peggio. Temendo di rimanere dietro il filo spinato per tutta la vita, alcuni prigionieri salutavano i congiunti dicendo loro di non tornare più. "Dimenticati questo posto" disse uno al fratello, che per un incontro di venti minuti aveva viaggiato giorni e giorni con una temperatura rigida: "Per me è più importante che le cose ti vadano bene".43 Gli uomini che incontravano le mogli per la prima volta dopo anni venivano d'un tratto colti dall'ansia per la loro virilità, come racconta Herling:

Gli anni di lavoro e di fame avevano minato la loro virilità e ora, prima di un incontro intimo con una donna quasi estranea, sentivano, oltre un'eccitazione nervosa, un'ira e una disperazione impotente. Alcune volte udii gli uomini che vantavano le loro prodezze sessuali dopo una visita, ma di solito questi fatti erano taciuti con pudore, e venivano rispettati in silenzio da tutti i prigionieri.44

Le mogli in visita avevano i loro problemi da discutere. Di solito dopo l'arresto dei mariti avevano sofferto molto. Non riuscivano a trovare lavoro, non potevano studiare, e spesso dovevano nascondere il loro matrimonio a vicini curiosi. Alcune arrivavano per annunciare la propria intenzione di divorziare. Nel Primo cerchio Solzenicyn racconta, con una partecipazione sorprendente, un colloquio di questo tipo, basato su un episodio reale vissuto con la moglie Natasa. Nel libro, Nadja, la moglie del detenuto Gerasimovic, sta per perdere il la-v°ro, il posto in una casa dello studente e la possibilità di ultimare la

Gulag

tesi solo perché il marito è deportato. Si rende conto che il divorzio è l'unico modo per "avere una possibilità di vivere di nuovo":

Nadja si fermò di colpo, chinò gli occhi.

"Volevo dirti... solo tu non prendertela a cuore, caro, una volta tu insistevi affinchè noi... divorziassimo..." terminò essa a bassissima voce. ...

Sì, una volta lui aveva insistito... ma adesso tremò. E ora solamente si accorse che l'anello matrimoniale, dal quale lei non si era fino allora mai separata, sulla mano di Nadja adesso non c'era.

"Sì, certo" confermò egli con grande decisione.

"E così... tu non sarai contro... se... bisognerà... fare anche questo?... " Na-dia alzò il capo con uno sforzo. I suoi occhi erano spalancati. Il grigio aghiforme arcobaleno dei suoi occhi scintillava in una supplica di perdono e di comprensione. "È unafinta" aggiunse soltanto con un respiro, senza voce.45

Tali incontri potevano rivelarsi più dannosi dell'assoluta solitudine. Izrail Mazus, arrestato negli anni Cinquanta, racconta la storia di un prigioniero che fece l'errore di annunciare agli altri reclusi l'arrivo di sua moglie. Mentre si sottoponeva alle formalità previste per i detenuti in vista di un incontro con un visitatore (il bagno, il barbiere, il magazzino per farsi dare indumenti puliti), gli altri prigionieri continuavano ad ammiccare e a dargli gomitate, scherzando sul letto cigolante nella Casa degli incontri.46 Alla fine, non gli permisero nemmeno di restare da solo con la moglie nella stanza. Che "fugace visione della libertà" fu mai quella?

I contatti con il mondo esterno erano sempre complicati dalle aspettative, dai desideri, dall'attesa. Sempre Herling racconta:

Quali che fossero i motivi della loro disillusione - che la libertà, realizzata per tre giorni, non era stata all'altezza, che era stata troppo breve, o che, scomparendo come un sogno interrotto, aveva lasciato solo un vuoto recente in cui non c'era nulla da attendere - i prigionieri dopo le visite erano invariabilmente silenziosi e irritabili, per non dir nulla di coloro per i quali la visita si era trasformata in una tragica realtà di separazione e divorzio. Krestynskij... tentò due volte dì impiccarsi dopo un incontro con sua moglie, che gli aveva chiesto il divorzio e il suo consenso per mettere i loro figli in un asilo municipale.

Herling, che essendo straniero, polacco, non ebbe "mai speranza di ricevervi qualcuno", comprese comunque il significato della Casa degli incontri, con più chiarezza di molti scrittori sovietici: "Giunsi alla conclusione che se la speranza può spesso essere il solo significato lasciato alla vita, il suo conseguimento può divenire talvolta il tormento più insopportabile".47

XIII LE GUARDIE

Ai cekisti

Un compito grande e importante ti è stato affidato da Il'ic, i] cekista ha un viso consunto di affanni che nessun altro può capire.

Il cekista ha un viso splendente di coraggio è pronto a combattere, anche adesso, per il bene di tutti, per il loro benessere, si schiera con la classe operaia.

Tanti, tanti sono caduti in battaglia, per molti nostri amici si è scavata la fossa. Ma molti ne restano ancora onesti e vigorosi combattenti.

Tremate, tremate, nemici! Presto, presto verrà la vostra fine! Tu, cekista, stai sempre in guardia e in battaglia guiderai la moltitudine!

MIHAIL PANtENKO, ispettore del sistema carcerario sovietico1

Per quanto possa apparire strano, nei campi non tutte le norme erano dettate dai comandanti. Esistevano anche regole non scritte per ottenere una certa posizione, conquistarsi dei privilegi, vivere un PO' meglio degli altri, e una gerarchla non ufficiale. Chi riusciva a comprendere tali regole non scritte, e a scalare la gerarchla, otteneva di sopravvivere molto meglio.

Al vertice della gerarchla del campo c'erano i comandanti, i supervisori, i sorveglianti, i secondini e le guardie. Ho scritto di propo-

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sito "al vertice", invece che "al di sopra" o "all'esterno", perché nel Gulag gli amministratori e i sorveglianti non costituivano una casta separata, distinta e a sé stante rispetto ai prigionieri. Contrariamente alle SS dei campi di concentramento tedeschi, non erano considerati per definizione o per motivi razziali superiori ai detenuti, con cui spesso avevano in comune l'origine etnica. Per esempio, dopo la Seconda guerra mondiale nei campi di concentramento sovietici c'erano molte centinaia di migliaia di prigionieri ucraini. E anche un numero imponente di guardie ucraine.2

Non si può nemmeno affermare che guardie e prigionieri vivessero in ambiti sociali del tutto distinti. Alcuni sorveglianti e amministratori avevano organizzato un mercato nero con i prigionieri. Alcuni si ubriacavano insieme ai detenuti. Molti "convivevano" con i reclusi, per usare l'eufemismo con cui nel Gulag venivano indicati i rapporti sessuali.3 E, soprattutto, molti erano ex detenuti. All'inizio degli anni Trenta era considerato assolutamente normale per i prigionieri che si comportavano bene "diplomarsi" e conseguire il grado di guardie, e alcuni fecero anche più strada.4 Forse il caso di Naf-talij Frenlcel' è il più plateale, ma ne esistono molti altri.

Per esempio, la carriera di Jakov Kuperman fu meno eccelsa di quella di Frenkel', ma più tipica. Kuperman, che in seguito donò le sue memorie inedite all'Associazione Memorial di Mosca, era stato arrestato nel 1930 e condannato a dieci anni. Trascorse un periodo a Kem', la prigione di transito delle Soloveckie, poi andò a lavorare nella divisione per la progettazione del canale del mar Bianco. Nel 1932 il suo caso venne riesaminato e il suo status mutò, da prigioniero a confinato. Alla fine lo liberarono, e accettò un lavoro nella ferrovia Bajkal-Amur, il Bamlag, un'esperienza che ricordò "con soddisfazione" fino alla fine dei suoi giorni.5 La sua decisione non era insolita. Nel 1938, più di metà degli amministratori e quasi metà delle guardie armate del Belbaltlag, il campo che gestiva il canale del mar Bianco, era costituita da detenuti o ex detenuti.6

Comunque una posizione sociale si poteva conquistare, ma anche perdere. Per un prigioniero era abbastanza facile diventare secondino, ma era abbastanza facile anche per un secondino diventare detenuto. Tra le migliaia di agenti dell'NKVD arrestati negli anni delle epurazioni, tra il 1937 e il 1938, c'erano amministratori e comandanti dei campi del Gulag. Negli anni successivi, i capi delle guardie e gli impiegati del Gulag venivano spesso arrestati da sospettosi colleghi. Nei lagpunkt isolati erano diffusi pettegolezzi e calunnie: negli archivi del Gulag ci sono interi fascicoli dedicati esclusivamente a

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denunce e controdenunce, lettere furibonde sugli ammanchi nei campi/ sulla mancanza di sostegno da parte degli organi centrali, gu]]e deprecabili condizioni di lavoro, e di conseguenza richieste di arresto dei colpevoli, o delle persone non grate.7

Membri delle scorte armate e amministratori venivano arrestati di continuo perché disertavano, bevevano, rubavano, perdevano le armi e anche perché maltrattavano i prigionieri.8 Negli incartamenti del campo di transito del porto di Vanino, per esempio, ci sono rapporti relativi a V.N. Sadovnikov, una guardia che assassinò un'infermiera del campo nel tentativo di uccidere la moglie; su I.M. Soboleev, che rubò 300 rubli a un gruppo di prigionieri, dopodiché si ubriacò e perse la tessera di iscrizione al Partito; su V.D. Suvorov, che organizzò una bevuta collettiva e fu coinvolto in una rissa con un gruppo di funzio-nari, come di altri che "bevvero fino a perdere i sensi", o che erano troppo ubriachi per presidiare le loro postazioni.9 L'archivio personale di Georgi] Malenkov, uno scagnozzo di Stalin, contiene un rapporto sul caso di due amministratori dei campi che, durante una bisboccia, si ubriacarono e assassinarono due colleghi, tra cui una dottoressa madre di due bambini piccoli.10 Negli avamposti dei campi più remoti, la vita era talmente noiosa che, come sosteneva un amministratore in una lettera indirizzata a Mosca, la mancanza di distrazioni induceva "molti ragazzi a disertare, a infrangere le norme disciplinari, a ubriacarsi e a giocare a carte, cose che di regola finiscono con una condanna in tribunale".11

Molti riuscivano persine, anzi era abbastanza comune, a chiudere il cerchio: passare dal ruolo di ufficiali dell'NKVD a quello di detenuti, e poi di nuovo a secondini, ricominciando la carriera nell'amministrazione del Gulag. Certo, diversi ex detenuti parlano della rapidità con cui gli ufficiali dell'NKVD in disgrazia si facevano strada nei campi e ottenevano posizioni di grande potere. Nelle sue memorie Lev Razgon racconta di aver conosciuto un certo Korabel'nikov, un umile dipendente dell'NKVD che incontrò durante il trasferimento da Mosca. Korabel'nikov disse a Razgon di essere stato arrestato per aver "vuotato il sacco con il mio più caro amico ... [su] un affare di donne che riguardava il mio capo ... Mi hanno dato cinque anni come elemento socialmente pericoloso e mi hanno trasferito insieme ai delinquenti comuni". Ma non era proprio come gli altri. Alcuni mesi dopo, Razgon lo incontrò di nuovo. Questa volta indossava un'uniforme da campo pulita, di buona fattura. Era riuscito a ottenere un "buon" lavoro: dirigeva il campo di punizione deH'Ust'vymlag.12

La storia di Razgon rispecchia una realtà documentata negli ar-

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chivi. In effetti, moltissimi ufficiali del Gulag avevano un passato criminale. Sembra addirittura che, all'interno dell'NKVD, l'amministrazione del Gulag avesse la funzione dichiarata di luogo d'esilio, l'ultima risorsa per gli agenti segreti in disgrazia.13 Gli ufficiali mandati nelle zone più remote dell'impero del Gulag ricevevano di rado il permesso di rientrare in altre branche dell'NKVD, per non parlare di Mosca. Per segnalare la propria posizione sociale, i dipendenti del Gulag indossavano uniformi diverse, e avevano tutta una serie di distintivi e gradi leggermente modificati.14 Alle conferenze di Partito, gli ufficiali del Gulag si lamentavano della propria inferiorità. "Il Gulag è considerato un'amministrazione cui si può chiedere tutto senza dare niente in cambio" protestò un funzionario. "Questo modo di pensare denigratorio, il considerarci peggio di chiunque altro, è sbagliato, consente sperequazioni negli stipendi, negli alloggi e così via."15 In seguito, nel 1946, quando l'NKVD venne divisa e cambiò di nuovo nome, il Gulag passò sotto il controllo del ministero dell'Interno (MVD), mentre quasi tutte le sue mansioni più interessanti, soprattutto lo spionaggio e il controspionaggio, vennero demandate al più prestigioso ministero della Sicurezza di Stato (MGB, in seguito KGB). L'MVD, che diresse il sistema carcerario fino al crollo dell'Unione Sovietica, era un apparato burocratico meno influente.16

In realtà, fin dall'inizio, la posizione dei comandanti dei campi era abbastanza modesta. In una lettera inviata di nascosto dalle So-loveckie all'inizio degli anni Venti, un prigioniero raccontava che l'amministrazione del campo era costituita interamente da cekisti caduti in disgrazia, "condannati per speculazione, estorsione o aggressione, o qualche altra infrazione al codice penale ordinario".17 Negli anni Trenta e Quaranta il Gulag divenne la destinazione finale dei funzionari dell'NKVD i cui requisiti non soddisfacevano gli standard previsti: quelli che non erano di origine proletaria, o appartenevano a gruppi nazionali sospetti, come i polacchi, gli ebrei o i baltici, nei periodi in cui questi gruppi etnici furono sottoposti a vere e proprie repressioni. Il Gulag era anche l'ultimo rifugio per gli stupidi, gli incompetenti e gli ubriaconi. Nel 1937 Izrail Pliner, dirigente del Gulag, protestava:

Prendiamo gli avanzi delle altre sezioni; ci mandano le persone basandosi sul principio: "Potete prendere quello che non ci serve". La crème della crème sono gli alcolizzati senza speranza. Quando un uomo comincia a bere, viene sprofondato nel Gulag ... Dal punto di vista dell'apparato dell'NKVD, se qualcuno commette un reato la punizione peggiore consiste nel mandarlo a lavorare in un campo.18

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fsfel 1939 un altro funzionario del Gulag definiva così le guardie dei cairipi: "persone non di seconda, ma di quarta categoria, vera e propria feccia".19 Nel 1945 Vasilij Cernysev, all'epoca dirigente del Gulag, diramò una circolare a tutti i comandanti dei campi e ai capi regionali dell'NKVD, manifestando il proprio orrore per lo scarsissimo livello delle guardie armate dei campi, tra cui si riscontrava un'alta frequenza di "suicidi, diserzioni, perdita e furto delle armi, ubriachezza e altri atti immorali", oltre a frequenti "violazioni delle leggi rivoluzionarie".20 Ancora nel 1952, quando furono scoperti casi di corruzione ai massimi livelli della polizia segreta, la prima reazione di Stalin fu di "esiliare" uno dei principali responsabili, che divenne all'istante vicecomandante del campo Bazenovskij, negli Urali.21

Inoltre, negli archivi del Gulag trova conferma la tesi, espressa in modo delicato da un ex detenuto, secondo cui guardie e amministratori "il più delle volte erano persone molto limitate".22 Per fare un esempio, su undici uomini che tra il 1930 e il 1960 ricoprirono la carica di "dirigente del Gulag", cioè di responsabile dell'intero sistema dei campi, solo cinque avevano un'istruzione superiore, mentre tre non erano mai andati oltre la scuola elementare. Di rado la carica veniva occupata a lungo dalla stessa persona: in trent'anni solo due uomini, Matvej Berman e Viktor Nasedkin, la detennero per più di cinque anni. Izrail Pliner durò solo un anno (1937-1938), Gleb Filaretov tre mesi (1938-1939).23

Del resto, dai fascicoli personali dei dipendenti del servizio carcerario ai ranghi più bassi della gerarchla dell'NKVD negli anni Quaranta si desume che persino i secondini d'elite, membri del Partito e candidati a entrarvi, provenivano quasi tutti dall'ambiente contadino e avevano un livello di istruzione molto basso. Pochi avevano fatto cinque anni di scuola, alcuni solo tre.24 Nell'aprile 1945, quasi tre quarti degli amministratori del Gulag avevano soltanto l'istruzione elementare, e tale percentuale era quasi il doppio che nel resto dell'NKVD.25

Le sentinelle armate dei campi, appartenenti alla voenizirovannaja ohrana mest zakljucenija, chiamata di solito VOHR a causa della passione sovietica per le sigle, avevano un livello di istruzione ancora più basso. Erano quelli che facevano la ronda intorno alle recinzioni dei campi, che scortavano i prigionieri al lavoro, che equipaggiavano i treni per trasportarli nell'est, e spesso avevano un'idea molto vaga dei motivi per cui lo facevano. Un rapporto proveniente dal Kargo-Pol'lag afferma: "Sembra che le guardie non conoscano i nomi dei Cembri del Politbjuro, o dei capi del Partito".26 Un altro documento

Gii lag

elenca una serie di incidenti provocati da guardie che avevano fatto un uso maldestro delle armi. Uno aveva ferito tre prigionieri "perché non sapeva come funzionava il suo fucile". Un altro, "ubriaco in servizio", aveva "ferito il cittadino Timofeev".27

Durante le riunioni i comandanti di divisione si lamentavano: "Le guardie non sanno oliare, pulire e tenere in efficienza le armi... Una donna quando è in servizio tiene la canna del fucile tappata con uno straccio ... Alcuni prendono i fucili di commilitoni fuori servizio: i propri li lasciano a casa perché sono troppo pigri per pulirli ogni volta".28 Da Mosca arrivavano di continuo lettere ai comandanti dei campi per esortarli a dedicare più tempo al "lavoro educativo-cultu-rale" tra le guardie.29

Tuttavia, nemmeno gli "avanzi" e gli "alcolisti cronici" degli altri dipartimenti dell'NKVD riuscivano a soddisfare la domanda di personale del Gulag. La maggior parte delle istituzioni sovietiche era affetta da una costante carenza di dipendenti, e il Gulag più degli altri. Nemmeno l'NKVD riusciva a produrre cattivi dipendenti in numero sufficiente per soddisfare la richiesta presentata dal Gulag tra il 1930 e il 1939 di aumentare di diciotto volte l'organico, o tra il 1939 e il 1941 di assumere 150.000 persone, o per l'enorme espansione del dopoguerra. Nel 1947, solo nel servizio di scorta armata dei campi c'erano 157.000 persone e, secondo l'amministrazione, ne mancavano altre 40.000.30

Questo problema non cessò mai di affliggere l'amministrazione fino a quando il Gulag non venne smantellato in modo definitivo. A parte qualche carica davvero importante, lavorare nei campi non era considerato prestigioso o allettante, e di rado venivano garantite condizioni di vita comode, soprattutto negli avamposti più piccoli e più lontani dell'estremo nord. Data la penuria generalizzata di generi alimentari, a guardie e amministratori il cibo veniva razionato, in misura del loro grado.31 Al suo ritorno da un giro di ispezione nei campi settentrionali della regione di Vorkuta, un funzionario del Gulag denunciò le misere condizioni di vita degli agenti di scorta, che lavoravano da quattordici a sedici ore al giorno nelle "difficili condizioni climati-che del nord", spesso non disponevano di calzature e indumenti adatti e vivevano in baracche sporche. Alcuni soffrivano di scorbuto, pellagra e altre malattie causate dalla mancanza di vitamine, proprio come i detenuti.32 Un altro ispettore riporta che, nel Kargopol'lag, 26 membri del VOHR erano stati condannati alla detenzione, nella maggior parte dei casi perché si erano addormentati in servizio. D'estate lavoravano tredici ore al giorno, e durante le ore di riposo non aveva-

i gì

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no distrazioni di alcun genere. Quelli che avevano con sé la famiglia vivevano in condizioni particolarmente difficili, perché spesso non avevano appartamenti ed erano costretti ad abitare nelle baracche.33

Se si desiderava andarsene, non risultava facile, nemmeno ai massimi livelli. Negli archivi dell'NKVD è conservata una lettera lamentosa del procuratore di Noril'sk, che invocava un trasferimento dalla "zona artica" per motivi di salute e di sovraffaticamento: "Se non è possibile trasferirmi con la carica di procuratore in un altro campo di lavoro correzionale, desidererei essere addetto a un lavoro territoriale o essere dimesso dall'incarico di procuratore". Gli proposero invece un trasferimento a Krasnojarsk, ma lo rifiutò perché la situazione (Krasnojarsk si trova a sud di Noril'sk, ma è sempre nella Siberia settentrionale) sarebbe stata pressoché identica.34

Dopo la morte di Stalin, gli ex funzionari dei campi hanno spesso difeso il proprio passato adducendo le difficoltà e le privazioni cui erano sottoposti per lavorare. Quando ho incontrato Ol'ga Vasil'evna, ex ispettrice dei campi del settore di edilizia stradale, mi ha intrattenuta con aneddoti sulla difficile vita di quando era alle dipendenze del Gulag. Durante il nostro colloquio, svoltosi nel suo appartamento, assai grande per i parametri di Mosca (un dono del Partito in atto di riconoscenza), la Vasil'evna mi ha raccontato che una volta, mentre si trovava in un campo isolato, la invitarono a dormire nella casa del comandante, nel letto di suo figlio. Di notte cominciò ad avere caldo e a sentire prurito. Pensando di essersi ammalata, accese la luce: "La coperta grigia militare sembrava viva, brulicava di pidocchi. Non li avevano solo i prigionieri, ma anche i capi". Di solito, quando ritornava a casa da un viaggio di ispezione, prima di varcare la porta di ingresso si spogliava completamente, per evitare di portare dei parassiti in casa.

Secondo la Vasil'evna, il lavoro dei comandanti era oltremodo difficile: "Non è uno scherzo, sei responsabile di centinaia, migliaia di prigionieri, c'erano recidivi e assassini, quelli condannati per reati gravi, da cui ti potevi aspettare qualsiasi cosa. Questo significa che dovevi stare sempre in guardia". I comandanti dei campi, ai quali si chiedeva la massima efficienza, dovevano risolvere problemi di tutti i generi:

II direttore di un progetto edilizio era anche comandante del campo, e almeno il 60 per cento del suo tempo era assorbito non dai lavori di costruzione, dalle decisioni relative al progetto o dai problemi edilizi, ma dalla gestione del campo. Qualcuno si ammalava, magari scoppiava un'epidemia, o si verificava qualche incidente, per cui bisognava portare qualcuno in ospedale, c'era bisogno di un'automobile, o di un cavallo e di un carro.

Gulag

Inoltre, mi ha spiegato la Vasil'evna, spesso i "capi" non mangiavano bene neanche a Mosca, soprattutto durante la guerra. Alla mensa del quartier generale del Gulag venivano serviti cavolo, zuppa e kasa: "Non ricordo carne, non ne ho mai vista". Quando Stalin era vivo, i dipendenti moscoviti del Gulag lavoravano ogni giorno dalle nove del mattino fino alle due o alle tre di notte. La Vasil'evna vedeva suo figlio soltanto la domenica. Dopo la morte di Stalin, invece, la situazione migliorò. S.N. Kruglov, allora capo dell'NKVD, emanò un'ordinanza con cui concedeva ai dipendenti dell'amministrazione centrale una pausa di un'ora per il pranzo, e di due ore agli ufficiali. Nel 1963 assegnarono alla Vasil'evna e a suo marito un appartamento molto grande nel centro di Mosca, lo stesso in cui viveva quando l'ho conosciuta nel 1998.35

Viceversa, mentre Stalin era vivo, il lavoro nel Gulag non era ben retribuito e l'amministrazione centrale doveva escogitare dei sistemi per ovviare alla sostanziale mancanza di attrattiva del lavoro. Nel 1930, quando il sistema era ancora considerato una componente fondamentale per l'espansione economica, l'OGPU condusse delle campagne di propaganda interne, per attirare le persone entusiaste a lavorare nei campi dell'estremo nord, allora appena istituiti:

I campi delle Soloveckie sono stati creati e consolidati dall'entusiasmo e dall'energia dei cekisti che hanno una funzione positiva essenziale per lo sviluppo industriale e culturale dei territori europei del nostro paese situati all'estremo nord. I nuovi campi, come le Soloveckie, devono svolgere una funzione riformatrice nell'economia e nella cultura delle regioni remote. Per questo compito ... abbiamo molto bisogno di cekisti solidi, volontari che desiderino lavorare duro...

Tra l'altro ai volontari venivano promessi un aumento della retribuzione fino al 50 per cento, due mesi di vacanza ogni anno e, dopo tre anni, un premio di tre mesi di salario e di tre mesi di vacanza. Inoltre, gli amministratori più importanti ricevevano ogni mese a titolo gratuito pacchi di generi alimentari e potevano accedere alla "radio, ad attrezzature sportive e servizi culturali".36

In seguito, quando il genuino entusiasmo svanì del tutto (se mai era esistito), l'incentivazione divenne più razionale. I campi erano distinti a seconda della distanza e delle difficoltà ambientali. Più erano lontani e duri, più gli ufficiali dell'NKVD venivano retribuiti per lavorarci. Alcuni si sentivano in dovere di organizzare attività sportive e di altro tipo per i loro dipendenti. Inoltre, l'NKVD costruì speciali sanatori sul mar Nero, a Soci e a Kislovodsk, in modo che gli ufficiali di alto rango potessero trascorrere le loro lunghe vacanze comodi e al caldo.37

Le guardie 287

L'amministrazione centrale istituì inoltre delle scuole dove gli ufficiali del Gulag potevano migliorare le proprie qualifiche e avanzare di grado. In una situata a Har'kov, per esempio, non si tenevano soltanto i corsi obbligatori, cioè "Storia del Partito" e "Storia del-l'NKVD", ma anche lezioni di diritto penale, politica di gestione dei campi, amministrazione, organizzazione, contabilità e temi militari.38 I figli di quanti accettavano di lavorare per il Dal'stroj, nella lontana Kolyma, ricevevano la qualifica di "figli di lavoratori" e quindi godevano di un accesso preferenziale negli istituti di istruzione superiore: questo incentivo ottenne un alto gradimento.39

Certo soldi e incentivi bastavano anche per attrarre gli impiegati di livello più basso. Molti consideravano il Gulag la migliore di molte cattive alternative. Nell'Unione Sovietica di Stalin, afflitta dalla guerra, dalle carestie e dalla fame, lavorare come guardia o secondino poteva rappresentare un avanzamento sociale enorme. Susanna Pecora, che all'inizio degli anni Cinquanta era detenuta, ricorda di aver conosciuto una guardia, una donna, per la quale lavorare nel campo costituiva l'unico modo per sfuggire alla terribile miseria dell'azienda agricola collettiva in cui era nata: "con lo stipendio manteneva i suoi sette fratelli e sorelle".40 Un altro memorialista racconta la storia di Mar'ja Ivanova, una giovane che si arruolò volontaria per lavorare in un campo nel 1948. Mar'ja desiderava sfuggire alla vita che la aspettava nella sua azienda agricola collettiva e inoltre sperava di trovare marito, invece divenne l'amante di una sfilza di ufficiali di grado sempre più basso. Finì ad abitare in una stanza insieme ai due figli illegittimi e alla madre.41

Non sempre, però, la prospettiva di alti stipendi, lunghe vacanze e avanzamento sociale bastava per attrarre dei lavoratori nel sistema, soprattutto ai livelli più bassi. In quell'epoca in cui la domanda era alta, gli uffici di collocamento sovietici inviavano i lavoratori dove ce n'era bisogno, senza nemmeno spiegare loro dove stavano andando. Un'ex infermiera del Gulag, Zoja Eremenko, dalla scuola per infermieri fu mandata direttamente a lavorare in un luogo che, a quanto le avevano detto, era un cantiere edilizio. Quando arrivò, scoprì di trovarsi in un campo di prigionia, Krasnojarsk-26. "Eravamo sorpresi, spaventati, ma quando cominciammo a conoscere il posto, scoprimmo che "lì" c'era la stessa gente, e il nostro lavoro sanitario era uguale a quello per cui ci eravamo preparati durante gli studi" racconta.42

Particolarmente tragica era la situazione di quanti furono costretti a lavorare nei campi dopo la Seconda guerra mondiale. Migliaia di

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ex soldati dell'Armata rossa, che avevano combattuto in Germania e di civili che durante il conflitto si trovavano "all'estero" come deportati o rifugiati, vennero arrestati alla frontiera dell'Unione Sovietica e confinati in "campi di filtraggio", dove subirono interrogatori approfonditi. Alcuni venivano arrestati, altri talvolta inviati direttamente a lavorare come guardie carcerarie. All'inizio del 1946, 31.000 persone si trovavano in questa situazione, e in alcuni campi costituivano oltre l'80 per cento delle guardie in servizio.43 Per loro non era facile andarsene. A molti avevano sequestrato i documenti, il passaporto, il permesso di residenza, il certificato del servizio militare. Senza, non potevano lasciare i campi, nemmeno per cercarsi un altro lavoro. Ogni anno se ne suicidavano da trecento a quattrocento. Uno, dopo aver tentato il suicidio, ne spiegò il motivo: "Sono in servizio da molto tempo, e non mi hanno ancora rilasciato il permesso di residenza; quasi tutti i giorni passa un poliziotto con l'intimazione di sgombrare l'appartamento, e ogni volta questo fatto provoca litigi nella mia famiglia".44

Altri semplicemente degeneravano. Karlo ètajner, un comunista iugoslavo il quale durante e dopo la guerra era detenuto a Noril'sk, li rammenta "molto diversi da quelli che in guerra non avevano combattuto";

Non solo i loro costumi erano più rilassati, ma erano pronti a fare qual-siasi cosa. Non avevano paura delle rappresaglie e permettevano ai criminali di lasciare le loro baracche per svaligiare gli appartamenti degli abitanti. Il loro comportamento aveva questo di buono per i detenuti politici: li lasciavano tranquilli.45

Protestavano in pochi, in pochissimi. Negli archivi, per esempio, è attestato il caso di un certo Daniljuk, arruolato contro la sua volontà, che si rifiutò in modo categorico di prestare servizio tra le guardie armate, adducendo questo motivo: "Non voglio affatto prestare servizio per gli organi del ministero dell'Interno". Rimase saldo nei suoi propositi nonostante quelle che nei documenti vengono definite "udienze giudiziarie", senza dubbio lunghi periodi di intimidazioni, forse di pestaggi veri e propri. Alla fine lo congedarono. Almeno nel suo caso, il rifiuto saldo e ostinato di lavorare per il Gulag venne ricompensato.46

Tuttavia, il sistema ripagava i suoi membri più fortunati e più leali, alcuni dei quali ottennero ben altro che un avanzamento sociale o razioni migliori: chi facendo lavorare i detenuti procurava allo Stato grosse quantità di oro o di legname alla fine veniva premiato. E

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mentre la maggior parte dei lagpunkt forestali non offriva mai un ambiente piacevole per viverci, nemmeno a coloro che li dirigevano, i quartier generali di alcuni campi più importanti nel tempo divennero davvero molto confortevoli.

Negli anni Quaranta le città che si trovavano al centro dei complessi di campi più vasti - Magadan, Vorkuta, Noril'sk, Uhta - erano ormai grandi e molto trafficate, piene di negozi, teatri e parchi. Dall'epoca della pionieristica nascita del Gulag le opportunità di fare la bella vita erano aumentate enormemente. I massimi comandanti dei campi più grandi disponevano di un'ottima retribuzione, incentivi migliori e vacanze più lunghe di chi lavorava nel mondo normale. Potevano procurarsi con maggiore facilità generi alimentari e oggetti di cui c'era scarsa disponibilità ovunque. "A Noril'sk si stava meglio che in qual-siasi altro posto nell'Unione Sovietica" sostiene Andre] Ceburkin, caposquadra Noril'sk e, poi, funzionario della locale burocrazia:

In primo luogo tutti i dirigenti avevano delle domestiche, domestiche detenute. Poi si mangiava in modo straordinario. C'era un'ampia varietà di pesce. Si poteva andare a pescarlo nei laghi. E se nel resto dell'Unione c'erano le tessere annonarie, lì in pratica non le usavamo. Carne. Burro. Se volevi bere champagne, potevi abbinarlo con la polpa di granchio. Ce n'erano così tanti! Caviale ... ce n'era a barili. Parlo dei capi, è chiaro. Non parlo dei lavoratori. Ma i lavoratori erano detenuti ...

La paga era buona ... se eri un caposquadra, diciamo, guadagnavi 6-8000 rubli. Nella Russia centrale non ne avresti presi più di 1200. Arrivai a lavorare a Noril'sk come sovrintendente di un direttorio speciale dell'NKVD, che cercava l'uranio. Mi retribuivano come un supervisore: all'inizio 2100 rubli, poi ogni sei mesi mi davano un aumento del 10 per cento, circa il quintuplo di quanto prendono di solito i civili.47

La prima osservazione di Ceburkin, "tutti i dirigenti avevano delle domestiche", rappresenta un elemento fondamentale, perché in realtà valeva per tutti, non soltanto per i dirigenti. In linea di principio era proibito utilizzare i detenuti come domestici. Ma si trattava di un'abitudine molto diffusa, le autorità lo sapevano bene; una consuetudine radicata, nonostante i frequenti tentativi di abolirla.48 A Vorkuta, Kon-stantin Rokossovskij, ufficiale dell'Armata rossa e poi generale, maresciallo, quindi ministro della Difesa nella Polonia staliniana, faceva il cameriere per un "rozzo secondino di nome Bucko": "I miei compiti consistevano nell'andare a prendergli i pasti, pulire e riscaldare la sua villetta e cose simili".49 A Magadan, per un certo periodo Evgenija Ginzburg lavorò come lavandaia per la moglie di un amministratore del campo.50

Gulag

Anche Thomas Sgovio lavorò come attendente personale di un ufficiale delle guardie della Kolyma: gli preparava da mangiare e cercava di procurargli degli alcolici. L'uomo arrivò a fidarsi di lui "Thomas, ragazzo mio," gli diceva "ricordati una cosa. Stai attento alla mia tessera del Partito. Quando sono ubriaco, guarda che non la perda. Sei il mio servo, se mai la perdessi dovrei ucciderti a fucilate come un cane ... e non voglio."51

Tuttavia, per i grandi capi, i domestici rappresentavano solo l'inizio. Ivan Nikisov, che nel 1939, in conseguenza delle epurazioni, fu nominato capo del Dal'stroj e mantenne la carica fino al 1948, divenne tristemente famoso per le ricchezze accumulate in un ambiente in cui regnava una spaventosa povertà. Era di una generazione diversa rispetto al suo predecessore Berzin, una generazione estranea agli anni di miseria e fervore della rivoluzione e della guerra civile. Forse è per questo motivo che Nikisov sfruttava senza scrupoli la propria posizione per vivere bene. Si era attrezzato, mettendo insieme "un nutrito servizio di sicurezza personale, automobili di lusso, uffici spaziosi e una splendida dacia di fronte all'Oceano Pacifico".52 Secondo le testimonianze dei prigionieri, la villa era fornita di tappeti orientali, pelli d'orso e candelieri di cristallo. Si dice che nella sontuosa sala da pranzo, lui e la seconda moglie, una giovane e ambiziosa comandante del campo il cui nome era Gridasova, si facessero servire arrosto d'orso, vino del Caucaso, frutta proveniente dal sud, pomodori e cetrioli freschi prodotti in serre private.53

Nikisov non era l'unico a vivere nel lusso. Lev Razgon, nella sua indimenticabile descrizione del colonnello Tarasjuk, durante la guerra comandante dell'Ust'vymlag, narra eccessi analoghi:

Viveva come il governatore romano di una provincia barbara conquistata da Roma. Nelle serre speciali coltivavano per lui verdura, frutta e fiori, roba esotica per il freddo Nord. Per fabbricargli i mobili si fecero venire i migliori ebanisti; sarti un tempo rinomati confezionavano gli abiti per la sua capricciosa e bisbetica consorte. Non si faceva curare dai medicastri salariati vendutisi al Gulag appena usciti dall'università, ma da luminati, ex direttori di cliniche della capitale che scontavano le loro lunghe condanne nelle infcrmerie dei lager sperduti tra i boschi.54

Spesso i prigionieri dovevano aiutare a soddisfare questi capricci. Isaac Vogel'fanger, un medico del campo, si ritrovava continuamente a corto di alcol perché il suo farmacista lo usava per fare il brandy. Il comandante lo serviva ai dignitari in visita: "Più bevono alcolici/ più migliora la loro opinione sul lavoro del Sevurallag". Vogel'fanger vide anche un cuciniere del campo preparare un "banchetto" per

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alcuni ospiti, con ingredienti messi da parte per l'occasione: "Caviale, anguilla affumicata, involtini di pasta francese con i funghi, sai-Aerini dell'Artico in gelatina di limone, oca al forno e porcellino al forno".55

Sempre in quel periodo, negli anni Quaranta, i dirigenti come fsfikisov cominciarono a considerarsi qualcosa più che semplici carcerieri. Alcuni entrarono addirittura in competizione tra loro, in un'assurda gara di ostentazione tra vicini. Rivaleggiavano per presentare le migliori compagnie teatrali di detenuti, le migliori orchestre di detenuti, i migliori artisti detenuti. Nel 1946 Lev Kopelev si trovava neH'Unzlag, in un periodo in cui il suo comandante stava selezionando direttamente in carcere "gli attori, i musicisti e gli artisti migliori, cui assegnava le mansioni più ambite, quelle di addetti alle pulizie e custodi nell'ospedale". Il campo divenne famoso come "rifugio per gli artisti".56 Anche il Dal'stroj si gloriava di una compagnia di reclusi chiamata "Circolo del Sevvostlag", che si esibiva a Magadan e in alcuni campi isolati della zona mineraria, e della quale facevano parte molti cantanti e ballerini famosi detenuti nella Kolyma.57 Lev Razgon descrive anche il comandante deU'Uhtizem-lag, il quale a Uhta "aveva una vera e propria compagnia di operetta" diretta da un famoso attore sovietico e aveva alle proprie dipendenze anche una famosa ballerina del Bol'soj, oltre a cantanti e musicisti di prim'ordine:

Ogni tanto il capo del lager di Uchtà [l'Uhtizemlag] faceva visita al suo vicino. Benché ciò fosse prosaicamente definito "scambio di esperienze", la visita si svolgeva secondo i canoni del protocollo diplomatico. Il capo era scortato da uno stuolo di capetti sistemati nelle camere migliori dell'albergo locale, e venivano offerti i doni... Il capo si portava appresso i suoi artisti migliori, affinchè il padrone di casa capisse che, quanto ad arte, non era secondo a nessuno...58

Ancora oggi l'ex teatro deU'Uhtizemlag, un grande edificio bianco, ornato di colonne e simboli teatrali sul frontone, è uno degli edifici più solidi della città di Uhta. Si può raggiungere a piedi dalla residenza dell'ex comandante del campo, una spaziosa casa in legno sul limitare di un parco.

Tuttavia non erano soltanto i comandanti con una propensione Per l'arte a indulgere ai propri capricci. Anche quanti amavano lo sport potevano mettersi alla prova, costituendo proprie squadre di calcio che affrontavano l'avversario praticando un gioco piuttosto duro. Nikolaj Starostin, il famoso calciatore, fu mandato a Uhta perché la sua squadra aveva malauguratamente sconfitto quella per cui

Gulag

tifava Berija, e quando il suo treno arrivò vennero a prenderlo alla stazione. Lo portarono a conoscere il dirigente della squadra locale, il quale lo trattò con educazione e gli disse che era stato inviato lì per esplicita richiesta del comandante del campo: "II generale è un appassionato di calcio. È stato lui a farti venire qui". Per la maggior parte del periodo trascorso in prigionia, Starostin si occupò di squadre dell'NKVD, trasferendosi da un posto all'altro a seconda di quale comandante lo richiedesse come allenatore.59

Di tanto in tanto, ma solo di tanto in tanto, le voci che circolavano su tali eccessi suscitavano allarme a Mosca, o almeno interesse. Forse per rispondere alle proteste, una volta Berija autorizzò un'inchiesta segreta sul fastoso stile di vita di Nikisov. Il successivo rapporto confermava, tra l'altro, che una volta Nikisov aveva speso 15.000 rubli, una somma enorme all'epoca, per un banchetto offerto per festeggiare l'arrivo della Compagnia di operetta di Habarovsk.60 Nel rapporto si denuncia inoltre l'"atmosfera di servilismo" di cui si circondavano Nikisov e la moglie: "La Gridasova è talmente influente che persino i vice di Nikisov sostengono di poter restare al loro posto soltanto fino a quando godono del suo favore".61 Comunque non vennero presi provvedimenti. La Gridasova e Nikisov continuarono a regnare in pace.

Negli ultimi anni è diventato di moda affermare che, contrariamente a quanto si sosteneva dopo la guerra, furono pochi i tedeschi costretti a lavorare nei campi di concentramento o nelle squadre della morte. Di recente uno studioso ha dichiarato che molti vi entravano di propria volontà, una tesi che ha suscitato qualche polemica.62 Nel caso della Russia e degli altri Stati postsovietici, il problema va esaminato in modo diverso. Il più delle volte, i dipendenti dei campi - come tantissimi altri cittadini sovietici - non avevano molte alternative. L'ufficio di collocamento li mandava a lavorare in un dato posto, e loro dovevano andarci. L'impossibilità di scegliere faceva parte del sistema economico sovietico.

Ciò nondimeno, non sarebbe giusto affermare che gli ufficiali dell'NKVD e gli agenti della guardia armata "non se la passavano molto meglio dei detenuti sotto il loro controllo" o erano delle vittime del sistema, come si è tentato di fare. Infatti, anche se avrebbero preferito lavorare altrove, quando entravano nel sistema i dipendenti del Gulag potevano scegliere, molto più dei colleghi nazisti, le cui mansioni erano definite con maggior rigore. Potevano scegliere se comportarsi in modo brutale o essere gentili. Potevano scegliere se este-

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nuare i loro prigionieri fino a farli morire o tenerne in vita il maggior numero possibile. Potevano scegliere se compatire i detenuti, di cui magari un tempo avevano condiviso il destino così come avrebbero potuto condividerlo in futuro, o approfittare del proprio temporaneo colpo di fortuna, tiranneggiando i compagni di sofferenza del passato, e del futuro.

Nulla nel loro passato poteva indicare con certezza la via che avrebbero scelto, perché tanto gli amministratori come i comuni agenti di guardia avevano origini etniche e sociali molto diverse, proprio come i prigionieri. Anzi, quando ai sopravvissuti del Gulag si chiede di descrivere il carattere dei loro guardiani, rispondono quasi sempre che variavano moltissimo. Ho posto questa domanda a Galina Smirnova, e lei mi ha risposto che "ce n'erano di tutti i generi, come gli altri".63 Anna Andreevna mi ha detto: "C'erano sadici patologici, e c'erano persone normalissime, buone". La Andreevna mi ha anche parlato di un giorno, poco dopo la morte di Stalin, in cui il capo contabile nel suo campo si precipitò all'improvviso nell'ufficio amministrativo dove lavoravano delle prigioniere, le confortò, le abbracciò e gridò: "Toglietevi i numeri, ragazze, vi restituiscono i vostri vestiti!".64

Anche Irena Arginskaja mi ha spiegato che i suoi guardiani, oltre a essere "persone di tipo molto diverso", nel tempo cambiavano. In particolare, all'inizio i militari di leva si comportavano "come bestie", perché erano montati dalla propaganda, ma "dopo un po' cominciavano a capire, certo non tutti, ma in buona parte, e spesso cambiavano".65

È vero che le autorità facevano pressioni sugli amministratori e gli agenti perché non mostrassero alcuna gentilezza nei confronti dei detenuti. Nell'archivio dell'ispettorato del Gulag è registrato il caso di Levin, capo della divisione di approvvigionamento di una sezione del Dmitlag, che nel 1937 fu sottoposto a un'inchiesta per la sua indulgenza. La sua colpa consisteva nell'aver permesso a un prigioniero di vedere il fratello: di norma, all'interno del sistema carcerario i parenti venivano isolati gli uni dagli altri. Levin fu accusato inoltre di essere troppo cordiale nei confronti degli zek in generale, e soprattutto di un gruppo di presunti menscevichi. Da parte sua Levin, lui stesso ex detenuto al canale del mar Bianco, affermò di non sapere che si trattava di menscevichi. Era il 1937, perciò fu condannato lo stesso.66

Tuttavia, tali restrizioni non venivano applicate con rigore. Anzi, molti comandanti di massimo livello si fecero una fama per la loro gentilezza verso i prigionieri. In Lo stalinismo, un testo di denuncia di

Gulag

questo regime, lo storico e giornalista dissidente Roj Medvedev descrive un comandante di campo, V.A. Kundus, il quale aveva preso sul serio le richieste di aumentare la produzione durante la guerra. Assegnò i lavori d'ufficio ai prigionieri politici più istruiti, e cominciò a trattare bene i suoi detenuti, anzi per alcuni ottenne addirittura la scarcerazione anticipata. Durante la guerra la sua impresa fu premiata con F"Ordine della Bandiera Rossa per la gestione". Ma alla fine del conflitto arrestarono anche lui, forse proprio per il regime umanitario che aveva aumentato la sua produzione.67 Lev Razgon descrive una prigione di transito inconsueta di Georgievsk, dove furono rinchiusi sia lui sia la sua seconda moglie, Rika:

Con le celle che avevano i pavimenti e i tavolacci non solo spazzati, ma persino lavati. Con il cibo che era così abbondante da spegnere la fame. Con il bagno dove ci si poteva lavare veramente. Con un'apposita stanza (e questo colpì Rika più di ogni altra cosa) con tutto il necessario per la toilette femminile...68

Ne esistevano anche altre. Durante la sua prigionia, a un certo punto Genrih Gorcakov, un ebreo russo arrestato nel 1945, fu inviato in un campo per invalidi nel complesso del Siblag. Vi era arrivato da poco un nuovo comandante, un ex ufficiale di prima linea che dopo la guerra non era riuscito a trovare altro impiego. Questi prendeva sul serio il suo lavoro: fece costruire nuove baracche, procurò materassi e persino lenzuola per i detenuti e riorganizzò i processi di produzione, trasformando completamente il campo.69

Un altro ex zek, Aleksej Prjadilov, arrestato a sedici anni, venne mandato in un campo di lavoro agricolo nell'Alta). Il comandante lo "gestiva come un'organizzazione economica, e non trattava i detenuti come criminali o nemici da "rieducare", ma come lavoratori. Era convinto che fosse inutile cercare di far lavorare bene la gente affamata".70 Persino gli ispettori del Gulag a volte trovavano dei buoni comandanti. Uno che nel 1942 visitò il Birlag, riferisce: "i prigionieri della fabbrica lavoravano in modo eccellente perché si trovavano in una situazione eccellente". Le baracche erano pulite, ciascuno aveva le sue lenzuola e le sue coperte, vestiti e scarpe di buona qualità.71

La gentilezza poteva assumere forme più dirette. La memorialista Galina Levinson racconta di un comandante che parlò a lungo con una detenuta intenzionata ad abortire. "Quando lascerai il campo, sarai sola" le disse. "Pensa a come sarebbe bello avere un bambino." La donna gliene fu grata per tutta la vita.72 Anche Anatolij Zigulin parla di un "buon" comandante, che "salvò centinaia di persone dalla morte", chiamava i suoi reclusi "compagni detenuti" in spre-

Le guardie 295

gjo al regolamento, e aveva ordinato al cuoco di farli mangiare meglio. Certo, osserva Zigulin, "non conosceva ancora le regole". Ma-rija Sandratskaja, arrestata in qualità di moglie di un "nemico", racconta di un comandante che seguiva con particolare attenzione le madri detenute nel campo, curando che l'asilo fosse gestito bene, che durante l'allattamento le donne mangiassero abbastanza, e che le madri non lavorassero troppo.73

La gentilezza era davvero possibile: a qualsiasi livello, c'era sempre qualcuno che non cedeva alla propaganda secondo cui tutti i prigionieri erano nemici, qualcuno che capiva davvero la situazione. E moltissimi memorialisti riportano un singolo episodio di bontà da parte di una guardia, o un singolo caso di attenzione. Evgenij Gnedin racconta: "Ancora in pieno Terrore staliniano, il comandante di uno degli innumerevoli lager, venuto a conoscenza della mia sentenza, si decise a dire che non avevo commesso alcun reato" ,74 Allo stesso tem-po,però, molti sopravvissuti si stupiscono di quanto fossero eccezionali i casi di questo tipo. Infatti, nonostante le poche eccezioni, di norma le prigioni non erano pulite, molti campi erano letali, e la maggior parte dei carcerieri trattava i detenuti nel migliore dei casi con indifferenza, nel peggiore con deliberata crudeltà.

Lo ripeto, da nessuna parte si pretendeva un comportamento crudele. Anzi: l'amministrazione centrale aveva condannato in forma ufficiale la crudeltà deliberata. Guardie e amministratori che trattavano con immotivata durezza i detenuti spesso venivano puniti. Negli archivi del Vjatlag si conservano rapporti relativi a guardie punite perché pestavano "sistematicamente gli zefc", perché rubavano gli averi dei prigionieri e perché violentavano le donne.75 Negli archivi del Dmitlag sono registrate le condanne penali emesse contro amministratori accusati di picchiare i prigionieri quando avevano bevuto. Nell'archivio centrale del Gulag sono registrate anche le punizioni in-flitte ai comandanti che bastonavano i prigionieri, li torturavano durante gli interrogatori, o li trasferivano senza abiti invernali adatti.76

Ciononostante, la crudeltà continuava a esistere. Talvolta era dovuta a vero e proprio sadismo. Viktor Bulgakov, detenuto negli anni Cinquanta, racconta di un agente, un kazaco analfabeta, cui dava piacere costringere i detenuti a restare fermi in piedi nella neve a congelare lentamente, e un altro che amava "ostentare la propria forza picchiando i prigionieri" senza alcuna ragione.77 Negli archivi del Gulag, tra molti altri documenti analoghi, si conserva la descrizione del comandante di un lagpunkt del Volgostroj durante la guerra, il compagno Resetov, che per punire gli zek li chiudeva in celle

Gulag

ghiacciate, e costringeva gli ammalati a lavorare con temperature molto basse, per cui molti morivano sul posto.78

Più spesso, la crudeltà non nasceva dal sadismo ma da motivi di interesse. Le guardie che sparavano ai prigionieri fuggiaschi venivano ricompensate in denaro, e talvolta con una licenza. Sicché a-vevano la tentazione di incoraggiare le "fughe". Zigulin descrive le conseguenze:

La guardia gridava a qualcuno in colonna: "Ehi, portami quell'asse!".

"Ma è oltre il recinto..."

"Non importa! Vai!"

Il prigioniero andava, seguito da una raffica di mitra.79

Tali incidenti avvenivano di frequente, come attestano i documenti d'archivio. Nel 1938, 4 agenti dei VOHR che lavoravano nel Vjatlag furono condannati per aver ucciso due prigionieri dopo averli "incitati" alla fuga. In seguito emerse che il comandante della divisione e il suo vice avevano sottratto gli oggetti personali dei detenuti.80 Anche lo scrittore Boris D'jakov, nel suo saggio "filosovietico" sul Gulag, pubblicato in URSS nel 1964, parla dell'abitudine di fomentare le evasioni.81

A volte, tanto sui treni sotto scorta quanto nei campi sembrava che la crudeltà nascesse dalla rabbia o dalla noia per essere costretti a fare un lavoro umile. Mentre lavorava come infermiera in un ospedale della Kolyma, la comunista olandese Elinor Lipper una notte vegliò un paziente affetto da pleurite, che aveva la febbre alta. Sulla schiena l'uomo aveva una pustola, scoppiata per colpa della guardia che lo aveva portato all'ospedale:

Respirando a fatica, mi disse che la guardia voleva sbrigarsela il più in fretta possibile con quella scomoda marcia, e quindi aveva fatto camminare per ore il prigioniero ammalato e febbricitante a colpi di bastone. All'arrivo lo aveva minacciato di spaccargli tutte le ossa se avesse riferito all'ospedale di essere stato picchiato.

L'uomo, terrorizzato fino alla fine, non aveva voluto ripetere la storia in presenza di persone che non fossero detenuti. "Lo lasciammo morire in pace" racconta la Lipper "e la guardia continuò a picchiare i prigionieri indisturbata."82

Comunque, nella maggior parte dei casi la crudeltà degli agenti dei campi sovietici era dovuta a stupidità, mancanza di riflessione, pigrizia, e assomigliava a quella dimostrata verso le mucche o le pecore. Certo non dicevano in modo esplicito alle guardie di maltrattare i prigionieri, ma nemmeno insegnavano loro a considerarli esseri

^p^p

Le guardie 297

umani a pieno titolo, soprattutto i politici. Anzi, cercavano in tutti i modi di suscitare in loro il disprezzo per i detenuti, definiti di continuo "pericolosi criminali, spie e sabotatori intenzionati a distruggere il popolo sovietico". Tale propaganda influenzava moltissimo persone già amareggiate dalla sfortuna, dalla frustrazione di un lavoro che non amavano e da condizioni di vita insoddisfacenti.83 Oltre a influire sugli agenti della guardia armata, plasmava anche l'opinione dei lavoratori liberi, gli abitanti del luogo che lavoravano nei campi senza essere dipendenti dell'NKVD, come racconta un detenuto: "Di solito ci separava dai lavoratori liberi un muro di reciproca diffidenza ... Le nostre sagome grigie, in marcia sotto scorta e talvolta con i cani, probabilmente [rappresentavano] per loro una cosa molto spiacevole alla quale era meglio non pensare".84

Questo fenomeno esisteva già negli anni Venti, l'epoca in cui le guardie delle Soloveckie costringevano i prigionieri congelati dal freddo a saltare nel fiume al grido di "Delfino!". Ovviamente peggiorò alla fine degli anni Trenta, quando i politici furono degradati al livello di "nemici del popolo", e il regime nei campi venne inasprito. Nel 1937, avendo saputo che un grosso convoglio di trockisti era in arrivo nella Kolyma, il comandante del campo, Edvard Berzin, disse a un gruppo di collaboratori: "Se quei porci che stanno arrivando hanno compiuto dei sabotaggi nella madrepatria, noi dobbiamo fare in modo che qui nella Kolyma lavorino per l'Unione Sovietica. Abbiamo i mezzi per costringerli a lavorare... ".85

E comunque la propaganda non cessò mai, nemmeno dopo la fine del Grande terrore. Negli anni Quaranta e Cinquanta i prigionieri venivano definiti regolarmente criminali di guerra e collaborazionisti, traditori e spie. Ai nazionalisti ucraini, che cominciarono ad affluire nei campi dopo la Seconda guerra mondiale, si attribuivano diversi appellativi, per esempio "cani bavosi, servi del boia nazista", "fascisti tedeschi ucraini" o "agenti dei servizi segreti stranieri". Nikita Hruscev, all'epoca leader dell'Ucraina, durante un'assemblea plenaria del comitato centrale affermò che i nazionalisti ucraini si erano "suicidati cercando di compiacere Hitler, il loro padrone, e per ottenere un pezzette del bottino in cambio dei loro servigi di cani".86 Durante la guerra, le guardie chiamavano quasi tutti i prigionieri Politici "fascisti" o "hitleriani" o "vlasoviani" (cioè seguaci di Andrej vlasov, un generale dell'Armata rossa che si era messo al servizio di Hitler).

Era un'abitudine umiliante, soprattutto per gli ebrei, per i veterani che avevano combattuto con coraggio contro i tedeschi e per i co-

Gulag

munisti stranieri che erano fuggiti dal fascismo nei loro paesi.87 ij comunista iugoslavo Karlo Stajner, insultato da una guardia che per due volte lo aveva chiamato "fascista", le rispose indignato: "Fascista sarai tu".88 Margarete Buber-Neumann, una comunista tedesca che quando venne rilasciata dal Gulag fu trasferita subito nel lager nazista di Ravensbrùck, racconta di come la chiamavano "la fascista tedesca".89 E quando Mihail Srejder, un ufficiale dell'NKVD arrestato, disse all'inquirente che, essendo ebreo, non potevano accusarlo di collaborare con Hitler, l'altro gli rispose che non era un ebreo, ma "un tedesco travestito da ebreo".90

Tuttavia, l'abitudine di inventare appellativi insultanti non era un vano giochetto da ragazzi. Definendo i detenuti "nemici" o "subumani", le guardie si rassicuravano sulla legittimità delle proprie azioni. In realtà, la retorica dei "nemici" era una componente dei quadri del Gulag. L'altra componente, diciamo la retorica della "schiavitù di Stato", insisteva sull'importanza del lavoro, e delle cifre relative alla produzione, che dovevano continuare a crescere per salvaguardare l'esistenza stessa dell'Unione Sovietica, hi parole povere, si poteva giustificare qualsiasi cosa se serviva a ricavare più oro. Questa tesi è stata riassunta in modo magnifico da Aleksej Logi-nov, un ex direttore della produzione e dei campi di prigionia di No-ril'sk, durante un'intervista concessa a un regista di documentari britannico:

Sapevamo benissimo fin dall'inizio che il mondo esterno non avrebbe mai lasciato in pace la nostra rivoluzione. Stalin non era il solo a comprenderlo, tutti, qualsiasi normale comunista, qualsiasi persona comune si rendeva conto di come, oltre a costruire, dovevamo costruire nella piena consapevolezza che presto saremmo stati in guerra. Quindi nella mia zona la ricerca di tutte le fonti di materie prime, rame, nichel, alluminio, ferro eccetera era intensissima. Conoscevamo da sempre le risorse enormi di Noril'sk, ma come sfruttarle nell'Artico? Quindi tutta l'impresa fu messa nelle mani dell'NKVD, il ministero dell'Interno. Chi altri avrebbe potuto occuparsene? Lei lo sa quante persone furono arrestate. E per noi ce ne volevano decine di migliaia, laggiù...91

Loginov parlava negli anni Novanta, quando da quasi cin-quant'anni Noril'sk non era più un vasto complesso carcerario. Ma le sue parole riecheggiano quelle scritte nel 1964 da Anna Zaharova, moglie di un comandante di campo, in una lettera al giornale governativo "Izvestija" che non fu mai pubblicata, ma che in seguito usci sulla stampa clandestina. La Zaharova, proprio come Loginov, parlava del senso del dovere, dei sacrifici fatti dal marito per accrescere la gloria del paese: "Si era già rovinato la salute lavorando con i eri-

mi

Le guardie 299

minali, perché il lavoro qui a poco a poco logora i nervi. Saremmo felici di trasferirci, perché mio marito ha già completato il servizio, jna non vogliono lasciarlo andare. È un comunista e un ufficiale, e la sua posizione comporta degli obblighi".92

Anche un'ex amministratrice dei campi che ha voluto restare a-nonima mi ha esposto un punto di vista analogo. Mi ha raccontato con fierezza del lavoro svolto per l'URSS durante la guerra dai suoi prigionieri: "Tutti i prigionieri, senza eccezione, hanno lavorato e pagato a proprio modo, e hanno dato tutto quello che potevano al fronte".93

Nella prospettiva più vasta della fedeltà dovuta all'Unione Sovietica e ai suoi obiettivi economici, la crudeltà perpetrata per aumentare la produzione sembrava del tutto encomiabile a chi la praticava. O meglio, la vera natura della crudeltà, come la vera natura dei campi, poteva essere mascherata sotto il gergo dell'economia. Dopo avere intervistato un ex amministratore del Karlag nel 1991, il giornalista americano Adam Hochschild ha osservato: "Dalle parole del colonnello non si capiva che si trattava di una prigione. Ha parlato quasi esclusivamente del ruolo del Karlag nell'economia sovietica. Sembrava un fiero dirigente regionale del Partito: "Avevamo l'azienda agricola sperimentale. Anche l'allevamento di bestiame era progredito. Allevavamo una razza speciale di mucche, le rosse della steppa, e anche le teste bianche kazake.. ."".94

Ai massimi livelli, spesso gli amministratori parlavano dei prigionieri come di macchine o attrezzi, necessari per completare il lavoro e nient'altro. Venivano considerati senza remore manodopera a basso costo, conveniente, solo una cosa necessaria, proprio come le forniture di cemento o di acciaio. Anche in questo caso Loginov, il comandante di Noril'sk, esprime bene il concetto:

Se avessimo mandato [a Noril'sk] dei civili, innanzitutto avremmo dovuto costruire loro le case. E come sarebbero riusciti i civili a vivere laggiù? Con i detenuti è facile, per loro basta una baracca, una stufa con il camino e sopravvivono. E poi magari un posto dove mangiare. Insomma, data la situazione dell'epoca, i detenuti erano gli unici che fosse possibile utilizzare su larga scala. Disponendo di più tempo, probabilmente non avremmo fatto le cose in quel modo.. .95

Allo stesso tempo, il gergo economico permetteva ai dirigenti dei campi di giustificare qualsiasi cosa, persino la morte: tutto veniva fatto per il bene comune. A volte quest'argomentazione veniva portata alle estreme conseguenze. Lev Razgon, per esempio, riferisce conversazione tra il colonnello Tarasjuk, allora comandante del-

Gulag

l'Ust'vymlag, e un medico del campo, Kogan, che aveva commesso l'errore di vantarsi con Tarasjuk del numero di pazienti "strappati alla morsa della pellagra", una malattia provocata dalla malnutrizione e dalla mancanza di proteine. Secondo Razgon, si svolse il dialogo seguente:

Tarasjuk: "Cosa gli danno?".

Kogan: "Ricevono tutti la razione antipellagra stabilita dal settore sanitario del Gulag: tanta albumina per tante calorie".

Tarasjuk: "Quando e quanti di loro andranno nel bosco?".

Kogan: "Loro nel bosco non ci andranno più. In compenso non moriranno e un giorno o l'altro potranno essere utilizzati nella zona per i lavori leggeri".

Tarasjuk: "Sospenda le razioni antipellagra. Scriva: "Trasferire le razioni a chi lavora nel bosco". Ai convalescenti distribuisca quelle per gli invalidi".

Kogan: "Ma compagno colonnello! Evidentemente mi sono spiegato male. Se questa gente resta in vita, è solo grazie alla razione speciale. Agli invalidi spettano solo quattrocento grammi di pane... Con una razione così crcperanno in dieci giorni... Non può farlo!".

Tarasjuk osservò il medico, concitato, con un certo interesse: "È la sua etica professionale che non le permette di agire così?".

"Ebbene sì..."

"Me ne frego della sua etica" fece Tarasjuk tranquillo e senza un filo di rabbia. "Ha preso nota? Proseguiamo..."

Quelle duecentoquarantasei persone morirono nel giro di un mese.96

Conversazioni del genere non erano inconsuete, e nemmeno inventate, lo attestano le fonti d'archivio. In un rapporto sulle condizioni dei prigionieri del Volgostroj durante la guerra, un ispettore denunciava il fatto che l'amministrazione del campo si interessava "soltanto alla produzione del legname": "non si curava affatto di nutrire e vestire i detenuti, li mandava a lavorare all'aperto senza riguardo per le loro condizioni fisiche, senza preoccuparsi che fossero coperti, sani e ben nutriti".97 Nei documenti d'archivio è registrato anche il seguente commento, fatto durante una riunione di funzionai! del Vjatlag nel gennaio 1943. Parlando la lingua neutra delle statistiche, il compagno Avruckij presentò una proposta: "Abbiamo il cento per cento della manodopera, ma non riusciamo a realizzare il programma, perché il gruppo B continua ad aumentare. Se il cibo che diamo al gruppo B venisse dato a un altro contingente, non esisterebbe più il gruppo B, e riusciremmo a realizzare il programma...".98 Il "gruppo B", ovviamente, era costituito dai prigionieri più deboli, che certo avrebbero cessato di esistere qualora avessero smesso di nutrirli.

Se i comandanti potevano prendersi il lusso di decidere cose del genere, senza avere rapporti diretti con le persone su cui ne sarebbe-

Le guardie 301

r0 ricadute le conseguenze, non sempre la vicinanza suscitava maggiore compassione in chi si trovava a un livello più basso della ge-rarchia. Un detenuto polacco, Kazimierz Zarod, si trovava in una colonna di prigionieri diretta alla località dove doveva sorgere un nuovo campo. In pratica i prigionieri non ricevevano da mangiare, e cominciarono a indebolirsi. Alla fine, uno cadde per terra, e non riusciva a rialzarsi. Una guardia gli puntò contro il fucile. Un'altra minacciò di sparare:

Udii l'uomo gemere: "Per amor di Dio, se solo mi lasciassi riposare per un po' ce la farei".

"O cammini o muori", disse la prima guardia...

Lo vidi alzare il fucile e prendere la mira: non riuscivo a credere che avrebbe sparato. Intanto gli uomini in colonna alle mie spalle si erano raggnippati e mi coprivano la visuale, ma all'improvviso rimbombò uno sparo, poi un altro, e capii che l'uomo era morto.

Tuttavia, Zarod racconta anche che non sempre quando qualcuno cadeva per la strada lo ammazzavano. Se le persone troppo esauste per camminare erano giovani, venivano tirate su e gettate su un carro, dove "giacevano come sacchi fino a quando non si riprendevano ... A quanto potevo capire, il ragionamento era che i giovani, dopo essersi ripresi, potevano ancora lavorare, mentre non valeva la pena salvare i vecchi. Di certo, quando prendevano uno come un fagotto di stracci e lo gettavano sul carro dei viveri non lo facevano per ragioni umanitarie. Le guardie, per quanto giovani, c'erano già passate, e sembravano scevre da qualsiasi sentimento umano".99

Sebbene questo atteggiamento non sia attestato in alcun memoriale, di certo riguardava anche chi si trovava ai vertici del sistema dei campi. Nei capitoli precedenti ho citato spesso i rapporti conservati negli schedar! dell'ispettorato del Gulag, una sezione dell'ufficio del procuratore sovietico. Tali rapporti, archiviati con grande regolarità e precisione, si distinguono per la loro sincerità. Parlano di epidemie di tifo, penuria di cibo, penuria di indumenti. Parlano di campi dove i tassi di mortalità erano "troppo alti". Accusano con indignazione alcuni comandanti di non fornire ai detenuti condizioni di vita adeguate. Calcolano il numero delle "giornate lavorative" perse a causa di malattie, incidenti, morte. Leggendoli, ci si convince che i pezzi da novanta del Gulag a Mosca sapevano, davvero e fino in fondo, come si viveva nei campi: nei rapporti c'è tutto, ed è espresso con un linguaggio franco come quello di Solzenicyn e Salamov.100

Anche se a volte qualcosa cambiava, anche se alcuni comandanti venivano condannati, la cosa più impressionante dei rapporti è la ri-

Gulag

petitività: fanno venire in mente la cultura assurda delle false isne. zioni, descritta così bene dallo scrittore russo ottocentesco Nikolaj Gogol'. È come se si rispettassero le forme, si compilasse il rapporto si esprimesse la debita indignazione, ma ignorando gli effetti concreti sugli esseri umani. Di solito ai comandanti dei campi si rimproverava di non essere riusciti a migliorare le condizioni di vita, ma comunque esse non miglioravano, e la discussione era chiusa.

In fondo, nessuno costringeva le guardie a salvare i giovani e ad assassinare i vecchi. Nessuno costringeva i comandanti a liberarsi degli ammalati. Nessuno costringeva i dirigenti del Gulag a Mosca a non tener conto delle implicazioni dei rapporti degli ispettori. Eppure guardie e amministratori prendevano tali decisioni ogni giorno, senza nascondersi, ed evidentemente erano convinti di averne il diritto.

Del resto, l'ideologia della schiavitù di Stato non era un'esclusiva dei padroni del Gulag. Anche i prigionieri venivano incoraggiati a collaborare; e alcuni lo fecero.

XIV I PRIGIONIERI

L'uomo è una creatura che può abituarsi a qualsiasi cosa, e penso che sia la sua migliore definizione.

FEDOR DOSTOEVSKIJ, Memorie dalla Casa dei morti1

"Urica": i criminali comuni

Per il prigioniero politico inesperto, per la contadinella arrestata con l'accusa di aver rubato una pagnotta, per l'ignaro deportato polacco, il primo incontro con gli urka, i delinquenti abituali sovietici, doveva essere un'esperienza sconcertante, traumatica e insondabile. Evgenija Ginzburg incontrò per la prima volta delle detenute comuni al momento di imbarcarsi sul battello per la Kolyma:

Non erano comuni malviventi, bensì il fior fiore del mondo della delinquenza: recidive, omicide, sadiche, maestre in perversioni sessuali ... cominciarono immediatamente a terrorizzare le "frauen", le "sovversive". Le entusiasmava l'idea che al mondo esistessero i "nemici del popolo", gente ancor più odiata e reietta di loro... si impossessarono del nostro pane, strapparono dai nostri fagotti gli ultimi stracci rimasti, ci cacciarono dai posti che occupavamo...2

Mentre il generale Aleksandr Gorbatov, un eroe di guerra sovietico che non era certo un codardo, viaggiava sulla stessa rotta attraversando il mare di Ohotsk nella stiva della nave a vapore Curma, gli rubarono gli stivali:

Uno di loro mi colpì con forza prima al torace e poi alla testa e, con un ghigno, mi disse: "Guardalo, giorni fa mi ha venduto gli stivali, ha intascato i soldi e poi si è rifiutato di darmeli!". Poi se ne andarono con il bottino, ridendo a più non posso, e si interruppero solo per picchiarmi di nuovo Quando, per pura disperazione, li seguii e chiesi i miei stivali indietro.3

Gw/ag

Scene simili sono state descritte da decine di memorialisti. I criminali di professione attaccavano gli altri detenuti in preda a quella che sembrava furia cieca, buttandoli giù dalle cuccette nelle baracche o nei treni; rubavano loro gli indumenti rimasti, urlando, bestemmiando e imprecando. Il loro aspetto e il loro comportamento apparivano oltremodo bizzarri alla gente normale. La "completa mancanza di inibizioni dimostrata dagli urka, che davano sfogo senza pudore a tutte le funzioni corporali, compresa la masturbazione" inorridì Antoni Ekart, un detenuto polacco: "Li faceva somigliare in modo straordinario a delle scimmie, una specie con cui sembravano avere molte più cose in comune che con gli uomini".4 Anche Marija loffe, moglie di un famoso bolscevico, scrive che i delinquenti abituali avevano rapporti sessuali di fronte a tutti, giravano nudi per le baracche e non provavano alcun sentimento per gli altri: "In loro, solo il corpo era vivo".5

I novellini senza esperienza dovevano vivere nei campi per settimane, o addirittura mesi, prima di capire che il mondo della delinquenza non era uniforme, che aveva una propria gerarchla e i propri livelli sociali; insomma che c'erano molti diversi generi di ladri. Lev Razgon spiega: "Erano suddivisi in caste, in clan con una disciplina ferrea, con un'infinità di regole e di leggi la cui contravvenzione veniva punita senza pietà, nel migliore dei casi con l'espulsione dal clan, ma spesso con la morte".6

Anche Karol Colonna-Czosnowski, un polacco che si ritrovò a essere l'unico prigioniero politico in mezzo ai criminali comuni in un campo per il taglio degli alberi nel nord, registra le stesse differen/e:

A quell'epoca la comunità criminale russa era molto classista. Anzi, la ge-rarchia sociale era tutto. I delinquenti di prima categoria, come i rapinatori di banche o di treni, costituivano la classe dirigente nella loro gerarchia. Un tale Grisa Cernyj, il capo della mafia del campo, ne faceva parte. All'estremo opposto della scala sociale c'erano i piccoli delinquenti, come i borsaioli. I pezzi grossi lì usavano come servitori e messaggeri: godevano di pochissima considerazione. I responsabili di tutti gli altri tipi di reati costituivano il grosso della classe media, al cui interno c'erano comunque delle distinzioni.

Sotto molti aspetti questa strana società rappresentava una fedele caricatura del mondo "normale". Vi si ritrovava l'equivalente di ogni virtù e debolezza umana. Per esempio, si riconoscevano subito l'ambizioso in ascesa, lo snob, l'arrampicatore sociale, l'imbroglione, ma anche l'uomo onesto e generoso ...7

Al vertice della gerarchia c'erano i criminali di professione, che dettavano le regole per tutti gli altri. Li chiamavano urka, blatnoj o, & facevano parte dei circoli più esclusivi del mondo criminale, vof v

(tm)

I prigionieri 305

zdkone, "ladri legittimi", e osservavano una serie di regole e usanze comparse prima del Gulag e che esistono ancora dopo la sua scomparsa. Non avevano niente in comune con la larga maggioranza dei detenuti nel Gulag che scontavano condanne "penali". I cosiddetti criminali "normali", condannati per piccoli furti, violazioni del regolamento sul posto di lavoro o per altri reati non. politici, odiavano i ladri legittimi con lo stesso accanimento riservato ai prigionieri politici.

E la cosa non sorprende: la cultura dei ladri legittimi era molto diversa da quella dei normali cittadini sovietici. L'origine di tale cultura affondava le sue radici nel mondo criminale della Russia zarista, nelle corporazioni di ladri e mendicanti che all'epoca controllavano la piccola criminalità.8 Ma nei primi decenni del regime sovietico si era diffusa moltissimo grazie alle centinaia di migliaia di orfani, vittime della rivoluzione, della guerra civile e della collettivizzazione, che erano riusciti a sopravvivere prima come bambini di strada, e poi come ladri. Verso la fine degli anni Venti, quando i campi cominciarono a espandersi e a diventare un fenomeno di massa, i criminali di professione costituivano ormai una comunità a sé stante, dotata di un rigido codice di comportamento che vietava di avere a che fare in qualsiasi modo con lo Stato sovietico. Un vero ladro legittimo rifiutava di lavorare, rifiutava di possedere un passaporto e rifiutava di collaborare in qualsiasi forma con le autorità, se non per sfruttarle: si possono considerare dei ladri legittimi i "nobili" di Aristokraty, il dramma scritto nel 1934 da Nikolaj Pogodin, che rifiutano di lavorare per principio.9

In realtà i programmi di indottrinamento e rieducazione dell'inizio degli anni Trenta erano in larga parte diretti ai ladri legittimi, non ai prigionieri politici. Avveniva perché i delinquenti abituali erano considerati "socialmente vicini" (social'no bìizkie) e quindi recuperabili, mentre i politici venivano considerati "socialmente pericolosi" (social'no opasnye). Ma alla fine degli anni Trenta, a quanto pare, le autorità rinunciarono all'idea di riformare i criminali di professione e decisero invece di servirsene per controllare e intimidire gli altri detenuti, soprattutto i "controrivoluzionari", ovviamente disprezzati dai malavitosi.10

Non si trattava di un fenomeno del tutto nuovo: già un secolo pri-^a, in Siberia, i detenuti comuni odiavano i politici. In Memorie dalla Casa dei morti, la cronaca lievemente romanzata dei suoi cinque anni di prigionia, Dostoevskij riporta le parole di un suo compagno di detenzione: "Già, non amano i nobili ... specialmente i condannati

Gulag

politici. Loro son contenti di mangiare, non hanno criterio. Prima di tutto voi e la plebe siete diversi, non vi somigliate".11

Più o meno dal 1937 alla fine della guerra, in Unione Sovietica l'amministrazione dei campi si serviva apertamente di piccoli gruppi di delinquenti abituali per controllare gli altri detenuti. In questo periodo i criminali di alto rango non lavoravano, ma facevano lavorare gli altri.12 Lo racconta Lev Razgon:

Non lavoravano, ma venivano retribuiti come se svolgessero il compito loro assegnato, riscuotevano una tangente da chi lavorava, dimezzando i loro pacchi e gli acquisti fatti allo spaccio, e alleggerivano senza tanti complimenti i nuovi arrivati, depredandoli degli abiti migliori. Insomma, erano affiliati a una piccola mafia, e i detenuti comuni, che erano la maggioranza, li odiavano di un odio feroce.13

Alcuni prigionieri politici trovavano il modo di convivere con i ladri legittimi, soprattutto dopo la guerra. Alcuni capi criminali molto potenti amavano avere come amici o come mascotte dei politici. Alexander Dolgun conquistò il rispetto del boss di un campo di transito picchiando un piccolo delinquente.14 Marlen Korallov, un giovane prigioniero politico che è stato poi tra i fondatori dell'Associazione Memorial, attrasse l'attenzione di Nikola, il capo dell'organizzazione criminale del campo in cui era detenuto, anche perché in una scazzottata aveva battuto un comune; Nikola gli concesse di sedergli accanto nella baracca. Tale privilegio cambiò la posizione di Korallov all'interno del campo, dove cominciarono a considerarlo un "protetto" di Nikola, e quindi ottenne un posto per dormire assai migliore: "II campo aveva capito: entrando nella tro/ka di Nikola, facevo parte dell'elite ... l'atmosfera intomo a me cambiò all'istante.".15

Tuttavia, nella maggior parte dei casi i comuni esercitavano un dominio assoluto sui politici. Tale condizione di superiorità contribuisce a spiegare perché i criminali consideravano i campi "casa propria", come afferma un criminologo: ci vivevano meglio degli altri detenuti, e godevano di un potere autentico che non avevano all'esterno.16 Per esempio, Korallov spiega che Nikola disponeva dell'"unico letto di ferro" della baracca, collocato in un angolo. Nessun altro ci dormiva e un gruppo di intimi di Nikola rimaneva nei paraggi per assicurarsi che restasse vuoto. Inoltre appendevano delle lenzuola intorno alla branda del capo perché non si potesse vedere dentro. Chi entrava nello spazio intorno a Nikola subiva un meticoloso controllo. I detenuti come lui dimostravano una sorta di fierezza virile per le lunghe condanne che dovevano scontare. Korallov osserva:

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Dei ragazzi tentavano di evadere anche senza speranze di farcela solo per aumentare il proprio prestigio; venivano condannati a venticinque anni jj! più, magari con l'aggiunta di altri venticinque per sabotaggio. Poi, quando H trasferivano in un altro campo, raccontavano in giro di dover scontare cent'anni, e questo in conformità all'etica dei lager ne faceva dei grandi personaggi.17

Il mondo dei criminali e la loro posizione di privilegio attraevano i giovani detenuti, che talvolta vi venivano introdotti con elaborati riti di iniziazione. A quanto risulta dalle informazioni raccolte negli anni Cinquanta dagli ufficiali della polizia segreta e dagli amministratori del sistema carcerario, i neofiti dovevano pronunciare un giuramento con cui promettevano di essere "delinquenti di valore" e di accettare le severe norme vigenti nel clan. Altri delinquenti parlavano in favore dell'aspirante, magari lo elogiavano perché aveva "sfidato la disciplina del carcere" e gli sceglievano un soprannome. La notizia dell'iniziazione veniva poi diffusa nel sistema carcerario attraverso la rete di contatti della malavita, perché il neofita mantenesse la sua posizione anche in caso di trasferimento a un altro campo.18

Nel 1946 Nikolaj Medvedev (nessun rapporto con gli omonimi intellettuali moscoviti) trovò questo sistema. Era stato arrestato da ragazzine, per furto di grano in un'azienda agricola collettiva, e già durante il trasporto un ladro legittimo di primo piano lo accolse sotto la propria ala e a poco a poco lo introdusse nel mondo criminale. Quando arrivò a Magadan, Medvedev venne mandato a lavorare come gli altri detenuti. Doveva fare le pulizie in mensa, un compito per nulla faticoso, ma il suo protettore gli ordinò di smettere: "quindi non lavoravo, proprio come tutti i criminali, che non lavoravano". Altri detenuti facevano il lavoro al suo posto.19

Come spiega Medvedev, agli amministratori del campo non interessava che un dato prigioniero lavorasse o no: "A loro importava solo una cosa: che la miniera producesse oro, il più possibile, e che nel campo regnasse l'ordine". E Medvedev aggiunge, con tono di approvazione, che grazie ai criminali regnava l'ordine. Le ore lavorative perdute venivano recuperate in disciplina: "Se uno offendeva un altro, per dirimere la questione si rivolgevano entrambi alle "autorità" della malavita". Non ai dirigenti del campo. Secondo Medvedev, grazie a questo sistema la violenza e il numero delle risse restavano bassi; in sua assenza, avrebbero raggiunto livelli tali da danneggiare la Produzione.20

La descrizione favorevole lasciata da Medvedev riguardo al predominio dei criminali nei campi costituisce un'eccezione, perché il-

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lustra il sistema gerarchico della malavita dall'interno: molti erano analfabeti, e con ogni probabilità nessuno ha mai scritto librj di memorie; ma è straordinaria soprattutto perché l'autore ne condì-vide i valori. Moltissimi autori "classici" del Gulag, testimoni del terrore, dei furti e delle violenze sessuali inflitti dagli urka agli altri detenuti, lì odiavano di cuore. "I criminali non sono esseri umani" afferma Varlam Salamov senza mezzi termini. "Le scelleratezze dei malavitosi nei lager sono innumerevoli."21 Solzenicyn dice: "Proprio questo mondo di tutta l'umanità, il nostro mondo con la sua etica, le sue abitudini di vita e i rapporti reciproci è particolarmente odioso ai malavitosi, e viene da loro particolarmente deriso, e si contrappone nettamente alla \orofamiglia antisociale".22 Anatolij Zigulin descrive in modo schematico come facevano davvero i criminali a imporre l'"ordine". Un giorno era seduto nella mensa quasi deserta, quando sentì due prigionieri litigare per un cucchiaio. D'un tratto irruppe nella stanza Dezemija, il "vice" anziano del ladro legittimo più importante:

"Cos'è questo baccano, cos'è questo litigio? Non potete disturbare in sala mensa!"

"Guarda, mi ha preso il mio cucchiaio e l'ha cambiato. Io ne avevo uno sano, lui me ne ha restituito uno rotto..."

"Vi punirò entrambi, e farete pace" disse Dezemija ridacchiando. Con rapidi movimenti brandì il suo punteruolo verso i due contendenti e, con la velocità di un lampo, cavò un occhio a ciascuno.23

I criminali ebbero certamente una profonda influenza sulla vita dei campi: il loro gergo, così diverso dal russo normale da poter essere considerato una lingua a parte, divenne il mezzo di comunicazione principale. Pur essendo famoso soprattutto per l'enorme numero di complessi insulti, in un elenco di vocaboli del gergo criminale raccolti negli anni Ottanta (che in buona parte sono gli stessi usati negli anni Quaranta) si trovano anche centinaia di parole indicanti oggetti comuni, tra cui indumenti, parti del corpo e utensili, molto diverse dai corrispettivi in russo corrente. Per i concetti di particolare interesse, come il denaro, le prostitute, il furto e la malavita, ci sono decine di sinonimi. Oltre alle parole che designano il crimine in generale (per esempio pò muzyke hodit', "andare a tempo di musica"), ci sono anche espressioni che indicano tipi particolari di furto: rubare in una stazione ferroviaria (derzaf sadku), borseggiare la gente in autobus (marku derzat'), commettere un furto non pianificato (iati na sal'nuju), un furto commesso durante il giorno (dennik) e un ladro che ha rubato in chiesa (kljusvennik). E si tratta solo di alcuni esempi.24

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Imparare il blatnoe slavo, cioè l'"idioma dei ladri" (chiamato a volte blatnaja muzyka, letteralmente la "musica dei ladri"), era un rituale di iniziazione cui molti detenuti dovevano sottoporsi, non sempre per propria volontà. Alcuni non ci si abituarono mai. Una detenuta politica in seguito ha affermato:

La cosa più difficile da sopportare in campi come quello sono i vituperi e \e prevaricazioni continue ... il linguaggio usato dalle comuni è osceno al punto da risultare quasi insopportabile; sembra che riescano a parlarsi solo nel modo più ingiurioso e volgare. Quando cominciavano a insultarsi e a imprecare, ci dava così fastidio che spesso dicevamo: "Non le darei una goccia d'acqua nemmeno se stesse morendo accanto a me".25

Altri cercavano di analizzare il gergo. Già nel 1925 un detenuto delle Soloveckie elaborò una teoria sulle origini di questo ricco vocabolario in un articolo scritto per "Soloveckie Ostrova", uno dei giornali del campo. Osservava che alcune parole riflettevano il codice morale della malavita: i termini relativi alle donne erano una via di mezzo tra l'oscenità e uno zuccheroso sentimentalismo. Altri vocaboli emergevano dal contesto: i ladri dicevano "bussare" (stukat') invece di "parlare" (govorif), ed era logico, perché per comunicare tra loro i detenuti battevano sui muri.26 Un altro ex detenuto ha osservato che alcune parole, per esempio smon per "perquisizione", musar (immondizia) per "poliziotto" efraer per "non malavitoso" (traducibile anche con "fesso"), probabilmente derivano dall'ebraico o dallo yiddish.27 Forse è una prova del ruolo svolto nell'evoluzione della cultura criminale dalla città portuale russa di Odessa, in cui viveva una grande comunità ebraica e che un tempo era la capitale del contrabbando.

Di tanto in tanto l'amministrazione carceraria provava addirittura a reprimere l'uso del gergo. Nel 1933 il comandante del Dmitlag ordinò ai suoi subordinati di "prendere provvedimenti adeguati" perché i detenuti, ma anche i secondini e gli amministratori, smettessero di usare la lingua dei criminali, che ormai era "di uso comune, persino nelle lettere e nei discorsi ufficiali".28 Non esistono documenti che attestino se l'iniziativa ebbe successo.

I criminali più importanti, oltre a parlare in modo diverso dagli altri detenuti, avevano anche un diverso aspetto. Forse erano proprio gli abiti e i gusti stravaganti, più del linguaggio, a farli percepire come una casta a sé, e questo fenomeno induceva ancora più soggezione negli altri prigionieri. Secondo Salamov, negli anni Quaranta tutti i malavitosi della Kolyma portavano al collo una croce di alluminio, ma non per motivi religiosi: "Era un segno di riconoscimento". Ma le mode passavano:

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Negli anni Venti i malavitosi avevano dei berretti a visiera tipo is tecnico, e prima ancora berretti da ufficiale di marina. Negli anni Quaranta in inverno portavano alti colbacchi del Kuban', i gambali degli stivali rivoK tati, e una croce al collo. Di solito la croce era liscia, ma se capitava loro tra le mani qualche artista, lo costringevano a decorarla, incidendovi con un ago uno dei loro soggetti preferiti: un cuore, una carta da gioco, una croce, una donna nuda...29

Georgi] Fel'dgun, pure recluso nei campi negli anni Quaranta, ricorda che i criminali camminavano in un modo particolare, "facendo piccoli passi e con le gambe leggermente divaricate", e per una specie di moda si facevano coprire i denti con capsule d'oro o d'argento: "Nel 1943 un vor di solito andava in giro con un completo blu scuro, i pantaloni infilati in stivali di vitello neri. Una camicia ampia sotto il panciotto aperto. Anche un berretto, calcato sugli occhi. E tatuaggi, di solito sentimentali: "Non dimenticherò mai la mia cara mamma", "Non c'è felicità nella vita"...".30

Tali tatuaggi, ricordati da molti altri, contribuivano a distinguere i veri criminali dai comuni in generale, e a individuare la posizione di ciascuno nel loro mondo. Secondo uno studioso della storia dei campi, esistevano tatuaggi diversi per gli omosessuali, i tossicodipendenti, gli stupratori e gli assassini.31 Solzenicyn è più esplicito:

Si fanno tatuare la pelle abbronzata e così soddisfano le loro esigenze ar-tistiche, erotiche e perfino morali: ammirano l'uno sul petto, sul ventre, sulla schiena dell'altro aquile possenti, posate su una roccia o in volo nel cielo; un sole con tutti i raggi intorno; donne e uomini stretti nell'amplesso; gli organi del loro piacere e, improvvisamente, vicino al cuore, Lenin o Stalin, o addirittura tutti e due ... A volte li diverte l'immagine di un fuochista che butta carbone fra due natiche, o di una scimmia che si masturba. Leggono l'uno sull'altro scritte familiari, ma care perché spesso ripetute: "Glielo metto in ... a tutte le puttane!" ... oppure, sul ventre di una giovane ladra, "Morirò per una ... calda".32

Essendo un artista di professione, Thomas Sgovio venne subito risucchiato nel giro dei tatuatori. Una volta gli chiesero di tatuare il viso di Lenin sul petto di un detenuto: tra i criminali era convinzione comune che nessun plotone di esecuzione avrebbe mai sparato su un ritratto di Lenin o di Stalin.33

I malavitosi si distinguevano dagli altri detenuti anche per il modo di passare il tempo libero. Le loro partite di carte erano caratterizzate da elaborati rituali, e comportavano alti rischi, sia per il gioco in sé, con puntate molto alte, sia perché le autorità punivano chiunque venisse scoperto mentre giocava34 Ma forse il pericolo faceva parte del divertimento, per gente abituata a rischiare. Dmitrij

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il critico letterario detenuto alle Soloveckie, notò che molti paragonavano "le emozioni provate durante le partite di carte a quelle vissute mentre commettevano un crimine".35

Anzi i delinquenti sventavano tutti i tentativi dell'NKVD di farli smettere di giocare. Alcuni "esperti" si dedicavano alla produzione di carte da gioco, un'attività che, negli anni Quaranta, aveva raggiunto un notevole livello di sofisticazione. Per prima cosa l'"esper-to" ritagliava riquadri di carta con un rasoio. Poi, per dare consistenza alle carte, ne incollava cinque o sei uno sull'altro, con una "colla" ottenuta sfregando un pezzo di pane inumidito contro un fazzoletto. Quindi metteva le carte ad asciugare per una notte sotto un tavolaccio. Quando erano pronte, stampava i simboli dei semi sulle carte, con timbri ottenuti intagliando il fondo di una tazza. Le carte nere venivano stampate con cenere scura; se il medico del campo disponeva di streptomicina e poteva essere convinto con denaro o minacce a consegnarla, si potevano stampare anche le carte rosse.36

Anche i rituali delle partite costituivano uno strumento usato dai delinquenti per terrorizzare i prigionieri politici. Giocando tra loro, i criminali puntavano soldi, pane e indumenti; quando avevano perso tutto, puntavano i soldi, il pane e gli indumenti di altri detenuti. Gustaw Herling assistette per la prima volta a un episodio del genere su un vagone Stolypin diretto in Siberia; viaggiava in compagnia di Sklovskij, suo connazionale polacco, e nella stessa carrozza c'erano tre urka, tra cui un "gorilla con la piatta faccia mongolica", che giocavano a carte.

... il gorilla all'improvviso gettò via le sue carte, saltò giù dal sedile e si avvicinò a Sklovskij.

"Dammi quel cappotto" urlò. "L'ho perduto alle carte."

èklovskij aprì gli occhi, e senza muoversi dal suo posto scrollò le spalle.

"Dammelo," ruggì irato il gorilla "dammelo o glaza vykolju, ti spiaccicherò gli occhi!" Il colonnello lentamente si alzò e consegnò il cappotto.

Solo in seguito, nel campo di lavoro, capii il significato di questa incredibile scena. Scommettere le cose che appartengono ad altri prigionieri, nei loro giochi a carte, è una delle più popolari distrazioni degli urka. La sua attrattiva principale sta nel fatto che colui che perde è tenuto a strappare con la forza alla vittima l'oggetto concordato.37

Una detenuta abitava in un gruppo intero di baracche "perse" a carte. Alla notizia, le donne aspettarono "incredule" con ansia per diversi giorni, fino a quando, una notte furono attaccate: "Ci fu un tremendo scompiglio: le donne strillavano, urlavano da far crollare i tetti, fino a quando gli uomini non arrivarono a soccorrerle ... Alla fine rubarono solo qualche indumento, e lo stareste fu accoltellato".38

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Tuttavia, giocare a carte poteva essere pericoloso anche per i crimj. nali di professione. Nella Kolyma, il generale Gorbatov conobbe un ladro cui erano rimaste solo due dita della mano sinistra. Gli spiegò il motivo:

Giocavo a carte e ho perso. Non avevo contante, quindi ho puntato u^ abito buono, non mio ovviamente, ma indossato da un politico. Intendevo prenderlo durante la notte, quando il nuovo prigioniero si fosse spogliato per andare a letto. Dovevo consegnarlo prima delle otto del mattino, solo che proprio quel giorno hanno trasferito il politico in un altro campo. Il nostro consiglio degli anziani si è riunito per infliggermi la punizione. Il querelante voleva che mi mozzassero le dita della mano sinistra. Gli anziani ne hanno proposto due. Hanno contrattato per un po', poi si sono messi d'accordo su tre. Quindi ho posato la mano sul tavolo e l'uomo con cui avevo perso ha preso un bastone e con cinque colpi mi ha portato via tre dita...

L'uomo, quasi con orgoglio, concluse: "Anche noi abbiamo le nostre leggi, ma sono più severe delle vostre. Se imbrogli i tuoi compagni devi risponderne".391 riti della giustizia dei criminali erano altrettanto complessi delle loro cerimonie di iniziazione e comportavano la costituzione di una "giuria", un dibattimento e una sentenza che poteva consistere in pestaggi, umiliazioni o persino nella morte. Colonna-Czosnowski assistette a una partita a carte lunga e accanita tra due esponenti di primo piano della malavita, che si concluse solo quando uno dei due perse tutti i suoi averi. Invece di un braccio o di una gamba, il vincitore chiese come punizione una terribile umiliazione: ordinò all'"artista" della baracca di tatuargli sul viso un pene enorme puntato verso la bocca. Pochi minuti dopo, il perdente si premette sul viso un attizzatoio rovente, cancellando il tatuaggio ma sfregiandosi per sempre.40 Anche Anton Antonov-Ovseenko, figlio di un bolscevico di primo piano, afferma di aver conosciuto nei campi un "sordomuto" che, avendo perso una partita a carte, aveva rinunciato per tre anni alla facoltà di parlare. Sebbene lo trasferissero da un campo all'altro, non osava infrangere la proibizione perché tutti gli urka del posto lo avrebbero saputo: "La violazione dell'accordo sarebbe stata punita con la morte. Nessuno può sottrarsi alla legge della malavita".41

Le autorità erano al corrente di questi rituali e di tanto in tanto cercavano di intervenire, spesso senza successo. Una volta, nel 1951, un tribunale della malavita condannò a morte un criminale di nome Jurilkin. L'amministrazione venne a sapere della condanna e trasferì Turilkin prima in un altro campo di lavoro, poi in un campo di transito, e poi in un terzo, in una diversa regione del paese. Ciononostante, dopo quattro anni, due urka riuscirono a rintracciarlo e lo as-

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Se8naletiche di alcuni prigionieri: Vasilij Zurid, Aleksandr Petlosy, Grigorij Maifet, old Karro, Valentina Orlova.

Una baracca sovraffollata. (Archivio di Stato della Federazione russa, Mosca) Le celle di punizione. (Archivio di Stato della Federazione russa, Mosca)

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sassinarono. Di conseguenza furono processati e giustiziati per omicidio, ma nemmeno punizioni così severe servivano da deterrente. jvjel 1956 l'ufficio della pubblica accusa sovietico diramò un documento pieno di frustrazione in cui si dichiarava: "Questa organizzazione criminale è presente in tutti i campi di lavoro correzionale, e spesso, se il gruppo decide di assassinare un detenuto in un altro campo, la sentenza viene eseguita in loco senza discussioni".42

La giuria della malavita poteva infliggere punizioni anche a terzi, e questo forse può spiegare perché incutesse così tanta paura. Lev Fin-kel'stejn, incarcerato per motivi politici all'inizio degli anni Cinquanta, ricorda un omicidio per vendetta di questo tipo:

Di persona ho assistito a un solo omicidio, ma è stato molto spettacolare. Lo sa che cos'è una grossa lima metallica? Una lima così, affilata a un'estremità, è un'arma davvero micidiale ...

Avevamo un narjadcik, l'uomo incaricato di assegnare il lavoro ai detenuti, non saprei dire di che cosa fosse colpevole. Ma i ladri legittimi hanno deciso che andava ucciso. È successo mentre eravamo fermi nel cortile prima di andare a lavorare. Le squadre erano separate una dall'altra. Il narjadcik stava in piedi di fronte. Si chiamava Kazahov, era un uomo robusto, con un pancione. Un criminale è schizzato fuori dalla formazione e gli ha ficcato la lima nel ventre, nella pancia. Probabilmente era un assassino esperto. Lo hanno preso all'istante, ma doveva scontare venticinque anni. Come naturale, lo hanno processato di nuovo e gliene hanno dati altri venticinque. Quindi la sua condanna è stata un po' allungata, ma che importa.. ,43

Comunque era raro che i criminali esercitassero la loro "giustizia" con gli amministratori dei campi: anche se in generale non erano certo fedeli cittadini sovietici, si dimostravano ben felici di collabo-rare con le autorità nell'unica mansione assegnata: ben felici di spadroneggiare sui detenuti politici, il gruppo che, per citare di nuovo la Ginzburg, era "ancora più disprezzato e isolato di loro".

"Kontrik" e "Bytovoj": i politici e i comuni

È facile identificare e descrivere i criminali di professione, con il loro slang, il loro stile nel vestire e i loro severi codici di comportamento. Molto più difficile invece è fare delle generalizzazioni riguardo agli altri detenuti, le persone che costituivano la massa indistinta della manodopera del Gulag, perché provenivano da tutte le classi sociali del sistema sovietico. Anzi, troppo a lungo, per comprendere con esattezza chi fossero i detenuti che costituivano la maggioranza nei campi, abbiamo dovuto necessariamente affidarci ai libri di memorie, soprattutto quelli pubblicati al di fuori dell'U-

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nione Sovietica. Di solito gli autori erano intellettuali, spesso stranieri, e quasi tutti imprigionati per motivi politici.

Dal 1989, anno in cui Gorbacev ha lanciato laglasnost', è stato possibile accedere a un materiale memorialistico più diversificato e nuovi documenti d'archivio. In base a questi ultimi, che vanno sempre considerati con grande cautela, risulta che la stragrande maggioranza della popolazione carceraria non era affatto costituita da intellettuali, cioè da tecnici o accademici appartenenti a una classe sociale ben distinta, ma da contadini e operai. Sono illuminanti soprattutto alcune cifre relative agli anni Trenta, il periodo in cui nella popolazione carceraria prevalevano i kulaki. Nel 1934, solo lo 0,7 per cento dei detenuti dei campi aveva frequentato le scuole superiori, mentre per il 39,1 per cento si affermava che aveva un'educazione elementare. Un altro 42,6 per cento veniva descritto come "semianalfabeta" e il 12 per cento era considerato analfabeta. Persine nel 1938, l'anno del terrore contro gli intellettuali di Mosca e di Leningrado, i detenuti con educazione superiore non superavano la percentuale dell'1,1, mentre oltre la metà della popolazione aveva un'istruzione elementare e un terzo era semianalfabeta.44

A quanto pare, non esistono valutazioni analoghe sulle origini sociali dei prigionieri, ma bisogna sottolineare che nel 1948 meno di un quarto dei detenuti era stato arrestato per motivi politici, cioè per condanne relative a reati di natura "controrivoluzionaria", ai sensi dell'articolo 58 del codice penale sovietico. Questa cifra corrisponde a una tendenza già esistente: nel 1937 e nel 1938, gli anni del terrore, i prigionieri politici costituivano solo il 12 e il 18 per cento della popolazione carceraria; durante la guerra il loro numero salì al 30-40 per cento, e nel 1946 raggiunse il 60 per cento a seguito di un'amnistia concessa ai detenuti comuni per la vittoria; poi rimase stabile fino alla fine del regime di Stalin, continuando a costituire da un quarto a un terzo dei detenuti.45 Dato il forte avvicendamento dei detenuti comuni, con condanne più brevi e maggiori possibilità di ottenere il rilascio anticipato, si può dire con ragionevole certezza che negli anni Trenta e Quaranta l'ampia maggioranza dei detenuti nei campi era costituita da criminali comuni, il più delle volte di origini operaie e contadine.

Tuttavia, tali cifre, anche se forse contribuiscono a correggere impressioni sbagliate del passato, possono essere fuorvianti. Se si esamina il nuovo materiale autobiografico emerso in Russia in seguito al crollo dell'Unione Sovietica, si vede che molti detenuti per motivi politici in realtà non erano veri e propri "prigionieri politici" nell'accezione odierna del termine. Certo, negli anni Venti si trovavano nei

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campi membri dei partiti anti-bolscevichi, che si definivano "politici"; anche negli anni Trenta c'erano alcuni veri trockisti, cioè sostenitori di Trockij contro Stalin. Negli anni Quaranta, in conseguenza degli arresti di massa in Ucraina, negli Stati baltici e in Polonia, arrivò nei campi un'ondata di veri e propri partigiani e attivisti antisovietici. All'inizio degli anni Cinquanta vennero arrestati anche alcuni studenti antistalinisti.

Ciononostante, buona parte delle centinaia di migliaia di detenuti che nei campi venivano considerati "politici" non era costituita da dissidenti, preti che dicevano messa di nascosto o alti dirigenti di Partito: si trattava di persone normali, prelevate durante gli arresti di massa, che spesso non professavano alcuna fede politica. Ol'ga Ada-mova-Sliozberg, ex impiegata di uno dei ministeri per l'Industria di Mosca, ricorda: "Prima del mio arresto facevo una vita molto normale, tipica di una professionista sovietica non iscritta al Partito. Lavoravo sodo, ma non mi interessavo in modo particolare di politica e di affari pubblici. I miei interessi primari erano la casa e la famiglia".46

Se molti detenuti politici in realtà non lo erano, questo vale a maggior ragione per i criminali comuni. Certo, c'erano molti delinquenti di professione e, negli anni del conflitto, alcuni veri criminali di guerra e collaborazionisti dei nazisti, ma gli altri per la maggior parte erano stati condannati per reati comuni che in altri tipi di società non sarebbero stati considerati crimini. Il padre di Aleksandr Lebed', un generale ed esponente politico russo, arrivò in ritardo di dieci minuti in fabbrica per tre volte, e questo gli valse una condanna a cinque anni di detenzione nei campi.47 Dagli archivi risulta che in un campo in cui erano rinchiusi per la maggior parte criminali comuni, Poljanskij, nei pressi di Krasnojarsk-26, in cui si trovava un reattore nucleare, era detenuto un "comune" condannato a sei anni per avere rubato uno stivale di gomma in un bazar, un altro condannato a sei anni per il furto di dieci pagnotte e un terzo, un camionista con due figli di cui si occupava da solo, condannato a sette anni per essersi appropriato di tre bottiglie del vino che stava consegnando. Un altro ancora era stato condannato a cinque anni per "speculazione", perché aveva comprato delle sigarette in un posto e le aveva rivendute in un altro.48 Antoni Ekart racconta la storia di una donna Crestata per avere preso una matita dall'ufficio in cui lavorava: era Per suo figlio, che non aveva potuto fare i compiti perché non disponeva di nulla per scrivere.49 Nel mondo capovolto del Gulag, di rado i detenuti per reati comuni erano criminali, così come pochi prigionieri politici avevano davvero fatto opposizione attiva al regime.

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In altre parole, non sempre i detenuti erano colpevoli di un crirrti-ne vero e proprio, e tra i politici la presenza di persone davvero responsabili di un reato politico era ancora più rara. Questo però non impediva al sistema giuridico sovietico di classificarli con molta precisione. Nell'insieme, i controrivoluzionari godevano di una posizione sociale più bassa dei criminali comuni: come ho detto, erano considerati "socialmente pericolosi", cioè meno compatibili con l'organizzazione sociale sovietica dei comuni, ritenuti "socialmente vicini". Ma i detenuti politici venivano distinti anche in base al comma dell'articolo 58 del codice penale per la cui violazione erano stati condannati. Evgenija Ginzburg osserva che tra i politici era assai "meglio" essere stati condannati ai sensi del comma 10 dell'articolo 58, cioè per "agitazione antisovietica" (ASA). Si trattava dei "chiacchieroni": avevano raccontato una malaugurata barzelletta contro il Partito, o si erano lasciati scappare un giudizio negativo su Stalin o sul dirigente locale del Partito (o erano stati accusati di averlo fatto da un vicino di casa invidioso). Persine le autorità del campo riconoscevano in modo tacito che in realtà i "chiacchieroni" non avevano commesso alcun crimine, sicché agli ASA venivano spesso assegnati lavori meno pesanti.

Più in basso c'erano quelli condannati per "attività controrivoluzionaria" (KRD), poi venivano i responsabili di "attività terroristica controrivoluzionaria" (KRTD): in alcuni campi, quella "T" in più significava che era obbligatoria la destinazione ai "lavori generali" più pesanti, come abbattere alberi, estrarre in miniera o effettuare gli scavi per la costruzione di strade, soprattutto se la condanna per KRTD era di dieci, quindici anni o più.50

Tuttavia si poteva cadere ancora più in basso. C'era un'altra categoria sotto i KRTD, i KRTTD: i condannati non per semplici attività terroristiche, ma per "attività terroristiche trockiste". Lev Razgon scrive: "Sapevo di casi in cui quella T in più in alcuni campi compariva nel fascicolo personale del detenuto per una discussione con l'addetto all'assegnazione dei lavori durante un appello generale, o con il capo della distribuzione, che erano entrambi prigionieri comuni".51 Una variazione minima come questa poteva determinare la differenza tra la vita e la morte, perché nessun caposquadra avrebbe mai assegnato a un KRTTD una mansione che non fosse contemplata tra i lavori manuali più duri.

Non sempre le regole erano così precise: in pratica i detenuti non smettevano mai di sperimentare quanto valesse questa differenza tra le condanne, e cercavano di capire in che misura avrebbe influito sulla

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loro vita. Varlam Salamov racconta che, dopo essere stato scelto per frequentare un corso da infermiere, grazie al quale sarebbe diventato (gl'dser, cioè aiutomedico, uno dei lavori più prestigiosi e meno faticosi dei campi, si chiedeva con preoccupazione se, data la sua condanna, gli avrebbero consentito di portare a termine il corso: "I "cinquantot-to" [detenuti politici arrestati ai sensi dell'articolo 58 del codice penale] li prendevano? Solo il 58.10 [quelli condannati in base al comma 10]. E il mio vicino di cassone [del camion su cui viaggiava] ? Anche lui era un ".10", un ASA. La sua sigla valeva per "agitazione antisovietica"".52

Non era soltanto il tipo di condanna a determinare la posizione gerarchica dei detenuti politici nei campi. Anche se non avevano un codice di comportamento rigido come quello dei comuni, o una lingua che li unificasse, i politici finivano comunque con il suddividersi in gruppi distinti. Tali gruppi restavano uniti per amicizia, mutua protezione, o perché condividevano la stessa visione del mondo. Non erano gruppi separati, si sovrapponevano fra loro e si sovrapponevano con i clan dei comuni, e non erano presenti in tutti i campi di prigionia. Ma, quando esistevano, potevano rivelarsi determinanti per la sopravvivenza di un detenuto.

Il clan dei politici più importante e più potente era quello costituito sulla base della nazionalità o del paese di origine. L'importanza di tali componenti crebbe ulteriormente nel corso della Seconda guerra mondiale e in seguito, allorché aumentò in modo significativo il numero di prigionieri stranieri. Non è difficile capirne la rilevanza: all'arrivo, un nuovo detenuto cercava subito nelle baracche altri estoni, ucraini o, in qualche raro caso, americani. Walter Warwick, un "finlandese-americano" del gruppo che arrivò nei campi alla fine degli anni Trenta, in un manoscritto redatto per la sua famiglia racconta di come coloro che parlavano finlandese nel suo campo tendevano a fare gruppo allo scopo precipuo di difendersi a vicenda dai furti e dalle prepotenze dei comuni: "Siamo arrivati alla conclusione che, se volevamo un po' di tregua, dovevamo formare una banda. Così l'abbiamo formata per difenderci l'un l'altro. Eravamo in sei: due finlandesi americani... due finlandesi finlandesi... e due finlandesi del distretto di Leningrado...".53

Non tutti i clan basati sulla nazionalità avevano lo stesso tipo di caratteristiche. Per esempio, non c'è ancora accordo tra chi sostiene che i detenuti ebrei avevano la loro organizzazione e chi invece è convinto che si confondessero con la popolazione russa (o, nel caso dei molti ebrei polacchi, con quella polacca). A quanto sembra, la si-

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tuazione era diversa a seconda del periodo, e dipendeva dagli atteg-giamenti individuali. Pare che molti ebrei arrestati alla fine degli anni Trenta nell'ambito della repressione contro i vertici della nornenk-latura e dell'esercito si considerassero innanzitutto comunisti, e poi ebrei. Come spiega un detenuto, nei campi "tutti diventavano russi che si trattasse di caucasici, tatari o ebrei".54

In seguito, con l'arrivo di molti altri ebrei polacchi arrestati durante la guerra, a quanto pare si formarono organizzazioni etniche ben distinte. Ada Federol'f, che ha scritto le sue memorie insieme ad Arjadna Efron, la figlia di Marina Cvetaeva, descrive un campo nel quale la sartoria, uno dei posti migliori in cui lavorare secondo i cri-teri del Gulag, era diretta da un certo Lieberman. Ogni volta che arrivava un nuovo convoglio, Lieberman passava in mezzo alla folla gridando: "C'è qualche ebreo? C'è qualche ebreo?". Quando ne trovava uno, faceva in modo che finisse con lui in sartoria, risparmiandogli il faticoso lavoro forestale. Lieberman escogitava anche ingegnosi sistemi per salvare i rabbini, che dovevano pregare tutto il giorno. Per uno costruì un armadio speciale in cui lo nascondeva perché nessuno si accorgesse che non stava lavorando. Per un altro si inventò il lavoro di controllore della qualità, che gli permetteva di camminare per tutto il giorno avanti e indietro tra le sarte al lavoro, sorridere loro e pregare sottovoce.55

All'inizio degli anni Cinquanta, quando in Unione Sovietica l'antisemitismo ufficiale aumentò di intensità per la paranoia di Stalin, convinto che i medici ebrei stessero attentando alla sua vita, la condizione di ebreo diventò di nuovo difficile. Anche se, persino in quell'epoca, il livello dell'antisemitismo - a quanto pare - variava di campo in campo, Ada Purizinskaja, un'ebrea arrestata mentre imperversava la "congiura dei medici" (suo fratello era stato processato e giustiziato per "avere cospirato per assassinare Stalin"), ricorda di "non avere avuto problemi particolari per il fatto di essere ebrea".56 Invece Leonid Trus, un altro ebreo arrestato in quel periodo, ha ricordi diversi. A quanto racconta, una volta uno zek più anziano lo salvò da un forsennato antisemita che era stato arrestato per traffico di icone. Lo zek veterano urlò al trafficante che si sarebbe dovuto vergognare lui, responsabile di avere "comprato e venduto immagini di Cristo".

Ciononostante, Trus non cercava di nascondere le sue origini ebraiche: anzi, si dipinse sugli scarponi una stella di David, soprattutto per evitare che glieli rubassero. Nel suo campo "gli ebrei, come i russi, non si erano organizzati in gruppo". Questo lo lasciò privo di

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yna vera compagnia: "Per me la cosa peggiore ... era la solitudine, la sensazione di essere un ebreo in mezzo ai russi, la convinzione che tutti avessero amici provenienti dalla regione d'origine, mentre

10 ero completamente solo".57

Anche i detenuti provenienti dall'Europa occidentale e dal Nor-damerica avevano difficoltà a organizzarsi in gruppi forti, perché erano in pochi. Non erano comunque in condizione di aiutarsi a vicenda: molti erano completamente disorientati dalla vita nei campi, non parlavano russo, trovavano immangiabile il cibo e intollerabili le condizioni di vita. Nina Gagen-Torn, una detenuta russa, dopo avere assistito alla morte di un intero gruppo di donne tedesche nel campo di transito di Vladivostok, benché avessero permesso loro di bere acqua bollita, scrisse, con tono tra il serio e il faceto: "Se i dor-mitori sono pieni di cittadini sovietici, abituati al cibo, essi possono mangiare pesce sotto sale anche se avariato. Quando è arrivato un contingente di persone arrestate per la loro appartenenza alla Terza internazionale, si sono ammalate tutte di una grave forma di dissenteria".58 Anche Lev Razgon commiserava gli stranieri, "incapaci di capire e di assimilare; non provavano nemmeno a adattarsi e sopravvivere. Riuscivano solo a fare gruppo per istinto".59

Tuttavia, gli occidentali - un gruppo che comprendeva anche cechi, polacchi e altri cittadini dell'Europa dell'Est - avevano qualche vantaggio. Erano oggetto di curiosità e di attrazione, e questo spesso

11 agevolava nei rapporti, consentiva loro di ottenere regali o cibo e di essere trattati con maggior clemenza. Antoni Ekart, un polacco cresciuto in Svizzera, ottenne un letto in ospedale grazie a un inserviente di nome Ackerman, originario della Bessarabia. "Il fatto che fossi un occidentale semplificava molto le cose": tutti erano interessati all'occidentale, e volevano salvarlo.60 Flora Leipman, una scozzese il cui patrigno russo aveva convinto l'intera famiglia a trasferirsi in Unione Sovietica, sfruttava le sue caratteristiche nazionali per intrattenere le altre detenute:

Mi sollevavo la gonna sulle ginocchia perché sembrasse un kilt e mi tiravo giù le calze per far sembrare che arrivassero al ginocchio. Mi gettavo sulle spalle la coperta nello stile scozzese e mi appendevo il berretto davanti come una borsa di pelo. La mia voce vibrava di fierezza mentre cantavo An-nie Laurie, Ye Banks and Braes o'Bonnie Doon, e concludevo sempre con God Save thè King in lingua originale.61

Anche Ekart descrive la sensazione provata a essere un oggetto di curiosità per gli intellettuali russi:

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In incontri organizzati apposta, e occultati con cura, con i più fidati di lo. ro, raccontavo la mia vita a Zurigo, Varsavia, Vienna e altre città occidentali La mia giacca sportiva di Ginevra, le camicie di seta, venivano esaminate con estrema attenzione, perché erano l'unica prova concreta del tenore di vita migliore fuori dal mondo comunista. Alcuni di loro erano palesemente increduli quando dicevo di potermi comprare senza difficoltà tutti quegli oggetti con il mio stipendio mensile di ingegnere neoassunto in una fabbrica di cemento.

"Quanti abiti avevi?" mi chiese un esperto di agricoltura.

"Sei o sette."

"Sei un bugiardo!" disse uno che non aveva più di venticinque anni, e poi, rivolgendosi agli altri: "Perché sopportiamo queste storie inventate? A tutto c'è un limite: non siamo bambini".

Avevo difficoltà a spiegare che in Occidente una persona normale, che si cura un po' del suo aspetto, può mirare ad avere diversi vestiti, perché gli indumenti si conservano meglio cambiandoli di tanto in tanto. Per gli appartenenti all'intellighenzia russa che possedevano di rado più di un abito, era un concetto difficile da afferrare.62

Anche John Noble, un americano arrestato a Dresda, diventò un "vip di Vorkuta" e ammanniva ai suoi compagni di prigionia scorci di vita americana che a loro sembravano incredibili. Uno gli disse: "Johnny, ci vorresti far credere che i lavoratori americani hanno l'automobile personale?".63

Tuttavia, se l'esotismo assicurava agli occidentali l'ammirazione degli altri, impediva loro di stringere rapporti profondi, così confortanti nei campi. Lo spiega la Leipman: "Persine le mie nuove "amiche" del campo avevano paura di me, proprio perché ai loro occhi ero una straniera".64 Quando si ritrovò a essere l'unico non russo tra i detenuti, Ekart ne soffrì, perché non piaceva ai cittadini sovietici, che a sua volta non amava: "Ero circondato da un'atmosfera di antipatia, se non di odio ... li irritava che non fossi come loro. A ogni passo ne sentivo la diffidenza e la brutalità, la malevolenza e la volgarità innata. Trascorrevo molte notti insonni per difendermi e difendere i miei averi".65

Anche questa sensazione trova riscontro in un'epoca precedente. La descrizione fatta nell'Ottocento da Dostoevskij dei rapporti tra i criminali russi e quelli polacchi induce a pensare che i predecessori di Ekart si sentissero come lui: "I polacchi (parlo dei soli condannati politici) li tenevano a distanza, con una cortesia offensiva, come per mostrare che non avevano nulla in comune con loro, e non potevano nascondere ai forzati il loro disgusto, e quelli lo capivano perfettamente e li pagavano con la stessa moneta".66

I musulmani e gli altri prigionieri provenienti dall'Asia centrale e

I prigionieri 321

da alcune delle repubbliche caucasiche si trovavano in una posizione ancora più precaria: erano disorientati come gli occidentali, ma di solito non riuscivano a divertire o interessare i russi. Li chiamavano nacmeny (dal termine russo per definire le minoranze emiche) e facevano parte della storia dei campi dalla fine degli anni Venti. Molti erano stati arrestati nel corso della pacificazione e della sovietizza-zione dell'Asia centrale e del Caucaso settentrionale, ed erano stati mandati a lavorare al canale del mar Bianco. Un contemporaneo spiega: "Per loro tutto è difficile da capire: le persone che li dirigono, il canale che stanno costruendo, il cibo che mangiano".67 Dopo il 1933 molti lavorarono anche al canale Moscova-Volga, dove, a quanto pare, il comandante si era impietosito: una volta ordinò ai suoi subordinati di allestire per loro delle baracche separate e delle squadre di lavoro distinte, affinchè potessero almeno stare con i compatrioti.68 In seguito Gustaw Herling ne conobbe alcuni in un campo forestale del nord; ricorda che li vedeva ogni sera all'infcrmeria, in attesa di farsi visitare dal medico del campo:

Già nella sala d'aspetto si comprimevano con le mani lo stomaco sofferente e, quando entravano dentro il divisorio, prorompevano in un lamento penoso, in cui i gemiti si mescolavano in modo indistinguibile al loro curioso russo spezzato. Non c'era rimedio al loro male ... morivano di nostalgia, di desiderio del loro paese, di fame, di freddo, e del monotono biancore della neve. I loro occhi obliqui, non avvezzi al paesaggio nordico, erano sempre come inumiditi e le ciglia incollate insieme da una sottile crosta gialla. Nei rari giorni in cui erano liberi dal lavoro, gli uzbechi, i turcomanni e i kirghisi si riunivano in un angolo della baracca e si mettevano lunghi abiti festivi di seta colorata e papaline ricamate. Era impossibile immaginare cosa dicessero con tanta animazione ed eccitazione, gesticolando, gridando e accennando tristemente col capo, ma certo non parlavano del campo.69

Le condizioni di vita non erano molto migliori nemmeno per i coreani, di solito cittadini sovietici di origine coreana, o per i giapponesi, che arrivarono barcollando in 600.000 nel sistema del Gulag e nei campi di prigionia alla fine della guerra. Il problema principale era il cibo, che non soltanto scarseggiava, ma a loro appariva strano e pressoché immangiabile. Quindi andavano a caccia, e mangiavano cose che agli altri prigionieri sembravano non commestibili: erbe selvatiche, insetti, scarafaggi, serpenti e funghi che gli stessi russi non avrebbero mai assaggiato. Tali incursioni a volte finivano male: ci sono dati attestanti casi di prigionieri giapponesi morti per aver mangiato piante o erbe selvatiche velenose.70 Un indizio della solitudine provata dai detenuti giapponesi ci è fornito dalle memorie di un russo, che racconta di aver trovato nella biblioteca del campo un

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opuscolo in cui era riportato, in lingua giapponese, un discorso del bolscevico Zdanov, e di averlo portato a un prigioniero di guerra di origine nipponica suo conoscente. Scrive: "Per la prima volta lo vidi davvero felice. In seguito mi disse che da allora leggeva il testo tutti i giorni, solo per mantenere il contatto con la sua lingua madre".7i

Altre nazionalità dell'Estremo Oriente si adattarono più in fretta. Diversi memorialisti descrivono la rigida organizzazione dei cinesi, alcuni dei quali erano "sovietici", di origine cinese ma nati in URSS, mentre altri erano immigrati legalmente nel paese negli anni Venti per lavorare, e altri ancora erano poveri disgraziati che avevano attraversato il lungo confine tra Cina e Unione Sovietica per errore o per capriccio. Un detenuto rammenta le parole di un cinese, che gli disse di essere stato arrestato, come molti altri, per avere attraversato a nuoto il fiume Amur ed essere entrato in Unione Sovietica attratto dal panorama sull'altra sponda del fiume: "L'oro e il verde degli alberi... la steppa sembrava così bella! Nessuno che avesse attraversato il fiume nella nostra zona era tornato indietro, e ci eravamo convinti che dall'altra parte si vivesse bene, quindi abbiamo deciso di attraversare il fiume. Nello stesso istante in cui siamo arrivati ci hanno arrestati con l'accusa di aver violato l'articolo 58 comma 6, spionaggio. Dieci anni".72

Dmitrij Panin, compagno di prigionia di Solzenicyn, dei cinesi racconta: "Comunicavano solo tra loro. Quando facevamo una domanda, ci guardavano con l'aria di non capire".73 Karlo Stajner rammenta la loro capacità di trovare posti di lavoro per i compatrioti: "In Europa i cinesi sono conosciuti soprattutto come giocolieri. Nei campi erano impiegati come lavandai". Non ricordava di aver mai visto nelle lavanderie di nessun campo in cui era stato addetti al lavoro che non fossero cinesi.74

In ogni caso, i gruppi etnici senz'altro più potenti all'interno dei campi erano costituiti da baltici e abitanti dell'Ucraina occidentale, affluiti in gran numero durante e dopo la guerra (cfr. capitolo XX). I polacchi erano meno numerosi ma altrettanto influenti, soprattutto i partigiani anticomunisti, arrivati nei campi verso la fine degli anni Quaranta, come i ceceni, definiti da Solzenicyn "una nazione che non cedette minimamente alla psicologia della sottomissione", e gli unici a distinguersi in molti modi dalle altre popolazioni caucasiche.75 La forza di tali gruppi etnici derivava dal fatto che erano numerosi, e si opponevano in modo aperto all'Unione Sovietica, cui imputavano di avere invaso illegalmente i rispettivi paesi. Nel dopoguerra, polacchi, baltici e ucraini avevano esperienza della guerra e della lotta partigia-

I prigionieri 323

na, e in qualche caso le loro organizzazioni di resistenza sopravvivevano anche all'interno dei campi. Subito dopo il conflitto, lo stato maggiore dell'UPA, l'esercito ribelle ucraino che come molti altri gruppi aveva combattuto per il controllo del paese, emanò un comunicato rivolto a tutti gli ucraini esiliati o inviati nei campi: "Ovunque siate, nelle miniere, nelle foreste o nei campi, continuate a essere ciò che eravate, comportatevi da veri ucraini e continuate la nostra lotta".

Gli ex partigiani si aiutavano spontaneamente a vicenda, e proteggevano i nuovi arrivati. Adam Galinski, un polacco che durante e dopo la guerra aveva combattuto contro i sovietici nell'Esercito nazionale polacco, scrive: "Ci occupavamo soprattutto dei giovani dell'Esercito nazionale, li tenevamo su di morale, eravamo la comunità meno scoraggiata nell'atmosfera degradante di declino morale che imperava negli svariati gruppi nazionali di detenuti a Vorkuta".76

Negli anni successivi, quando acquisirono più influenza sull'amministrazione dei campi, i polacchi, i baltici e gli ucraini, come già avevano fatto i georgiani, gli armeni e i ceceni, formarono le proprie brigate nazionali, allestirono baracche riservate ai compatrioti e cominciarono a organizzare le celebrazioni delle proprie feste nazionali. In alcune occasioni questi potenti gruppi collaboravano tra loro: lo scrittore polacco Aleksander Wat racconta che ucraini e polacchi, nemici giurati ai tempi della guerra, quando le rispettive organizzazioni partigiane si contendevano ogni centimetro dei territori occidentali dell'Ucraina, nelle prigioni sovietiche si trattavano a vicenda "in modo riservato ma con una lealtà incredibile: "Siamo nemici, ma non qui"".77

In altri frangenti i gruppi etnici si battevano, tra loro e contro i russi: Ljudmila Hacatrjan, arrestata per essersi innamorata di un soldato iugoslavo, ricorda che nel suo campo gli ucraini rifiutavano di lavorare insieme ai russi.78 Secondo un altro osservatore, i gruppi di resistenza nazionale "si caratterizzano per la loro ostilità, da un lato verso il regime, dall'altra verso i russi". Edward Buca ricorda un'ostilità più generale: "Era raro che un detenuto offrisse aiuto di qualsiasi genere a una persona di altra nazionalità".79 D'altra parte Pavel Negre-tov, detenuto a Vorkuta nello stesso periodo di Buca, riteneva che in generale i gruppi nazionali fossero in buoni rapporti tra loro, salvo quando cadevano nelle "provocazioni" attuate dall'amministrazione: "Con i loro informatori cercavano ... di indurci a litigare".80

Alla fine degli anni Quaranta, quando i gruppi nazionali sottrassero ai detenuti comuni le funzioni di "polizia" dei campi, talora combattevano tra loro per aggiudicarsi il controllo. Marlen Korallov ricor-

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da: "Cominciarono a contendersi il potere, e il potere era importante-per esempio era fondamentale chi controllasse la mensa, perché i cuochi lavoravano direttamente per i loro padroni". Secondo la Korallov l'equilibrio di potere tra i diversi gruppi era molto delicato, e bastava l'arrivo di un nuovo convoglio per sconvolgerlo. Per esempio, quando al suo lagpunkt arrivò un contingente di ceceni, questi entrarono nelle baracche, "gettarono a terra tutto quanto si trovava nei letti inferiori e li occuparono con la loro roba": in quel campo la cuccetta di sotto dei letti a castello era quella "nobile".81

Leonid Sitko, un detenuto che, dopo essere stato rinchiuso in un campo per prigionieri di guerra nazista, al ritorno in Russia era stato subito arrestato, alla fine degli anni Quaranta assistette a una lotta assai più cruenta tra ceceni, russi e ucraini. Il contrasto era cominciato con una discussione personale tra capi delle organizzazioni nazionali, e poi si era esteso: "Divenne una guerra, una guerra vera e propria". I ceceni sferrarono un attacco contro le baracche dei russi, e ci furono molti feriti; in seguito tutti i capi in testa furono rinchiusi in cella di isolamento. Anche se all'interno dei campi i conflitti riguardavano questioni di potere, spesso traevano origine da sentimenti nazionalistici più profondi. Sitko spiega: "I baltici e gli ucraini consideravano russi e sovietici la stessa cosa. Il fatto che vi fossero molti russi nei campi di prigionia non impediva loro di continuare a considerare i russi degli occupanti e dei ladri".

Una volta lui stesso venne avvicinato nel cuore della notte da un gruppo di detenuti originari dell'Ucraina occidentale:

"II tuo nome è ucraino" mi dissero. "Chi sei, un traditore?" Spiegai loro che ero cresciuto nel Caucaso settentrionale, in una famiglia in cui si parlava russo, e non sapevo perché avevo un nome ucraino. Stettero lì per un po' e poi se ne andarono. Ma avrebbero potuto uccidermi, possedevano un coltello.82

Una detenuta, secondo cui in linea di massima i disaccordi tra i gruppi nazionali non erano "fondamentali", diceva scherzando che questo valeva per tutti eccetto gli ucraini, i quali "odiavano tutti gli altri".83

Per quanto possa apparire strano, nella maggior parte dei campi i russi, il gruppo etnico che secondo le statistiche del Gulag fu sempre di gran lunga il più rappresentato, non avevano un proprio clan.84 Certo i russi si associavano tra loro in base alla città o alla regione di provenienza: i moscoviti stavano con i moscoviti, i leningradesi con i leningradesi, e così via. Una volta Vladimir Petrov fu aiutato da un medico, che gli chiese:

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"Che cosa facevi prima?" "Ero studente a Leningrado."

"Ah, allora sei mio concittadino, molto bene" disse il medico dandomi una pacca sulla spalla.85

Spesso i moscoviti erano molto potenti e organizzati: Leonid Trus, arrestato quando era ancora studente, ricorda che i moscoviti più vecchi di lui nel suo campo formavano una cerchia ristretta, da cui lui era escluso. Una volta voleva prendere un libro in prestito alla biblioteca del campo, ma prima dovette convincere il bibliotecario, membro del clan, che poteva fidarsi di lui.86

Tuttavia, di solito si trattava di legami fragili, in cui i detenuti ritrovavano soltanto qualcuno che ricordava la strada in cui vivevano, o conosceva la loro scuola. Gli altri gruppi nazionali costituivano vere e proprie organizzazioni di mutua assistenza, con la funzione di cercare posto nelle baracche per i nuovi arrivati e aiutarli a ottenere lavori leggeri, ma i russi no. Arjadna Efron sostiene che, quando arrivò in treno a Turuhansk, dove la confinarono con altri detenuti dopo la fine della condanna ai campi, altri esuli già lì residenti aspettavano il loro arrivo:

Un ebreo chiamò da parte le donne ebree del nostro gruppo, diede loro del pane e spiegò come dovevano comportarsi e che cosa dovevano fare. Poi un georgiano accolse un gruppo di georgiane, e dopo poco restammo soltanto noi russe, una decina o una quindicina di persone. Nessuno venne a prenderci, ci offrì del pane, o ci diede dei consigli.87

Eppure esistevano delle differenze tra i detenuti russi, basate più sull'ideologia che sulla nazionalità. Nina Gagen-Torn scrive: "La maggioranza delle donne rinchiuse nei campi considerava la propria sorte e le proprie sofferenze una disavventura accidentale, e non cercava di capirne le ragioni". Chi invece "trovava qualche tipo di spiegazione per quanto stava accadendo e ci credeva, si facilitava la vita".881 più numerosi a trovare una giustificazione erano i comunisti, cioè i detenuti che continuavano a professarsi innocenti, a essere fedeli all'Unione Sovietica e a considerare tutti gli altri nemici veri da evitare, a dispetto dell'evidenza. Anna Andreevna ricorda i comunisti che si cercavano a vicenda: "Si trovavano l'un l'altro e si univano, erano cittadini sovietici puliti, e consideravano gli altri criminali".89 Susanna Pecora racconta il momento in cui li vide arrivando al Minlag, all'inizio degli anni Cinquanta: "Stavano seduti in disparte e si dicevano l'un l'altro: "Siamo cittadini sovietici onesti, viva Stalin, non siamo colpevoli e il nostro governo ci libererà della compagnia di tutti questi nemici"".90

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Irena Arginskaja e la Pecora, internate a Kengir nello stesso periodo, ricordano entrambe che molti membri del gruppo appartenevano alla classe degli alti funzionar! di Partito arrestati tra il 1937 e il 1938. Per la maggior parte erano abbastanza anziani: l'Arginskaja rammenta che spesso venivano raggnippati nel campo per gli invalidi, dove c'erano ancora molte persone arrestate in quel lontano periodo. Anna Larina, moglie del leader sovietico Nikolaj Buharin, arrestata allora, in una prima fase rimase come molti altri fedele al regime rivoluzionario. Mentre era ancora in carcere, scrisse una poesia per commemorare l'anniversario della Rivoluzione d'ottobre:

Se pur dietro alla grata funesta mi brucian sovente le offese, oggi è pur giorno di festa e io lo celebro col mio paese.

Oggi è altra la mia fede che tornare io possa alla vita e insieme all'amato Komsomol marcerò sulla Piazza Rossa!

In seguito la Larina definì questa poesia "il delirio di una pazza", ma all'epoca la recitava alle mogli dei vecchi bolscevichi detenute, e loro "si commuovevano fino alle lacrime e applaudivano".91

Solzenicyn ha dedicato un capitolo di Arcipelago Gulag ai comunisti, che definisce in modo piuttosto impietoso "benpensanti": si meraviglia di fronte alla loro capacità di trovare una giustificazione persino per il proprio arresto, le torture subite e l'internamento attribuendone la responsabilità in alternativa alla "scaltra attività dei servizi segreti stranieri", al "sabotaggio su vasta scala", a "un sopruso degli agenti locali dell'NKVD", oppure al "tradimento". Alcuni escogitavano spiegazioni ancora più ingegnose: "Queste repressioni sono una necessità storica dello sviluppo della nostra società".92

In seguito qualcuno dei fedeli alla linea scrisse le proprie memorie, pubblicate volentieri dal regime sovietico. Per esempio, la novella di Boris D'jakov Pavesi' o perezitom fu pubblicata nel 1964 dalla rivista "Oktjabr'" con la seguente introduzione: "La forza della storia di D'jakov risiede nel fatto che parla di gente sovietica vera, di comunisti autentici. Nonostante le difficoltà della situazione, non perdono mai la propria umanità, restano fedeli ai loro ideali di Partito, sono devoti alla Patria". Un personaggio di D'jakov, Todorskij, racconta di aver aiutato un tenente dell'NKVD a scrivere un discorso sulla storia del Partito. In un'altra occasione, dice all'ufficiale re-

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sponsabile della sicurezza, il maggiore Jakovlev, che pur essendo stato condannato ingiustamente si considera un vero comunista: "Non sono colpevole di alcun reato contro l'autorità sovietica. Quindi ero e rimango un comunista". Il maggiore gli consiglia di non parlarne: "Perché gridarlo in giro? Pensi che tutti, nei campi, amino i comunisti?".93

In effetti, i comunisti non erano molto amati: coloro che dichiaravano di esserlo venivano spesso sospettati di lavorare, in segreto o meno, per le autorità del campo. Parlando di D'jakov, Solzenicyn osserva che nelle sue memorie c'è qualche punto oscuro. Chiede "in cambio di cosa" l'addetto alla sicurezza Sokovikov accettasse di imbucare di nascosto le lettere di D'jakov senza sottoporle alla censura, "da dove venisse tanta amicizia".94 In effetti, negli archivi ci sono le prove che D'jakov fu un agente della polizia segreta per tutta la vita (il suo nome in codice era "Picchio") e continuò a lavorare come informatore anche nei campi.95

Gli unici a superare i comunisti in materia di fede erano i credenti ortodossi e gli adepti delle varie sette protestanti russe sottoposte a persecuzioni politiche: i battisti, i testimoni di Geova e le altre varianti specificamente russe. Nei campi femminili costituivano una presenza rilevante: le chiamavano monaska, "monache". Anna Andreev-na ricorda che alla fine degli anni Quaranta, nel campo femminile della Mordovia, "le detenute erano per la maggior parte credenti" e si organizzavano perché "nei giorni di festa le cattoliche lavorassero al posto delle ortodosse, e viceversa".96

Come già detto, alcune sette non volevano collaborare in alcun modo con il demonio sovietico, rifiutavano di lavorare e di firmare documenti ufficiali. La Gagen-Torn racconta che una credente, rilasciata per motivi di salute, si rifiutò di andarsene dal campo. "Non riconosco la vostra autorità" disse all'agente che si era offerto di darle i documenti necessari per tornare a casa. "Il vostro potere è illegittimo, sui vostri passaporti compare l'Anticristo ... Se me ne vado libera, mi arresterete di nuovo. Non ho alcun motivo di andarmene. "9? Aino Kuusinen era prigioniera in un campo dove un gruppo di detenute rifiutava di indossare abiti numerati, sicché "stampigliarono loro i numeri sulla pelle", e le costringevano a rispondere all'appello del mattino e della sera completamente nude.98

Solzenicyn racconta la storia, ripetuta in diverse varianti da altri, di un gruppo di seguaci di una setta religiosa internati alle Solo-veckie nel 1930. Rifiutavano qualunque cosa provenisse dall'"Anti-cristo" e di maneggiare denaro o passaporti sovietici. Per punizione,

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Gulag

PPP

li mandarono su un'isoletta dell'arcipelago, dicendo loro che avrebbero ricevuto da mangiare solo se avessero accettato di firmare una ricevuta. Si rifiutarono, e nel giro di due mesi morirono tutti di fame. Un testimone racconta che, quando una nave tornò all'isola, trovarono "soltanto cadaveri beccati dagli uccelli".99

Molti seguaci di sette, anche quando accettavano di lavorare, non volevano mescolarsi con gli altri detenuti, e alcuni rifiutavano di rivolgere loro la parola. Si accalcavano in una baracca in silenzio assoluto, oppure agli orari stabiliti salmodiavano preghiere e cantavano inni:

Stavo dietro alle sbarre della prigione ricordando come Cristo

portava la sua pesante croce con umiltà e dolcezza con contrizione, al Golgota.100

I più fanatici tendevano a suscitare sentimenti contrastanti tra gli altri detenuti. La Arginskaja, decisamente laica, ricorda con ironia "li odiavamo tutti" e, in particolare, quelli che per motivi religiosi non si lavavano.101 Nina Gagen-Torn racconta che altre detenute si lamentavano di chi rifiutava di lavorare: "Noi lavoriamo e loro no! E il pane lo danno anche a loro!".102

Tuttavia, in un certo senso, chi all'arrivo in un campo entrava subito in un clan o in un gruppo religioso era fortunato. Le gang criminali, i gruppi nazionali più attivi, i comunisti e le sette religiose offrivano immediatamente ai loro adepti una collettività, una struttura di supporto e solidarietà. Invece la maggior parte dei detenuti politici e molti criminali comuni, che costituivano la schiacciante maggioranza della popolazione dei campi, non riuscivano a integrarsi con facilità in qualche gruppo. Per loro risultava assai più difficile capire la vita, il codice morale e la gerarchla dei campi. Essendo privi di rapporti, dovevano comprendere da soli le regole per andare avanti.

XV DONNE E BAMBINI

Quando tornammo dal lavoro l'addetta di turno mi disse: "Corri, vai a vedere cos'hai sotto il cuscino!" Il cuore mi diede un balzo. Senz'altro mi avranno dato il pane, pensai. Corsi verso il mio letto e alzai il cuscino. Sotto c'erano tre lettere da casa, le prime che ricevevo dopo sei mesi.

Il mio primo sentimento fu di delusione: invece del pane, le lettere. Ma dopo provai orrore per me stessa. Che tazza di mostro ero diventata, se tenevo di più a un pezzo di pane che alle lettere della mamma, del babbo, dei bambini!

Aprii le buste e caddero delle fotografie: mia figlia mi guardava con i suoi occhi azzurri, mio figlio aveva la fronte aggrottata e di certo pensava a qualcosa.

Dimenticai il pane e mi misi a piangere.

OL'GA ADAMOVA-SLIOZBERG, // mio cammino1

Dovevano realizzare la stessa norma di lavoro e mangiavano la stessa zuppa acquosa; vivevano nello stesso tipo di baracche e viaggiavano negli stessi carri bestiame. I loro vestiti erano quasi uguali, le loro scarpe altrettanto inadeguate. Durante gli interrogatori non venivano trattate in modo diverso. Eppure, le esperienze delle donne nei campi femminili non sono affatto identiche a quelle degli uomini nei campi maschili.

Di certo molte sopravvissute alla prigionia sono convinte che il loro sesso fosse molto avvantaggiato nel Gulag. Le donne si curavano di più, rappezzavano gli abiti e si lavavano i capelli. Sembrava riuscissero meglio a restare in vita con quantità di cibo inferiori e non soccombevano con tanta facilità alla pellagra e alle altre malattie da malnutrizione.2 Stringevano forti legami di amicizia, e si aiutavano tra di loro molto più degli uomini.

Margarete Buber-Neumann racconta che una donna, portata con tei nella prigione di Butyrka, quando l'avevano arrestata, indossava

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un leggero abito estivo, ormai a brandelli. Le occupanti della cella decisero di fargliene uno nuovo:

Nello spaccio della prigione si potevano comprare degli strofinacci e mutande maschili. Alcune detenute imbastirono sei di questi strofinacci di lino grezzo. Ma come si taglia un abito senza le forbici? Risolsero anche questo problema. Tracciarono sulla stoffa il taglio da eseguire con la punta annerita di un fiammifero bruciato. Poi ripiegarono il tessuto lungo i contorni e - pieghettando l'angolo così ottenuto - lo avvicinarono a un fiammifero acceso, avendo cura di ritrarlo a tempo debito. Il nostro filo da cucire proveniva dagli indumenti più diversi...

L'opulenta lettone che vagabondava da un gruppo all'altro ricamò a punto croce l'orlo e lo scollo dell'abito fatto di strofinacci. Lo ricordo come uno dei più indovinati modelli estivi.3

Ciononostante, molti sopravvissuti maschi pensano l'esatto opposto, e cioè che dal punto di vista morale le donne si degradassero più in fretta degli uomini. Grazie al loro sesso, avevano maggiori possibilità di essere assegnate a lavori più ambiti e meno pesanti, e quindi di godere di una posizione migliore nella gerarchla del campo. Questo le disorientava, perché perdevano i punti di riferimento necessari nel duro mondo dei campi di detersione. Per esempio Gustaw Her-ling parla di "una bruna cantante dell'Opera di Mosca" arrestata per "spionaggio". All'arrivo al campo di Kargopol'lag, la gravita della sua sentenza fece sì che venisse subito assegnata alla squadra dei taglialegna:

Ebbe la disgrazia di piacere a Vanja, il basso urka in carica nella sua brigata, e questi le assegnò il lavoro di togliere la corteccia agli abeti abbattuti con un'enorme ascia che essa riusciva a malapena a reggere nelle mani. Al ritorno dal lavoro restò sempre indietro di molti metri ai vigorosi tagliaboschi, e giunse la sera al recinto avendo appena la forza di trascinarsi fino alla cucina a prendere la sua razione, corrispondente alla prima caldaia [la razione di zuppa minima] ... le venne la febbre alta ma l'inserviente dell'ospedale, d'accordo con Vanja, non la esonerò dal lavoro.

Alla fine la cantante cedette, prima a Vanja e, successivamente, a "uno dei dirigenti dei campi", che "la trascinò per i capelli fuori da quel mucchio di immondizia, e la collocò dietro un tavolo nell'ufficio del contabile".4

Alcune avevano destini peggiori, come Herling racconta. Per esempio, parla di una giovane polacca giudicata molto bene da una "giuria informale formata dagli urka". All'inizio

andava al lavoro con la testa fieramente eretta, e respingeva ogni uomo che osasse avvicinatesi, lanciando occhiate furibonde. La sera, tornava dal lavoro un po' più dimessa, ma sempre intoccabile e pudicamente sprezzante.

Donne e bambini 331

Andava diritta dal corpo di guardia alla cucina a prendere la sua porzione di minestra, e non lasciava mai la baracca delle donne durante la notte; non sembrava una preda facile delle cacce notturne entro il recinto del campo.

Ma i suoi primi sforzi non servirono a molto. Il suo sovrintendente la sorvegliò con attenzione, impedendole di rubare anche solo una carota o una patata marcia dal deposito delle verdure in cui lavorava, e dopo alcune settimane la ragazza cedette. Una sera l'uomo si presentò nella baracca di Herling: "In silenzio gettò sulla mia cuccetta un paio di mutandine lacerate". Fu l'inizio di una metamorfosi, per la giovane:

Da quel giorno la ragazza sembrò divenuta un'altra. Non si affrettava più come prima a prendere dalla cucina la sua minestra, ma dopo il ritorno dal lavoro vagava per il recìnto fino a notte inoltrata come un gatto in calore. Chiunque volesse poteva averla, su una cuccetta, sotto la cuccetta, nei cubicoli separati dei periti tecnici, o nel magazzino dei vestiti. Ogni volta che mi incontrava, voltava la testa, e stringeva le labbra convulse. Una volta, entrando nel deposito di patate al centro di rifornimento, la sorpresi su un cumulo di sacchi con il brigadiere della 56a, gobbo e di razza mista, Levkovic. Scoppiò in pianto e quando tornò nel recinto a sera tratteneva le lacrime coi due piccoli pugni sugli occhi.. .5

Questa è la versione di Herling di una storia ripetuta da molti, una storia che, bisogna dirlo, suona sempre un po' diversa quando a raccontarla è una donna. Per esempio, Tamara Ruznevic racconta un'esperienza personale molto simile: la sua "relazione" cominciò con una lettera, "una normale lettera d'amore, una semplice lettera tra detenuti" inviatale da Sasa, un giovane che grazie al suo comodo lavoro di calzolaio faceva parte dell'aristocrazia del campo. Era breve e brusca: "Mettiamoci insieme, e io ti darò una mano". Alcuni giorni dopo, Sasa trascinò in un angolo la Ruznevic e le chiese una risposta. Le domandò: "Vieni a vivere con me o no?". Lei rispose di no. Lui la picchiò con una sbarra di metallo, poi la portò all'ospedale (dove grazie alla posizione conferitagli dal suo lavoro aveva una certa influenza) e disse al personale di prendersi cura di lei. Lei rimase a letto per parecchi giorni, a riprendersi dalle ferite. Quando la dimisero, aveva avuto un sacco di tempo per riflettere: tornò da Sasa. Altrimenti l'avrebbe picchiata di nuovo.

La Ruznevic racconta: "Cominciò così la mia vita familiare". I benefici furono immediati: "Divenni più sana, andavo in giro con belle scarpe, non indossavo più stracci di chissà che tipo. Avevo una giacca nuova, pantaloni nuovi... persino un cappello nuovo". Decine di anni dopo definì Sasa il suo "primo amore, quello vero". Purtroppo

I

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poco dopo lo trasferirono in un altro campo, e lei non lo rivide più Ma c'era di peggio: l'uomo che aveva fatto trasferire Sasa la desiderava. Dato che "non c'era via di uscita", cominciò ad andare a letto anche con lui. Non afferma di averlo mai amato, ma ricorda che anche quella situazione le offriva dei vantaggi: le rilasciarono un permesso per spostarsi senza sorveglianza, e le misero a disposizione un cavallo.6 Il racconto della Ruznevic, come quello di Herling, può essere considerato un esempio di degradazione morale. Ma può essere definito anche una storia di sopravvivenza.

Dal punto di vista dell'amministrazione non sarebbe dovuto succedere nulla di tutto questo. In linea di principio, uomini e donne non dovevano trovarsi negli stessi campi, e alcuni ex prigionieri raccontano di non avere visto per anni una persona dell'altro sesso. Inoltre i comandanti non desideravano donne nei loro campi. Essendo meno robuste, potevano far calare la produttività, e quindi alcuni amministratori cercavano di non farne arrivare. Una volta, nel febbraio 1941, l'amministrazione del Gulag diffuse persino una circolare a tutti i dirigenti dell'NKVD e a tutti i comandanti nella quale intimava loro di accettare i convogli di detenute, elencando tutti i lavori che le donne potevano svolgere con efficienza. Nella lettera sono citate l'industria leggera, quella tessile, la falegnameria, la carpenteria, alcuni lavori di disboscamento, il carico e lo scarico di merci.7

Forse dipese proprio dalle proteste dei comandanti se il numero delle donne inviate nei campi rimase sempre relativamente basso (come fu basso il numero di donne giustiziate nel corso della repressione avvenuta tra il 1937 e il 1938). Per esempio, secondo le statistiche ufficiali, nel 1942 solo il 13 per cento dei detenuti nel Gulag erano donne; nel 1945 questa cifra salì al 30 per cento, perché moltissimi prigionieri maschi vennero richiamati nell'esercito e inviati al fronte, e inoltre era stata emanata una legge che proibiva ai lavoratori di abbandonare le fabbriche, un fatto che provocò l'arresto di molte ragazze.8 Nel 1948 la percentuale era scesa al 22 per cento, e calò al 17 per cento nel 1951 e nel 1952.9 Eppure, nemmeno queste cifre riescono a spiegare appieno la situazione vera, perché le donne venivano destinate assai più spesso alle "colonie" a regime leggero. Nei grandi campi industriali dell'estremo nord erano ancora meno, la loro presenza ancora più rara.

Proprio perché le donne erano così poche, ce n'era sempre carenza, come per il cibo, gli indumenti e altri oggetti. Quindi, anche se forse non avevano molto pregio per chi stilava le statistiche ufficiali, i detenuti, le guardie e i lavoratori liberi le valutavano in modo di-

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verso. Nei campi in cui i contatti tra i detenuti dei due sessi erano più o meno liberi o, per fare un quadro più realistico, in cui certi uo-inini potevano accedere alle sezioni femminili, le donne ricevevano proposte, abboccamenti e quasi sempre offerte di cibo o di lavori più leggeri in cambio di rapporti sessuali. Forse non si tratta di una peculiarità esclusiva della vita del Gulag. Per esempio, un rapporto di Amnesty International del 1999 riguardo alle detenute negli Stati Uniti denuncia svariati episodi del genere: di detenuti e guardie che avevano violentato le detenute, di detenuti che pagavano le guardie per poter incontrare le detenute, o di prigioniere spogliate e perquisite da agenti maschi.10 Tuttavia, a causa delle strane gerarchle sociali del sistema dei campi sovietici, le donne venivano torturate e umiliate con brutalità eccezionale persino per le strutture carcerarie.

Il destino di una donna dipendeva fin dall'inizio dalla sua posizione sociale e dai suoi rapporti con i diversi clan: nel mondo criminale le donne erano soggette a un complicato sistema di regole e rituali, e godevano di scarso rispetto. Salamov spiega: "L'urica ereditario impara fin dall'infanzia a disprezzare le donne... Creatura inferiore, la donna è stata creata unicamente per soddisfare gli appetiti bestiali dei malavitosi, per essere il bersaglio dei loro scherzi grossolani e l'oggetto di pubblici pestaggi quando quelli "se la spassano"". Le prostitute erano considerate proprietà dei criminali di alto rango, e potevano essere oggetto di vendita o baratto, o addirittura ereditate da un fratello, o da un amico, nei casi in cui il proprietario venisse ucciso o trasferito in un altro campo.

Nei passaggi di proprietà, "in generale la faccenda non arriva fino alla lite, e la prostituta si rassegna a dormire con il suo nuovo padrone. L'amore "a tre" o la donna "in comune" nel mondo dei malavitosi non esistono. ... È del tutto escluso che una ladra possa "vivere" con un non malavitoso".11

Del resto, questo trattamento non veniva riservato solo alle donne. A quanto pare, tra i criminali di professione i rapporti omosessuali erano regolati da norme altrettanto brutali. Alcuni giovani capi tenevano nel proprio seguito giovani omosessuali, insieme o al posto delle "mogli" del campo. Thomas Sgovio racconta di un caposquadra che aveva per "compagno" un giovane da cui riceveva favori sessuali in cambio di cibo.12 Ma non è facile esporre le regole applicate nei campi ai rapporti omosessuali, perché i memorialisti °e parlano assai di rado. Forse dipende dal fatto che, nella cultura russa, l'omosessualità continua a essere considerata per molti versi un tabù, e le persone preferiscono non parlarne. Inoltre, sembra che

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l'omosessualità maschile nei campi fosse circoscritta al mondo criminale, e i criminali hanno lasciato pochi libri di memorie.

Sappiamo però che negli anni Settanta e Ottanta i criminali sovietici avevano elaborato un galateo molto complicato riguardo all'omosessualità. Gli omosessuali "passivi" venivano isolati dal resto della popolazione carceraria, mangiavano a tavoli separati e non parlavano con altri uomini.13 Per quanto se ne parli poco, regole simili esistevano già verso la fine degli anni Trenta, quando Petr Jakir, allora quindicen-ne, assistette a un episodio di questo genere in una cella del carcere minorile. All'inizio, sentire gli altri ragazzi parlare delle proprie esperienze sessuali lo scioccò, e pensò che fossero esagerate,

ma mi sbagliavo. Un ragazzine si tenne la razione di pane fino alla sera, poi chiese a Maska, che non aveva mangiato niente per tutto il giorno: "Ne vuoi un pezzo?".

"Sì" rispose Maska.

"Allora tirati giù i calzoni."

Avvenne in un angolo difficile da scorgere dallo spioncino, ma pienamente visibile per tutti i presenti nella cella. Nessuno si sorprese, e anch'io feci finta di non esserne turbato. Mentre mi trovavo in quella cella accaddero molti altri episodi analoghi: erano sempre gli stessi ragazzi a svolgere la funzione del partner passivo. Li trattavano come dei paria, non permettevano loro di bere dalla tazza comune e li umiliavano.14

Curiosamente, l'omosessualità femminile nei campi era meno nascosta, o comunque è stata descritta con più frequenza; anch'essa era oggetto di un preciso rituale tra le criminali professioniste. Per parlare delle lesbiche si usava il pronome neutro ono, e si distinguevano in quelle più femminili, le "giumente", e quelle più virili, i "mariti". A quanto racconta un testo, talvolta le prime erano "vere e proprie schiave", e dovevano fare le pulizie e prendersi cura del proprio "marito". In genere le donne del secondo tipo si sceglievano un soprannome da uomini, e quasi sempre fumavano.15 Parlavano apertamente del proprio lesbismo, e lo citavano nelle canzoni:

Ti ringrazio Stalin che mi hai fatto baronessa. Sono un toro e una vacca, una donna e un uomo.16

Si individuavano anche per lo stile nel vestire e per come si comportavano. In seguito, una donna polacca ha scritto:

Tutti conoscono coppie di donne di questo tipo, che non fanno mistero delle proprie abitudini. Quelle che svolgono la parte dell'uomo di solito si vestono con abiti maschili, portano i capelli corti e tengono le mani in tasca.

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Quando le coppie innamorate di questo genere vengono colte da un accesso <ji passione, saltano in piedi, abbandonano la macchina da cucire e si inse-guono, poi cadono a terra tra baci appassionati.17

Valeri] Frid parla di detenute criminali che si vestivano da uomini e si facevano passare per ermafroditi: una era "carina, con i capelli corti, e indossava pantaloni da ufficiale"; un'altra, a quanto pare, aveva davvero una malformazione agli organi genitali.18 Un'altra detenuta racconta di uno "stupro" tra donne, una coppia di lesbiche che inseguì una "ragazza umile e tranquilla" sotto le brande, e le lacerò l'imene.19 Pare che negli ambienti intellettuali l'omosessualità femminile fosse trattata con meno indulgenza: un ex prigioniero politico la definisce "un'attività tra le più rivoltanti".20 Tuttavia, anche se i politici tendevano a tenerla nascosta, l'omosessualità femminile esisteva pure tra loro, e spesso riguardava donne che fuori dal carcere avevano mariti e figli. Susanna Pecora mi ha detto che nel Minlag, un campo in cui i detenuti erano per la maggior parte politici, le relazioni lesbiche "aiutavano alcune a sopravvivere".21

Volontarie o forzate, eterosessuali o omosessuali, nei campi le relazioni sessuali riflettevano il clima di brutalità generale. Si svolgevano per forza senza la minima riservatezza, e questo scandalizzava molti reclusi. Un ex detenuto mi ha raccontato che le coppie "strisciavano sotto il filo spinato e facevano l'amore per terra, vicino alle latrine".22 Solzenicyn racconta: "Una cuccetta riparata con cenci dallo sguardo delle vicine è un classico quadro da lager".23 Una volta Isaak Fil'stinskij si svegliò nel cuore della notte e trovò una donna coricata nel letto accanto al suo; aveva scavalcato di nascosto il muro per fare l'amore con il cuciniere del campo: "A parte me, quella notte non aveva dormito nessuno, tutti avevano ascoltato con assoluta attenzione come procedevano le cose".24 Hava Volovic spiega: "Lì accadevano nella massima semplicità, come tra gatti randagi, delle cose che una persona libera avrebbe riflettuto cento volte prima di fare".25 Un altro detenuto ricorda che l'amore, soprattutto tra i criminali di professione, era "animalesco".26

Anzi, il sesso veniva praticato con tale sfrontatezza che lo si considerava con una certa indifferenza: per alcuni, la violenza sessuale e la prostituzione erano entrate a far parte della routine quotidiana. Una volta Edward Buca lavorava in segheria, vicino a una squadra femminile, quando arrivò un gruppo di criminali. "Afferrarono le donne che volevano e le sdraiarono nella neve o le presero contro una catasta di tronchi. Le donne sembravano abituate e non opponevano resistenza. Avevano la loro caposquadra, ma non faceva obie-

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zione a tali interruzioni, che anzi sembravano quasi una parte del lavoro."27 Anche Lev Razgon racconta la storia di una ragazza bionda e molto giovane che aveva conosciuto per caso mentre spazzava il cortile dell'infcrmeria di un campo. Lui a quell'epoca era già un lavoratore libero, era andato a trovare un medico suo amico e, anche se non aveva fame, gli avevano offerto un ricco pranzo. Lo diede alla ragazza, che "mangiò con un silenzio e una compostezza da cui si capiva che era cresciuta in una buona famiglia". A Razgon ricordò sua figlia:

La ragazza finì di mangiare e impilò i piatti in bell'ordine sul vassoio di legno. Poi si sollevò il vestito, si tolse le mutande e tenendole in mano volse la faccia seria nella mia direzione.

"Sdraiati o come?"

In un primo momento senza capire, e poi spaventata dalla mia risposta, mi disse per giustificarsi, sempre senza sorridere: "Non mi danno da mangiare se non lo faccio... ".28

In qualche campo capitava anche che certe baracche femminili diventassero quasi veri e propri bordelli. Solzenicyn ne descrive uno:

È indescrivibilmente, incomparabilmente sporca, trascurata, vi regna un odore greve, le cuccette sono prive di coperte e biancheria. Ufficialmente, gli uomini non avrebbero potuto entrarci, ma nessuno osservava il divieto, e nessuno lo faceva rispettare. Non la frequentavano soltanto gli uomini, ma frotte di marmocchi, ragazzi di dodici o tredici anni, andavano lì a imparare. ... Tutto avveniva con la massima naturalezza sotto gli occhi di tutti e contemporaneamente in più punti. Soltanto un'evidente vecchiaia e un'evidente mostruosità potevano servire da difesa a una donna, niente altro.29

Eppure, in netto contrasto con i racconti di sesso brutale e di volgarità, molti libri di memorie raccontano storie altrettanto improbabili di amore, che a volte scaturivano dal bisogno di protezione delle donne. In base alle regole peculiari del Gulag, una donna che si prendeva un "marito nel campo" di solito veniva lasciata in pace dagli altri; Herling definisce questo sistema "il singolare "ius primae noctis" che vigeva in detersione".30 Non si trattava necessariamente di "matrimoni" tra pari: non di rado donne rispettabili vivevano con dei criminali.31 Come racconta la Ruznevic, non sempre l'unione dipendeva da una libera scelta. E tuttavia non sarebbe corretto nemmeno chiamarla prostituzione. Secondo Valeri] Frid, si trattava piuttosto di braki pò rascetu, "matrimoni di interesse", "che qualche volta diventavano anche matrimoni d'amore". Anche quando nascevano solo per motivi pratici, spesso i prigionieri li prendevano molto sul serio. "Parlando della sua compagna più o meno fissa, uno zek dice-

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va "mia moglie"" racconta Frid. "E lei lo chiamava "mio marito". Non lo dicevano per scherzo: i rapporti stretti nei campi rendevano più umana la nostra vita."32

E per quanto possa sembrare strano, i detenuti che non erano troppo esausti o deperiti andavano davvero in cerca dell'amore. Nel suo libro di memorie, Anatolij Zigulin racconta di una relazione amorosa che riuscì a intrattenere con una donna tedesca, una politica, "l'allegra, buona Marta, con gli occhi grigi e i capelli biondi". In seguito venne a sapere che Marta aveva avuto un figlio e che lo aveva chiamato Anatolij. (Accadde nell'autunno del 1951, e dato che dopo la morte di Stalin concessero un'amnistia generale per i prigionieri stranieri, Zigulin poteva sperare: "Se non hanno avuto sfortuna, Marta e il bambino sono tornati a casa".33) Alcuni brani delle memorie del medico detenuto Isaac Vogel'fanger somigliano a un romanzo sentimentale, nel quale l'eroe deve destreggiarsi tra i pericoli di una relazione con la moglie di un dirigente del campo e le gioie del vero amore.34

Quella gente priva di tutto aveva un tale bisogno di instaurare relazioni sentimentali che spesso nascevano intensi rapporti d'amore platonico, tenuto vivo per lettera. Accadeva soprattutto verso la fine degli anni Quaranta, nei campi speciali per politici, dove i prigionieri dei due sessi venivano tenuti rigidamente separati. Nel Minlag, un campo di questo tipo, uomini e donne si scambiavano messaggi tramite i detenuti impiegati all'ospedale, che era comune ai due sessi. Allestirono anche una "cassetta postale" segreta nel cantiere ferroviario, dove lavoravano le squadre femminili. Ogni due o tre giorni una donna che lavorava alla ferrovia fingeva di aver dimenticato il cappotto o qualche altro oggetto personale, andava alla cassetta postale, ritirava le lettere e ne lasciava altre. Più tardi un uomo andava a prenderle.35 C'erano anche altri sistemi: "All'ora stabilita, una persona scelta in una delle zone gettava le lettere scritte dagli uomini alle donne o dalle donne agli uomini. Era il "servizio postale"".36

Leonid Sitko racconta che le missive venivano scritte con caratteri minuti su piccolissimi pezzi di carta, e tutti firmavano con un nome falso: il suo era "Amieto", quello della sua ragazza "Marziana". Li a-vevano messi in contatto altre detenute, raccontando a lui che la donna era in preda a una profonda depressione, perché dopo l'arresto le avevano portato via il figlioletto. Lui cominciò a scriverle, e una volta riuscì persino a incontrarla in una miniera abbandonata.37

Altri escogitarono metodi ancor più surreali per procurarsi un po' di intimità: nel campo speciale di Kengir, in cui erano rinchiusi in

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prevalenza prigionieri politici, del tutto isolati da parenti, amici congiunti rimasti a casa, alcuni intrattenevano complesse relazioni con persone che non avevano mai incontrato.38 Alcuni addirittura si sposavano attraverso il muro che separava il campo maschile da quello femminile, senza mai vedersi di persona. La donna stava da una parte, l'uomo dall'altra; si celebrava il rito e un prete detenuto registrava la celebrazione del matrimonio su un pezzette di carta.

Gli amori di questo tipo continuarono anche quando l'amministrazione decise di alzare il muro, coprirlo con filo spinato e proibire ai detenuti di avvicinarsi. Parlando di questi matrimoni al buio, persino Solzenicyn abbandona per un attimo il cinismo che applica a quasi tutti gli altri rapporti nel Gulag: "In quella unione con un prigioniero sconosciuto che stava dall'altra parte del muro ... sento risuonare il coro degli angeli. È come una disinteressata contemplazione degli astri celesti. È qualcosa di troppo sublime per il secolo del calcolo interessato e del jazz saltellante".39

Dato che amore, sesso, violenza e prostituzione facevano parte della vita dei campi, ne facevano inevitabilmente parte anche gravidanze e parti. Insieme a miniere, cantieri edilizi, squadre forestali, celle di rigore, baracche e carri bestiame, nel Gulag c'erano anche reparti maternità, campi speciali per le madri, asili per i neonati e i bambini.

Non tutti i bambini ospitati in tali istituzioni erano nati nei campi: alcuni venivano "arrestati" insieme alle madri. Le norme che regolavano tale procedura non sono mai state molto chiare: l'ordine operativo del 1937, con cui si disponeva di arrestare mogli e figli dei "nemici del popolo", vietava espressamente di recludere donne incinte o in allattamento.40 D'altra parte, in un ordine del 1940 si decretava che i bambini potevano stare con la madre per un anno e mezzo, "fino a quando cessano di avere bisogno del latte materno", e poi andavano affidati a un orfanotrofio o consegnati ai parenti.41

In pratica, venivano arrestate senza remore tanto le donne in gravidanza quanto le madri di lattanti. Il medico di un campo, effettuando la visita di norma a un contingente di prigionieri appena arrivato, si accorse che una donna era entrata in travaglio: l'avevano arrestata al settimo mese di gravidanza.42 Un'altra, Natal'ja Zaporozec, fu imbarcata su un convoglio all'ottavo mese di gravidanza: dopo gli sballottamenti di un viaggio effettuato su treni e nel cassone dei camion, diede alla luce un bambino morto.43 L'artista e scrittrice Efrosinija Kersnovskaja aiutò a far nascere un bambino su un convoglio.44

Inoltre i bambini piccoli venivano "arrestati" insieme ai genitori.

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// quinto anno di campo (I fonrni'i'i^itti): volti di prigionieri ritratti "prima> e "dopo"; disegno di Aleksej Merekov. fAssociazione Memorial, Mosca)

Ajj,:.i.utì d'amore: prigionieri di un campo guardano U settore femminile attraverso la rete di recinzione; disegno di Jula-Imar Booster, Karaganda, 1950.

(Associazione Memorial, Mosca)

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Una detenuta, incarcerata negli anni Venti, scrisse una caustica lettera di protesta a Dzerzinskij, ringraziandolo per avere "arrestato" y suo figlioletto di tre anni, e dicendo che la prigione era preferibile agli orfanotrofi, da lei definiti "fabbriche di angeli".451 bambini arrestati insieme ai genitori durante le due grandi deportazioni, quella dei kulaki all'inizio degli anni Trenta e quella delle minoranze etrvi-che e nazionali durante e dopo la Seconda guerra mondiale, furono in realtà centinaia di migliaia.

Quei bambini si sono portati dietro per tutta la vita il trauma subito allora. Una detenuta polacca racconta di una donna della sua cella, che aveva con sé il figlioletto di tre anni: "II bambino era educato, ma gracile e silenzioso. Lo distraevamo come potevamo, con storie e fiabe, ma di tanto in tanto ci interrompeva dicendo: "Siamo in prigione, vero?"".46

Molti anni dopo, il figlio di una coppia di contadini deportati ha raccontato il suo calvario nei carri bestiame: "La gente perdeva il controllo ... non ricordo quanti giorni viaggiammo. Nel nostro vagone, sette persone morirono di fame. Arrivammo a Tomsk e ci fecero scendere, parecchie famiglie. Scaricarono anche diversi cadaveri, bambini, ragazzi, e anziani".47

Nonostante le privazioni, alcune donne si facevano ingravidare con cinismo mentre si trovavano nei campi. Di solito si trattava di criminali o altre arrestate per reati minori che volevano restare incinte per essere esentate dai lavori più duri, mangiare un po' meglio e, magari, usufruire delle amnistie periodiche concesse a donne con figli piccoli. Tali amnistie (per esempio, ne decretarono una nel 1945 e un'altra nel 1948) di solito non riguardavano le donne condannate per reati controrivoluzionari.48 "Restando incinta ti semplificavi la vita" mi ha detto Ljudmila Hacatrjan, per spiegarmi come mai le donne andavano spensieratamente a letto con i loro carcerieri.49

Un'altra ricorda che aveva sentito parlare in giro del rilascio di tutte le donne con bambini, le nwmka, nel gergo carcerario: perciò si fece ingravidare apposta.50 Nadezda loffe, una detenuta rimasta incinta a seguito di un incontro con il marito, racconta che le altre detenute delle "baracche per poppanti" del campo di Magadan "non avevano istinto materno" e si liberavano dei figli appena possibile.51

Non sorprenderà se non tutte le detenute, scoprendo di essere incinte, desideravano portare a termine la gravidanza. L'amministrazione aveva un atteggiamento ambiguo riguardo all'aborto volontario: talvolta lo autorizzava, talvolta invece affibbiava condanne supplementari a chi tentava di praticarlo.52 Inoltre, visto che è un fé-

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norneno menzionato molto di rado, non è affatto chiaro quanto fos-gero frequenti gli aborti: pur avendo letto dozzine di racconti autobiografici e ascoltato molte interviste, mi è capitato di sentirne parlare solo un paio di volte. Quando l'ho intervistata, Anna Adreevna mi ha parlato di una donna che "si ficcò dentro le unghie, poi si sedette e si mise a lavorare alla macchina da cucire. Dopo un po' prese a sanguinare copiosamente".53 Un'altra donna racconta di come il medico del campo tentò di provocarle un aborto:

Immaginatevi la scena. È notte. È buio ... Andrej Andreevic sta cercando di farmi abortire, con le mani coperte di iodio, senza strumenti. Ma è talmente nervoso che non succede niente. Non riesco a respirare dal dolore, ma sopporto senza un gemito, perché nessuno se ne accorga. "Basta!" grido alla fine per il dolore insopportabile, e per due giorni si interrompe tutto. Alla fine, viene fuori tutto, il feto e un sacco di sangue. È per questo che non sono mai diventata mamma.54

Alcune donne, però, desideravano il proprio bambino, e spesso anche per loro tutto si concludeva in modo tragico. La storia di Ha-va Volovic contrasta con quanto è stato scritto riguardo all'egoismo e alla venalità delle detenute che restavano incinte durante la prigionia: era stata arrestata per motivi politici nel 1937, e poiché nei campi soffriva di solitudine, decise di avere un figlio. Pur non essendo particolarmente innamorata del padre, nel 1942 Ha va partorì Eleo-nora, in un campo privo di servizi specifici per le madri:

Eravamo in tre a essere madri, e ci diedero una stanzetta riservata nelle baracche. Le cimici cadevano come sabbia dal soffitto e dalle pareti; passavamo tutta la notte a toglierle di dosso ai bambini. Di giorno dovevamo andare a lavorare, e lasciavamo i bambini a qualsiasi vecchia esentata dal lavoro riuscissimo a trovare; quelle donne approfittavano tranquillamente del cibo che avevamo lasciato per i piccoli.

Ciononostante, racconta la Volovic:

Per un anno intero, rimasi in piedi accanto al lettino della mia bambina togliendole le cimici e pregando. Pregavo Dio di prolungare il mio tormento se significava non essere separata da mia figlia. Pregavo di essere rilasciata con lei, anche se mendicante o invalida. Pregavo di riuscire a crescerla, di portarla fino all'età adulta, anche se avessi dovuto strisciare ai piedi della gente e chiedere l'elemosina per riuscirci. Ma Dio non rispondeva alle mie preghiere. Mia figlia aveva appena cominciato a camminare e avevo sentito a malapena le sue prime parole, la meravigliosa parola "mamma" che scalda il cuore, quando, vestite di stracci nonostante il freddo dell'inverno, ci caricarono su un carro merci e ci trasferirono a un "campo per madri". Il TUO angioletto cicciottello con i riccioli d'oro si trasformò in un fantasmino Pallido con occhiaie bluastre e la bocca coperta di piaghe.

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In un primo momento inserirono la Volovic in una squadra di taglialegna, poi la mandarono a lavorare in una segheria. Di sera tornava a casa con una fascina di legna da ardere che consegnava alle infermiere del nido. A volte, in cambio, le consentivano di vedere la figlia fuori dagli orari di visita.

Vedevo le infermiere quando svegliavano i bambini la mattina. Li costringevano a uscire dai letti freddi a spintoni e calci... spingendo i bambini con i pugni e insultandoli in modo brutale, toglievano loro le camicie da notte e li lavavano con acqua gelida. I bambini non osavano nemmeno piangere. Tiravano su con il naso piano, come dei vecchi, e gemevano sommessamente.

Quei gemiti spaventosi provenivano dai lettini per giornate intere. Bambini ormai abbastanza grandi da stare seduti o da camminare a gattoni restavano supini con le ginocchia contratte sulla pancia, a emettere quegli strani suoni, simili al tubare soffocato dei piccioni.

Ogni infermiera aveva in carico diciassette bambini, riusciva a malapena a cambiarli e a dar loro da mangiare, perciò non era in grado di accudire come si deve.

L'infermiera portava dalla cucina una ciotola di semolino fumante, e la distribuiva nei piatti. Afferrava il bambino più vicino, gli bloccava le braccia sul dorso, lo legava con una tovaglia e cominciava a ingozzarlo di semolino bollente, un cucchiaio dopo l'altro, senza lasciargli il tempo per inghiottire, proprio come se stesse alimentando un tacchino.

A poco a poco, Eleonora cominciò a deperire:

A volte, quando andavo a trovarla, aveva dei lividi sul corpicino. Non dimenticherò mai come mi afferrava il collo con le mani ossute e piagnucolava: "Mamma, andiamo a casa!". Non aveva dimenticato il tugurio pieno di cimici dove aveva visto per la prima volta la luce del giorno, e dove stava sempre con sua madre ...

La piccola Eleonora, che all'epoca aveva quindici mesi, ben presto si rese conto che le sue preghiere di tornare "a casa" erano inutili. Smise di protendersi verso di me quando andavo a trovarla; si voltava dall'altra parte in silenzio. Nel suo ultimo giorno di vita, quando la presi in braccio (mi permettevano di allattarla) fissò gli occhi nel vuoto, poi cominciò a picchiarmi in faccia con i piccoli pugni, graffiandomi e mordendomi il seno. Quindi indicò il suo letto.

La sera, quando tornai con la mia fascina di legna, il suo lettino era vuoto. La trovai nuda all'obitorio tra i cadaveri dei prigionieri adulti. Aveva passato in questo mondo un anno e quattro mesi, e morì il 3 marzo 1944 ... Ecco la storia di come, partorendo la mia unica figlia, ho commesso il crimine peggiore che esista.55

Negli archivi del Gulag si conservano fotografie di asili nido simili a quello descritto dalla Volovic. Un album di questo tipo ha la seguente introduzione:

i

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II sole splende nella patria staliniana. Il paese è pieno d'amore per i dirigenti e i nostri splendidi bambini sono felici come i giovani di tutto il paese. Qui, in tetti grandi e caldi, dormono i nuovi cittadini del nostro paese. Dopo Cangiato dormono beati, e di certo fanno dei bei sogni...

Le fotografie successive smentiscono il testo. Una ritrae una fila di madri con una mascherina bianca sul viso (dimostrazione che all'interna del campo si rispettavano le norme igieniche) sedute su una panca con i bambini in braccio e un'espressione solenne e seria sul volto. In un'altra, tutti i bambini si avviano alla passeggiata serale: sono in fila, in bell'ordine, e non hanno un'espressione più spontanea delle madri. In molte delle foto i bambini hanno la testa rasata, probabilmente per prevenire i pidocchi: ma a vederli sembrano proprio dei piccoli detenuti, come in effetti venivano considerati.56 Ev-genija Ginzburg racconta: "Anche la casa d'infanzia è lager. Con sentinella, porte, baracche, filo spinato".57

L'amministrazione moscovita del Gulag di certo sapeva, almeno in certa misura, quanto fosse terribile per i bambini la vita nei campi. Perlomeno sappiamo che gli ispettori riferivano sulla situazione: un rapporto del 1949 sulle condizioni delle donne nei campi afferma con disapprovazione che, su 503.000 detenute, 9300 erano incinte e altre 23.790 avevano bambini piccoli. "In considerazione dell'influenza negativa sulla salute e sull'educazione dei bambini", il documento caldeggiava il rilascio anticipato per madri e figli, e anche per le donne i cui figli erano rimasti a casa: pur tenendo conto delle eccezioni per le recidive e le condannate per reati controrivolu-zionari, un provvedimento del genere avrebbe riguardato circa 70.000 detenute.5"

Ogni tanto veniva concessa un'amnistia di questo tipo. Ma per i bambini rimasti non si verificavano grandi miglioramenti: anzi, dato che non erano produttivi, i comandanti di solito non davano grande importanza alla loro salute e al loro benessere, e vivevano sempre negli edifici più squallidi, vecchi e freddi. Secondo i calcoli di un ispettore, la temperatura all'interno di un nido di campo non saliva mai sopra gli 11 gradi, e un altro ne trovò uno con la tinta delle pareti scrostata e del tutto sprovvisto di illuminazione, persino di quella delle lampade a kerosene.59 Da un rapporto sul Siblag del 1933 sappiamo che nel campo per i bambini mancavano ottocento Paia di scarpe, settecento cappotti e novecento completi di posate.60 Inoltre, non sempre le persone impiegate nei nidi erano qualificate. Anzi, il lavoro di educatrice era una mansione "di fiducia" e quindi di solito veniva assegnato a criminali di professione. La loffe raccon-

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ta: "Restavano per ore e ore nei sottoscala con i "mariti" o se ne an davano semplicemente, mentre i bambini, affamati e privi di cure s-ammalavano e cominciavano a morire".61

Inoltre, di solito non si permetteva alle madri, la cui gravidanza era già costata molto al campo, di ovviare a queste mancanze, ammesso che volessero farlo. Di regola le rimandavano a lavorare appena possibile, e concedevano loro controvoglia il tempo per allattare i piccoli. In generale le esentavano dal lavoro per quindici minuti ogni quattro ore così che potessero stare con i figli, con ancora indosso gli abiti sporchi, poi dovevano riprendere a lavorare, quindi i bambini erano denutriti. Talvolta non concedevano loro nemmeno questo. Un ispettore racconta il caso di una donna arrivata a nutrire suo figlio con qualche minuto di ritardo per motivi di lavoro, cui non permisero di vederlo.62 Durante un'intervista un'ex sovrintendente dell'asilo di un campo mi ha detto con tono noncurante che i bambini incapaci di saziarsi nella mezz'ora - a suo dire - consentita, venivano nutriti con un biberon dalle infermiere.

La stessa donna mi ha confermato quanto sostengono i detenuti riguardo a un'altra forma di crudeltà: alla fine dell'allattamento, spesso alle madri veniva impedito qualsiasi altro contatto con i figli. Mi ha detto che nel suo campo era stata proprio lei a vietare a tutte le madri di portare a spasso i bambini, perché le donne, essendo detenute, avrebbero potuto fare del male ai piccoli. Mi ha raccontato di averne vista una dar da mangiare al figlioletto una miscela di zucchero e tabacco per avvelenarlo. Un'altra, ha aggiunto, aveva tolto al suo le scarpe apposta in mezzo alla neve. Per spiegarmi la sua decisione di tenere le madri a distanza, mi ha detto: "Ero responsabile per il tasso di mortalità infantile nel campo. Le madri non avevano bisogno dei bambini, e volevano ucciderli".63 Forse i comandanti di altri campi erano indotti da motivi di questo genere ad allontanare le madri dai figli. Ma forse invece questi provvedimenti dipendevano soltanto dalla sconsiderata crudeltà dell'amministrazione: organizzare gli incontri tra madri e figli era complicato, quindi vennero vietati.

Non è difficile prevedere quali conseguenze avrebbe provocato sui bambini essere separati dai genitori in così tenera età. Imperversavano le epidemie infantili. I tassi di mortalità tra i bambini erano altissimi, al punto da indurre l'amministrazione a tenerli nascosti, come attestano i rapporti di alcuni ispettori.64 Ma anche i piccoli che riuscivano a superare l'infanzia non avevano grandi possibilità di condurre una vita normale negli asili dei campi: alcuni avevano la fortuna di essere seguiti da bambinaie più gentili della media. Ad al-

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tri non accadeva. La Ginzburg lavorò nel nido di un campo e, al suo arrivo, scoprì che nemmeno i bambini più grandi sapevano parlare:

Solamente alcuni di quei bambini di quattro anni pronunciavano isolate parole sconnesse. Prevalevano grida inarticolate, gesticolazioni, risse.

"Come fanno a parlare? Chi glielo ha insegnato? Chi sentono parlare?" mi spiegò Anja in tono disperato. "Nel reparto lattanti sono costretti a stare tutto il tempo distesi sui lettini. Nessuno li prende mai in braccio, anche se strilla110 fino a scoppiare. È proibito prenderli in braccio. È permesso soltanto cambiare i pannolini bagnati. Se ce n'è abbastanza, naturalmente."

Quando cercò di insegnare qualcosa ai ragazzi, scoprì che solo un paio, quelli rimasti in qualche modo in contatto con le madri, riuscivano a imparare qualcosa, e anche i più fortunati avevano esperienze molto limitate:

"Guarda" dissi a Stasik, mostrandogli la casetta che avevo disegnato, "che cos'è?"

"Baracca" rispose distintamente il bambino.

Con qualche altro tratto di matita feci un gattino vicino alla casa. Nessuno lo riconobbe, neanche Stasik. Non avevano mai visto quel rarissimo animale. Allora circondai la casetta con la tradizionale, idillica palizzata.

"Cos'è?"

"Zona, zona'." strillò felice Verocka, e battè le mani.65

Di solito a due anni i bambini venivano trasferiti dagli asili dei campi in normali orfanotrofi. Alcune madri erano contente perché consideravano una fortuna per i figli la possibilità di uscire dai campi; altre protestavano, perché sapevano che potevano trasferirle, apposta o per caso, in altri campi lontani dai bambini, e magari cambiare il nome ai piccoli, o dimenticarlo, rendendo così impossibile ristabilire dei rapporti e persino entrare in contatto.66 Queste cose accadevano ai bambini dei normali orfanotrofi. Valentina Jurgano-va, figlia di kulaki tedeschi del Volga, fu mandata in un orfanotrofio in cui alcuni ospiti erano troppo piccoli per ricordare il proprio nome, e le autorità troppo disorganizzate per registrarlo. Mi ha raccontato di una piccina ribattezzata "Kastanova" perché nel parco dietro all'istituto c'erano molti castagni (kastan).

Anni dopo, un'altra bambina con un destino analogo ha raccontato in modo struggente di aver cercato per tutta la vita, senza successo, il vero nome dei suoi genitori: nella sua regione di provenienza, nessun bambino era stato registrato alla nascita con il cognome indicato sul suo passaporto, e quando l'avevano portata via era troppo Piccola per ricordare il loro nome. Ma rammentava sprazzi del suo Passato: "Mamma alla macchina da cucire. Io che le chiedo ago e fi-

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lo... Io in un giardino... Poi, più tardi... La stanza è buia, il letto a destra è vuoto, è successo qualcosa. Per qualche ragione sono sola Sono terrorizzata".67

Quindi non ci si sorprende se, quando i bambini venivano portati via, alcune madri "urlavano e piangevano, altre davano in escandescenze e venivano rinchiuse in cella fino a quando non tornavano in sé". Una volta che i figli erano partiti, le possibilità di rivederli diventavano scarsissime.68

Nel mondo esterno la vita per i piccoli nati nei campi non sempre migliorava. Andavano a infoltire la massa già immensa di bambini mandati direttamente negli orfanotrofi all'arresto dei genitori, un'altra categoria di piccole vittime. Di norma gli orfanotrofi statali erano sovraffollati, sporchi, avevano personale insufficiente e spesso ci si moriva. Un ex detenuto ricorda le speranze e le emozioni che accompagnarono l'invio di undici bambini dal campo a un orfanotrofio cittadino, e l'orrore che suscitò la notizia della morte di tutti loro durante un'epidemia.69 Già nel 1931, all'apice della collettivizzazione, i dirigenti degli orfanotrofi degli Urali scrivevano lettere disperate alle autorità regionali implorando aiuto per assistere le migliaia di figli di kulaki rimasti orfani da poco:

In una stanza di dodici metri quadri ci sono trenta maschietti. Per tren-totto bambini piccoli ci sono sette letti, su cui dormono i "recidivi". Due diciottenni hanno distrutto l'impianto elettrico, rapinato il negozio e bevono con il direttore... i bambini dormono sul pavimento sudicio, giocano con carte fatte strappando ritratti del "capo", fumano, spaccano le sbarre alle finestre e si arrampicano sui muri con l'intento di scappare.70

In un altro orfanotrofio per figli di kulaki

i bambini dormono per terra e non hanno scarpe a sufficienza. ... talvolta manca l'acqua per diversi giorni. Sono malnutriti; non hanno cibo, se non patate e acqua. Non hanno piatti e ciotole, mangiano dal mestolo. Per cento-quaranta persone c'è una sola tazza, e i cucchiai non sono sufficienti; mangiano a turno o con le mani. Non c'è luce, solo una lampada in tutta la casa, e non ha kerosene.71

Nel 1933 un orfanotrofio situato vicino a Smolensk spedì il seguente telegramma alla commissione per l'infanzia di Mosca: "I rifornimenti di cibo all'istituto sono stati interrotti. Cento bambini stanno morendo di fame. L'organizzazione rifiuta di consegnare razioni. Nessuno ci aiuta. Prendete provvedimenti urgenti".72

Le cose non migliorarono con il passar del tempo. In un ordine dell'NKVD del 1938 è descritto un orfanotrofio nel quale alcuni ragazzi grandicelli avevano violentato due bambine di otto anni, e un

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altro in cui duecentododici ragazzi si dividevano dodici cucchiai e venti piatti, e dormivano vestiti perché mancavano le camicie da notte.73 Nel 1940 Leonidovna Savel'eva fu "sequestrata" dall'istituto jji cui viveva da quando i genitori erano stati arrestati, e adottata da una famiglia che voleva farla lavorare come domestica. Così fu divisa dalla sorella, e non riuscì a ritrovarla mai più.74

Negli istituti i figli dei detenuti politici facevano una vita dura, e spesso li trattavano peggio degli orfani normali. Come racconta Svet-lana Kogteva, a dieci anni dicevano ai bambini di "dimenticare i loro genitori, perché si trattava di nemici del popolo".75 I funzionari del-l'NKVD responsabili degli orfanotrofi avevano ordine di mantenere una stretta vigilanza e controllare soprattutto i figli dei controrivolu-zionari, per evitare che ricevessero in alcun modo un trattamento preferenziale.76 Grazie a questa direttiva, Petr Jakir trascorse solo tre giorni in istituto dopo l'arresto dei genitori. In quelle poche ore "riuscì a farsi la nomea di capobanda dei "figli dei traditori"" e lo arrestarono, a quattordici anni. Lo rinchiusero in carcere, poi lo mandarono in un campo di prigionia.77

Il più delle volte i figli dei detenuti politici venivano derisi e isolati. Uno di loro ricorda che quando arrivavano all'orfanotrofio, rilevavano loro le impronte digitali, come se fossero dei criminali. Gli insegnanti e gli assistenti avevano paura di dimostrare troppo affetto nei loro confronti, perché temevano di essere accusati di simpatizzare con i "nemici".78 Secondo la Jurganova, i figli degli arrestati subivano vessazioni spieiate riguardo alla loro condizione di "nemici". Fu per questo che lei dimenticò di proposito il tedesco, la lingua della sua infanzia.79

In un ambiente del genere, anche i figli di genitori colti adottavano in fretta le abitudini dei criminali... Vladimir Glebov, figlio del dirigente bolscevico Lev Kamenev, era un ragazzine di questo tipo. Suo padre fu arrestato quando aveva quattro anni, e Glebov venne "esiliato" in un orfanotrofio speciale della Siberia occidentale. Il 40 per cento dei bambini ospitati nell'istituto erano figli di "nemici", un altro 40 per cento era costituito da delinquenti minorenni e il restante 20 per cento era formato da bambini zingari, arrestati con l'accusa di "nomadismo". Glebov ha spiegato allo scrittore Adam Ho-chschild che, anche per un figlio di detenuti politici, c'erano dei vantaggi a entrare in contatto con giovani delinquenti:

II mio amico mi ha insegnato delle cose che in seguito mi sono servite un sacco per difendermi. Qui ho una cicatrice, e qui un'altra ... quando ti aggrediscono con un coltello, devi saperti difendere. Il principio fondamentale

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è di attaccare in anticipo, di non permettere loro di colpirti. Eccola, la nostra felice infanzia sovietica!80

Le esperienze vissute in orfanotrofio provocarono danni permanenti in alcuni ragazzi. Una donna tornata dal confino si ricongiun-se con la figlia: a otto anni la bambina sapeva parlare appena, si avventava sul cibo e si comportava come un animale selvatico, nel modo che aveva imparato in orfanotrofio.81 Un'altra donna, rilasciata dopo avere scontato otto anni, andò a prendere i figli all'orfanotrofio, ma non volevano tornare con lei. Li avevano convinti che i loro genitori erano "nemici del popolo", che non meritavano amore o affetto. Avevano dato loro istruzioni precise: nel caso in cui la madre fosse andata a prenderli dovevano rifiutarsi di lasciare l'istituto, e non vollero più vivere con i genitori.82

Non sorprende che parecchi ragazzi fuggissero dagli istituti. Quando poi si ritrovavano in mezzo alla strada, non ci mettevano molto a essere risucchiati nel sottobosco criminale e ad alimentare il circolo vizioso di cui facevano parte. Prima o poi, anche loro avevano molte probabilità di farsi arrestare.

A prima vista, il rapporto annuale dell'NKVD su otto campi situati in Ucraina per il 1944-45 non ha niente di inconsueto: elenca quali avevano realizzato il piano quinquennale, e quali no; elogia i detenuti stacanovisti; registra con severità che nella maggior parte dei campi il cibo era pessimo e monotono; nota anche con una certa soddisfazione che, nel periodo in esame, era scoppiata un'epidemia soltanto in un campo, a causa del trasferimento di cinque detenuti provenienti dal carcere sovraffollato di Har'kov.

Tuttavia, alcuni particolari del rapporto rivelano la vera natura degli otto campi: per esempio, un ispettore denuncia in un caso la mancanza di "penne, libri di testo, quaderni e matite". Si sottolinea con disapprovazione che alcuni detenuti scommettevano le proprie razioni alimentari, spesso perdendo il proprio pane con mesi di anticipo: se ne deduce che i novellini del campo erano troppo inesperti per giocare a carte con i detenuti più anziani.83

Gli otto campi in questione erano le colonie minorili dell'Ucraina. Infatti non tutti i ragazzi che finivano sotto la giurisdizione del Gulag erano figli di persone arrestate. Alcuni riuscivano a farsi internare da soli. Commettevano qualche reato, li arrestavano e li mandavano in speciali campi minorili, gestiti dallo stesso apparato burocratico che si occupava di quelli per adulti, cui somigliavano da molti punti di vista.

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In origine i "campi minorili" erano stati allestiti per i besprizornyj, gli orfani, i bambini abbandonati e i piccoli e sudici vagabondi che si erano persi, o erano fuggiti dai genitori negli anni della guerra civile, della carestia, della collettivizzazione e degli arresti di massa. Già all'inizio degli anni Trenta, era normale vedere i bambini di strada nelle stazioni e nei parchi pubblici delle città sovietiche. Lo scrittore russo Victor Serge li descrive così:

Li ho visti a Leningrado e a Mosca: vivevano nelle fogne, nei chioschi pub-blidtari, nelle cappelle dei cimiteri dove erano i padroni indisturbati; si davano convegno, di notte, nei vespasiani; viaggiavano sui tetti dei treni o sotto i vagoni. Comparivano pestìferi, neri di sudore, a chiedere qualche copeco ai viaggiatori, o se ne stavano sdraiati in attesa di rubare una valigia.. .M

Erano numerosi e fastidiosi al punto che nel 1934 l'amministrazione carceraria cominciò a istituire degli asili nei campi per adulti, per impedire che i figli degli arrestati finissero per la strada.85 Qualche anno dopo, nel 1935, l'amministrazione decise di creare delle colonie minorili: organizzava retate e prelevava i ragazzi dalle strade, poi li mandava nelle colonie perché ricevessero un'istruzione e fossero preparati al lavoro.

Nel 1935 le autorità sovietiche approvarono un'altra famigerata legge, grazie alla quale dall'età di dodici anni i ragazzini fermati venivano trattati alla stessa stregua degli adulti. Finivano negli istituti minorili ragazzine di campagna che avevano rubato qualche chicco di grano, e figli di "nemici" sospettati di complicità con i loro genitori, giovani prostitute, borseggiatori, bambini di strada e altri.86 Secondo un rapporto interno, negli anni Trenta gli agenti dell'NKVD prelevarono una dodicenne tatara che non parlava russo e aveva perso i contatti con la madre, perché si era smarrita alla stazione. La deportarono, da sola, nei campi dell'estremo nord.87 In Unione Sovietica i delinquenti minorili erano così numerosi che nel 1937 l'NKVD allestì degli istituti minorili a regime speciale, riservati ai ragazzi che violavano sistematicamente le regole nei normali orfanotrofi. Già nel 1939 i semplici orfani non venivano più inviati ai campi minorili, ormai riservati ai piccoli delinquenti condannati da una corte ordinaria o dalì'osoboe sovescanie, la "commissione speciale".88

Nonostante la minaccia di condanne più severe, il numero dei Piccoli delinquenti continuò ad aumentare. La guerra non aveva prodotto soltanto orfani, ma anche piccoli vagabondi, ragazzini ritmasti soli perché i loro padri erano al fronte e le loro madri lavoravano dodici ore al giorno nelle fabbriche. Nacquero anche nuove ca-

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tegorie di delinquenti minorili: operai minorenni che abbandonavano il posto di lavoro, talvolta perché la loro fabbrica veniva evacuata, e trasferita lontano dalla loro famiglia, e quindi violavano la legge del periodo bellico "sull'abbandono non autorizzato del lavoro in industrie belliche".89 Secondo le statistiche dell'NKVD, tra il 1943 e il 1945 i "centri di accoglienza" minorili ospitarono ben 842.144 giovani senzatetto. Molti furono rimandati ai genitori, o inviati in orfanotrofi o istituti professionali, ma una parte, secondo le statistiche 52.830, finì nelle "colonie di istruzione e lavoro". La definizione "colonia di istruzione e lavoro" era soltanto un eufemismo per definire un campo di concentramento minorile.90

Sotto molti aspetti, il trattamento riservato ai bambini non si differenziava molto da quello dei loro genitori. I ragazzi venivano arrestati e deportati con le stesse procedure, salvo due eccezioni: andavano tenuti separati dagli adulti e, se tentavano la fuga, non era consentito sparare loro addosso.91 Li tenevano in prigioni simili a quelle degli adulti, in celle separate ma altrettanto inospitali; un ispettore ne descrive una, e le sue parole suonano tristemente familiari: "Le pareti sono sporche; non tutti i prigionieri hanno cuccette e materassi. Non hanno lenzuola, guanciali o coperte. Nella cella n. 5 la finestra è chiusa con un guanciale, perché manca il vetro, e nella cella n. 14 una finestra non si può chiudere".92 Secondo un altro rapporto, nelle prigioni minorili c'erano "condizioni igieniche inaccettabili": mancavano l'acqua calda e oggetti d'uso essenziali, come bicchieri, piatti e sgabelli.93

Alcuni giovani detenuti subivano interrogatori simili a quelli degli adulti. Dopo essere stato arrestato in un orfanotrofio, il quattordicenne Petr Jakir fu dapprima rinchiuso in una prigione per adulti, poi sottoposto a un interrogatorio da adulti. Gli inquirenti lo accusarono di "avere organizzato un'unità di anarchici a cavallo, con l'obiettivo di operare nelle retrovie dell'Armata rossa", e citarono a conferma il fatto che Jakir amava cavalcare. In seguito lo condannarono come "elemento socialmente pericoloso".94 Jerzy Kmiecik, un sedicenne polacco che era stato arrestato nel 1939, durante l'occupazione sovietica della Polonia, mentre tentava di attraversare il confine tra l'Unione Sovietica e l'Ungheria, subì anche lui un interrogatorio in piena regola. Fu tenuto in piedi o a sedere su uno sgabello senza schienale per ore; gli somministrarono una zuppa troppo salata, senza dargli da bere. Tra l'altro, gli inquirenti gli chiedevano "quanto lo aveva pagato il signor Churchill in cambio delle informazioni". Kmiecik non sapeva chi fosse Churchill, e pregò che gli spie" gasserò la domanda.95

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Negli archivi si conservano i verbali degli interrogatori di Vladimir Moroz, quindicenne, che fu accusato di svolgere "attività controrivoluzionarie" nel suo orfanotrofio. Avevano già arrestato la madre di Moroz e suo fratello di diciassette anni, mentre il padre era stato fucilato. Teneva un diario, rinvenuto dall'NKVD, in cui si lamentava per le "bugie e diffamazioni" diffuse sul suo conto: "Se una persona si fosse addormentata profondamente dodici anni fa, e oggi si fosse svegliata d'un tratto, rimarrebbe traumatizzata dai cambiamenti avvenuti in questo periodo". Pur essendo stato condannato a tre anni di detenzione nei campi, Moroz morì in prigione nel 1939.96

Non si trattava di episodi isolati. Nel 1939, mentre la stampa sovietica riportava qualche caso di agenti dell'NKVD arrestati per avere estorto false confessioni, un giornale sibcriano si interessò al caso di 160 bambini, per la maggior parte di età compresa tra i dodici e i quattordici anni, sebbene alcuni ne avessero meno di dieci. Quattro funzionari dell'NKVD e quelli della pubblica accusa furono condannati a pene tra i cinque e i dieci anni per avere interrogato i bambini. Lo storico Robert Conquest scrive che le loro confessioni erano state ottenute con relativa facilità: "Un ragazzine di dieci anni crollò dopo un solo interrogatorio durato tutta la notte, e ammise di appartenere a un'organizzazione fascista da quando aveva sette anni".97

Inoltre, anche sui piccoli prigionieri gravava la continua domanda di lavoro coatto del regime. Benché in genere le colonie per ragazzi non si trovassero negli ambienti più inospitali, come le foreste del nord o le zone minerarie, negli anni Quaranta il campo di Noril'sk, all'estremo nord, aveva anche un reparto per ragazzi. Alcuni dei mille detenuti nell'istituto minorile venivano utilizzati nella fabbrica di mattoni, mentre gli altri dovevano spalare la neve. Alcuni di essi avevano dodici, tredici e quattordici anni, sebbene per la maggior parte fossero quindicenni e sedicenni, mentre i minori più grandicelli erano già stati trasferiti al campo degli adulti. Molti ispettori denunciarono le condizioni di vita del campo minorile di Noril'sk, e alla fine la struttura venne trasferita in una regione dell'Unione Sovietica situata più a sud, ma quando ormai molti dei giovani detenuti erano morti per le stesse malattie dovute al freddo e alla malnutrizione che imperversavano tra gli adulti.98

Più tipico è il rapporto sui campi ucraini in cui si spiega che ai ragazzi delle colonie erano stati assegnati lavori di falegnameria, lavorazione del metallo e cucito.99 Kmiecik, ospitato in una colonia minorile nei pressi della città di Zitomir, lavorava in un mobilificio.100 Tuttavia, nelle colonie si osservavano molte delle stesse usanze dei

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campi per adulti. C'erano obiettivi di produzione, norme individuai; da realizzare, bisognava seguire un preciso regime. Un ordine del-l'NKVD del 1940 decretava che i ragazzi tra i dodici e i sedici anni dovevano lavorare per quattro ore al giorno e dedicarne altre quattro alla scuola; lo stesso ordine disponeva per i giovani tra i sedici e [ diciotto anni otto ore di lavoro al giorno e due di studio.101 Nel campo di Noril'sk non si seguiva tale regime, poiché non c'era la scuola.wa

Nel campo minorile di Kmiecik le lezioni si tenevano solo alla sera. Ecco il tipo di nozioni che gli venivano impartite: "L'Inghilterra è un'isola dell'Europa occidentale ... È governata da lord che indossano cappe rosse con colletti bianchi. Sono padroni degli operai che lavorano per loro, e li pagano poco".103 L'istruzione non era lo scopo principale delle scuole istituite nei campi: nel 1944 Berija dichiarò con orgoglio a Stalin che i campi minorili avevano contribuito in modo significativo allo sforzo bellico producendo mine, granate e altre merci per un valore totale di 150 milioni di rubli.104

Inoltre, i ragazzi venivano sottoposti allo stesso tipo di propaganda diffusa tra gli adulti nel Gulag. I giornali interni della metà degli anni Trenta parlano di piccoli stacanovisti e coprono di lodi i "ragazzi del '35", cioè i bambini di strada internati in conformità alla legge del 1935, esaltando quelli che avevano "visto la luce" e si erano emendati per mezzo del lavoro fisico. Quegli stessi giornali criticano aspramente i ragazzi incapaci di capire che "devono abbandonare il proprio passato, che è tempo di cominciare una vita nuova ... Tra essi sono diffusi il gioco d'azzardo, l'alcolismo, il teppismo, il rifiuto di lavorare, i furti ecc.".105 Per combattere questo "parassitismo" giovanile, i ragazzi venivano costretti a partecipare allo stesso tipo di concerti educati-vo-culturali infiltri agli adulti, a cantare le stesse canzoni staliniste.106

I minori venivano inoltre sottoposti alle stesse pressioni psicologiche riservate agli adulti. Un'altra direttiva emanata dall'NKVD nel 1941 invocava l'istituzione di un agenturno-operativnoe obsluzivanie, cioè una "rete di informatori" all'interno delle colonie infantili e dei centri di accoglienza in gestione. Si era diffusa la voce che nei campi sia il personale sia i ragazzi, e soprattutto i figli di "nemici", nutrissero sentimenti controrivoluzionari. 1 giovani detenuti di un campo avevano addirittura inscenato una minirivolta, occupando e distruggendo la mensa, attaccando le guardie e ferendone sei.107

I giovani dei campi minorili erano fortunati solo per un fatto: non li avevano mandati nei campi normali, dove si sarebbero ritrovati tra prigionieri adulti, come capitava ad altri ragazzi. Anzi, il numero sempre crescente di minori nei campi per adulti rappresentava un

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grattacapo costante per i comandanti, come le onnipresenti donne incinte. Nell'ottobre 1935 Genrih Jagoda diramò una rabbiosa circolare a tutti i comandanti: "Nonostante le mie istruzioni, i minori detenuti non vengono mandati alle colonie minorili di lavoro, ma vivono nelle prigioni insieme agli adulti". Secondo le ultime valutazioni, aggiungeva, c'erano ancora 4305 minorenni nelle prigioni per adulti.107 Nel 1948, tredici anni dopo, gli investigatori della pubblica accusa denunciavano ancora l'eccessiva presenza di minori nei campi per adulti, dove venivano corrotti dai malviventi. Quando il boss malavitoso di un campo trasformò un ladruncolo diciottenne in un sicario, se ne accorsero persino gli amministratori.109

I maloletok, "piccoletti", cioè i minori, ispiravano poca simpatia ai detenuti adulti: "Arrivavano nei nostri campi stremati dalla fame, terrorizzati e incapaci della benché minima resistenza" spiega Lev Razgon, e osserva che erano attratti per natura verso chi appariva più forte. E i più forti erano i criminali di professione, che facevano dei ragazzi "servitori, schiavi muti, tirapiedi, buffoni, amanti, qualunque cosa", costringendo maschi e femmine a prostituirsi.110 Ma le terribili esperienze dei giovani non suscitavano molta pietà: anzi, nella memorialistica dei campi alcune delle invettive più aspre sono riservate a loro. Razgon afferma che, a prescindere dalle loro origini, i giovani detenuti "diventavano tutti uguali: ugualmente scatenati e ugualmente tremendi nella loro crudeltà vendicativa, nella loro spregiudicatezza e irresponsabilità":

Non temevano nulla e nessuno. Vivevano in apposite baracche, dove le guardie e i capi preferivano non entrare. In quelle baracche succedeva quanto di più abominevole, cinico, lurido e crudele potesse accadere in un posto come il lager. Quando, giocando a carte, un pachan [capobanda] puntava su qualcuno e perdeva, i "piccoletti" facevano fuori lo sciagurato per una razione di cibo o anche solo per divertimento. Così come le "piccolette", le femmine, si vantavano di riuscire a farsi sbattere da un'intera squadra di tagliaboschi. .. In quei ragazzi non c'era più nulla di umano, ed era impossibile figurarsi che sarebbero potuti tornare a vivere da persone normali.111

Solzenicyn la pensava allo stesso modo:

Non esiste, nella loro coscienza, una bandierina di segnalazione fra quanto è lecito e quanto non lo è, e non hanno assolutamente alcun concetto di bene e di male. Per loro è bene tutto quello che vogliono, è male quanto è loro d'ostacolo. Assumono un atteggiamento insolente e protervo perché è il comportamento più vantaggioso nel lager.112

Anche Johan Wigmans, un detenuto olandese, parla dei giovani: "Probabilmente non li infastidiva essere costretti a vivere in quei

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campi. Ufficialmente dovevano lavorare, ma nella pratica era l'ulti-ma cosa che facessero. Allo stesso tempo usufruivano di pasti regolari e di ampie possibilità di imparare dai loro amici".113

C'erano delle eccezioni. Aleksandr Klejn racconta la storia di due tredicenni arrestati come partigiani e condannati entrambi a venti anni nei campi. Vi rimasero dieci anni e riuscirono a restare uniti, iniziando scioperi della fame ogni volta che cercavano di dividerli. Data la giovane età, la gente si impietosiva, li destinava a lavori leggeri e procurava loro cibo in più. Riuscirono entrambi a iscriversi alla scuola tecnica dei campi, e quando furono rilasciati grazie a un'amnistia delle molte seguite alla morte di Stalin, erano ormai dei bravi meccanici. Klejn si chiede "chi avrebbe aiutato due ragazzini di campagna semianalfabeti a diventare persone istruite e buoni tecnici specializzati", se non fossero finiti nel Gulag.114

Tuttavia, quando alla fine degli anni Novanta ho cominciato a cercare memoriali di ex detenuti minorenni, mi è stato molto difficile trovarne. A parte Jakir, Kmiecik e qualcun altro, le cui testimonianze sono state raccolte dall'Associazione Memorial e da altre organizzazioni, ne rimangono pochissimi.115 Eppure, all'epoca erano decine di migliaia e molti di loro, quando ho iniziato le mie ricerche, dovevano essere ancora vivi. Sono arrivata al punto di chiedere a un'amica russa di pubblicare un annuncio sui giornali per rintracciare qualche sopravvissuto di questo tipo. Lei me lo ha sconsigliato vivamente, dicendo: "Sappiamo tutti che razza di persone sono diventate". Decenni di propaganda e di manifesti appesi alle pareti degli orfanotrofi, in cui si ringraziava Stalin "per la nostra infanzia felice", non sono riusciti a convincere il popolo sovietico che i ragazzi dei campi, quelli di strada e quelli degli orfanotrofi potessero diventare altro che membri a pieno titolo della grande, onnicomprensiva malavita dell'Unione Sovietica.

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XVI I MORIBONDI

Esausti... che vuoi dire? Sfiniti... che vuoi dire? Terrore ogni movimento, dolore ogni movimento di gambe e di braccia, tremendo. Fame... smania di pane. "Pane, pane" batte il cuore. Lontano, nel ciclo tetro sorge il sole impassibile. Il fiato è un soffio esile. Sotto i cinquanta gradi morire... che vuoi dire? Muti guardano i monti.

NINA GAGEN-TORN, Memoria1

Per rutto il periodo in cui è esistito il Gulag, i detenuti hanno sempre relegato i moribondi, o meglio i morti viventi, al gradino più basso della scala sociale. Nel gergo dei campi c'è una vasta gamma di'termi-ni per definirli: qualche volta i morenti erano chiamati fitil', "stoppino", come lo stoppino di una candela sul punto di spegnersi, ma anche govnoed, "mangiamerda", o pomoecnik, "frugarifiuti". Il vocabolo più comune per definirli era dohodjaga - dal verbo russo dohodit', che significa "raggiungere" o "arrivare" -, una parola che si può tradurre con "arrivati". Jacques Rossi, in The Gulag Handbook, afferma che l'espressione era sarcastica: chi era in punto di morte stava finalmente "arrivando al socialismo".2 Secondo un'interpretazione più prosaica, non stavano arrivando al socialismo, ma alla fine della vita.

In sostanza, i dohodjaga morivano a poco a poco di fame, avevano Malattie provocate dalla malnutrizione e dalla carenza di vitamine: scorbuto, pellagra e varie forme di dissenteria. Nei primi stadi, tali

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malattie si manifestavano con sintomi come la perdita dei denti e 1 formazione di piaghe cutanee, problemi che talvolta affliggevano anche le guardie.3 Nelle fasi successive, i detenuti perdevano la capacità di vedere al buio. Gustaw Herling ricorda "lo spettacolo dei ciechi notturni, che camminavano lentamente per il recinto, al matti-no presto e alla sera, con le mani brancolanti in avanti".4

Gli affamati avevano anche problemi allo stomaco, vertigini e grotteschi gonfiori alle gambe. Thomas Sgovio, il quale giunse quasi al punto di morire di fame, ma poi si riprese, una mattina svegliandosi si accorse che una delle sue gambe era "violacea, grossa il doppio dell'altra": "Mi faceva male. Era coperta di chiazze". Ben presto "le chiazze divennero enormi bolle, dalle quali uscivano sangue e pus. Se premevo un dito sulla carne bluastra, per molto tempo vi rimaneva un buco". Quando si accorse di non riuscire a infilare la gamba nello stivale, gli dissero di tagliarne il gambale.5

Negli ultimi stadi di inedia, il dohodjaga assumeva un aspetto bizzarro e disumano, e diventava l'espressione concreta della retorica disumanizzante del regime: in altre parole, negli ultimi giorni di vita i nemici del popolo cessavano del tutto di essere persone. Diventavano dementi, spesso deliravano e gridavano per ore. Avevano la pelle cascante e secca, e uno strano luccichio negli occhi. Mangiavano tutto quello su cui riuscivano a mettere le mani: uccelli, cani, spazzatura. Si muovevano con lentezza ed erano incontinenti, quindi puzzavano in modo terribile. Tamara Petkevic ricorda la prima volta che li vide:

Dietro il filo spinato c'era una fila di creature che ricordavano vagamente degli esseri umani... erano in dieci, scheletri di varie misure coperti di pelle scura, incartapccorita, tutti nudi fino alla cintola, con le teste rasate e mammelle cascanti e avvizzite. Come unico indumento portavano delle pateti-che mutande sporche, e gli stinchi sporgevano da vuote cavità circolari. Donne! La fame, il caldo e il lavoro estenuante le avevano trasformate in esemplari rinsecchiti che si aggrappavano ancora in modo precario agli ultimi avanzi di vita.6

Varlam Salamov ci ha lasciato un'indimenticabile descrizione in versi dei dohodjaga, in cui sottolinea quanto fossero simili l'uno all'altro - avendo perduto i tratti caratteristici dell'individuo, dell'essere umano - e quanto anonimi, uno degli elementi da cui derivava l'orrore che ispiravano:

Levo il bicchiere a una strada nella foresta a quanti cadono in marcia a quanti non riescono a trascinarsi oltre ma ancora sono costretti a proseguire.

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Alle labbra indurite e livide ai volti tutti uguali ai cappotti brinati e laceri alle mani nude di guanti.

All'acqua che sorbiscono da lattine di scarto alle scaglie che si attaccano ai denti ai denti dei cani grigi e ben pasciuti che vengono a svegliarli la mattina.

Al sole scontroso che, indifferente, volge lo sguardo su di loro alle lapidi di candida neve sulle tombe opera di sagaci bufere.

Alla razione di pane nero, colloso, che si manda giù in fretta al pallido cielo lontano e al fiume Ajan-Jurjah!7

Tuttavia, il termine dohodjaga, nell'accezione diffusa nei campi sovietici, non definiva soltanto una condizione fisica. Come spiega Sgovio, gli "arrivati" non erano soltanto malati: si trattava di detenuti che avevano raggiunto un tale stadio di denutrizione da non essere più in grado di badare a se stessi. Questo processo di degrado avveniva in genere per fasi: uno smetteva di lavarsi, diventava incontinente, non reagiva più agli insulti come una persona normale, fino a che impazziva alla lettera per la fame. La prima volta che incontrò un uomo in questo stato, un comunista americano di nome Eisenstein, suo conoscente di Mosca, Sgovio rimase profondamente turbato:

All'inizio non riconobbi il mio amico. Eisenstein non rispose quando lo salutai. Aveva in volto l'espressione assente del dohodjaga. Mi trapassò con lo sguardo come se non ci fossi. Sembrava che non vedesse nessuno. Non aveva alcuna espressione negli occhi. Raccogliendo i piarti sporchi dai tavoli della mensa, li scrutava uno per uno alla ricerca di pezzetti di cibo avanzati. Scorreva le dita all'interno dei piatti e poi le leccava.

Eisenstein, scrive Sgovio, era diventato come gli altri "stoppini", perché aveva perso qualsiasi traccia di dignità personale:

Si trascuravano, non si lavavano, nemmeno quando avevano la possibilità di farlo. Gli stoppini non si davano nemmeno la pena di cercare e uccidere i pidocchi che succhiavano loro il sangue. I dohodjaga non si asciugava-n° il muco che colava loro dal naso con la manica del buslat ... lo stoppino non si accorgeva delle botte. Quando gli altri zek lo aggredivano, si copriva la testa per proteggersi dai pugni. Cadeva per terra e quando lo lasciavano stare, se le sue condizioni glielo consentivano, si alzava e andava via pia-

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gnucolando come se nulla fosse successo. Dopo il lavoro si poteva vedere '] dohodjaga ciondolare intorno alla cucina mendicando qualche avanzo. pe divertirsi il cuciniere gli gettava in faccia una mestolata di zuppa. In tali occasioni il poveretto si passava le dita sulla barba bagnata e le leccava ... Gli stoppini stavano fermi intorno ai tavoli, in attesa che qualcuno lasciasse un po' di zuppa o di pappa. Quando accadeva, i più vicini si avventavano sugli avanzi. Nella zuffa che seguiva, spesso versavano la zuppa. Allora, a quattro zampe, si accapigliavano e grattavano il pavimento fino a quando non si erano ficcati in bocca l'ultimo pezzettino di cibo prezioso.8

Alcuni detenuti arrivati alla fase di dohodjaga, ma poi ripresisi e sopravvissuti, hanno provato a spiegare, senza troppo successo, ciò che si prova a essere un morto vivente. Janusz Bardach racconta in che stato era dopo otto mesi alla Kolyma: "Svegliandomi mi sentivo stordito e la mente era annebbiata. Ci mettevo più tempo per riprendermi e andare in sala mensa la mattina".9 Jakov Efrussi divenne un dohodjaga quando, per prima cosa, gli rubarono gli occhiali: "Ai miopi risulterà perfettamente chiaro come si vive senza occhiali, quando tutto intorno sembra avvolto nella nebbia"; poi gli amputarono le dita della mano sinistra per un congelamento. Ecco le sue sensazioni:

La fame costante distrugge la psiche umana. È impossibile smettere di pensare al mangiare, pensi sempre a quello. Alla debilitazione fisica si aggiunge la debolezza morale, la fame incessante annienta il tuo rispetto per te stesso, il senso della dignità. Tutti i tuoi pensieri vanno in una direzione: come procurarsi altro cibo? Per questo i dohodjaga gironzolavano sempre intorno alla fossa dei rifiuti, alla mensa, e all'ingresso della cucina. Aspettavano per vedere se magari qualcuno gettava qualcosa di commestibile fuori dalla cucina, per esempio dei pezzi di cavolo.10

L'attrazione per la cucina e l'ossessione del cibo impediva a molti di pensare a qualsiasi altra cosa, come cerca di spiegare Gustaw Herling:

Gli effetti fisici della fame non hanno un limite al di là del quale la vacillante dignità umana possa ancora serbare il suo incerto ma indipendente equilibrio. Quante volte schiacciavo la mia faccia pallida contro i vetri gelati della finestra della cucina per implorare con uno sguardo muto da Fedka, il ladro di Leningrado addetto alle razioni, un altro mestolo di minestra "acquosa"! E ricordo che una volta il mio miglior amico, un vecchio comunista e compagno di gioventù di Lenin, l'ingegner Sadovskij, sulla piattaforma vuota della cucina mi strappò dalle mani un pentolino pieno di minestra e scappò via, e senza aspettare nemmeno di raggiungere la latrina, ingurgitò correndo la minestra bollente con labbra febbrili. Se Dio esiste, punisca senza pietà coloro che piegano il loro prossimo con la fame.11

Yehoshua Gilboa, un sionista polacco arrestato nel 1940, descrive con eloquenza i sistemi di autosuggestione utilizzati dai prigio~

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/ moribondi 359

ri per convincersi che stavano mangiando più di quanto in realtà non fosse:

Tentavamo di ingannare lo stomaco sbriciolando il pane fino a quando non era quasi come farina e lo mescolavamo con sale e grandi quantità d'ac-Qiia. Chiamavamo questa leccornia "salsa di pane". L'acqua salata assumeva un po' di sapore e di colore dal pane. La bevevi e restava la pappa di pane. Ci versavi sopra altra acqua fino a che non ne estraevi l'ultima goccia di sapore. Se mangiavi questa salsa di pane come dessert, dopo esserti riempito di acqua di pane, in realtà non aveva alcun gusto ma allungando diversi etti di pane potevi illuderti.

Gilboa scrive inoltre che immergeva in acqua anche il pesce salato. Il liquido che se ne ricavava "poteva servire per fare salsa di pane e si trattava di una prelibatezza degna di un re".12

Quando un detenuto cominciava a trascorrere tutto il suo tempo gironzolando nei pressi della cucina alla ricerca di avanzi, di solito era vicino alla morte, anzi poteva morire in qualsiasi momento: di notte in cuccetta, andando a lavorare, attraversando la zona, o durante la cena. Janusz Bardach una volta vide un detenuto crollare durante l'appello serale.

Intorno a lui si formò subito un crocchio. "Ho preso il cappello" disse un uomo. Altri gli avevano portato via gli stivali, le pezze dei piedi, la giacca, i pantaloni. Ci fu una specie di lotta per accaparrarsi la biancheria intima.

Il prigioniero inerme era rimasto nudo, e a quel punto mosse la testa, alzò una mano, dicendo debolmente ma con chiarezza: "Fa così freddo!". Poi la testa gli ricadde all'indietro sulla neve e gli occhi divennero vitrei. Allora, con totale indifferenza, la cerchia degli avvoltoi distolse l'attenzione, tenendosi stretto quello che aveva potuto arraffare ... In quei pochi momenti in cui era stato spogliato, era probabilmente morto per l'esposizione al freddo.13

Comunque i detenuti non morivano soltanto di inedia. Molti rimanevano uccisi sul lavoro, perché nelle miniere e nelle fabbriche non si adottavano misure di sicurezza; alcuni, indeboliti dalla fame, soccombevano con facilità ad altre malattie, infettive e non. Ho già citato le epidemie di tifo, ma i detenuti erano soggetti anche ad altre patologie, a causa delia debolezza e della denutrizione. Nei primi tre mesi del 1941, nel Siblag vennero ricoverate in ospedale 8029 persone: 746 con la tubercolosi, e ne morirono 109; 72 con la polmonite, e ne morirono 22; 36 con la dissenteria, e ne morirono 9; 177 per congelamento, e ne morirono 5; 302 soffrivano di disturbi gastrici, e ne morirono 7; 210 erano rimasti vittime di incidenti sul lavoro, e ne morirono 7; infitte 912 soffrivano di problemi circolatori, e ne morirono 123.14

Anche se si tratta di un argomento per qualche motivo tabù, alcuni Prigionieri si suicidavano. È difficile stabilire in quanti fecero questa

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scelta, perché non esistono statistiche ufficiali. E, tra l'altro, i sopravvissuti stranamente non concordano sul numero dei suicidi. Secondo Nadezda Mandel'stam, la moglie del poeta, i detenuti dovevano lottare così strenuamente per la sopravvivenza che non si suicidavano, e questa affermazione è stata confermata da altri.15 Anche Evgenij Gne-din scrive che, pur avendo pensato di uccidersi quando si trovava in prigione, e anche dopo, in esilio, negli otto anni trascorsi nei campi il pensiero del suicidio non l'ha "sfiorato neppure una volta": "Ogni nuovo giorno era un giorno di lotta per la sopravvivenza: pensare di rinunciare a vivere, mentre si è impegnati in una simile lotta non è dunque inverosimile? Lottavo anche per uscire indenne dalla sofferenza, nella speranza di rivedere, sane e salve, le persone amate".i*

La storica Catherine Merridale avanza un'altra teoria: nel corso delle sue ricerche, ha conosciuto due psicologi di Mosca che avevano lavorato nel sistema carcerario sovietico e l'avevano studiato. Come la Mandel'stam e Gnedin, sostenevano che i suicidi e le malattie mentali si verificavano assai di rado, ma quando la Merridale ha confutato con prove concrete la loro teoria, "si sono meravigliati e anche un po' offesi". Secondo la studiosa, la loro ostinata convinzione forse dipende dal "mito dello stoicismo" russo, ma potrebbe avere anche altre cause.17 Il critico letterario Tzvetan Todorov sostiene che i testimoni insistevano sulla singolare rarità dei suicidi per sottolineare l'unicità della loro esperienza. La situazione era così terribile che nessuno sceglieva la "normale" soluzione di uccidersi: "II sopravvissuto intende innanzitutto far conoscere l'assoluta singolarità dei lager, la loro specifica disumanità".18

In realtà vengono citati molti casi di suicidio, e molti testimoni li ricordano. Uno rammenta un ragazzo che si suicidò perché un malavitoso aveva vinto a carte il diritto di avere rapporti sessuali con lui.19 Un altro cita il suicidio di un cittadino sovietico di origine tedesca, che lasciò un messaggio per Stalin: "La mia morte è un consapevole atto di protesta contro la violenza e l'illegalità perpetrate contro di noi, tedeschi sovietici, dall'NKVD".20 Un sopravvissuto della Kolyma ha scritto che negli anni Trenta per i detenuti era diventato quasi normale avviarsi, con passo svelto e deciso, verso la "zona della morte", la terra di nessuno circostante il recinto del campo, e fermarsi lì ad aspettare di essere abbattuti a fucilate.21

Evgenija Ginzburg, che dovette recidere la fune con cui si era impiccata la sua amica Polina Mel'nikova, dice con ammirazione di lei: "Ha affermato il suo diritto di essere umano in questo modo, ha disposto di sé come un padrone".22 Sempre Todorov afferma che molti

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sopravvissuti del Gulag e dei lager nazisti consideravano il suicidio l'opportunità di esercitare una libera scelta: "[Con il suicidio] si modifica il corso degli avvenimenti, anche se sarà per l'ultima volta nella propria vita, invece di limitarsi a reagire a quegli stessi avvenimenti ... Attuati per sfida, non per disperazione, tali suicidi costituiscono la suprema libertà".23

All'amministrazione dei campi non interessava come morivano i detenuti: l'importante era mantenere il segreto sui tassi di mortalità, almeno in una certa misura; i comandanti dei lagpunkt con percentuali "troppo alte" rischiavano di essere puniti. Nonostante le regole venissero fatte rispettare solo in modo sporadico, e anche se alcuni si auguravano che morissero più detenuti, di tanto in tanto i dirigenti dei campi più letali perdevano il posto.24 È per questa ragione che, secondo quanto raccontano alcuni sopravvissuti, i medici - notoriamente - nascondevano i cadaveri agli ispettori, e in alcuni campi di norma si accordava il rilascio anticipato ai prigionieri in punto di morte: in questo modo li si escludeva dalle statistiche relative alla mortalità nei campi.25

Anche nei casi in cui i decessi venivano registrati, non sempre i documenti erano veritieri fino in fondo. In un modo o nell'altro, i comandanti si assicuravano che i medici non indicassero sui certificati di morte dei detenuti la denutrizione come causa principale. Per e-sempio, al chirurgo Isaac Vogel'fanger fu ordinato in modo esplicito di scrivere in qualsiasi caso come causa di morte "cedimento del muscolo cardiaco", a prescindere dal reale motivo del decesso.26 Questo comportamento a volte si rivelava controproducente. In un campo i medici utilizzarono con tale frequenza l'attacco cardiaco come causa dei decessi che l'ispettorato cominciò a nutrire dei sospetti. I procuratori costrinsero i medici a riesumare i corpi e stabilirono che in realtà i detenuti erano morti di pellagra.27 Non sempre la confusione era il risultato di una scelta consapevole: in un altro campo, i documenti erano in tale disordine da indurre un ispettore a scrivere: "I morti vengono contati tra i vivi, gli evasi tra i prigionieri e viceversa".28

Spesso i detenuti venivano deliberatamente tenuti all'oscuro dei decessi verificatisi nei campi. Anche se non era possibile nasconderli del tutto - un prigioniero ricorda cadaveri "accatastati vicino al recinto fino al disgelo"29 - si potevano occultare i fatti in altra maniera: m molti campi le salme venivano prelevate nottetempo e portate in luoghi segreti. Un giorno in cui Edward Buca dovette lavorare più a lungo del solito per realizzare la norma, scoprì per caso che fine facevano i morti nel campo della Vorkuta:

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Dopo averli accatastati come tronchi in un capannone aperto, fino a quando ce ne fossero abbastanza per seppellirli in una fossa comune nel cimitero del campo, li caricavano nudi sulle slitte, con la testa rivolta verso l'esterno e i piedi all'interno. Ogni corpo aveva una birka, un cartellino di legno legato all'alluce del piede destro, con scritti il nome e il numero. Prima che una slitta I  varcasse il cancello, il nadziratel'', un ufficiale dell'NKVD, prendeva un piccone

i|  e spaccava le teste una per una. Serviva per impedire che qualcuno uscisse vi-

vo. Una volta fuori dal campo, i corpi venivano calati in una transeja, una delle grandi fosse scavate apposta durante l'estate. Ma con l'aumento del numero dei decessi, la procedura per assicurarsi che tutti fossero davvero morti cambiò. Invece di spaccare le teste con un piccone, le guardie usavano uno sompol, un grosso scovolo con l'estremità appuntita, che conficcavano nei cadaveri. A quanto pare, era più facile che assestare picconate.30

Forse le sepolture di massa venivano occultate perché dal punto di vista tecnico erano proibite, il che non vuoi dire che avvenissero di rado. In tutta la Russia, nei luoghi in cui un tempo erano situati dei campi, ci sono chiare tracce di fosse comuni, e di tanto in tanto capita addirittura che i corpi sepolti riaffiorino: il terreno gelato dell'estremo nord non solo conserva i cadaveri, in qualche caso in condizioni perfette, ma nell'avvicendarsi di gelo e disgelo si smuove, come scrive Salamov: "La pietra, il Nord si opponevano con tutte le loro forze a questo lavoro dell'uomo, rifiutandosi di accogliere i cadaveri nelle proprie viscere.... La terra si aprì rivelando i depositi sotterranei della Kolyma, dove non c'è solo oro, non c'è solo stagno, non solo volfra-mio e uranio ma anche corpi umani non decomposti".31

Tuttavia, in teoria i cadaveri non dovevano esserci, tanto che nel 1946 l'amministrazione carceraria emanò una circolare a tutti i comandanti con cui ordinava di seppellire le salme avvolte in sudari in fosse individuali di almeno un metro e mezzo di profondità; sul luogo di sepoltura avrebbe dovuto essere segnato non il nome del detenuto, ma un numero. Solo gli archivisti dei campi dovevano conoscere l'ubicazione e l'attribuzione di tutte le tombe.32

Sembra una disposizione molto civile, se non fosse che un'altra circolare autorizzava le amministrazioni dei singoli campi a rimuovere i denti d'oro dai cadaveri. All'estrazione doveva assistere una commissione costituita da rappresentanti del personale medico, dell'amministrazione e degli addetti alla gestione finanziaria. L'oro prelevato doveva poi essere portato alla filiale più vicina della banca di Stato. Ma è difficile immaginare che le commissioni di questo genere si riunissero molto di frequente: in un ambiente in cui i cadaveri abbondavano, era fin troppo facile rubare i denti d'oro e occultare il fatto.33

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I cadaveri erano davvero troppi, ed è una delle ragioni per cui morire in un campo costituiva una prospettiva orribile. Herling scrive:

La morte nel campo aveva un altro aspetto terribile: la sua anonimità. jvjon avevamo idea di dove i morti fossero sepolti, e non sapevamo se la morte di un prigioniero fosse attestata da un qualche certificato. ... La certezza che nessuno avrebbe mai saputo della loro morte, né avrebbe conosciuto il luogo della loro sepoltura, era uno dei maggiori tormenti psicologici dei prigionieri. ... i muri delle baracche erano ricoperti di innumerevoli nomi di prigionieri graffiti nell'intonaco, e ai compagni si chiedeva di aggiungere a quei nomi la data della morte e una croce; ogni prigioniero scriveva alla sua famiglia a intervalli strettamente regolari, cosicché un'interruzione improvvisa nella corrispondenza avrebbe significato che egli non era più in vita e avrebbe indicato la data approssimativa della sua morte.34

Nonostante gli sforzi dei detenuti, la morte di moltissime persone è cancellata, non ce n'è memoria o registrazione. I moduli non venivano compilati, i parenti non venivano avvertiti e i cartelli di legno marcivano. Passeggiando nei luoghi dove un tempo c'erano dei campi dell'estremo nord, i segni delle fosse comuni sono evidenti: il terreno irregolare, i pini giovani, l'erba alta che ricopre i luoghi di sepoltura vecchi di cinquant'anni. Talvolta un'organizzazione locale erige un monumento in onore dei defunti, ma molte altre volte non c'è nulla a indicare la presenza di tombe. Tutto è andato perduto: i nomi, le vite, le vicende individuali, i rapporti familiari, la storia.

XVII STRATEGIE DI SOPRAVVIVENZA

Sono povero, solo e nudo, non ho un focolare Da ogni parte mi circonda il buio polare dell'Artico...

Declamo i miei versi, li urlo.

Gli alberi, spogli e sordi, si impauriscono.

Solo l'eco dei monti lontani

risuona all'orecchio.

E con un sospiro profondo

riesco di nuovo a respirare.

VARLAM SALAMOV,

Neskol'ko moih ziznej1

In fin dei conti, molti detenuti sopravvissero. Sopravvissero persino ai campi peggiori, persino alle condizioni più proibitive, persino agli anni di guerra, di carestia, di esecuzioni di massa. Non solo: alcuni mantennero un'integrità psicologica sufficiente per tornare a casa, riprendersi, e vivere delle vite relativamente normali. Janusz Bardach divenne chirurgo plastico a lowa City. Isaak Fil'stinskij tornò a insegnare letteratura araba. Lev Razgon riprese a scrivere letteratura per l'infanzia. Anatolij Èigulin ricominciò a comporre poesie. Evgenija Ginzburg si trasferì a Mosca e per anni fu l'anima-trice di un circolo di sopravvissuti che si incontravano a scadenze regolari per mangiare, bere e discutere intorno al tavolo della sua cucina.

Ada Purizinskaja, incarcerata quando era ragazzina, si sposò ed ebbe quattro figli, alcuni dei quali sono diventati ottimi musicisti'

Strategie di sopravvivenza 365

.,je ho conosciuti due a un abbondante, allegro pranzo in famiglia, mentre la Purizinskaja serviva uno dopo l'altro deliziosi piatti freddi e sembrava delusa perché non continuavo a mangiare. Anche la casa di Irena Arginskaja risuona di risate, soprattutto le sue. Dopo qua-rant'anni riusciva a scherzare sugli abiti che portava da prigioniera: "penso che avresti potuto definirlo una specie di giacca" ha detto cercando di descrivere il suo informe soprabito da detenuta. Sua figlia, distinta e ormai adulta, rideva insieme a lei.

Alcuni hanno avuto delle vite straordinarie. Aleksandr Solzenicyn è diventato uno degli scrittori russi più noti e più venduti del mondo. Il generale Gorbatov è stato uno dei comandanti dell'attacco sovietico a Berlino. Dopo il soggiorno nella Kolyma e in una saraska militare, Sergej Korolev ha diretto il programma spaziale sovietico. Gustaw Herling, dopo essere stato liberato, ha combattuto con l'esercito polacco e, anche se scriveva dall'esilio, a Napoli, è diventato uno dei letterati più apprezzati della Polonia postcomunista. La notizia della sua morte, nel luglio 2000, ha riempito le prime pagine dei giornali di Varsavia e un'intera generazione di intellettuali polacchi ha reso onore alla sua opera, specialmente a Un mondo a parte, il suo libro di memorie sul Gulag. Questi uomini e queste donne non sono stati gli unici a dimostrare di sapersi riprendere. Isaac Vogel'fanger, diventato professore di chinirgia all'università di Ottawa, ha scritto: "Le ferite si curano e si può guarire, diventando un po' più forti e più umani di prima...".2

Certo, non tutte le storie dei sopravvissuti del Gulag sono finite così bene, un fatto che non emerge con chiarezza dalla lettura dei memoriali. Ovviamente quelli che non sono sopravvissuti non hanno scritto niente, come quelli cui l'esperienza dei campi ha lasciato danni mentali o fisici. E nemmeno molti di quelli che hanno fatto cose di cui in seguito si vergognarono hanno lasciato dei ricordi, oppure non hanno detto tutta la verità. Esistono pochissimi memoriali di informatori, o di persone disposte a confessare di avere collaborato con le autorità, e pochissimi sopravvissuti ammetterebbero di avere danneggiato o ucciso altri prigionieri per restare vivi.

È per questo motivo che alcuni sopravvissuti mettono in dubbio la validità dei memoriali. Jurij Zorin, un sopravvissuto anziano e non molto cordiale che ho intervistato nella città in cui vive, Arcangelo, ha eluso con un'alzata di spalle una mia domanda sulle filosofie di sopravvivenza. Ha detto che non esistevano. Secondo lui, per quanto dai memoriali possa sembrare che i prigionieri "discutessero di tutto, pensassero a tutto", non era così: "L'unico obiettivo era di

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sopravvivere fino al giorno dopo, di restare vivi, di non ammalarsi di lavorare meno, di mangiare di più. Ed è per questo che, di norma non si tenevano discussioni filosofiche ... a salvarci erano la gi0^ ventù, la salute, la forza fisica, perché laggiù vivevamo in base alle leggi di Darwin, la sopravvivenza del più adatto".3

Quindi ci vuole molta cautela per affrontare la questione di chi sopravvisse e perché. In quest'ambito non ci sono fonti d'archivio su cui basarsi, e non esistono "prove" concrete. Dobbiamo prendere per buona la parola di quanti hanno acconsentito a raccontare la propria esperienza per iscritto, o a voce, se intervistati. Ognuno di loro poteva avere dei motivi per nascondere certi aspetti della propria vita ai lettori.

Fatta questa premessa, comunque si possono individuare alcuni schemi ricorrenti, nelle molte centinaia di memoriali, pubblicati o conservati negli archivi. Infatti le strategie di sopravvivenza esistevano, e all'epoca erano ben note, anche se variavano molto a seconda della situazione specifica di ciascun detenuto. Sopravvivere in una colonia di lavoro della Russia occidentale a metà degli anni Trenta o persino a metà degli anni Quaranta, quando il lavoro per la maggior parte consisteva in attività svolte in fabbrica e il cibo arrivava regolarmente, se non con abbondanza, probabilmente non richiedeva una particolare disposizione mentale. Sopravvivere in un campo dei tenitori dell'estremo nord, nella Kolyma, a Vorkuta, a Noril'sk, durante gli anni di guerra, gli anni della carestia, spesso richiedeva invece enormi riserve di talento e di forza di volontà, oppure una spaventosa capacità di fare del male, qualità che i prigionieri, se fossero rimasti liberi, forse non avrebbero mai scoperto di avere.

Senza ombra di dubbio, molti prigionieri sopravvissero perché trovarono dei sistemi per innalzarsi al di sopra degli altri detenuti, per distinguersi dalla massa brulicante degli zek. Dozzine di detti e proverbi dei campi riflettono i devastanti effetti morali di questa competizione disperata. Uno era: "Tu puoi morire oggi, io morirò domani". Un altro era "Homo homìni lupus", usato da Janusz Bardach come titolo del suo memoriale. Secondo molti ex zek la lotta per la sopravvivenza era crudele, e diversi, per esempio Zorin, la definiscono darwiniana. "Il lager era una grande prova delle forze morali dell'uomo, della morale comune, e il novantanove per cento degli uomini non superava il traguardo della prova" ha scritto Salamov.4 "Dopo tre settimane appena i prigionieri erano per la maggior parte uomini finiti, cui interessava soltanto mangiare. Si comportavano come animali' detestavano e sospettavano chiunque, vedevano nell'amico di ieri un avversario nella lotta per la sopravvivenza" ha scritto Edward Buca.5

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Ekaterina Olickaja, data la sua formazione prerivoluzionaria di tipo socialista, era particolarmente scandalizzata da quella che consi-derava l'amoralità dei campi: mentre nelle prigioni spesso i detenuti Elaboravano e il forte aiutava il debole, nei campi sovietici ogni Detenuta "pensava solo per sé" ed era disposta a calpestare le altre per conseguire una posizione un po' migliore nella gerarchla.6 Gali-uà Usakova ha raccontato che sentiva di avere cambiato personalità nei campi: "Ero una ragazza educata, mi avevano tirata su bene, in una famiglia dell'intellighenzia. Ma con quelle caratteristiche non si sopravvive, bisogna indurirsi, imparare a mentire, a essere ipocriti da molti punti di vista".7

Gustaw Herling, che ha esaminato più a fondo il problema, racconta come il nuovo prigioniero a poco a poco imparava a vivere "senza pietà":

Dapprima divide il suo pane coi prigionieri impazziti dalla fame, guida il cieco notturno sulla via del ritorno dal lavoro, grida in cerca di aiuto quando un compagno di lavoro nella foresta si taglia via due dita, e trasporta clandestinamente pentolini di minestra e teste di aringhe nel "mortuario". Dopo molte settimane si rende conto che le sue intenzioni non sono né pure né veramente disinteressate, che egli insegue le egoistiche ingiunzioni del suo cervello, e cerca di salvare innanzitutto se stesso. Il campo, dove i prigionieri vivono al più basso livello di umanità e obbediscono al loro brutale codice di comportamento verso gli altri, lo aiuta a giungere a questa conclusione. Come avrebbe potuto immaginare, quand'era ancora in prigione, che un uomo può essere degradato a tal punto da non risvegliare compassione ma solo un estremo disgusto e ripugnanza nei suoi compagni di prigionia? Come può aiutare i ciechi notturni, quando ogni giorno li vede percossi col calcio dei fucili perché ritardano il ritorno della brigata dal lavoro, e spinti impazientemente fuori dei sentieri dai prigionieri che si affrettano verso la cucina per la loro minestra? Come visitare il "mortuario" e sfidare la costante oscurità e il fetore degli escrementi; come dividere il pane con un uomo impazzito dalla fame, che il giorno dopo lo saluterà con uno sguardo fisso, tenace ed esigente? ... Ripensa e crede alle parole del giudice esaminatore, che gli diceva che la scopa di ferro della giustizia sovietica spazza via solo gli scarti nei suoi campi.. .8

Questo tipo di sentimenti non è un'esclusiva dei sopravvissuti dei campi sovietici. "Si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, un certo agio e una buona probabilità di sopravvivere" ha scritto Primo Levi, sopravvissuto di Auschwitz, "esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà con i loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà."9 Sempre parlando di campi tedeschi, Bruno Bettelheim ha osservato che i prigionieri più anziani spesso arrivavano ad "accettare come propri i valori e

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il comportamento delle SS", e in particolare cominciavano a condivi. derne l'odio per gli abitanti più deboli e meno quotati dal punto dj vista sociale all'interno dei campi, soprattutto gli ebrei.10

Nei campi sovietici, come in quelli nazisti, i detenuti comuni adottavano con prontezza la retorica disumana dell'NKVD, insultavano i politici e i "nemici", esprimevano il proprio disgusto per quanti, tra loro, erano dei dohodjaga. Grazie alla sua situazione inconsueta, perché era l'unico prigioniero politico in un lagpunkt popolato soprattutto da comuni, Karol Colonna-Czosnowski ebbe modo di capire come la pensavano i comuni riguardo ai politici. "Il problema è che sono veramente troppi. Sono deboli, sono sudici e vogliono soltanto mangiare. Non producono niente. Dio solo sa perché le autorità se ne preoccupano ..." Un criminale comune, dice Colonna-Czosnowski, gli raccontò di aver incontrato un occidentale in un campo di transito, uno scienziato e professore di università: "L'ho beccato mentre mangiava, sì, mangiava la coda mezza marcia di un merluzzo. Come puoi immaginare, l'ho mandato al diavolo. Gli ho chiesto se si rendeva conto di quello che stava facendo. Ha risposto soltanto che aveva fame... così gli ho tirato una tale manata sul collo che ha cominciato subito a vomitare. Mi sento male a pensarci. Gli ho fatto persino rapporto alle guardie, ma quel lurido vecchio la mattina dopo era morto. Gli sta bene!".11

Altri prigionieri osservavano, imparavano e imitavano, come scrive Varlam Salamov:

È un giovane, contadino ... vede che nel lager i ladri e gli assassini vivono meglio di tutti, godono di un relativo benessere materiale e si distinguono per la fermezza delle loro convinzioni... anche le autorità devono vedersela con loro. Sono sempre sazi, riescono a "far saltar fuori qualcosa" quando tutti gli altri sono affamati. ... Tutti gli indumenti "da liberi" li indossano loro ... E il contadino comincia a pensare che in lager sono proprio i malavitosi i detentori della verità, che da quelle parti sono loro a costituire l'unica forza materiale e morale.. ,12

Tuttavia non sarebbe giusto affermare che nei campi non esisteva moralità, che non era possibile nessun genere di gentilezza o di generosità. Per quanto strano, persino i memorialisti più pessimisti spesso si contraddicono su questo punto. Lo stesso Salamov, che descrive la barbarie della vita dei campi in modo più disincantato di chiunque altro, a un certo punto scrive: "Rifiutai il lavoro di caposquadra che dava una possibilità di sopravvivere, perché in un lager la cosa peggiore era di imporre la propria volontà o quella di qualcuno ad altri, detenuti proprio come te". In altre parole, Salamov "rappresenta un'eccezione alla regola che egli stesso enuncia".13

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Inoltre, dalla maggior parte dei libri di memorie risulta chiaro che 11 Gulag non era un mondo in bianco e nero, in cui esistesse una chiara linea di demarcazione tra padroni e schiavi e in cui la crudeltà rappresentasse l'unico modo per sopravvivere. Detenuti, liberi ^voratori e guardie facevano parte di una struttura sociale complessa, una struttura che, come abbiamo visto, mutava di continuo. I prigionieri potevano salire nella gerarchla, o scendere, e a molti accadeva. Potevano determinare il proprio destino, non solo collaborando con le autorità o sfidandole, ma anche sfruttando con scaltrezza conoscenze e rapporti per curare i propri interessi. Inoltre la fortuna, o la sfortuna, poteva determinare il corso della vita nei campi che, se durava a lungo, talvolta aveva periodi "felici", in cui il prigioniero disponeva di un buon posto di lavoro, mangiava bene e lavorava poco, e periodi in cui lo stesso prigioniero piombava nell'inferno dell'ospedale, dell'obitorio, e nella società dei dohodjaga, che si affollavano intorno ai cumuli di spazzatura alla ricerca di avanzi di cibo.

In realtà i modi per sopravvivere erano connaturati al sistema. Il più delle volte l'amministrazione dei campi non cercava di uccidere i prigionieri, ma soltanto di realizzare norme impossibili, stabilite dai pianificatori di Mosca. Quindi le guardie dei campi erano più che disposte a premiare i prigionieri quando li consideravano utili a questo scopo. E, come è naturale, i detenuti sfruttavano tale disponibilità. I due gruppi avevano obiettivi diversi, le guardie volevano estrarre più oro o tagliare più alberi, i prigionieri volevano sopravvivere, ma talvolta trovavano un modo comune per realizzare i loro diversi obiettivi. Esistevano alcune strategie di sopravvivenza adatte sia per i prigionieri sia per le guardie: esaminiamole.

"Tufta": fare finta di lavorare

Non è facile spiegare con precisione che cosa fosse la tufta, parola che grosso modo vuoi dire "truffare il capo". Si tratta di una pratica talmente radicata nel sistema sovietico che non sarebbe corretto considerarla un'esclusiva del Gulag.14 E non era nemmeno un'esclusiva dell'URSS. Un tempo il proverbio di epoca comunista "loro fanno fìnta di pagarci e noi facciamo finta di lavorare" era diffuso in molti paesi aderenti al patto di Varsavia.

Per la precisione, va detto che in pratica la tufta permeava qual-siasi cosa attinente al lavoro, il modo di assegnarlo, l'organizzazione, la contabilità, e riguardava tutti all'interno del Gulag, dai massi-rni dirigenti di Mosca agli ultimi secondini, ai detenuti più umiliati.

Gulag

È stato così dalla nascita del sistema fino alla sua fine. Esiste una fi, lastrocca molto nota tra i prigionieri, risalente all'epoca del canale del mar Bianco:

Bez tufty i ammanala

ne postroili by kanala

Senza la t ufta e la dinamite

non avrebbero costruito il canale.15

Da quando la tufta è diventata argomento di dibattito, la questione se i prigionieri lavorassero, e quanto, e se si impegnassero per scansare la fatica è sempre stata molto controversa. Nel 1962, quando è uscito Una giornata di Ivan Denisovic di Solzenicyn, è nato un dibattito più o meno pubblico riguardo ai campi, e da allora la vasta comunità costituita da sopravvissuti, polemisti e studiosi della storia del Gulag non riesce a raggiungere una posizione di unanimità riguardo all'etica su cui si basava il lavoro nei campi. Infatti larga parte del romanzo di rottura di Solzenicyn è incentrata sui sistemi adottati dal protagonista per scansare il lavoro. Ivan Denisovic, nel corso della giornata, prende contatto con un medico nella speranza di farsi esentare per ragioni di salute; vagheggia di ammalarsi per qualche settimana; sbircia il termometro esterno sperando che sia troppo freddo per andare a lavorare; parla in modo splendido dei capisquadra capaci di "far sembrare che il lavoro sia fatto, anche quando non è così"; si sente sollevato quando il loro caposquadra ottiene "una buona percentuale per la produzione", anche se "dopo mezza giornata non avevano fatto nulla"; ruba schegge di legno dal posto di lavoro per accendere il fuoco nella baracca; e all'ora di cena sgraffigna della farina d'orzo. A un certo punto fa una riflessione: "è la fatica a uccidere i cavalli". E cerca di scansarla.

Negli anni successivi alla pubblicazione del libro, questo ritratto dello zek tipico fu contestato per motivi ideologici e personali da altri sopravvissuti. Quelli che credevano nel sistema sovietico, e perciò credevano anche nel valore e nella necessità del "lavoro" nel Gulag, consideravano offensiva la "pigrizia" di Denisovic. In molti racconti "alternativi", più "filosovietici", riguardo alla vita nei campi, che la stampa ufficiale sovietica pubblicò dopo l'uscita di Ivan Denisovic, si metteva in grande rilievo la dedizione al lavoro di quanti, seppure arrestati ingiustamente, rimanevano dei veri credenti. Lo scrittore sovietico (e informatore per tutta la vita) Boris D'jakov ha descritto un ingegnere impegnato su un progetto edilizi0 del Gulag nei dintorni di Perm'. Si era concentrato sul lavoro al puri"

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to da dimenticarsi di essere un prigioniero. Lo racconta al narratore di D'jakov: "Per un certo periodo il mio lavoro mi ha assorbito così tanto da non ricordare più che cosa ero diventato". L'ingegnere della storia di D'jakov è talmente coscienzioso da inviare di nascosto una lettera a un giornale locale, per protestare riguardo alla cattiva organizzazione dei trasporti e dei sistemi di approvvigionamento. Sebbene ammonito dal comandante per la sua sfrontatezza (era inaudito che il nome di un prigioniero comparisse sul giornale), D'jakov racconta che il suo personaggio fu soddisfatto perché "dopo l'articolo la situazione migliorò un pochino".16

Le opinioni di quanti gestivano i campi erano ancora più estreme. Un'ex amministratrice, che ha voluto mantenere l'anonimato, mi ha detto in modo piuttosto adirato che tutte le storie riguardo alla pessima qualità della vita dei detenuti erano pure e semplici bugie. Chi lavorava bene viveva benissimo, mi ha spiegato, molto meglio della popolazione in generale. Poteva persino comprare "latte condensato", un fatto di solito impossibile per la gente normale. "Solo chi non voleva lavorare viveva male" ha aggiunto.17 Opinioni come questa di norma non venivano proclamate in pubblico, ma esistono alcune eccezioni. Anna Zaharova, moglie di un ufficiale dell'NKVD, la cui lettera al giornale "Izvestija" circolava nella stampa clandestina russa, era molto critica riguardo a Solzenicyn. La Zaharova afferma che Ivan Denisovic le suscitava una "collera profonda":

Si può comprendere perché il protagonista di questa storia, avendo un atteggiamento simile verso il popolo sovietico, non speri in altro che nell'in-fermeria per evitare di redimere con il duro lavoro la sua colpa, il male compiuto contro la sua patria ... E per quale motivo una persona dovrebbe evitare il lavoro fisico e manifestare disprezzo per esso? In fondo il sistema sovietico si basa sul lavoro e solo nel lavoro l'uomo acquista consapevolezza delle sue vere forze.18

Altri normali zek avanzano altre obiezioni, meno ideologiche. V.K. Jasnyj, detenuto per cinque anni all'inizio degli anni Quaranta, nelle sue memorie ha scritto: "Cercavamo di lavorare onestamente e non per paura di perdere le razioni o di finire in isolamento ... il lavoro duro, e nella nostra squadra si lavorava duro, ci aiutava a dimenticare, a scacciare i pensieri angosciosi".19 Nadezda Ul'janovskaja, incarcerata insieme a sua madre, racconta come la madre ci dava dentro "per dimostrare che gli ebrei e l'intellighenzia non lavorano peggio degli altri" (ma di se stessa dice: "Io lavoravo perché ero costretta a farlo__In questo senso temo di non aver tenuto alto l'onore del popolo ebraico").20

Inoltre, i detenuti che per tutta la vita avevano lavorato con entu-

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siasmo per il regime sovietico non cambiavano in fretta. Aleksarvdr Borin, prigioniero politico e ingegnere aeronautico, nel Gulag fu assegnato a un'industria di lavorazione del metallo. Nel suo libro di memorie descrive con orgoglio le innovazioni tecniche che vi apportò, studiate soprattutto nel tempo libero.21 Alla èister, arrestata alla fine degli anni Trenta, durante un'intervista mi ha raccontato: "Ho sempre lavorato come se fossi libera. È una mia caratteristica, non riesco a lavorare male. Se bisogna scavare un buco, io continuo a scavare fino a quando non è finito". Dopo due anni di lavori generali, la Sister diventò caposquadra, perché, racconta, "videro che non lavoravo come una detenuta, ma con tutte le mie forze". Nella sua nuova veste, fece di tutto per stimolare i suoi subordinati, anche se, per sua stessa ammissione, non lo fece accendendo in loro la fiamma dell'amore per il regime sovietico. Ecco come descrive il primo incontro con gli uomini che dovevano lavorare con lei:

Arrivai alla cava dove stavano scavando. Le guardie si offrirono di accompagnarmi, ma io dissi che non era necessario e andai da sola. Era mezzanotte. Arrivai dalla squadra e dissi agli uomini: "Devo realizzare il piano, al fronte c'è bisogno di mattoni".

Loro risposero: "Alla Borisovna, non ci interessa il piano per i mattoni, dacci la nostra razione di pane".

Io replicai: "Avrete la razione se realizzerete il piano".

Loro dissero: "Ora ti buttiamo in un buco, ti seppelliamo e nessuno ti troverà".

Senza scompormi risposi: "Non mi seppellirete. Vi prometto che se oggi a mezzogiorno realizzate la norma vi porto del tabacco". Laggiù il tabacco valeva più dell'oro e dei diamanti...

La Sister spiega che aveva risparmiato le sue razioni di tabacco, dato che non fumava, e quindi le passò volentieri ai suoi subordinati.22

Ovviamente alcuni si rendevano conto che lavorando ottenevano dei vantaggi materiali. Alcuni prigionieri facevano soltanto quello che ci si aspettava da loro: superare la norma, ottenere lo status di lavoratori d'assalto, procurarsi razioni migliori. Vladimir Petrov arrivò in un lagpunkt della Kolyma e comprese immediatamente che gli occupanti della "tenda degli stacanovisti", lavorando più sodo degli altri, avevano una serie di caratteristiche assenti nei dohodjaga'-

Erano incomparabilmente più puliti. Nonostante le difficilissime condizioni della loro vita nel campo, riuscivano a lavarsi la faccia tutti i giorni, 6 quando non trovavano acqua usavano la neve. Erano anche vestiti megli0 ... e più padroni di sé. Non si affollavano intorno alle stufe ma si sedevano sulle loro cuccette, facevano qualcosa o parlavano degli affari loro. Persine dall'esterno la loro tenda aveva un aspetto diverso.

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Petrov li implorò di potersi aggregare alla loro squadra, perché chi ne faceva parte riceveva un chilo di pane al giorno. Una volta ingeritosi, però, non riusciva a reggere i ritmi del lavoro. Lo espulsero dalla squadra, che non poteva tollerare alcuna debolezza.23 La sua esperienza non fu certo atipica, come racconta Herling:

II successo di questo sistema [la norma] non era dovuto solo agli uomini liberi che l'imponevano, ma anche all'istinto dominante degli schiavi che vi lavoravano. In quelle brigate in cui il lavoro veniva eseguito in gruppi, i più coscienziosi e ferventi nel sovrintendervi erano proprio i prigionieri, perché lì la norma era calcolata collettivamente, dividendo la produzione totale per il numero dei lavoratori. Ogni sentimento di scambievole amicizia era abolito in quella corsa folle alle percentuali. Un prigioniero poco efficiente, che si trovasse a far parte di un gruppo coordinato di lavoratori esperti, non poteva aspettarsi nessuna considerazione: dopo una breve lotta, era costretto ad arrendersi e a passare in un gruppo in cui spesso doveva a sua volta sorvegliare camerati più deboli. Vi era in ciò qualcosa di inumano, che rompeva spieiatamente il solo legame naturale tra i prigionieri: la solidarietà di fronte ai loro persecutori.24

Tuttavia, talvolta lavorare duro provocava effetti negativi. Lev Razgon racconta di contadini che si uccidevano cercando di superare la norma e di guadagnarsi la "razione grossa", un chilo e mezzo di pane: "Magari era grezzo e malcotto, ma era pane vero. A dei contadini che da anni facevano la fame sembrava una quantità enorme, anche senza del cibo cotto". Ma nemmeno questa "quantità enorme" di cibo bastava a restituire le energie spese lavorando nelle foreste. Secondo Razgon, quindi, i taglialegna erano condannati "a morire letteralmente di fame a poco a poco, anche se mangiavano un chilo e mezzo di pane al giorno".25 Anche Varlam Salamov ha descritto il "mito della razione grossa", e Solzenicyn dice: "La razione grande uccide. Il più solido sgobbone arriva con le forze stremate alla fine di una stagione di flottazione. Allora gli danno l'invalidità temporanea".26

Ciononostante, i memorialisti (sostenuti in una certa misura dai documenti d'archivio) parlano quasi tutti dell'abitudine di evitare il lavoro. Di solito, però, adducono come principale motivazione non la pigrizia o il desiderio "di manifestare disprezzo" per il sistema sovietico: la ragione fondamentale era la sopravvivenza. Molti, equipaggiati con abiti inadeguati e nutriti in misura insufficiente, costretti a lavorare in condizioni climatiche proibitive con macchinari rotti, si rendevano conto che evitando di lavorare si sarebbero salvati la vita.

Il memoriale inedito di Zinajda Usova, una delle mogli arrestate Nel 1938, descrive bene come i detenuti arrivavano a questa conclu-

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sione. In un primo tempo la Usova fu mandata al Temlag, un carrm0 abitato per la maggior parte da donne come lei, mogli di importanti membri del Partito e pezzi grossi dell'esercito che erano stati fucila ti. Il comandante del Temlag era relativamente tollerante e il nro. gramma di lavoro ragionevole, quindi rutti lavoravano con entusiasmo. Erano ancora per la maggioranza "fedeli cittadini sovietici" convinti di essere stati arrestati per un errore marchiano, e inoltre credevano che lavorando sodo si sarebbero guadagnati un rilascio anticipato. La Usova racconta: "Andavo a dormire e mi svegliavo pensando al lavoro, elaborando i miei progetti. Uno di questi fu addirittura messo in produzione".

In seguito, però, lei e un gruppo di altre donne furono trasferite in un campo in cui erano rinchiusi anche dei criminali comuni, e si ritrovò a lavorare in un mobilificio. Il nuovo campo aveva norme molto più alte, più severe, le norme "irragionevoli" di cui parlano svariati prigionieri. Questo sistema, scrive la Usova, "trasformava gli esseri umani in schiavi, con la psicologia degli schiavi". Solo quelli che realizzavano per intero la norma ricevevano la razione di pane piena, settecento grammi. Quelli che non ci riuscivano o non potevano lavorare ne ottenevano trecento grammi, appena sufficienti per sopravvivere.

Per compensare, i detenuti del nuovo campo cercavano di fare del proprio meglio per "ingannare i capi, evitare di affaticarsi, fare il meno possibile". Le detenute appena arrivate, con il loro relativo entusiasmo per il lavoro, diventarono delle paria. "Dal punto di vista dei detenuti veterani eravamo delle stupide, oppure una sorta di crumi-re. Cominciarono subito a odiarci tutte."27 Ben presto, come è logico, le donne del Temlag adottarono le strategie già ben note agli altri per scansare il lavoro. Insomma era il sistema stesso a creare la tufta, e non il contrario.

Talvolta i prigionieri escogitavano delle forme personali di tufta. Una polacca era impiegata in un impianto di lavorazione del pesce alla Kolyma dove gli unici a realizzare le norme impossibili erano quelli che truffavano. Gli stacanovisti non erano altro che "i più furbi": invece di inscatolare tutte le aringhe, ne mettevano solo qualche pezzo nel vaso e buttavano via il resto, "con tanta astuzia che il caposquadra non se ne accorgeva mai".28 Mentre Valeri] Frid stava aiutando a costruire il bagno di un campo, gli mostrarono un trucco del genere: come nascondere le crepe di un edificio con il muschio invece di riempirle di cemento. Aveva solo una perplessità riguardo al sistema per evitare il lavoro: "E se un giorno venissi a lavarmi in questo bagno? In fondo, il muschio seccherà e allora il vento freddo filtrerà tra le fessure".29

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Anche Evgenija Ginzburg racconta come lei e Gal'ja, l'altra donna con cui tagliava gli alberi, alla fine erano riuscite ad abbattere il nu-di piante richiesto da una norma irrealizzabile. Osservando una delle loro colleghe riusciva sempre a realizzare la norma, nonostante lavorasse "da sola con una sega a una sola impugnatu-ra", le chiesero come facesse:

Vistasi scoperta, ci spiegò la tecnica dell'operazione.

"Tutt'attorno è pieno di cataste. Sono vecchi tronchi, segati dalle traduzioni che ci hanno preceduto. Nessuno ha mai contato quanti siano."

"E allora? Si vede subito che sono di vecchio taglio."

"Cos'è che li distingue? Soltanto il fatto che i tagli sono più scuri. È sufficiente asportare una fettina che il taglio toma ad apparire freschissimo. Poi si ripone il tronco nello stesso posto, ma voltato in una direzione diversa. E la norma è raggiunta."

Questa operazione la definimmo "rinnovare i panini imbottiti". Essa ci consentì un po' di respiro ... devo aggiungere che non provavamo nessun rimorso di coscienza.. .30

Anche Thomas Sgovio trascorse un periodo nella Kolyma, in una squadra di taglialegna che non faceva niente di niente:

Nella prima metà di gennaio il mio compagno Levin e io non abbattemmo un solo albero. E nemmeno gli altri della nostra squadra di taglialegna. Nella foresta c'erano molte cataste di tronchi, ne sceglievamo una o due, spazzavamo via la neve e ci sedevamo vicino al fuoco. Non ci sarebbe stato neanche bisogno di spazzare la neve, perché nel primo mese non venne mai né il caposquadra, né il caposettore né un supervisore a verificare la nostra produttività.31

Altri sfruttavano conoscenze e rapporti per trovare il modo di aggirare le assegnazioni di lavoro irrealizzabili. Un detenuto del Kar-gopol'lag ne pagò un altro, con un pezzo di lardo, per farsi insegnare a tagliare gli alberi con più efficienza, mettendolo in condizione di realizzare la norma e persino di riposare nel pomeriggio.32 Un prigioniero incaricato di setacciare l'oro nella Kolyma pagò una bustarella per farsi assegnare un lavoro più comodo, e stare su un cumulo di scorie invece che nell'acqua.33

Più spesso la tufta era organizzata da intere squadre, perché i ca-pisquadra sapevano confondere le acque sulla produzione effettiva dei singoli prigionieri. Un ex zek racconta che il suo caposquadra gli Permetteva di dichiarare di aver realizzato il sessanta per cento della norma anche se in realtà non riusciva a fare quasi niente.34 Un altro dice che il suo trattò con le autorità del campo per far abbassare

norme alla sua squadra, poiché tutti i suoi operai stavano moren-Altri ancora si facevano corrompere; per esempio Jurij Zorin,

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caposquadra egli stesso, lo ammette con una formula molto te: "Là nei campi ci sono leggi che forse risultano incomprensibili a chi vive fuori dalla zona".36 Leonid Trus ricorda che i suoi capisqUa. dra di Noril'sk si limitavano a "decidere quali dei loro operai meri-tasserò più cibo e una paga migliore degli altri", senza tenere in al-cun conto quanto avevano prodotto in realtà. La "produzione" dei prigionieri era determinata dalla corruzione e dall'appartenenza ai clan.

Dal punto di vista degli zek, i capisquadra migliori erano quelli capaci di organizzare la tufta su larga scala. Mentre lavorava in una cava degli Urali settentrionali, alla fine degli anni Quaranta, Lev Finkel'stejn si ritrovò in una squadra il cui capo aveva elaborato un sistema oltremodo complesso per ingannare le guardie. La mattina la squadra scendeva nella gola. Le guardie stavano in cima, sul bordo del dirupo, accanto al fuoco per tenersi caldi. Ivan, il caposquadra, organizzava allora la tufta:

Sapevamo con precisione quali parti del fondo della gola fossero visibili da lassù, e in quello consisteva il nostro imbroglio ... nella parte visibile del fondo incidevamo con molta foga il muro di pietra. Lavoravamo, facendo un sacco di rumore, le guardie potevano vederci e sentirci. Poi Ivan camminava lungo la fila ... e diceva "uno a sinistra": ciascuno di noi faceva un passo a sinistra. Le guardie non se ne accorgevano mai.

Continuavamo in quel modo, un passo a sinistra, un altro, un altro ancora, fino a quando l'ultimo della fila entrava nella zona invisibile, sapevamo dove era, c'era una riga di gesso sul terreno. Una volta entrati nella zona invisibile ci rilassavamo, ci sedevamo a terra, prendevamo un'asse e picchiavamo il terreno accanto a noi con calma, giusto per fare rumore. Poi arrivava qualcun altro, un altro ancora e così via. A un certo punto Ivan diceva: "Tu! a destra!" e il ciclo ricominciava. Nessuno di noi lavorava mai nemmeno per la metà del turno.

In un altro momento, Finkel'stejn fu assegnato ai lavori di scavo per un canale. Lì la tufta era diversa, ma non meno sofisticata: "L'importante era dimostrare che la banda aveva realizzato la norma". Gli operai dovevano scavare, ma senza toccare uno stecco o un paletto che indicava il livello di profondità raggiunto durante il turno, quanto si era scavato. Anche se le norme erano molto pesanti "c'erano degli artisti, artisti autentici, che riuscivano ad allungare il palo, a farlo allungare in altezza. È incredibile, spuntava dal terreno, e quindi se qualcuno lo toccava si vedeva subito, ma lo maneggiavano con grande arte. Poi, ovviamente, tutta la banda riceveva la cena degli stacanovisti".37

Non sempre era necessaria tanta perizia. A un certo punto Leonio

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frus fu incaricato di scaricare dei vagoni merci: "Ci bastava scrivere che avevamo portato le merci più lontano di quanto in realtà non fosse, diciamo trecento metri invece di dieci". In questo modo ricevevano razioni di cibo migliori. "La tufta era una costante" spiega parlando del campo di Noril'sk. "Senza, non ci sarebbe stato niente di niente."

Capitava anche che la tufta fosse organizzata a livelli superiori nella gerarchla amministrativa, dopo accurate trattative tra i capisqua-dra e gli addetti a fissare la norma, i funzionali che avevano il compito di stabilire quanto sarebbe riuscita a produrre una squadra in un giorno. Gli addetti alla norma, come i capisquadra, erano molto inclini ai favoritismi e alla corruzione, ma anche ai capricci. Verso la fine degli anni Trenta, nella Kolyma, Ol'ga Adamova-Sliozberg fu nominata caposquadra di un gruppo femminile addetto a scavare trincee, costituito in larga parte da prigioniere politiche, tutte indebolite da lunghi periodi scontati in prigione. Dopo tre giorni di lavoro avevano realizzato il tre per cento appena del previsto, quindi si recò dall'addetto alla norma e chiese di abbassarla. Quando gli disse che la debole squadra era composta per la maggior parte da ex iscritte al Partito, lui si oscurò in viso.

Erano nel partito, eh? Se fossero state prostitute, vi farei lavare i pavimenti e mi contenterei del tre per cento. Quando i membri del partito, nel 1929, mi cacciarono dalla mia terra, mi cacciarono fuori di casa con i miei sei bambini, io dissi loro: "Che colpa hanno i bambini?". E loro: "Così è la legge sovietica". Ecco ora la legge sovietica. Tirate fuori nove metri cubi di terra!38

Certe volte, per esempio se il campo aveva ricevuto delle critiche per l'alto tasso di mortalità o se si trovava all'estremo nord e gli operai di rimpiazzo arrivavano solo una volta a stagione, gli addetti a fissare la norma si rendevano conto della necessità di mantenere in vita la manodopera. In tali circostanze magari la abbassavano o fingevano di non accorgersi se non veniva realizzata. Questa prassi si chiamava "stiracchiamento della norma" e dire che era diffusa è po-co.39 Un detenuto lavorava in una miniera in cui ciascuno doveva estrarre cinque tonnellate e mezzo di carbone al giorno, un'impresa impossibile. L'ingegnere capo della miniera, un lavoratore libero, ebbe il buon senso di informarsi su quanti lavoratori ci sarebbero riusciti, e poi disse agli addetti alla norma di basarsi su quel dato Per stabilire che cosa veniva fatto in realtà, assegnando a turno il titolo di lavoratore d'assalto a ciascun prigioniero, in modo che ricevessero più o meno tutti la stessa quantità di cibo.40

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La corruzione era diffusa anche a livelli più alti della gerarchla P talvolta coinvolgeva molte persone. Alla fine degli anni Quaranta quando fu introdotto un piccolo salario per indurre gli zek a lavorare di più, Aleksandr Klejn si trovava in un campo:

Quando riceveva il denaro che si era guadagnato (non molto), l'operaio dava una bustarella al caposquadra. Era obbligatorio: poi il caposquadra doveva dare una bustarella al caposettore e all'addetto alla norma, che stabiliva quanto avesse prodotto la squadra ... inoltre, il caposquadra e i capi-squadra dovevano ungere i narjadcik, quelli che assegnavano il lavoro. Anche i cucinieri pagavano bustarelle al capocuciniere, e quelli che lavoravano nel bagno al direttore del bagno.

In media, racconta Klejn, doveva consegnare metà del suo "salario". Chi non lo faceva poteva subire conseguenze spaventose. I detenuti che non pagavano venivano automaticamente puniti con la dichiarazione che avevano realizzato una bassa percentuale della norma, per cui ricevevano meno cibo. I capisquadra che non volevano pagare rischiavano di più. Uno, racconta Klejn, fu assassinato nel suo letto. Gli fracassarono la testa con un sasso, e quelli che dormivano vicino non si svegliarono nemmeno.41

La tufta influiva anche sulle statistiche di rutti i generi. Secondo quanto affermano dozzine di rapporti relativi a sottrazioni indebite conservati negli archivi dell'Ispettorato, comandanti e contabili alteravano spesso le cifre per ottenere dei vantaggi personali. Chiunque avesse rapporti anche minimi con un campo rubava cibo, denaro, qualunque cosa ci fosse da rubare: nel 1942 la sorella dell'ex capo della divisione ferroviaria dei campi del Dzezkazgan, in Kazakistan, fu accusata di aver "sottratto illecitamente alcuni prodotti alimentari" e di essere implicata in un giro di speculazioni. Nel 1941 il comandante e il capocontabile di un lagpunkt "approfittarono del proprio status professionale" e finsero di aprire un conto corrente bancario per poter attingere ai conti del campo. Il comandante rubò 25.000 rubli, il contabile 18.000, una fortuna secondo i criteri sovietici. Ma le somme non erano sempre così ingenti: in un grosso dossier sul Siblag, contenente i rapporti dei procuratori dal 1942 al 1944, tra le altre cose si conserva una lunga serie di lettere in cui si svolge un'ampia controversia riguardo a un dipendente del campo che si presumeva avesse rubato due ciotole di ferro, una teiera di smalto, una coperta, un materasso, due lenzuola, due guanciali e due federe.42

Passare dal furto alla falsificazione delle statistiche di produzione non richiedeva poi un grosso salto di qualità morale. Se la tufta cominciava nella squadra e si articolava a livello di lagpunkt, nel m°~

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in cui i contabili dei campi più grandi calcolavano le statistiche di produzione totale, le cifre erano già molto lontane dalla realtà e come vedremo, creavano idee molto distorte sull'effettiva produttività dei campi, con ogni probabilità assai bassa.

In realtà le menzogne e le truffe erano tali che è quasi impossibile stabilire come vadano valutate le cifre relative alla produzione del Gulag. È il motivo per cui i rapporti annuali molto dettagliati del Gulag, come quello stilato nel marzo 1940, mi disorientano sempre. Questo straordinario documento di oltre 124 pagine elenca le cifre relative alla produzione di decine di campi, enumerandoli con cura secondo la specializzazione: i campi forestali, i campi manifatturieri, le miniere, le fattorie collettive. Il rapporto è accompagnato da grafici e calcoli, e cifre di natura diversa. In conclusione, l'autore del rapporto dichiara con fiducia che l'ammontare complessivo della produzione del Gulag nel 1940 è di 2659,5 milioni di rubli, una cifra che, date le circostanze, va considerata del tutto assurda.43

"Pridurok": cooperazione e collaborazione

La iufta non era l'unico sistema usato dai prigionieri per colmare la frattura tra le impossibili norme previste e le impossibili razioni assegnate. E non era neanche il solo strumento utilizzato dalle autorità per raggiungere i loro impossibili obiettivi di produzione. Esistevano altri modi per convincere i detenuti a collaborare, come racconta in modo brillante e memorabile Isaak Fil'stinskij nel primo capitolo del suo libro di memorie My sagaem pod konvojem (Marciamo sotto scorta).

Fil'stinskij comincia la sua storia raccontando di uno dei suoi primi giorni nel Kargopol'lag, il campo forestale e edilizio che si trovava a nord di Arcangelo. Era appena arrivato, e conobbe una giovane appena arrivata anche lei. Faceva parte di un contingente femminile temporaneamente annesso alla sua squadra. Notandone l'aspetto "timido, spaventato", e i vestiti laceri, la avvicinò nella fila dei prigionieri. Quando lui le fece delle domande, lei rispose: "Sono arrivata ieri dalla prigione con un convoglio". Si misero a chiacchierare. La ragazza, a quanto dice Fil'stinskij, aveva "una storia abbastanza banale per quell'epoca". Era un'artista di ventisei anni. Sposata, con un figlio di tre anni. Era stata arrestata per aver "detto qualcosa a un suo amico artista, che l'aveva denunciata". Dato che anche suo padre era stato arrestato nel 1937, l'avevano fermata subito con l'accusa di diffondere Propaganda antisovietica.

Mentre chiacchieravano, la donna, che continuava a guardarsi in

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giro con espressione spaventata, prese a braccetto Fil'stinskij. xar contatti erano proibiti, ma per fortuna le guardie non se ne accorsero. Quando arrivarono al posto di lavoro, gli uomini e le donne vennero divisi, ma al ritorno la giovane artista trovò di nuovo Fil'gtin. skij. Per i dieci giorni successivi fecero insieme il tragitto di andata e ritorno dalla foresta, mentre lei gli raccontava di avere nostalgia di casa, del marito che l'aveva abbandonata, del bambino che non avrebbe più visto. Poi la squadra delle donne venne separata per sempre da quella maschile, e Fil'stinskij perse le tracce dell'amica.

Passarono tre anni. Era una giornata calda, una rarità all'estremo nord, quando Fil'stinskij vide di sfuggita la donna. Questa volta indossava una "giacca nuova che le andava a pennello per misura e modello". Invece del berretto logoro dei normali detenuti portava un basco. Invece degli scarponi consunti, delle scarpe da donna. Aveva il viso più pieno e un aspetto più volgare. Quando aprì la bocca, disse delle cose in un gergo esecrabile: il suo linguaggio testimoniava "rapporti prolungati e durevoli con il mondo criminale del campo". Quanto si accorse di Fil'stinskij, le comparve in viso un'espressione di orrore. Si voltò e se ne andò "quasi di corsa".

Quando Fil'stinskij la incontrò per la terza e ultima volta, la donna era vestita, o almeno così gli parve, "all'ultima moda di città". Stava seduta alla scrivania di un capo, e non era più una detenuta. Aveva sposato il maggiore L., un amministratore famoso per la sua crudeltà. Si rivolse a Fil'ètinskij in modo brusco e non dimostrò più alcun imbarazzo nel parlargli. La metamorfosi era completa: da prigioniera si era trasformata in un'informatrice, poi da collaboratrice a dirigente del campo. Per prima cosa aveva adottato il linguaggio, poi lo stile nell'abbigliamento e le abitudini del mondo criminale. Seguendo quella via, alla fine aveva conquistato la posizione di privilegio delle autorità del campo. Fil'stinskij sentì di non avere "nient'altro da dirle", ma mentre usciva dalla stanza si voltò a guardarla. I loro occhi si incontrarono per un attimo, e gli parve di cogliere in quelli di lei un lampo di "sconfinata malinconia e una traccia di lacrime".44

La conoscente di Fil'stinskij finì in un modo che i lettori informati sui campi di concentramento di altri sistemi riconosceranno. Nel descrivere i lager nazisti, il sociologo tedesco Wolfgang Sofsky afferma: "II potere assoluto è una struttura", non una cosa che si possiede. Intendeva dire che il potere nei campi tedeschi non consisteva soltanto nella facoltà di una persona di dominare la vita di altre. "U principio della delega trasformava le vittime in compiici e finiva così col confondere il confine fra personale e prigionieri."45 Anche se la

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brutalità che regnava nel Gulag era diversa, tanto dal punto di vista organizzativo quanto per gli effetti che produceva, in questo senso i campi nazisti e quelli sovietici erano simili: anche il regime sovietico manipolava i detenuti in questo modo, inducendone alcuni a colla-borare con il sistema repressivo, innalzandoli al di sopra degli altri e concedendo loro privilegi grazie ai quali le autorità riuscivano a esercitare meglio il proprio potere. Non è un caso se, nel suo racconto, Fu"§tinskij si concentra sugli abiti sempre più belli della sua conoscente: nei campi, dove mancava sempre tutto, qualche piccolo miglioramento nell'abbigliamento, nell'alimentazione o nelle condizioni di vita era sufficiente per convincere i prigionieri a collaborare, ad ambire a una promozione. Quelli che ci riuscivano si chiamavano pridurok, "imboscati". Quando conseguivano tale posizione, la loro vita migliorava subito in una miriade di piccoli modi. Solzenicyn, che torna più volte sull'argomento degli imboscati, in Arcipelago Gulag descrive la loro ossessione per i piccoli privilegi e i favori:

Secondo la consueta tendenza umana a dividersi in caste, ben presto i balordi [pridurok] trovano sconveniente dormire in una stessa baracca con i semplici sgobboni, su una cuccetta comune, e in generale su un pancaccio anziché su un letto, sconveniente mangiare allo stesso tavolo, portare la biancheria consunta dal sudore e dal lavoro di uno sgobbone...

Pur ammettendo che "in questo mondo a tutte le classificazioni mancano confini precisi", Solzenicyn ha fatto del suo meglio per descrivere la gerarchla dei pridurok. Al rango più basso, spiega, c'erano gli "imboscati del lavoro": gli ingegneri, i progettisti, i meccanici e i geologi detenuti. A un livello appena superiore stavano capisquadra, pianificatori, addetti alle norme, capomastri, tecnici. La mattina, entrambi questi gruppi dovevano allinearsi per essere contati e andavano a lavorare sotto scorta. D'altra parte, poiché non eseguivano lavori manuali, alla fine della giornata non erano "completamente esausti", e questo li rendeva dei privilegiati rispetto ai prigionieri addetti ai lavori generali. Di privilegi superiori godevano gli "imboscati dell'apparato", cioè i prigionieri che durante il giorno non uscivano mai dalla zona. Spiega Solzenicyn:

L'operaio addetto all'intendenza vive assai meglio dello sgobbone ai lavori comuni: non deve presentarsi all'adunata, dunque può alzarsi e fare colazione più tardi; non deve camminare sorto scorta per raggiungere il cantiere e Per tornare, dunque è esposto a meno severità, meno freddo, meno dispendio di forze; inoltre la sua giornata lavorativa termina prima; lavora al caldo o può sempre raggiungere una stanza dove riscaldarsi... "Sarto" suona e significa, nel lager, press'a poco come "docente universitario" nel mondo libero.46

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In realtà, gli imboscati dell'apparato di rango più basso eseguiva, no lavori manuali: erano addetti al bagno, alla lavanderia, lavapiatti fuochisti e inservienti, oltre a quanti lavoravano in laboratori e officine e riparavano indumenti, scarpe, macchinari. A un livello superiore c'erano i veri e propri pridurok, che non svolgevano lavori faticosi: impiegati, medici, aiutomedici, infermiere, barbieri, cucinieri tagliapane, inservienti capo, addetti ad assegnare le mansioni, contabili. In alcuni campi c'erano persino detenuti che avevano il compito di assaggiare il cibo.47 Quelli che appartenevano a quest'ultimo gruppo, racconta Solzenicyn, "non soltanto mangiano e indossano indumenti puliti, non soltanto sono esentati dal sollevare pesi e dai dolori di schiena, ma hanno un grande potere su quello di cui gli uomini hanno bisogno e di conseguenza hanno un grande potere sugli uomini".48 Erano gli imboscati che potevano decidere quale lavoro dovessero fare i normali detenuti, quanto cibo spettava loro e se avrebbero ricevuto cure mediche o no, insomma se sarebbero morti o sopravvissuti.

Contrariamente ai prigionieri privilegiati dei campi nazisti, gli imboscati dei campi sovietici non dovevano appartenere a una specifica categoria razziale. In teoria, chiunque poteva innalzarsi al rango di pridurok, come chiunque poteva diventare un secondino, e tra i due gruppi infatti c'era grande mobilità. Sebbene in linea di principio i prigionieri comuni potessero diventare imboscati e, sempre in linea di principio, gli imboscati potessero essere degradati al rango di normali detenuti, la procedura era regolata da norme complesse.

Le regole differivano molto da campo a campo e da periodo a periodo, ma a quanto pare esistevano alcune convenzioni che rimasero immutate nel corso del tempo. La più importante era che un detenuto poteva diventare più facilmente un imboscato se veniva classificato come criminale "socialmente vicino" e non come un politico "socialmente pericoloso". Dato che la contorta gerarchla morale del sistema di campi sovietico considerava più facile rieducare i "socialmente vicini", cioè non soltanto i criminali di professione ma anche i comuni ladri, imbroglioni, assassini e stupratori, per trasformarli in buoni cittadini sovietici, erano loro ad avere maggiori possibilità di conseguire lo status di pridurok. In un certo senso, gli imboscati ideali erano i criminali, che non avevano paura di usare la violenza. "Ovunque e in qualsiasi epoca" osserva con amarezza un detenuto politico "tali elementi godevano di una fiducia quasi illimitata da parte degli amministratori della prigione e del campo, ed erano assegnati a svolge16 mansioni leggere, a lavorare in ufficio, nei depositi della prigione, nel-

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ie mense, nei bagni, nelle barberie eccetera."49 Come ho già detto, uesto accadeva soprattutto verso la fine degli anni Trenta e durante la guerra, gli anni in cui le bande criminali avevano il dominio assoluto nei campi sovietici. Ma anche in seguito (Fil'stinskij scriveva alla fi-ne degli anni Quaranta) era molto difficile distinguere la "cultura" degli imboscati da quella dei criminali di professione.

I pridurok criminali, però, rappresentavano anche un problema per le autorità dei campi. Non erano "nemici", ma non avevano alcuna cultura - spesso erano addirittura analfabeti - e non desideravano imparare a leggere e scrivere: persino quando nei campi venivano organizzati corsi di alfabetizzazione, in genere i criminali non si davano nemmeno la pena di frequentarli.50 I comandanti erano quindi costretti a far lavorare i politici, come racconta Lev Razgon: "II piano esercitava una pressione implacabile che non tollerava scuse. Sotto la sua influenza, persino i capi più zelanti che manifestavano profondo odio contro i controrivoluzionari erano costretti a far lavorare i prigionieri politici".51

In realtà dal 1939, quando Berija sostituì Ezov e si sforzò di rendere redditizio il Gulag, non ci furono mai regole chiare in un senso o nell'altro. Gli ordini di Berija dell'agosto 1939 proibivano in modo esplicito ai comandanti dei campi di servirsi dei prigionieri politici per compiti amministrativi di qualsiasi tipo, ma in realtà facevano delle eccezioni. Andavano utilizzate le competenze professionali dei medici qualificati, e in date circostanze lo stesso valeva per i detenuti condannati per i reati "più lievi" dell'articolo 58, quelli previsti nei commi 7,10,12 e 14, che riguardavano l'"agitazione antisovietica" (fare battute contro il regime, per esempio) e la "propaganda antisovietica". Invece, in teoria, quelli condannati per "terrorismo" o "tradimento della patria" dovevano svolgere soltanto lavori pesanti.52 Quando scoppiò la guerra, anche questo ordine venne ritirato. Stalin e Molotov diramarono una circolare speciale che consentiva al Dal'stroj, "in considerazione della situazione eccezionale", di "concludere accordi individuali, per un dato periodo, con ingegneri, tecnici e impiegati amministrativi mandati a lavorare nella Kolyma".53

Ciononostante, gli amministratori dei campi che collocavano troppi politici in posizioni di alto livello continuavano a rischiare una censura, e al riguardo ci fu sempre una certa ambiguità. Secondo Solzenicyn e Razgon, talvolta accadeva che ai prigionieri politici venissero assegnati lavori "buoni" all'interno del campo, cioè mansioni di ragionieri e di contabili, ma solo in forma temporanea. Una volta all'anno, quando era previsto l'arrivo delle squadre di ispezio-

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ne da Mosca, li licenziavano. Razgon elaborò una teoria riguardo a questa procedura:

Un buon comandante aspettava che la commissione arrivasse, che facesse il suo lavoro, mandava via tutti quelli che andavano mandati via. N0ri era una faccenda lunga, e quelli lasciati al loro posto lo conservavano per molto tempo, per un anno, fino al dicembre successivo o almeno per sei mesi. Un comandante meno capace, più stupido, mandava via le persone in anticipo, per poter dichiarare che tutto era in ordine. I comandanti peggiori quelli più inesperti, eseguivano scrupolosamente gli ordini dei superiori, è non permettevano ai detenuti condannati ai sensi dell'artìcolo 58 di svolgere compiti in cui servissero strumenti diversi dal piccone, la carriola, la sega e l'ascia. I comandanti di questo genere erano quelli più inefficienti, venivano licenziati in fretta.54

Nella pratica, le norme spesso erano semplicemente assurde. A Fil'stinskij, detenuto politico del Kargopol'lag, fu proibito in modo assoluto di frequentare un corso di tecnologia forestale per i prigionieri. Lo autorizzarono però a leggere i manuali del corso e, quando superò l'esame studiando per conto suo, gli permisero di lavorare come specialista forestale.55 Invece V.K. Jasnyj, anche lui detenuto politico, alla fine degli anni Quaranta lavorava come ingegnere a Vorkuta senza il minimo problema.56 Nel periodo postbellico, quando i gruppi nazionali più potenti diventarono influenti nei campi, quelli meglio organizzati, di solito baltici o ucraini, spesso soppiantavano i criminali e assumevano il predominio. Quelli che avevano i lavori migliori, i capisquadra e i supervisori, si occupavano dei compatrioti e assegnavano i lavori buoni ai detenuti politici della loro stessa nazionalità.

Tuttavia, i detenuti politici non ebbero mai un potere indiscusso sulla distribuzione dei lavori da imboscati. L'amministrazione del campo aveva l'ultima parola riguardo a chi doveva diventare un prì-durok, e la maggior parte dei comandanti preferiva assegnare i lavori più comodi a quanti erano disposti a collaborare in modo esplicito, in altre parole a fare gli informatori. Purtroppo è difficile stabilire di quanti informatori poteva disporre il sistema. Anche se gli archivi di Stato russi hanno reso accessibile ciò che rimane dell'archivio dell'amministrazione del Gulag, i documenti della "Terza divisione", il settore responsabile degli informatori, restano a tutt'oggi riservati. Lo storico russo Viktor Berdinskih, nel suo libro sul Vjatlag, cita alcune cifre senza nominarne la fonte: "Negli anni Venti i dirigenti della OGPU si posero come obiettivo di avere come informatori almeno il venticinque per cento dei detenuti nei campi. Negli anni Trenta e negli anni Quaranta la cifra fu abbassata al dieci per cento"'

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jv{a Berdinskih ammette che stabilire con precisione le cifre è "complicato" senza la possibilità di consultare l'archivio.57

E certo non sono molti i memorialisti che ammetterebbero a chiare lettere di aver fatto gli informatori, benché alcuni sostengano di essere stati contattati. Come logico, quando i prigionieri che avevano fatto gli informatori in prigione (o addirittura prima dell'arresto) arrivavano in un campo, nel loro fascicolo c'era una segnalazione riguardo alla loro disponibilità a collaborare. Altri, a quanto pare, venivano avvicinati subito dopo l'arrivo, quando erano ancora molto disorientati e spaventati. Al suo secondo giorno in un campo, Leonid Trus fu condotto dal comandante operativo, che nel gergo dei detenuti si chiamava kum, addetto a reclutare gli informatori, il quale gli chiese di collaborare. Egli rifiutò, senza nemmeno capire con precisione che cosa avrebbe dovuto fare. Secondo lui, fu per questo che all'inizio lo assegnarono a svolgere lavori pesanti, secondo i criteri del Gulag corrispondenti a una posizione umile. Berdinskih cita interviste e scambi di corrispondenza con ex detenuti:

Fin dal primo giorno nella zona, i nuovi arrivati venivano convocati dal kum. Anch'io fui chiamato. Cominciò a adularmi, lisciarmi, dirmi tante belle cose, giocando sul fatto che l'incidente automobilistico per cui ero stato condannato (dieci anni di lavori forzati più tre anni di restrizione dei diritti legali) non era una vergogna (non si trattava di furto, omicidio o qualcosa del genere) e mi propose di diventare un informatore, di diventare uno spione. Rifiutai con educazione e non firmai la proposta del kum.

Anche se il kum lo insulto, non lo mandarono nelle celle di punizione. Tornato alla baracca, si accorse che nessuno gli si avvicinava: gli altri detenuti sapevano che gli era stato chiesto di fare l'informatore, e vedendo che non lo avevano pestato o punito ritennero che avesse accettato.58

L'eccezione probabilmente più famosa alla reticenza quasi generale, rispetto all'ammissione di essere stati informatori, è anche questa volta Aleksandr Solzenicyn, che descrive diffusamente il suo flirt con le autorità del campo. Fa risalire il suo iniziale momento di debolezza ai primi giorni di detenzione, quando stava ancora cercando di adeguarsi al brusco cambiamento di posizione sociale. Quando il comandante operativo lo invitò a un colloquio, fu accolto in una "stanza piccola, confortevolmente ammobiliata", con una radio che trasmetteva musica classica. Dopo avergli chiesto con gentilezza se era comodo e se stava adeguandosi alla vita del campo, il comandante gli domandò: "È ancora un cittadino sovietico?". Dopo aver tossicchiato ed esitato, Solzenicyn rispose di sì.

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Tuttavia, anche se ammettere di essere "sovietico" equivaleva alla dichiarazione di essere disposto a collaborare, all'inizio Solzenicyn rifiutò di fare l'informatore. Allora il comandante cambiò tattica. Spense la musica e si mise a parlare dei criminali del campo, chiedendogli che effetto gli avrebbe fatto se a Mosca sua moglie fosse stata aggredita da qualcuno che era riuscito a scappare. Alla fine Solzenicyn promise che, se avesse sentito progettare un'evasione, avrebbe fatto rapporto. Firmò un impegno, dichiarando che avrebbe riferito alle autorità notizie su eventuali tentativi di fuga e scelse uno pseudonimo da cospiratore: Vetrov. "Quelle sei lettere sono impresse nella mia memoria come solchi vergognosi" dice.59

In realtà, a quanto afferma, Solzenicyn non diede mai informazioni su nulla. Quando cercarono di reclutarlo di nuovo nel 1956, rifiutò di firmare qualsiasi cosa. Ma la sua promessa iniziale gli bastò per ottenere lavori da imboscato, vivere nei quartieri speciali dei pridurok, avere indumenti e cibo un po' migliori degli altri prigionieri. Quell'esperienza, afferma, lo "riempì di vergogna" e senza dubbio provocò il suo disprezzo per tutti gli imboscati.

Quando uscì il libro di Solzenicyn, la descrizione dei pridurok suscitò molte polemiche, che continuano tuttora, e innescò un'accesa diatriba che prosegue ancora oggi tra gli storici interessati al Gulag e i sopravvissuti, proprio come la sua spiegazione delle abitudini lavorative dei prigionieri. In pratica, tutti gli autori classici di libri di memorie, i più letti, prima o poi sono stati degli imboscati: Evgenija Ginzburg, Lev Razgon, Varlam Salamov, Aleksandr Solzenicyn. Forse, come sostengono alcuni, tutti i detenuti sopravvissuti a lunghe condanne, nella maggior parte dei casi, a un certo punto lo furono. Una volta, un sopravvissuto mi ha raccontato di aver partecipato a una riunione di vecchi amici di prigionia. Il gruppo aveva cominciato a parlare di quei tempi e stava ridendo per vecchie storie dei campi, quando lui, guardandosi intorno, capì che cosa li teneva uniti, che cosa consentiva loro di scherzare sul passato anziché piangere: "Eravamo stati tutti pridurok".

Senz'ombra di dubbio, molti sopravvissero perché riuscirono a ottenere lavori da imboscati nei campi di prigionia, evitando così gli orrori dei lavori generali. Ma questo significava sempre che collabora-vano in modo attivo con il regime? Secondo Solzenicyn, sì. Persine gli imboscati che non erano informatori potevano essere considerati tali-"In fondo quale posto da pridurok non comportava la disponibilità a fare il gioco dei capi e partecipare al sistema complessivo della repressione?" chiede.

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Solzenicyn spiega, inoltre, che talvolta la collaborazione era indiretta, ma non per questo meno dannosa. Gli imboscati del lavoro, quelli che stabilivano le norme, i contabili, gli ingegneri, non torturavano la gente, ma comunque facevano parte di un sistema che costringeva i prigionieri a lavorare fino alla morte. Lo stesso valeva per gli imboscati dell'apparato, come i dattilografi, che scrivevano in fretta gli ordini per il comandante del campo. Di qualsiasi addetto al taglio del pane che riuscisse a rubarne una fetta per sé, si può dire che sottraeva a uno zek assegnato al lavoro forestale la sua razione completa. È questo che afferma Solzenicyn: "Chi inganna Ivan Deni-sovic sul peso del pane? Chi gli bagna lo zucchero con l'acqua per rubare sul peso? Chi non lascia che i grassi, la carne, la semola buona finiscano nel tegame comune?".60

Anche altri la pensavano così. Una ex zek ha scritto di essersi fatta assegnare ai lavori generali per nove anni perché non voleva lasciarsi risucchiare nella spirale di rapporti corrotti necessari per conservare un lavoro da imboscato.61 Dmitrij Panin (che, come ho detto, conobbe Solzenicyn nei campi ed è descritto nel suo romanzo II primo cerchio) confessa che le due settimane in cui gli era stato assegnato un lavoro leggero nella cucina del campo gli provocarono un forte disagio: "La consapevolezza che stavo rubando cibo agli altri prigionieri non è la cosa peggiore. Cercavo di trarre conforto dal pensiero che quando un uomo è stato ridotto nelle condizioni in cui mi trovavo allora non si lascia assillare dalle sciocchezze; ma questo non alleviava la sensazione di fare una cosa sbagliata, e quando mi cacciarono dalla cucina in fondo ne fui contento".62

Lev Razgon, uno scrittore che negli anni Novanta è diventato in Russia un'autorità del livello di Solzenicyn in materia di campi di lavoro, contesta accanitamente la sua interpretazione, come molti altri in passato e oggi. Quando si trovava nei campi, Razgon era addetto a fissare le norme, uno dei più ambiti lavori da imboscati. Afferma che per lui, come per molti altri, scegliere di diventare un pridurok significava soltanto scegliere di restare in vita. Soprattutto negli anni della guerra "era impossibile sopravvivere se abbattevi gli alberi". Ce la facevano solo i contadini: "Quelli che sapevano affilare e aggiustare gli strumenti, quelli assegnati a lavori agricoli di cui erano già esperti, e che riuscivano a integrare la dieta rubacchiando patate, radicchio e qualsiasi altro tipo di verdure".63

Secondo Razgon, non era immorale scegliere la vita, e chi lo face-va non poteva essere definito "non migliore di quelli che lo avevano arrestato". Inoltre, Razgon non concorda con Solzenicyn riguardo al

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fatto che gli imboscati si interessassero soltanto a se stessi. Quando avevano ottenuto un posto comodo, molti di loro aiutavano con re-golarità gli altri prigionieri:

Non erano indifferenti agli Ivan Denisoviì che andavano ad abbattere gij alberi, e non si sentivano lontani da loro. Ma non potevano aiutare chi era capace di fare soltanto lavori di fatica. E anche tra loro cercavano e trovavano persone con risorse inaspettate: quelli che sapevano costruire archi e botti venivano inviati agli avamposti dove si producevano sci, quelli che sapevano intrecciare i vimini cominciavano a costruire cesti, poltrone, sedie e divani per i capi.64

Proprio come c'erano secondini buoni e secondini cattivi, sostiene Razgon, c'erano pridurok buoni e pridurok cattivi, persone che aiutavano gli altri e persone che facevano loro del male. E, tutto sommato, non avevano maggiori sicurezze di quanti stavano più in basso nella gerarchla sociale. Anche se non li costringevano a lavorare fino alla morte, sapevano che poteva loro succedere in qualsiasi momento. In qualsiasi momento il comandante di un campo lontano poteva ordinarne il trasferimento altrove, a un altro lavoro, a un destino fatale.

"Sancast'": ospedali e medici

Una delle molte assurdità della vita nel Gulag, la più strana e forse anche una delle più pratiche, è rappresentata dalla figura del medico del campo. Ce n'era uno in ogni lagpunkt, per quanto piccolo, e in mancanza di medici laureati c'era un'infermiera o unfel'dser, cioè un aiutomedico, qualificato o meno. I sanitari avevano un potere equivalente a quello degli angeli custodi: potevano offrire un riparo dal freddo ai detenuti, sistemandoli in ospedali da campo puliti dove li nutrivano e li accudivano fino a riportarli in vita. Tutti gli altri, i secondini, il comandante, i capisquadra, dicevano di continuo agli zek di lavorare di più. L'unico a non doverlo fare era il medico. "È il solo a non mandare il detenuto, tutti i giorni e per molte ore al giorno, nella tenebra lattiginosa dell'inverno, in un pozzo di pietra ghiacciato" scrive Varlam Salamov.65

Alcuni detenuti dovettero la propria salvezza, letteralmente, a qualche parola di un medico o di un infermiere. A Lev Kopelev, che ardeva per la febbre, era ridotto a uno scheletro e torturato dalla fame, una dottoressa diagnosticò la pellagra, un'infezione intestinale e una brutta infreddatura. "Ti mando in ospedale" dichiarò. Il viaggi0 dal lagpunkt all'ospedale centrale del campo, la sancast', non fu certo

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comodo. Kopelev fu costretto a cedere i propri averi, in base al principio che tutto quanto si trova in un campo deve restarvi; attraversò a piedi "profondi acquitrini ghiacciati" e fu caricato su un carro bestiame con altri prigionieri malati e morenti. Il viaggio fu infernale. Ma quando si svegliò nel nuovo ambiente, scoprì che la sua vita era cambiata:

Mi trovavo in un meraviglioso dormiveglia, in una stanza d'ospedale pulita, luminosa, su una branda coperta con un lenzuolo pulito in modo incredibile ... Il dottore era un ometto basso, con la faccia tonda, baffi grigi e occhiali spessi, con un'aria gentile e premurosa. Mi chiese: "A Mosca conosceva un'esperta di critica letteraria che si chiama Motilova?".

"Tamara Lazar'evna Motilova? Ma certo!"

"È mia nipote."

Zio Borja, così lo chiamavano, guardò il termometro: "Ooh! Fallo lavare" disse al suo assistente. "Fai bollire i suoi abiti e mettilo a letto."

Al risveglio, Kopelev scoprì che gli avevano portato sei pezzi di pane. "Tre di pane nero e - miracolo! - tre di pane bianco! Li mangiai con avidità, con gli occhi pieni di lacrime." Meglio ancora, gli furono assegnate le razioni antipellagra: patate e carote, oltre a lievito e senape da spalmare sul pane. Per la prima volta gli permisero di ricevere pacchi e denaro da casa, quindi potè comprarsi patate lesse, latte e mahorka, il tabacco più economico. Era stato condannato a diventare un morto vivente, ora invece si rese conto che era destinato a salvarsi.66

Era un'esperienza comune. "Un paradiso": così Evgenija Ginz-burg chiamava l'ospedale dove lavorava nella Kolyma.67 "Ci sentivamo dei re" afferma Thomas Sgovio riguardo alle "baracche di recupero" del lagpunkt di Srednikan, dove la mattina gli davano "una tortina fresca, dolce".68 Altri ricordano di essersi sentiti intimiditi dalle lenzuola pulite, dalla gentilezza delle infermiere, dagli sforzi inauditi compiuti dai medici per salvare i pazienti. Un prigioniero racconta la storia di un dottore che rischiò il suo posto di lavoro, abbandonando illegalmente il campo per procurarsi dei farmaci necessari.69 Tat'jana Okunevskaja scrive che il suo medico "riportava in vita i morti".70 Vadim Aleksandrovic, lui stesso medico di un campo, ricorda: "Nei campi il dottore e il suo assistente sono semidei, se non dèi. Dipende da loro la possibilità di essere esentati per qualche giorno da un lavoro micidiale, persino la possibilità di essere mandati a un sanatorio".71

Jànos Rózsas, un diciottenne ungherese che dopo la guerra si trovava nello stesso campo di Aleksandr Solzenicyn, ha scritto un libro

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intitolato Sorella Dus'ja, in onore dell'infermiera del campo che - a suo parere - gli aveva salvato la vita. Oltre a stare seduta accanto a lui parlandogli, per convincerlo che non sarebbe potuto morire mentre lei lo curava, sorella Dus'ja barattò persino la propria razione di pane per procurare del latte a Rózsas, che riusciva a digerire pochissimi cibi. Lui continuò a serbarle gratitudine per tutta la vita: "Rje. vocavo nella mente due visi amati, quello lontano della mia madre naturale e quello di sorella Dus'ja. Avevano una strana somiglianzà ... mi dissi che se con il tempo avessi dimenticato la faccia di mia madre, mi sarebbe bastato pensare a quella di sorella Dus'ja e, per suo tramite, avrei sempre rivisto mia madre".72

La gratitudine di Rózsas per sorella Dus'ja, alla fine, si trasformò in amore per la lingua e la cultura russe. Quando l'ho conosciuto a Budapest, cinquanta anni dopo la sua liberazione, parlava ancora un russo fluente, elegante, manteneva contatti con amici russi e mi ha detto con orgoglio dove trovare cenni alla sua storia in Arcipelago Gulag e nel libro di memorie della moglie di Solzenicyn.73

Come molti hanno notato, esiste anche un altro paradosso nella questione sanitaria. Quando un prigioniero affetto da una lieve forma di scorbuto stava in una squadra di lavoro, nessuno si preoccupava se perdeva i denti o aveva le gambe piene di foruncoli. Le sue lamentele suscitavano solo l'ironico disprezzo, se non qualcosa di peggio, delle guardie. Se diventava un dohodjaga morente su un pagliericcio, era oggetto di scherno. Ma quando finalmente la febbre raggiungeva il livello richiesto o la sua malattia il livello critico, insomma quando aveva i "requisiti" del malato, il moribondo riceveva subito le "razioni da scorbuto" o "da pellagra" e tutte le cure mediche possibili per il Gulag.

Tale paradosso era parte integrante del sistema. Da quando esistevano i campi, i prigionieri malati venivano trattati in modo diverso. Dal gennaio 1931 si organizzavano squadre di invalidi, composte da prigionieri che non potevano più fare lavori pesanti.74 In seguito furono allestite baracche e persino lagpunkt per invalidi, dove si curavano i prigionieri deboli per riportarli in vita. Nel 1933 il Dmitlag organizzò dei "lagpunkt di recupero" destinati a ospitare 3600 prigionieri.75 Nei documenti ufficiali sono elencate con cura le razioni maggiorate per i prigionieri in terapia: qualche derivato della carne, vero té (non il surrogato distribuito ai normali prigionieri), cipolle contro lo scorbuto e, per quanto sembri inspiegabile, pepe e foglie di alloro. Anche se in pratica gli alimenti supplementari erano soltanto "un po' di patate o piselli secchi (non molto cotti per conservare il

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|0ro contenuto vitaminico) o crauti", rispetto alle razioni normali si Cattava di un vero e proprio lusso.76

Gustaw Herling trova così stravagante il contrasto tra le condizioni di vita micidiali e gli sforzi compiuti dai medici per riportare in vita prigionieri la cui salute era stata distrutta in modo sistematico, da concludere che in Unione Sovietica deve esistere il "culto dell'ospedale".

V'era qualcosa di incomprensibile nel fatto che, al momento di lasciare l'ospedale, un prigioniero diventava di nuovo un prigioniero, ma per tutto il tempo in cui giaceva in un letto pulito, gli venivano concessi tutti i diritti di un essere umano, sempre a eccezione della libertà. A un uomo non abituato ai violenti contrasti della vita sovietica, gli ospedali dei campi sembravano chiese offrenti rifugio da una potentissima Inquisizione.77

Anche George Bien, un prigioniero ungherese inviato a un ospedale ben fornito di Magadan, lo trovò difficile da capire: "Mi chiesi perché stavano cercando di salvarmi, visto che in apparenza volevano vedermi morire tra i tormenti, ma la logica era scomparsa molto tempo prima".78

Di certo i dirigenti del Gulag a Mosca prendevano molto sul serio il problema dell'alto numero di prigionieri invalidi "inabili al lavoro". Anche se ovviamente non si trattava di un fatto nuovo, il problema divenne scottante dopo il 1939, quando Stalin e Berija decisero di abbandonare la linea del "rilascio anticipato condizionato" per gli invalidi: d'un tratto i malati non potevano più essere cassati con facilità dalle liste dei lavoratori. Già questo bastò per costringere i comandanti a interessarsi al problema degli ospedali. Un ispettore fece un conto preciso del tempo e del denaro spesi per le malattie: "Tra l'ottobre 1940 e la prima metà del marzo 1941 ci sono stati 3472 casi di congelamento, a cagione dei quali si sono perdute 42.334 giornate lavorative. 2400 prigionieri sono diventati troppo deboli per lavorare". Un altro ispettore riferì che, nello stesso anno, su 2398 prigionieri rinchiusi nei campi di lavoro della Crimea 860 avevano una capacità lavorativa limitata e 273 non potevano lavorare affatto. Alcuni erano all'ospedale, altri per mancanza di letti venivano tenuti nelle celle del carcere, e questo creava conseguenze per l'intero sistema.79

Eppure, come per gli altri aspetti della vita del Gulag, non risultava chiaro perché si dovessero curare i malati. In alcuni campi, a quanto pare, i lagpunkt speciali per gli invalidi furono allestiti soprattutto per evitare che i disabili facessero calare la produttività complessiva. È quanto accadde nel Siblag, dove nel 1940-41, su 63.000 de-

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tenuti, 9000 erano invalidi e 15.000 "seminvalidi": oltre un terzo ctel totale. Quando i prigionieri deboli venivano trasferiti dai principa^ siti di lavoro e sostituiti da nuovi lavoratori "freschi", le cifre relative alla produzione del campo si impennavano come per magia.80

Le forti pressioni riguardo alla realizzazione del piano costringevano molti comandanti ad affrontare un dilemma. Da un lato desideravano davvero curare i malati perché potessero tornare al lavoro dall'altro non volevano incoraggiare i "pigri". In pratica, ciò si traduceva spesso in un'imposizione di limiti, talvolta molto precisi, al numero dei prigionieri cui era consentito ammalarsi in un dato momento ed essere mandati ai lagpunkt di recupero.81 In altre parole, qualsiasi fosse il numero di prigionieri ammalati, ai medici era consentito concedere giornate di riposo soltanto a una piccola percentuale. Aleksandrovic, medico di un campo, ricorda che nel suo lagpunkt ogni sera, nelle ore di ricevimento, "si presentava circa il dieci per cento" delle persone, cioè trenta o quaranta. Ma era inteso che se ne poteva esentare dal lavoro non più del 3-5 per cento: "Se si eccedeva questa cifra, sarebbe stata aperta un'indagine".82

Se i malati erano di più, dovevano aspettare. In questo senso è esemplare la storia di un prigioniero dell'Ust'vymlag, il quale affermò più volte di essere malato e di non poter lavorare. Secondo il rapporto ufficiale stilato in seguito, "gli operatori sanitari non hanno prestato attenzione alle sue proteste ed è stato mandato a lavorare. Non essendo in condizione di farlo si è rifiutato, perciò è stato chiuso in una cella di punizione. Ve lo hanno tenuto per quattro giorni e poi, in pessime condizioni, lo hanno portato in ospedale dove è morto". In un altro campo, un paziente malato di tubercolosi fu mandato a lavorare e, secondo il rapporto dell'ispettore, "era in condizioni tali da non riuscire a tornare al campo senza assistenza".83

A causa della bassa percentuale di persone "autorizzate" a essere malate, i medici vivevano in un continuo e terribile stato di tensione. Se morivano troppi prigionieri malati cui fosse stato rifiutato il ricovero all'ospedale, potevano essere censurati o addirittura condannati.84 Talvolta venivano minacciati dai membri più violenti e aggressivi dell'elite criminale, che volevano essere esentati dal lavoro. Se il medico voleva dare giornate di riposo a prigionieri davvero malati, doveva resistere alle loro pressioni. Salamov racconta la sorte toccata a un certo dottar Surovoj, mandato a lavorare in un lagpunkt del giacimento Spokojnyj, nella Kolyma, la cui popolazione era costituita in gran parte da criminali:

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Avevano inviato ... un giovane medico ... e soprattutto, bisogna sottolinearlo, era un detenuto di fresca data. I suoi amici avevano cercato di dissuaderlo, ci si poteva rifiutare e finire ai lavori generali, pur di non accettare un lavoro così pericoloso. Ma Surovoj era arrivato all'ospedale proprio dopo aver assaggiato i lavori generali, aveva paura di ritornarci, e quindi accettò di partire per il giacimento e di esercitarvi la propria professione. La direzione gli impartì delle disposizioni, ma non qualche buon consiglio su come comportarsi. Gli venne categoricamente proibito di far ricoverare in ospedale dei ladri in buona salute, anche se lo chiedevano. Di lì a un mese venne assassinato proprio mentre visitava: sul suo corpo vennero contate cinquantadue ferite da coltello.85

Quando Karol Colonna-Czosnowski venne mandato a lavorare comefel'dser in un lagpunkt di criminali, lo avvertirono che il suo predecessore era stato "ucciso a colpi d'ascia" dai pazienti. Durante la prima notte nel campo, un uomo con un'ascia lo affrontò, chiedendogli di esentarlo dal lavoro l'indomani. A quanto sostiene, Karol riuscì a coglierlo di sorpresa e lo buttò fuori dalla guardiola. Il giorno dopo strinse un patto con Gri§a, il boss criminale del campo: oltre a quelli davvero malati, Grisa ogni giorno gli avrebbe dato i nomi di due persone perché fossero esentate dal lavoro.86

Anche Alexander Dolgun descrive un'esperienza simile. Nei suoi primi giorni comefel'dser gli si presentò davanti un criminale sostenendo di avere mal di pancia e chiedendo dell'oppio. "Mi disse di avvicinarmi. "Guarda!" sussurrò con aria feroce tirandosi indietro la camicia. Teneva la mano destra sotto la camicia, con un coltello micidiale, affilato, simile a una scimitarra in miniatura. "Voglio l'oppio" disse. "Qui mi hanno sempre trattato benissimo, tu sei nuovo. Devi sapere che se non mi dai l'oppio io ti darò il coltello."" Dolgun riuscì a liberarsene consegnandogli una soluzione innocua, ma facendola passare per oppio. Altri non avevano la stessa prontezza di spirito, e potevano restare in balìa dei criminali per sempre.87

Anche quando un prigioniero riusciva finalmente a farsi ricoverare, spesso scopriva che la qualità delle cure variava molto da luogo a luogo. I campi più grandi avevano ospedali adeguati, con personale e medicine. L'ospedale centrale del Dal'stroj, a Magadan, era famoso per le attrezzature moderne e il personale, costituito dai migliori medici prigionieri, spesso specialisti di Mosca. Anche se per la maggior parte i pazienti erano ufficiali dell'NKVD o impiegati dell'amministrazione, alcuni detenuti fortunati venivano curati da specialisti, lì e altrove: mentre scontava una condanna, Lev Finkel'stejn fu autorizzato persino ad andare da un dentista.88 Anche alcuni lagpunkt Per invalidi erano ben equipaggiati e, a quanto pare, si ponevano

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davvero l'obiettivo di curare i prigionieri per rimetterli in salute Tat'jana Okunevskaja vi venne mandata, e si stupì degli spazi aperti degli ampi padiglioni, degli alberi: "Erano tanti anni che non ne vedevo! Ed era primavera!".89

Negli ospedali dei lagpunkt più piccoli la situazione era assai meno rosea. Di solito per i medici era impossibile ottenere un minimo di sterilità e di pulizia.90 Gli ospedali, spesso, non erano altro che baracche comuni in cui i malati venivano collocati su normali brande, talvolta due per letto, e i medicinali disponibili erano pochissimi. Un ispettore, nel suo rapporto su un piccolo campo, sosteneva che all'ospedale mancavano edifici adeguati, lenzuola e biancheria per i pazienti, medicinali e personale medico qualificato. Quindi i tassi di mortalità erano altissimi.91

I testimoni concordano. Nel piccolo ospedale di un lagpunkt del Se-vurallag "le cure e la documentazione erano scarse". Lo afferma Isaac Vogel'fanger, un tempo chirurgo capo del campo. E c'era di peggio:

Le razioni alimentari erano oltremodo inadeguate, e disponevamo di pochissimi medicinali. I casi chirurgici come fratture e ferite importanti ai tessuti molli venivano curati male, trascurati. I pazienti, come scoprii in seguito, raramente erano in condizione di tornare al lavoro quando li dimettevano. Dato che molti pazienti, quando venivano ricoverati, presentavano gravi sintomi di malnutrizione, spesso morivano in ospedale.92

Un detenuto polacco, Jerzy Gliksman, ricorda un lagpunkt in cui i prigionieri, in realtà, erano "ammassati" per terra: "Tutti i passaggi erano ingombri di corpi ammassati. Ovunque c'erano sudiciume e miseria. Molti pazienti deliravano e lanciavano grida incoerenti, altri giacevano pallidi e immobili".93

Ancora peggiori erano le baracche, o meglio i mortuari, per pazienti terminali. In una di esse, allestita per prigionieri con la dissenteria, "i malati giacevano a letto per settimane. Se erano fortunati, si riprendevano. Più spesso morivano. Non c'erano cure né medicinali ... i pazienti di solito cercavano di nascondere un morto per tre o quattro giorni, in modo da impossessarsi delle sue razioni".94

A peggiorare la situazione c'era la burocrazia del Gulag. Nel 1940 un ispettore denunciò il fatto che un campo non aveva letti d'ospedale per i detenuti malati. E poiché se un prigioniero non era collocato in un letto all'interno di un ospedale non era autorizzato a prendere razioni maggiorate, i malati ricevevano soltanto la razione ridotta degli "scansafatiche".95

Sebbene si possa affermare che molti medici dei campi salvarono la vita a numerose persone, non tutti erano inclini a rendersi utili-

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Alcuni, dalla loro prospettiva privilegiata, simpatizzavano più con i dirigenti che con i "nemici" in cura. Elinor Lipper racconta di una dottoressa responsabile di un ospedale per cinquecento pazienti: "Si comportava come una pomescica, una gran dama, una possidente terriera dell'epoca zarista, e trattava il personale dell'ospedale come sua servitù personale. Una volta afferrò un inserviente negligente con la mano carnosa, e gli tirò i capelli fino a farlo gridare".96 In un altro campo, la moglie del comandante - che era dottoressa e lavorava nella sezione sanitaria - fu censurata dall'ispettorato del campo perché "autorizzava troppo tardi i malati gravi a entrare in ospedale, non esentava dal lavoro chi ne aveva bisogno, era sgarbata e cacciava i detenuti indisposti dall'ambulatorio".97

In alcuni casi i dottori trattavano male a bella posta i loro pazienti. All'inizio degli anni Cinquanta Leonid Trus lavorava in un campo minerario e si ferì a una gamba. Il dottore gliela fasciò, ma ci voleva ben altro. Trus aveva già perso molto sangue e cominciava ad avere i brividi. Dato che il campo non aveva le attrezzature per le trasfusioni, le autorità lo caricarono su un furgone e lo mandarono all'ospedale locale. Era semicosciente, ma sentì un medico dire a un'infermiera di fargli una trasfusione. L'amico che lo accompagnava declinò le sue generalità: nome, età, sesso, luogo di lavoro; il medico interruppe la trasfusione di sangue. Per un detenuto non erano previsti trattamenti di quel tipo. Trus ricorda che gli diedero da bere del glucosio, perché il suo amico pagò una bustarella, e un po' di morfina. Il giorno dopo gli amputarono la gamba:

II chirurgo era talmente convinto che non sarei sopravvissuto che non fece nemmeno l'operazione di persona ma la affidò a sua moglie, una terapista che cercava di riqualificarsi come chirurgo. In seguito mi dissero che aveva fatto tutto bene, che sapeva il fatto suo, ma aveva omesso qualche dettaglio. Non perché se ne fosse dimenticata, ma perché riteneva che non sarei sopravvissuto, quindi non era importante fare tutto nei minimi particolari. E invece, guarda, sono ancora vivo!98

Del resto, i medici, gentili o indifferenti, non sempre erano qualificati. Il titolo veniva attribuito sia ai grossi luminari di Mosca che scontavano condanne al carcere, sia a ciarlatani che non sapevano nulla di medicina ma erano disponibili a fingere di essere esperti pur di ottenere un lavoro privilegiato. Già nel 1932 la OGPU lamentava la carenza di personale sanitario.99 Di conseguenza, i detenuti con una laurea in medicina costituivano l'eccezione alla regola riguardo ai lavori da imboscati: qualsiasi atto terroristico controrivoluzionario avessero commesso, erano quasi sempre autorizzati a praticare la professione.100

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Per sopperire alla cronica carenza di personale medico e paramedi-co, i detenuti venivano addestrati per diventare infermieri efel'dser spesso in modo rudimentale. Evgenija Ginzburg si diplomò come infermiera dopo aver trascorso "qualche giorno" nell'ospedale del campo, imparando l'arte di "applicare coppette e fare iniezioni".ioi Alexander Dolgun, al quale in un campo erano stari insegnati i rudimenti del lavoro difel'dser, quando fu trasferito in un altro dovette sostenere un esame; un ufficiale, che non si fidava delle sue qualifiche gli chiese di fare un'autopsia: "Io ressi la parte meglio che potevo e mi comportai come se facessi sempre quel genere di cose".102 Anche Ja-nusz Bardach mentì per ottenere un lavoro comefel'dser: dichiarò di essere uno studente di medicina del terzo anno, quando in realtà non era nemmeno iscritto all'università.103

I risultati erano prevedibili. Quando arrivò alla sua prima destinazione come medico nel Sevurallag, Isaac Vogel'fanger, chirurgo qualificato, scoprì con sorpresa che per curare i foruncoli da scorbuto, manifestazione dovuta alla malnutrizione e non a qualche infezione, iìfel'dser usava lo iodio. In seguito vide morire molti pazienti perché un medico non qualificato insisteva per iniettare loro una soluzione di zucchero comune.104

Nulla di tutto questo avrebbe sorpreso i dirigenti del Gulag, uno dei quali, in una lettera al suo superiore di Mosca, lamentava la penuria di medici: "In molti lagpunkt a prestare le cure mediche sono infermiere autodidatte, detenute senza alcun tipo di specializzazione". Un altro, parlando della struttura ospedaliera di un campo, disse che sfidava "tutti i princìpi del servizio sanitario sovietico".1051 capi sapevano del malfunzionamento, i prigionieri sapevano del malfunzionamento, eppure i servizi medici del campo continuavano ugualmente a operare.

Nonostante tutte le carenze, persino quando i medici erano venali e gli ospedali mal equipaggiati, quando i medicinali scarseggiavano, la vita in ospedale o in ambulatorio era così attraente che i prigionieri, per arrivarci, erano disposti non solo a ferire e minacciare i medici, ma anche a farsi del male. Come soldati che tentano di evitare la battaglia, anche gli zek si impegnavano nel samorub' (automutilazione) e nella mastyrka (simulazione di una malattia), nel disperato tentativo di salvarsi la vita. Alcuni ritenevano che alla fine li avrebbero amnistiati come invalidi. Anzi, ci credevano così tanti che il Gulag emano almeno una volta una dichiarazione per negare che gli invalidi sarebbero stati rilasciati (anche se di tanto in tanto accadeva).106 Per la maggior parte, comunque, si accontentavano di evitare il lavoro.

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Le pene previste per l'automutilazione erano estremamente severe: altri anni da scontare nei campi. Forse perché un lavoratore disagile rappresentava un fardello per lo Stato e un peso per il piano di produzione. "L'automutilazione era punita con severità, come il sabotaggio" scrive Anatolij Éigulin.107 Un prigioniero racconta la storia di un criminale che si tagliò quattro dita della mano sinistra. Invece di essere mandato in un campo per invalidi, lo lasciarono seduto nella neve a guardare gli altri che lavoravano. Gli proibirono di muoversi e lo minacciarono di fucilarlo se tentava di scappare: "Ben presto fu lui stesso a chiedere un badile: maneggiandolo come una stampella con la mano sana, frugava nella terra gelata piangendo e imprecando".108

Tuttavia, molti detenuti ritenevano che i potenziali benefici valessero il rischio. Alcuni metodi erano brutali. Soprattutto i criminali erano famosi perché si amputavano le tre dita intermedie con un'ascia in modo da non poter più tagliare gli alberi o spingere una carriola in miniera. Altri si tagliavano un piede o una mano, oppure si buttavano acido negli occhi. Altri ancora, prima di andare a lavorare, si avvolgevano uno straccio bagnato intorno a un piede e la sera tornavano con un congelamento di terzo grado. Lo stesso metodo si poteva applicare per le dita. Negli anni Sessanta Anatolij Marcenko vide un uomo inchiodarsi i testicoli al pancone di una prigione.109 E non fu il primo: Valerij Frid descrive un uomo che si era inchiodato lo scroto al ceppo di un albero.110

Venivano utilizzati, però, anche metodi più raffinati. I criminali più temerari rubavano una siringa e si iniettavano nel pene sapone misto ad acqua: ne risultava una eiaculazione che faceva presupporre una malattia venerea. Un prigioniero trovò il sistema per simulare la silicosi, una malattia polmonare. Innanzitutto ottenne una piccola quantità di polvere d'argento da un anello che era riuscito a conservare tra i suoi averi. Poi la mischiò con del tabacco e la fumò. Pur non sentendo niente, si trascinò fino all'ospedale tossendo nel modo in cui aveva visto tossire le vittime della silicosi. Quando gli fecero i raggi X, nei suoi polmoni comparve un'ombra terribile, sufficiente per esentarlo dal lavoro duro e mandarlo in un campo per malati incurabili.111

I prigionieri tentavano anche di procurarsi infezioni o malattie di lungo decorso. Vadim Aleksandrovic curò un paziente che si era infettato con un ago per cucire sporco.112 Gustaw Herling vide un prigioniero infilare un braccio nel fuoco, quando pensava che nessuno stesse guardandolo; lo faceva una volta al giorno, era il sistema mi-

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gliore per mantenere aperta una ferita misteriosamente recidivarla Zigulin riuscì ad ammalarsi bevendo acqua ghiacciata e poi respirando aria fredda. Si provocò una febbre abbastanza alta da farsi esentare dal lavoro: "Oh, dieci beati giorni all'ospedale!".114

I detenuti fingevano anche di essere pazzi. Bardach, quando faceva ilfel'dser, per un certo periodo lavorò nel reparto psichiatrico dell'ospedale centrale di Magadan. Lì il metodo fondamentale per smascherare quelli che simulavano la schizofrenia era di metterli in un padiglione con schizofrenici autentici: "Dopo poche ore, molti prigionieri, anche i più risoluti, bussavano alla porta chiedendo di uscire". Se questo metodo falliva, si faceva ai detenuti un'iniezione di canfora che provocava una crisi. Quelli che sopravvivevano, accettavano di rado che l'operazione fosse ripetuta.115

Secondo Elinor Lipper, esisteva una procedura standard anche per i prigionieri che tentavano di simulare una paralisi. Il paziente veniva collocato su un tavolo operatorio e gli somministravano un leggero anestetico. Al suo risveglio, i medici lo rimettevano in piedi. Inevitabilmente, quando lo chiamavano per nome, faceva alcuni passi prima di ricordarsi di crollare per terra.116 Dmitrij Bystroletov assistette anche al caso di una donna "curata" per sordità dalla propria madre. L'amministrazione, sospettando della donna che aveva dichiarato di essere dura di udito, invitò la madre ad andare a farle visita, ma non le permise di entrare nelle baracche. La lasciarono davanti ai cancelli, e lei si mise a chiamare la figlia per nome. Naturalmente, quella rispose.117

C'erano comunque dei medici che aiutavano i pazienti a trovare dei sistemi per automutilarsi. Alexander Dolgun, pur essendo molto debole e affetto da una diarrea incontrollabile, non aveva abbastanza febbre per essere esentato dal lavoro. Quando però disse al medico del campo, un lettone colto, di essere americano, quello si illuminò: "Morivo dalla voglia di trovare qualcuno per parlare inglese" disse, e spiegò a Dolgun come tagliarsi e far infettare la ferita. Ne derivò un enorme bubbone purpureo sul suo braccio, sufficiente a convincere le guardie dell'MVD che ispezionavano l'ospedale della gravita della sua malattia.118

Anche in questo caso l'etica comune era stravolta. Nel mondo libero, se un medico avesse fatto ammalare apposta i suoi pazienti, non sarebbe stato considerato mai un uomo perbene. Nei campi/ invece, era venerato come un santo.

"Virtù quotidiane"

Non tutte le strategie di sopravvivenza applicate nei campi derivavano per forza dal sistema. E nemmeno comportavano la collaborazione, la crudeltà o l'automutilazione. Se alcuni prigionieri, anzi forse la stragrande maggioranza, riuscivano a sopravvivere sfruttando a proprio vantaggio le regole del campo, altri si basavano su quella che Tzvetan Todorov, nel suo saggio sull'etica dei campi di concentramento, definisce le "virtù quotidiane": la dignità, l'altruismo e l'attività dello spirito.119

L'altruismo assumeva molte forme. Come abbiamo visto, c'erano prigionieri che si costruivano una propria rete di sopravvivenza. Membri di gruppi etnici che dominavano alcuni campi alla fine degli anni Quaranta - ucraini, baltici, polacchi - creavano sistemi articolati di mutua assistenza. Altri, durante gli anni che trascorrevano nel Gulag, si costruivano delle reti di conoscenze autonome. Altri ancora si facevano un paio di amici molto intimi. Una delle amicizie forse più note dei campi fu quella tra Arjadna Efron, figlia della poetessa Marina Cvetaeva, e Ada Federol'f. Fecero sforzi enormi per restare insieme, sia nei campi sia al confino, e in seguito pubblicarono insieme un unico volume di memorie. A un certo punto, a metà della storia, la Federol'f racconta di come si reincontrarono dopo una lunga separazione dovuta al fatto che la Efron aveva viaggiato con un diverso convoglio:

Era già estate. I primi giorni dopo l'arrivo furono terribili. Ci portavano a fare ginnastica una volta al giorno: il caldo era intollerabile. Poi, a un tratto, arriva un nuovo convoglio da Rjazan' ed ecco Al'ja. Mi mancò il fiato per la gioia, la spinsi sulle cuccette superiori, vicino all'aria fresca ... eccola, la felicità dei prigionieri, la semplice felicità di incontrare una persona.120

Altri concordavano: "È molto importante avere un amico, un volto fidato, che non ti abbandona se sei nei guai" ha scritto Zoja Mar-cenko.121 Era impossibile sopravvivere da soli. Le persone si organizzavano in gruppi di due o tre, scrive un altro detenuto.122 Dmitrij Panin attribuisce la propria capacità di reggere gli attacchi dei criminali anche a un patto di difesa reciproca fatto con altri prigionieri.123 Naturalmente c'erano dei limiti. Parlando del suo migliore amico di Prigionia, Janusz Bardach afferma: "Fortunatamente, nessuno dei due chiese niente all'altro né l'offrì. Sapevamo entrambi che, se volevamo rimanere amici, questa cosa sacrale che era il cibo non doveva essere violata".124

Se il rispetto per il prossimo aiutava alcuni a mantenere la propria

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umanità, altri trovavano conforto nel rispetto per se stessi. Molti, soprattutto le donne, sostengono che per conservare la propria dignità era necessario mantenersi pulite, o quantomeno il più pulite possibile. Ol'ga Adamova-Sliozberg racconta di come una compagna di prigionia tutte le mattine "lavava accuratamente il bavero della camicetta, l'asciugava e lo riattaccava".125 I prigionieri giapponesi di Magadan allestirono un "bagno" giapponese, una grande botte attrezzata con panchine accanto alla baia.126 Nei sedici mesi trascorsi nel carcere Kresty, a Leningrado, Boris Cetverikov - come ho già accennato - non fece altro che lavare e rilavare i propri abiti e le pareti e i pavimenti della cella, oltre a cantare tutte le arie d'opera che conosceva a memoria.127 Altri facevano ginnastica e si lavavano. Sempre Bardach dice:

Nonostante la stanchezza e il freddo, mantenni l'abitudine che avevo seguito sia a casa che nell'Armata rossa, di lavarmi la faccia e le mani alla pompa a mano. Volevo conservare quanto più possibile l'orgoglio di me stesso, cercando di non seguire le orme di molti prigionieri che giorno dopo giorno buttavano la spugna. Smettevano prima di tutto di badare all'igiene personale e all'aspetto, poi cominciavano a non accorgersi più degli altri, e infine buttavano via la loro vita. Se non potevo controllare rdent'altro, dovevo almeno continuare a seguire questo rituale che ritenevo adatto a tenermi lontano dalla degradazione e dalla morte certa.128

Altri ancora praticavano discipline intellettuali. Moltissimi prigionieri scrivevano poesie o le imparavano a memoria, ripetendo da soli per innumerevoli volte i propri versi e quelli di altri, e poi recitandoli agli amici. A Mosca, negli anni Sessanta, la Ginzburg conobbe uno scrittore il quale non riusciva a credere che in quella situazione i prigionieri fossero riusciti davvero a trarre sollievo spirituale recitando poesie. "Sì, sì" disse lui. "Sapeva che non ero la prima a raccontarlo, ma continuava a pensare che l'idea ci fosse venuta in seguito." La Ginzburg sostiene che l'uomo non capiva la sua generazione, uomini e donne ancora appartenenti a un'"epoca di illusioni fastose": "Ci slanciavamo nel comunismo dall'alto della poesia".129

Nina Gagen-Torn, un'emografa, scriveva poesie e spesso cantava mentalmente i propri versi:

Nei lager compresi, nel concreto, perché le culture senza scrittura avevano sempre tramandato i testi in forma di canzoni: altrimenti non riesci a ricordarli, non puoi essere sicuro che le parole siano precise. Tra noi i librl comparivano per caso, ci venivano dati e portati via. Scrivere era proibito e non si potevano tenere gruppi di studio: le autorità temevano che avrebbero portato alla controrivoluzione. Quindi ciascuno preparava da solo, megli0 che poteva, il cibo per il proprio cervello.130

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Salamov ha scritto che tra "finzioni, e male, e degrado" fu la poesia a impedirgli di indurirsi del tutto. Ecco una sua composizione intitolata A un poeta:

Mangiavo ringhiando, come le bestie feroci. Un semplice foglio di carta da lettere sembrava un miracolo caduto da un ciclo nella buia foresta.

Bevevo lappando l'acqua come le belve, i lunghi baffi inzuppati, e misuravo la vita non in mesi o anni, ma in ore.

E tutte le sere,

stupito di essere ancora vivo,

ripetevo dei versi

come se sentissi la tua voce.

Li sussurravo come preghiere, li onoravo come acqua di vita, come un'icona salvata in battaglia, come una stella guida.

Erano l'unico legame con un'altra vita. Laggiù, dove il mondo ci strangolava con il lereiume quotidiano e la morte ci incalzava da vicino.131

Anche Solzenicyn "scriveva" poesie nei campi, componendole a mente e poi recitandole tra sé con l'aiuto di un mucchietto di fiammiferi rotti, come racconta il suo biografo Michael Scattimeli:

Disponeva due file di dieci fiammiferi con la sua scatola di sigarette: una fila rappresentava le decine e l'altra le unità. Poi recitava le sue poesie mentalmente, spostando una "unità" per ciascun verso e una "decina" per ogni dieci. Memorizzava bene i versi a cinquanta o cento per volta, e una volta al mese ripeteva tutta la poesia dall'inizio alla fine. Se aveva confuso l'ordine dei versi o ne dimenticava uno ricominciava da capo fino a che non riusciva a recitare tutto nel modo giusto.132

Alcuni si confortavano pregando, forse per ragioni analoghe. Un battista inviato nei campi poststaliniani negli anni Settanta ha scritto un libro in cui racconta quasi soltanto quando e come pregava, e dove e come nascondeva la Bibbia.133 Molti memorialisti parlano di quanto fossero importanti le feste religiose. Talvolta la Pasqua si celebrava in segreto, nei locali di un panificio dei campi, come successe un anno nella prigione di transito delle Soloveckie, o apertamente nei convogli di prigionieri: "il vagone oscillava, gli inni erano stonati e striduli,

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le guardie percuotevano le pareti del vagone a ogni fermata. Ma continuavano a cantare".134 A volte nelle baracche si festeggiava il Natale. Jurij Zorin, un prigioniero russo, ricorda con stupore con quanta cura i lituani del suo campo avevano organizzato la festa di Natale cominciando a prepararla con un anno di anticipo: "Provi a immaginarlo, dentro la baracca, una tavola apparecchiata di tutto punto, con vodka, prosciutto, tutto". Secondo lui, per far arrivare la vodka l'avevano trasportata un goccino alla volta nelle scarpe.135

Lev Kopelev, pur essendo ateo, partecipò a una celebrazione segreta della Pasqua:

I letti erano collocati lungo le pareti. Vi era un profumo fragrante di incenso. L'altare era un tavolino coperto con un lenzuolo. Molte candele fatte in casa illuminavano un'icona. Il prete, addobbato con paramenti fatti di lenzuola, reggeva una croce di ferro. Le candele tremolavano nell'oscurità. Riuscivamo a malapena a vedere le facce degli altri, nella stanza, ma io ebbi la certezza che non eravamo gli unici non credenti presenti. Il sacerdote salmodiò la funzione con una voce tremula, da vecchio. Molte donne, con in testa fazzoletti bianchi, si unirono dolcemente al canto con le voci ardenti e pure. Un coro rispondeva in modo armonioso, a voce bassa bassa, per non farsi sentire da fuori.136

Nel 1940 Kazimierz Zarod, insieme ad altri polacchi, festeggiò la vigilia di Natale in un campo di lavoro sotto la guida di un sacerdote che, per tutta la serata, andò di nascosto da una baracca all'altra a celebrare la messa:

Cominciò a pronunciare le parole della messa senza l'ausilio della Bibbia o di un libro di preghiere, nel latino familiare bisbigliato in un soffio appena udibile, cui rispondevano a voce così bassa che era quasi un sospiro:

Kyrie eleison, Kriste eleison, Dio abbi pietà di noi, Cristo abbi pietà di noi. Gloria in excelsis Deo...

Le parole ci scivolavano addosso, e l'atmosfera della baracca, di solito così brutale e rozza, cambiò impercettibilmente, i volti si rivolsero verso il sacerdote, addolciti e rilassati, mentre gli uomini si protendevano per udire il sussurro appena distinguibile.

Giunse la voce dell'uomo di sentinella accanto alla finestra: "Tutto tranquillo".137

In senso più ampio, interessarsi a un progetto intellettuale o artistico mantenne in vita molte persone colte, dal punto di vista spirituale e fisico, perché chi aveva delle doti o dei talenti spesso riusciva a utilizzarli in modo pratico. In un mondo in cui mancava sempre tutto, dove anche le piccole cose acquisivano un significato enorme/ chi poteva offrire qualcosa di cui gli altri avevano bisogno era sempre molto ricercato. Quindi il principe Kirill Golicyn, quando si tro-

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vava ancora alla Butyrka, imparò a confezionare aghi con le lische di pesce.138 E Alexander Dulgun, prima di trovare lavoro comefel'dser, escogitò un sistema per "mettere insieme qualche rublo o qualche arammo in più di pane":

Mi accorsi che nei cavi usati dai saldatori c'era una buona quantità di alluminio. Pensai che se avessi imparato a fonderlo sarei riuscito a forgiare dei cucchiai. Parlai con alcune persone, detenuti che sembravano sapere il fatto loro riguardo ai metalli, e ne trassi qualche idea senza raccontare la mia. Trovai inoltre dei buoni nascondigli dove trascorrere una parte della giornata senza essere mandato a lavorare e altri dove nascondere strumenti o pezzi di filo metallico residuo.

Costruii due basse scatole per la mia fonderia, rubai qualche avanzo di filo di alluminio, forgiai un rozzo crogiolo con dell'acciaio sottile ricavato da pezzi della stufa, sgraffignai carbonella di qualità e gasolio per accendere la mia fucina: eccomi pronto per entrare in affari.

Ben presto, dice Dolgun, riusciva a "produrre due cucchiai al giorno". Li diede ad altri prigionieri in cambio di una borraccia e olio per cucinare con cui riempirla. Così aveva qualcosa in cui intingere il pane.139

Non tutti gli articoli prodotti da un detenuto per scambiarli con gli altri avevano utilità pratica. L'artista Anna Andreevna era molto ricercata per le sue prestazioni, e non soltanto tra i prigionieri. Le autorità del campo le chiesero di decorare una pietra tombale durante un funerale, di aggiustare vasellame e giocattoli rotti, di costruirne di nuovi: "Facevamo qualsiasi cosa per i capi, tutto quello di cui avevano bisogno o che chiedevano".140 Un detenuto intagliava "ricordini" per gli altri da zanne di mammut: braccialetti, statuette con temi "nordici", anelli, medaglioni, bottoni. Di tanto in tanto si sentiva in colpa a farsi pagare dagli altri detenuti: "Ma in fondo... Ciascuno è libero di pensare per sé ... non è vergogna accettare denaro in cambio del lavoro".141

Il museo dell'Associazione Memorial di Mosca, allestito da ex detenuti con l'intento di raccontare la storia delle repressioni staliniane, è ancora adesso pieno di oggetti di questo genere: pezzi di pizzo, ciondoli intagliati a mano, carte da gioco dipinte e persino piccole opere d'arte, dipinti, disegni, sculture, conservati dai prigionieri, riportati a casa e in seguito donati al museo.

Non sempre gli articoli che i prigionieri avevano imparato a produrre erano tangibili. Per quanto strano possa sembrare, nel Gulag uno poteva guadagnarsi da vivere cantando, ballando o recitando. Ci riuscivano soprattutto i prigionieri di talento ospitati in campi di lavoro grandi con dirigenti facoltosi, ai quali piaceva far sfoggio di una

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propria orchestra e di proprie compagnie teatrali. Se il comandante dell'Uhtizemlag voleva avere una vera e propria compagnia operistica in pianta stabile, e in effetti con uno accadde, per decine di cantanti e ballerini questo significava la salvezza. Era già un vantaggio avere delle esenzioni dal lavoro nei cantieri forestali per le prove. Ma soprattutto riacquisivano la sensazione di essere persone. "Quando gli attori erano in scena dimenticavano lo stimolo perenne della farne, i] fatto di non avere diritti e il convoglio che li aspettava, con i cani poliziotto, fuori al cancello" scrive Aleksandr Klejn.142 Georgi] Fel'dgun, un violinista detenuto al Dal'stroj, quando suonava nell'orchestra a-veva la sensazione di "respirare l'aria ricca della libertà".143

Talvolta le ricompense erano anche maggiori. Un documento del Dmitlag descrive gli abiti speciali distribuiti agli orchestrali del campo, che includevano i molto ambiti stivali da ufficiali, e ordina al comandante di un lagpunkt di assegnare loro anche baracche speciali.144 Thomas Sgovio visitò una baracca per musicisti a Magadan: "A destra dell'entrata c'era una sezione separata con una piccola stufa. Dai fili tesi da parete a parete pendevano pezze per i piedi e stivali di feltro. Le cuccette singole erano molto pulite e coperte di lenzuoli con materassi e guanciali imbottiti di paglia. Gli strumenti erano appesi al muro, una tuba, un corno francese, un trombone, una tromba ecc. Circa la metà dei musicisti erano criminali. Avevano tutti lavori leggeri: cuciniere, barbiere, gestore dei bagni, contabile ecc.".145

Anche nei campi più piccoli gli artisti godevano di condizioni agevolate, e persino in alcune prigioni. Georgi] Fel'dgun, mentre si trovava in un campo di transito, ricevette del cibo supplementare dopo essersi esibito con il violino per un gruppo di criminali. Trovò questa esperienza molto strana: "Eccoci qui, ai confini del mondo, al porto di Variino ... e suoniamo musica eterna scritta più di duecento anni fa. Stiamo eseguendo Vivaldi per cinquanta gorilla".146

Un'altra prigioniera si trovò in cella con una compagnia di cantanti e attrici che, grazie al loro talento, non venivano trasferite ai campi-Vedendo il trattamento di cui godevano, le convinse a permetterle di esibirsi con loro, ma stonò e si mise a scherzare su se stessa. Per il resto del tempo che trascorse nei campi si procurò il cibo e l'aiuto delle altre detenute grazie al suo talento comico, che prima non conosceva.147 Anche altri si avvalsero dell'umorismo per sopravvivere. Dnù-trij Panin racconta di un clown di professione proveniente da Odessa, il quale esibendosi proteggeva la propria vita, perché sapeva che se riusciva a divertire le autorità avrebbe evitato di essere trasferito ir1 un campo di punizione. "L'unica incongruenza dell'allegra danza e-

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rano i suoi grandi occhi neri, che sembravano implorare pietà. Non ho mai visto uno spettacolo così emozionante".148

Tra i molti modi di sopravvivere collaborando con le autorità, "salvarsi" recitando nel teatro del campo o partecipando ad altre attività culturali era il metodo che creava meno problemi morali ai prigionieri, forse perché ne beneficiavano anche altri detenuti. Il teatro rappresentava un grande sostegno morale anche per coloro cui non procurava un trattamento speciale, era una cosa necessaria per sopravvivere. "Per i prigionieri il teatro era fonte di felicità, lo amavano, lo adoravano" afferma un sopravvissuto.149. Gustaw Herling ricorda che per i concerti "i prigionieri si toglievano il berretto alla porta, scuotevano la neve dagli stivali prima di entrare e prendevano posto nei banchi con solenne aspettazione e con rispetto quasi religioso".150

Forse accadeva perché provavano ammirazione, non invidia o odio, per coloro i cui talenti artistici miglioravano loro la vita. Tutti riconoscevano e aiutavano Tat'jana Okunevskaja, la stella cinematografica inviata nel Gulag perché si era rifiutata di andare a letto con Abakumov, capo del controspionaggio sovietico. Durante un concerto in un campo, le sembrò a un tratto che le avessero tirato dei sassi alle gambe: abbassò lo sguardo e vide che erano lattine di ananas messicano, una squisitezza inaudita che un gruppo di criminali si era procurato per lei.151

Anche Nikolaj Starostin, il giocatore di calcio, veniva trattato con il massimo rispetto dagli urka, che a quanto racconta si passavano la voce: non toccatelo. La sera, quando cominciava a raccontare storie di calcio, "le partite a carte cessavano" e i prigionieri si riunivano intorno a lui. Quando arrivava in un nuovo campo, di solito, gli offrivano un letto pulito nell'ospedale. "Se tra i dirigenti c'era un tifoso, era la prima cosa che mi proponessero appena arrivavo."152

Erano in pochissimi ad arrovellarsi sul problema più sottile se fosse "giusto", dal punto di vista morale, cantare e ballare in prigione. Una era Nadezda loffe: "Quando ripenso a quei cinque anni non nù vergogno di ricordarli e non ho niente di cui arrossire. C'è solo la questione del teatro amatoriale ... in sostanza non aveva nulla che non andasse, eppure ... i nostri lontani antenati, in condizioni più o irieno analoghe, appendevano al muro la cetra e dicevano che non avrebbero cantato in catene".153

Alcuni prigionieri, soprattutto quelli di origini non sovietiche, avevano qualche dubbio anche riguardo alle opere prodotte. Un polacco arrestato durante la guerra afferma che il teatro aveva lo scopo di "distruggere ulteriormente il tuo rispetto per te stesso ... a volte

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c'erano rappresentazioni "artistiche" o qualche strana orchestra, ma non era fatto per appagare lo spirito, quanto piuttosto per mostrarti la loro "cultura" [sovietica], per fiaccarti ancora di più".154

Per quelli che si sentivano a disagio non era necessario partecipare alle rappresentazioni ufficiali. Svariati prigionieri politici che scrissero libri di memorie, e se ne può capire il perché, attribuiscono la propria sopravvivenza all'abilità di "narrare", intrattenere i criminali comuni raccontando la trama di romanzi o di film. Nel mondo dei campi e delle prigioni, dove i libri scarseggiavano e i film erano una rarità, si apprezzava sempre un buon narratore. Lev Finkel'stejn afferma di serbare "eterna gratitudine" per un criminale: "Nel mio primo giorno di prigione, individuò il mio potenziale e disse: "Probabilmente hai letto un sacco di libri, raccontali alla gente e vivrai molto bene". Vivevo davvero meglio degli altri. Godevo di una certa notorietà, di una certa fama ... mi imbattevo in persone che dicevano: "Tu sei Levcik romanist [Levcik il narratore]. Ho sentito parlare di te a Tajset". Grazie a questa abilità, Finkel'stejn veniva invitato due volte al giorno nella baracca del primo caposquadra, dove gli davano un boccale di acqua calda. Nella cava dove lavorava allora "significava la vita". Finkel'stejn racconta di aver scoperto che i classici russi e stranieri funzionavano meglio. Aveva assai meno successo quando raccontava le trame di romanzi sovietici più recenti.155

Anche altri scoprirono la stessa cosa. Evgenija Ginzburg, sul treno caldo e affollato diretto a Vladivostok, scoprì che "il recitare mi da molti vantaggi ... per esempio recito Che disgrazia l'ingegno! Dopo ogni atto qualcuna mi fa bere un sorso d'acqua dal suo bicchiere. E il compenso per la mia attività sociale".156

Mentre si trovava in prigione Aleksander Wat raccontò II rosso e il nero di Stendhal a un gruppo di banditi.157 Alexander Dolgun narrò invece la trama dei Miserabili.158 Janusz Bardach la storia dei Tre moschettieri: "Sentivo che stavo migliorando la considerazione che loro avevano di me a ogni colpo di scena dell'intreccio".159 Colonna-Czo-snowski, per contrastare l'opinione dei criminali, che consideravano i politici affamati dei "parassiti", raccontò loro "una versione personale di un film visto in Polonia anni prima, arricchendola in modo da ottenere il massimo effetto drammatico. Era una storia di guardie e ladri che si svolgeva a Chicago e riguardava Al Capone. Per buona misura ci ficcai dentro Bugsy Malone, forse anche Bonny e Clide. Decisi di infarcirla con tutto quello che riuscivo a ricordare, più alcune rifiniture extra che avevo inventato sull'onda del momento". D racconto colpì gli ascoltatori, che gli chiesero diverse volte di ripe-

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terlo: "Ascoltavano intenti come bambini. Non si curavano del fatto che continuavano a sentire la stessa cosa. Volevano che usassi le stesse parole ogni volta, proprio come i bambini. Notavano persino il minimo cambiamento o la minima omissione ... tre settimane dopo il mio arrivo ero un uomo diverso".160

E comunque non sempre un detenuto, per salvarsi la vita, usava il suo talento allo scopo di procurarsi denaro o pane. Nina Gagen-Torn racconta che una studiosa di storia della musica, appassionata di Wagner, riuscì a scrivere un'opera mentre si trovava nei campi. Scelse volontariamente di lavorare al servizio di pulizia delle fogne e delle rimesse del campo, perché quelle attività, per quanto sgradevoli, le concedevano la libertà mentale per pensare sempre alla sua musica.161 Aleksej Smirnov, all'epoca rinomato promotore della libertà di stampa, racconta la storia di due studiosi di letteratura che mentre si trovavano nei campi si inventarono un poeta francese del Settecento, e scrissero dei pastiche francesi in versi.162 Anche Gu-staw Herling trasse benefici enormi dalle "lezioni" di storia della letteratura impartitegli da un ex professore: suppone che il suo insegnante, forse, ne trasse benefici ancora maggiori.163

Anche Irena Arginskaja fu aiutata dalla sua sensibilità artistica. Anni dopo essere stata liberata, riusciva ancora a parlare della "incredibile bellezza" dell'estremo nord e di come i tramonti e la vista degli spazi aperti e delle grandi foreste la lasciavano senza fiato. Addirittura, una volta, sua madre fece il lungo, terribile viaggio per andarla a trovare nel campo, ma all'arrivo scoprì che la figlia era stata portata all'ospedale: la sua impresa era stata inutile. Cionondimeno parlò come la figlia della bellezza della taigà "fino alla fine dei suoi giorni".164

La bellezza però non aiutava tutti, e la sua percezione era soggettiva. Circondata dalla stessa taigà, dagli stessi spazi aperti, dagli stessi paesaggi, Nadezda Ul'janovskaja provava solo disgusto: "Ricordo quasi controvoglia albe grandiose e tramonti, foreste di abeti, fiori sgargianti che, per chissà quale motivo, non avevano profumo".165

Questo commento mi ha colpito al punto che, quando io stessa ho visitato l'estremo nord nel colmo dell'estate, ho guardato con occhi diversi i larghi fiumi e le foreste sconfinate della Siberia, il paesaggio lunare e desertico della tundra artica. Proprio fuori da una miniera di carbone, che si erge dove un tempo c'era un lagpunkt di Vorkuta, ho persino raccolto una bracciata di fiori di campo per sentire se hanno profumo. Lo hanno. Ma forse la Ul'janovskaja non aveva voglia di sentirlo.

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XVIII RIBELLIONE E FUGA

Credo che in quel momento se avessi udito il latrare dei cani da slitta, che sempre annunciava l'inizio della ronda, mi sarei sentito male. Percorremmo di corsa i pochi metri che ci separavano dalla staccionata esterna... Sebbene agissimo probabilmente nel più assoluto silenzio, a me pareva che il fracasso fosse assordante... Sospinti da un estremo impeto febbrile saltammo, andando a ricadere oltre l'ultimo tratto di reticolato, ai piedi della palizzata esterna. Rialzatici ansimanti c'informammo delle rispettive condizioni, quindi ci avviammo di corsa come un sol uomo.

SLAWOMIR RAWICZ, La lunga marcia1

Tra i molti miti relativi al Gulag, quello dell'impossibilità di evadere è uno dei più diffusi. La fuga dai campi di Stalin, scrive Solzenicyn, era un'impresa "da giganti, ma da giganti destinati a morte certa".2 Secondo Anatolij Èigulin "l'evasione dalla Kolyma era impossibile".3 A proposito dei detenuti che cercavano di fuggire, Varlam àalamov, con la sua caratteristica tetraggine, ha scritto: "Quasi sempre si tratta di matricole al loro primo anno di detersione, la cui volontà e il cui amor proprio sono ancora vivi nel cuore".4 Nikolaj Abakumov, ex vicecomandante della guarnigione di Noril'sk, esclude l'eventualità di un'evasione con buoni esiti: "Alcuni sono usciti dai campi, ma nessuno è riuscito a raggiungere il continente", intendendo con questo termine la Russia centrale.5

Gustaw Herling racconta la storia di un detenuto che cercò di fuggire e fallì: dopo mesi di progetti accurati, un'evasione riuscita e sette giorni di vagabondaggio nella foresta, si ritrovò a 12 chilometri appena dal campo e, affamato, ritornò spontaneamente. "La libertà non è per noi" concludeva l'uomo ogni volta che raccontava la storia del suo tentativo di fuga agli altri prigionieri. "Noi siamo incatenati

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a questo posto per il resto della nostra vita anche se non portiamo catene. Possiamo fuggire, possiamo girare intorno, ma alla fine torneremo indietro."6

Ovviamente i campi erano concepiti in modo da impedire le eva-sioni: in fin dei conti a questo servivano muri, filo spinato, torrette di guardia e terra di nessuno rastrellata con cura. Ma, in molti campi di prigionia, il filo spinato non era necessario per trattenere i prigionieri. Il clima lavorava contro le evasioni: per dieci mesi all'anno la temperatura restava sotto zero. E lo stesso vale per la posizione geografica, elemento di cui è impossibile valutare la portata senza vedere di persona dove erano situati i campi più remoti.

Per esempio, si può affermare senza esagerazione che Vorkuta, la città sorta accanto alle cave di carbone del Vorkutlag, era non soltanto isolata, ma in pratica inaccessibile. Non esistono strade per arrivare nella città, ubicata oltre il Circolo polare artico: l'abitato e le sue cave si possono raggiungere solo con il treno o l'aeroplano. In inverno, chiunque attraversi la tundra aperta, spoglia di alberi, diventa un bersaglio mobile. In estate, lo stesso paesaggio si trasforma in una palude altrettanto scoperta e impenetrabile.

Pure nei campi più a sud le distanze rappresentavano un problema. Anche se un prigioniero scavalcava il filo spinato o se la svignava dal posto di lavoro nelle foreste - non era difficile data la negligenza delle guardie - si trovava poi a chilometri di distanza da una strada o da una linea ferroviaria, o da una cittadina o un villaggio: non c'era da mangiare, non c'erano rifugi, e talvolta l'acqua scarseggiava. Inoltre le sentinelle brulicavano dappertutto: in fondo, l'intera regione della Kolyma, centinaia e centinaia di chilometri quadrati di taigà, era in realtà una grande prigione, e lo stesso si può dire della repubblica dei Komi, delle vaste distese del deserto del Kazakistan e della Siberia settentrionale. In quei luoghi i villaggi tradizionali erano rari, come i normali abitanti; chiunque andasse in giro da solo, senza documenti di identità validi, veniva identificato all'istante come un fuggiasco e fucilato, oppure pestato e riportato nella zona. Un prigioniero decise proprio per questa ragione di non unirsi a un gruppo di detenuti che volevano evadere: "Dove potrei andare senza documenti e denaro, in un territorio costellato di campi di concentramento e perciò disseminato di posti di controllo?".7

Un detenuto evaso aveva scarse possibilità di ricevere aiuto dagli abitanti del luogo che non fossero guardie o prigionieri, ammesso che ne incontrasse qualcuno. Nella Siberia zarista, per tradizione si dimostrava simpatia ai detenuti e ai servi fuggiaschi, per i quali, di

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notte, sulle soglie, venivano collocate ciotole di pane e latte. Un'antica canzone dei prigionieri di epoca prerivoluzionaria attesta questo atteggiamento:

Le contadine mi hanno dato il latte, i ragazzi mi hanno fornito il tabacco.8

Nell'Unione Sovietica di Stalin il clima era diverso. In generale, le persone erano piuttosto propense a consegnare un "nemico" evaso e ancora di più un criminale "recidivo". Non accadeva soltanto perché credevano, almeno in parte, alla propaganda sui prigionieri, ma anche perché chi non consegnava un fuggiasco rischiava egli stesso una pesante condanna al carcere.9 E non c'era bisogno nemmeno di temere provvedimenti molto specifici, dato il clima vigente di paranoia diffusa:

Per quanto riguarda la popolazione locale, nessuno ci proteggeva e ci nascondeva, come altri proteggevano e nascondevano gli evasi dai campi di concentramento tedeschi. Dipendeva dal fatto che da tanti anni tutti vivevano in un clima di paura e di sospetto costante, aspettandosi da un momento all'altro una nuova disgrazia, nel perenne timore reciproco ... In un posto in cui chiunque, dalla persona più umile a quella più importante, aveva il terrore delle spie, non si poteva assolutamente contare sul successo di un'evasione.10

Se l'ideologia e la paura non bastavano per convincere gli abitanti locali a riconsegnare un prigioniero fuggiasco, interveniva l'avidità. A torto o a ragione, molti memorialisti ritengono che le popolazioni tribali locali, gli eschimesi all'estremo nord, i kazaki a sud, stessero sempre sul chi vive alla ricerca di evasi. Alcuni diventavano cacciatori di taglie di professione, e inseguivano i prigionieri in cambio di un chilo di té o di un sacco di grano.11 Nella Kolyma, un abitante del luogo che consegnava la mano destra di un fuggiasco o, secondo certi racconti, la sua testa, riceveva in premio 250 rubli e, a quanto pare, le ricompense si aggiravano sulla stessa cifra anche altrove.12 In un caso registrato, un abitante locale riconobbe un prigioniero evaso travestito da uomo libero e segnalò la sua presenza alla polizia. Ricevette 250 rubli. Ne diedero altri 150 anche a suo figlio, che era andato alla stazione di polizia. In un altro caso, un uomo che riferì la posizione di un evaso al comandante di un campo fu ricompensato con la somma principesca di 300 rubli.13

Le pene per gli evasi catturati erano pesantissime. Molti venivano fucilati all'istante. Anche i cadaveri dei fuggiaschi servivano alla propaganda:

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Vicino al portale, credetti di sognare: un cadavere nudo vi era legato con jel filo di ferro. La testa con gli occhi vitrei, semiaperti, penzolava; le ossa erano sporgenti, la bocca era priva di denti. Un cartello precisava: "Ecco la sorte riservata a chi tenta di scappare da Noril'sk".14

Zigulin ricorda come i cadaveri dei detenuti che avevano cercato di evadere restavano esposti talvolta anche per un mese intero al centro del suo lagpunkt nella Kolyma.15 Si trattava di un'usanza antica, che risaliva alle Soloveckie; negli anni Quaranta era ormai diffusa quasi dappertutto.16

Eppure i prigionieri cercavano di fuggire. Anzi, a giudicare dalle statistiche ufficiali e dalla corrispondenza adirata sull'argomento, conservata negli archivi del Gulag, i tentativi di evasione e le fughe riuscite erano più frequenti di quanto ammettano i memorialisti. Per esempio, sono attestati casi di condanne comminate a seguito di evasioni riuscite. Nel 1945, dopo diverse evasioni di gruppo dai campi circostanti il "Sito 500 dell'NKVD", una ferrovia che attraversava la Siberia orientale, gli ufficiali della scorta furono condannati a pene di cinque o dieci giorni di prigione, con riduzione del 50 per cento dello stipendio per ogni giorno passato dietro le sbarre. In altri casi, dopo evasioni importanti, le guardie finivano sotto processo, e i comandanti a volte perdevano il lavoro.17

Sono registrati anche casi in cui le guardie sventarono delle fughe. Una guardia carceraria, per aver suonato l'allarme dopo che i prigionieri in fuga avevano aggredito e strangolato un militare della scorta, fu premiato con 300 rubli. Il suo capo ebbe 200 rubli, come un altro ufficiale del carcere, mentre agli agenti coinvolti diedero 100 rubli ciascuno.18

Nessun campo era totalmente sicuro. Le Soloveckie, data la loro particolare ubicazione, venivano considerate inespugnabili. Eppure, nel maggio 1925 due militari della Guardia bianca, S.A. Malsagov e Jurij Besonov, fuggirono da un campo continentale dello SLON. Dopo aver aggredito i loro sorveglianti, camminarono per trentacinque giorni fino al confine con la Finlandia. In seguito, per raccontare le proprie esperienze, entrambi scrissero dei libri che furono tra i primi sulle Soloveckie pubblicati in Occidente.19 Nel 1928, alle Soloveckie avvenne un'altra evasione famosa: una mezza dozzina di prigionieri aggredì le guardie e fuggì attraverso il cancello del campo. Quasi tutti con molta probabilità riuscirono a svignarsela attraversando la frontiera con la Finlandia.20 Nel 1934, sempre alle Soloveckie, si veri-ficarono due fughe particolarmente spettacolari. Una riguardava quattro "spie", l'altra "una spia e due banditi": entrambi i gruppi

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riuscirono a rubare delle barche e a scappare per mare, probabil mente fino alla Finlandia. In conseguenza il comandante del carnpo fu licenziato, e altri ricevettero delle censure.21

Alla fine degli anni Venti, mentre i campi dello SLON si espandevano in Carelia, sulla terraferma, le possibilità di fuga aumentarono e Vladimir Cernavin ne approfittò. Cernavin era un esperto di itti-coltura, che con coraggio aveva tentato di iniettare un po' di realismo nel piano quinquennale del cartello per l'itticolrura di Murrnan-sk. Le sue critiche al progetto gli procurarono una condanna per "disorganizzazione". Fu condannato a cinque anni e mandato alle Soloveckie. Alla fine lo SLON gli assegnò mansioni da specialista nella Carelia settentrionale, dove aveva il compito di progettare nuove imprese di pesca.

Cernavin aspettò il momento opportuno. Dopo molti mesi si conquistò la fiducia dei superiori, che lo autorizzarono a far venire in visita la moglie e il figlio quindicenne, Andrej. Nell'estate 1933, durante il loro soggiorno, una volta andarono tutti e tre a fare un picnic nella baia locale. Quando arrivarono all'estremità occidentale, Cernavin e sua moglie dissero ad Andrej che se ne andavano dall'Unione Sovietica, a piedi. "Attraversammo senza cartine e bussola montagne selvagge, foreste e paludi, fino alla Finlandia e alla libertà" racconta Cernavin.22 Molti decenni dopo, Andrej ricordava che suo padre era convinto, raccontando in un libro la sua storia, di riuscire a far cambiare opinione al mondo riguardo all'Unione Sovietica. Lo scrisse, ma non funzionò.23

Forse, però, l'esperienza di Cernavin non fu un caso unico: anzi, il primo periodo di espansione del Gulag può essere considerato l'età dell'oro delle evasioni. Il numero dei prigionieri aumentava rapidamente, le guardie erano insufficienti e i campi non erano molto lontani dalla Finlandia. Nel 1930, sulla frontiera finlandese furono catturati 1174 prigionieri evasi. Nel 1932 ne erano stati bloccati 7202, e forse anche il numero dei tentativi riusciti era aumentato proporzionalmente.24 Secondo le statistiche del Gulag, che certo potrebbero non essere precise, nel 1933 scapparono 45.775 persone e ne furono catturate 28.370, la metà o poco più.25 A quanto riferito, la popolazione locale era terrorizzata dal numero enorme di detenuti alla macchia, e i comandanti dei campi presentavano di continuo richieste di rinforzi, come pure le guardie di confine e la OGPU locale.26

Per reazione, la OGPU introdusse controlli più severi. AH'incirca in quel periodo, la popolazione locale fu reclutata a collaborare in modo attivo: un ordine dell'OGPU chiedeva la creazione di una cin-

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a, da 25 a 30 chilometri, intorno a ciascun campo, all'interno della nuale la popolazione locale avrebbe "contrastato attivamente le eva-"ioni"- Furono anche arruolati i responsabili di treni e barche in prossimità dei campi. Venne emanato un ordine con cui si proibiva alle guardie di portare i prigionieri fuori dalle celle dopo il calar del sole.271 funzionar! locali chiedevano con insistenza maggiori risorse e soprattutto più guardie per prevenire le evasioni.28 Nuove leggi comminavano pene aggiuntive per le tentate evasioni. Le guardie sapevano che, se fucilavano un prigioniero nel corso di un'evasione, potevano anche essere premiate.29

Cionondimeno, le cifre non calarono molto rapidamente. Negli anni Trenta, nella Kolyma, le evasioni di gruppo erano più frequenti di quanto non accadesse in seguito. I criminali comuni accampati nelle foreste si organizzavano in bande, rubavano armi e attaccavano per-sino gli abitanti locali, le squadre geologiche e i villaggi di nativi. Dopo almeno ventidue incidenti del genere, nel 1936 fu allestita una divisione speciale per 1500 "elementi particolarmente pericolosi", cioè prigionieri a rischio di fuga.30 In seguito, nel gennaio 1938, al culmine del Grande terrore, un vicecapo dell'NKVD diramò una circolare a tutti i campi dell'Unione Sovietica in cui osservava che "nonostante una serie di ordini in cui si intimava di sferrare una guerra decisiva contro le evasioni di detenuti dai campi... in questo settore non sono ancora avvenuti miglioramenti significativi".31

All'inizio della Seconda guerra mondiale il numero delle fughe ebbe di nuovo un'impennata, grazie alle opportunità create dall'evacuazione dei campi nella parte occidentale del paese e al caos generale.32 Nel luglio 1941, quindici prigionieri evasero dal Pecorlag, uno dei campi più isolati della repubblica dei Korni. Nell'agosto dello stesso anno, otto ex marinai, guidati da un ex tenente anziano della flotta settentrionale, riuscirono ad andarsene da un avamposto remoto del campo di Vorkuta.33

Le cifre cominciarono a calare durante la guerra, ma non arrivarono mai a zero. Nel 1947, quando le evasioni raggiunsero la loro punta massima del periodo postbellico, 10.440 prigionieri tentarono la fuga e ne vennero catturati soltanto 2S94.34 Forse è una percentuale bassa rispetto ai milioni di persone che all'epoca si trovavano nei campi, ma comunque induce a supporre che le evasioni non fossero ^possibili come alcuni ricordano. Anzi, forse la loro frequenza contribuisce a spiegare l'inasprimento del regime detentivo e le misure di sicurezza più severe che caratterizzarono il Gulag nei suoi ultimi cinque anni di esistenza.

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In generale, i memorialisti concordano sul fatto che gli aspiranti fuggiaschi erano, nella stragrande maggioranza, criminali di professione. Questo fenomeno si riflette nel gergo della malavita, in cui l'ar_ rivo della primavera si chiama "la visita del procuratore verde" (ir, espressioni come "Vas'ja è stato rilasciato dal procuratore verde") per. che la primavera era il periodo in cui di solito si organizzavano le eva-sioni estive: "Una fuga nella taigà è pensabile solo in estate, quando una volta dato fondo alle provviste, ci si può nutrire d'erba, funghi bacche, radici, cuocersi delle frittelle di lichene - il "muschio delle renne" - macinato fra due sassi, catturare arvicole, scoiattoli, nocciolaie, lepri...".35 Nelle zone più remote dell'estremo nord il momento migliore per fuggire era l'inverno, chiamato dai malavitosi "procuratore bianco": solo allora le paludi e il fango della tundra erano praticabili.36

In realtà, i criminali di professione avevano maggiori possibilità dopo le evasioni, perché una volta passati "sotto il filo spinato" riuscivano a sopravvivere con maggiore facilità. Se arrivavano in una città importante, potevano mischiarsi con la malavita locale, falsificare documenti e trovare nascondigli. I criminali che non aspiravano a tornare nel mondo "libero" scappavano anche per semplice divertimento, giusto per stare "fuori" un pochino. Se poi li catturavano, e se riuscivano a sopravvivere, che cosa importava una condanna a dieci anni, quando dovevano già scontarne venticinque o più? Un ex zek ricorda una criminale che fuggì soltanto per avere un appuntamento con un uomo, ritornò "colma di piacere", anche se la condannarono immediatamente alla cella di punizione.37

I politici scappavano assai meno spesso: oltre a non disporre di una rete di conoscenze e di esperienza, venivano inseguiti con maggior zelo. Cernavin, che prima di fuggire riflette molto su questi argomenti, ha spiegato la differenza:

Le guardie non prendevano molto sul serio la fuga di malavitosi e non facevano grandi sforzi per inseguirli: li avrebbero catturati quando fossero comparsi accanto a una ferrovia o quando avessero raggiunto una città. Ma per dare la caccia ai politici si organizzavano subito delle squadre: talvolta venivano mobilitati tutti gli abitanti dei villaggi circostanti e si chiedeva la collaborazione degli agenti di frontiera. Il prigioniero politico cercava sempre di fuggire all'estero, in patria non aveva rifugio.38

I fuggiaschi erano per la maggior parte uomini, ma non tutti. Margarete Buber-Neumann si trovava in un campo da cui una ragazza zingara fuggì con il cuciniere. Una zingara adulta, sentendo la storia, annuì con aria saputa: "Deve aver avuto sentore di un tabor [un accampamento zingaro] nella steppa qui intorno. Se riesce a rag-

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giungerlo, è salva".39 Di solito le fughe venivano progettate in anticipo, rna potevano anche essere estemporanee: Solzenicyn racconta la storia di un prigioniero che saltò oltre un recinto di filo spinato durante una tempesta di sabbia in Kazakistan.40 Spesso si tentava di evadere dalle "zone" di lavoro dei campi, meno sorvegliate, ma non era sempre così. Se si sceglie a caso un mese, il settembre 1945, per esempio, il 51 per cento dei tentativi di fuga registrati avvenne nella zona di lavoro; il 25 per cento nella zona di abitazione; l'il per cento durante i trasferimenti.41 Edward Buchan progettò, insieme a un gruppo di giovani ucraini, di scappare da un convoglio che trasportava detenuti in Siberia:

Con il mio coltello seghettato avremmo cercato di segare quattro o cinque assi, lavorando solo di notte e nascondendo i tagli con un impasto di pane e stereo di cavallo preso dal pavimento del vagone. Una volta pronta l'apertura, avremmo aspettato fino a quando il treno non si fosse fermato nella foresta, poi avremmo spinto via le assi e saremmo saltati giù dal vagone, quanti più potevamo, disperdendoci in tutte le direzioni per confondere le guardie. Alcuni di noi sarebbero stati fucilati, ma la maggioranza sarebbe riuscita ad andarsene.42

Dovettero rinunciare al progetto perché sorsero dei sospetti. E comunque anche altri cercarono di fuggire dai treni: nel giugno 1940, due detenuti comuni riuscirono davvero a dileguarsi da un foro praticato in un vagone.43 Lo stesso anno, anche Janusz Bardach se la svignò, sempre da un vagone, grazie ad alcune tavole manomesse. Tuttavia, non le rimise a posto e lo scoprirono subito, fu inseguito dai cani e pestato in modo brutale, rna rimase vivo.44

Secondo Solzenicyn, alcune fughe "prendono spunto non da un impulso o dalla disperazione, ma da un calcolo tecnico e da mani d'oro":45 costruivano false pareti sui carri ferroviari, dietro le quali chiudevano con chiodi i prigionieri che si facevano trasportare fuori dal campo.46 Una volta ventisei comuni scavarono una galleria sotto il muro di recinzione. Riuscirono ad andarsene tutti, ma secondo l'ufficiale che diresse l'inseguimento vennero catturati nel corso dell'anno.47

Altri, come ternavin, per organizzare la fuga si avvalevano della propria particolare posizione all'interno del lager. Negli archivi è riportata la storia di un prigioniero che causò di proposito un incidente su un treno merci e fuggì approfittando della confusione.48 In un altro caso registrato, alcuni detenuti che erano stati incaricati di seppellire dei cadaveri nel cimitero del campo spararono alla guardia di scorta e buttarono il cadavere nella fossa comune, per ritardarne il

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rinvenimento.49 Inoltre, la fuga era più facile per i prigionieri "senza scorta", in possesso di lasciapassare che consentivano loro di muoversi da un campo all'altro.

Si usavano anche dei travestimenti. Varlam Salamov racconta la storia di un prigioniero che fuggì e riuscì a passare due anni in libertà vagando per la Siberia e spacciandosi per geologo. A un certo punto le autorità regionali, orgogliose di avere un simile esperto tra loro, gli chiesero, con molto rispetto, di fare una conferenza. "Krivosej sorrise a destra e a sinistra, citò Shakespeare nell'originale, disegnò qualcosa, snocciolò decine di nomi stranieri." Alla fine fu catturato perché mandava denaro a sua moglie.50 Forse la sua è una storia inventata, ma gli archivi riportano racconti del genere. In un episodio analogo, un detenuto della Kolyma rubò dei documenti, si introdusse clandestinamente su un aereo e volò fino a Jakutsk. Lì lo scoprirono, comodamente insediato in un albergo con 200 grammi di oro in tasca.51

Non sempre le fughe comportavano l'astuzia di prendere un aereo o operazioni di trasformismo. Molte, probabilmente la maggior parte, delle evasioni di criminali comuni erano caratterizzate dalla violenza. I fuggiaschi aggredivano, abbattevano a fucilate e soffocavano le guardie armate, ma anche i liberi lavoratori e gli abitanti del luogo.52 Non risparmiavano nemmeno gli altri prigionieri. Uno degli schemi tipici delle evasioni di comuni prevedeva il cannibalismo. Coppie di criminali concordavano in anticipo di scappare insieme a un terzo uomo (la "carne"), destinato a diventare il mezzo di sostentamento durante il viaggio. Anche Buca descrive il processo di un ladro di professione e assassino che insieme a un compagno era fuggito con il cuciniere del campo, la loro "scorta alimentare ambulante":

Non erano i primi a realizzare quest'idea. Quando c'è una comunità enorme di persone che sognano soltanto la fuga, è inevitabile che si discuta di tutti i sistemi per attuarla. Con "scorta alimentare ambulante" ci si riferisce in realtà a un prigioniero grasso. Se ne hai bisogno, puoi ucciderlo e mangiarlo. E fino a quando non ne hai bisogno, è lui a portare il "cibo".

I due fecero come avevano progettato, uccisero e mangiarono il cuciniere, ma non avevano previsto la lunghezza del viaggio e cominciarono di nuovo a essere affamati:

In cuor loro sapevano entrambi che il primo che si fosse addormentato sarebbe stato ucciso dall'altro. Quindi ambedue fingevano di non essere stanchi e trascorrevano la notte raccontando storie, mentre ciascuno sorvegliava l'altro con attenzione. La loro antica amicizia rendeva impossibile per entrambi attaccare l'altro o confessare i sospetti reciproci.

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Alla fine uno si addormentò. L'altro gli tagliò la gola. Fu catturato, a quanto afferma Buca, due giorni dopo, con pezzi di carne cruda ancora nel sacco.53

Anche se non c'è modo di verificare con quanta frequenza avvenissero evasioni di questo genere, i diversi episodi analoghi raccontati da un gran numero di prigionieri dei campi tra l'inizio degli anni Trenta e la fine degli anni Quaranta fanno pensare che accadessero davvero, almeno di tanto in tanto.54 Quando Thomas Sgovio si trovava nella Kolyma, sentì condannare a morte due evasi: avevano fatto prigioniero un ragazzo, lo avevano ucciso e ne avevano salato la carne.55. Raccontarono una storia simile anche a Vaclav Dvorzeckij in Carelia, alla metà degli anni Trenta.56

La tradizione orale del Gulag riporta inoltre alcune storie veramente straordinarie di fughe e fuggiaschi, sebbene in gran parte forse siano false. Solzenicyn narra l'epopea di Georgi Termo, un politico estone che scappò dai campi diverse volte, e in un'occasione percorse 480 chilometri a cavallo, in nave e in bicicletta, riuscendo quasi ad arrivare a Omsk, una città della Siberia centrale. Per quanto forse alcune vicende narrate da Termo siano autentiche - in seguito fece amicizia con un altro sopravvissuto del Gulag, il memorialista Alexander Dolgun, che presentò anche a Solzenicyn - altre, soprattutto le più spettacolari, sono più difficili da verificare.57 Un'antologia inglese contiene la storia di un predicatore estone, che riuscì a fuggire da un campo, falsificare i documenti e superare la frontiera con l'Afghanistan insieme ai suoi compagni. La stessa antologia racconta di un prigioniero spagnolo che fuggì fingendo di essere morto, quando un terremoto disunisse il suo campo. In seguito, dice, riuscì a passare clandestinamente la frontiera con l'Iran.58

Per finire, abbiamo il caso curioso di Slawomir Rawicz, il cui libro, La lunga marcia, contiene la descrizione dell'evasione più spettacolare e commovente di tutta la letteratura del Gulag. A quanto racconta, fu catturato dopo l'invasione sovietica della Polonia e lo internarono in un campo nella Siberia settentrionale. Sostiene di essere scappato con la connivenza della moglie del comandante, in compagnia di altri sei prigionieri, uno dei quali era americano. Insieme a una ragazza polacca, una deportata che avevano raccolto lungo la strada, riuscirono a uscire dall'Unione Sovietica.

Durante quello che sarebbe stato un viaggio straordinario, se mai avvenne, camminarono lungo le rive del lago Bajkal, attraversarono la frontiera con la Mongolia, il deserto dei Gobi, l'Himalaia, il Tibet e arrivarono in India. Lungo la strada, quattro prigionieri morirono;

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gli altri rischiarono la vita per le privazioni. Purtroppo, molti tentativi di verificare questa storia, che somiglia molto da vicino al racconto di Rudyard Kipling, L'uomo che fu, non sono approdati a nulla se La lunga marcia è una storia raccontata in modo superbo, anche se forse si tratta di una storia inventata. Il suo convincente realismo può insegnare qualcosa a quanti di noi cercano di scrivere una storia delle fughe dal Gulag supportata dai fatti.

Perché, in realtà, le fantasie riguardo alle evasioni svolsero un ruolo importante nella vita di molti prigionieri. Persine per le diverse migliaia di detenuti che non avrebbero mai tentato di evadere, il pensiero della fuga, il sogno di liberarsi, restava uno stimolo psicologico importante. Un sopravvissuto della Kolyma mi ha detto: "Una delle forme più ovvie di opposizione al regime era l'evasio-ne". Soprattutto i prigionieri maschi e giovani progettavano, discutevano e disputavano riguardo ai modi migliori per fuggire. Per alcuni di loro, il fatto stesso di discuterne era un modo per combattere la sensazione di impotenza, come spiega Gustaw Herling:

Ci riunivamo spesso in una delle baracche, in un gruppo di soli polacchi, per discutere i particolari della fuga; conservavamo pezzetti di metallo trovati al lavoro, vecchie scatole e frammenti di vetro che ci illudevamo potessero diventare una bussola improvvisata; raccoglievamo informazioni sul territorio circostante, le distanze, le condizioni climatiche, e le particolarità geografiche del nord...

Nel paese da incubo in cui eravamo stati portati dall'Occidente su centinaia di treni merci, ci aggrappavamo ogni giorno in segreto a quei sogni che ci infondevano come una nuova vita. Dopo tutto, se l'appartenere a un'organizzazione terroristica inesistente era un delitto punito con dieci anni di campo di lavoro, perché un chiodo acuminato non poteva essere l'ago di una bussola, un pezzo di legno uno sci, un foglio di carta stracciato, coperto di scarabocchi e di linee, una carta geografica?

Herling sospetta che tutti quelli coinvolti in tali discussioni, in fondo al cuore, ritenessero vani i loro preparativi. Tuttavia, l'esercizio serviva allo scopo:

Ricordo un giovane ufficiale di cavalleria polacco che, durante i peggiori periodi di fame nel campo, trovò la forza di volontà di staccare ogni giorno una sottile fetta di pane dalla sua razione, abbrustolirla sul fuoco e riporla in un sacco che teneva in qualche misterioso nascondiglio nella baracca. Anni dopo, ci incontrammo di nuovo nel deserto dell'Iraq e, mentre rievocavamo i giorni di prigionia bevendo insieme sotto una tenda, scherzai sul suo "piano" di fuga. Ma egli rispose con gravita: "Non devi ridere; io sono sopravvissuto al campo grazie alla speranza di fuga, e sono sopravvissuto a' "mortuario" perché mettevo da parte il pane. Un uomo non può vivere se non sa per che cosa vive".60

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gè nella memoria collettiva della maggior parte dei sopravvissuti la fuga dal campo appare impossibile, la ribellione era addirittura impensabile. In molti memoriali appare la caricatura degli zek umiliati, sconfitti e disumanizzati che aspirano disperatamente a collaborare con l'autorità e sono persino incapaci di pensare male del regime sovietico, figuriamoci organizzarsi contro di esso; ciò affiora anche nei testi dei due più eminenti personaggi letterari della comunità dei "sopravvissuti" russi, Solzenicyn e Salamov. E può darsi benissimo che, in gran parte della storia del Gulag, questa immagine non fosse tanto lontana dalla verità. La rete interna di spie e informatori suscitava diffidenza reciproca tra i detenuti. La logorante ineluttabilità del lavoro e il dominio dei ladri legittimi rendevano difficile per gli altri prigionieri pensare a una opposizione organizzata. Le umilianti esperienze degli interrogatori, della prigione, della deportazione, avevano sottratto a molti la volontà di vivere, figuriamoci la volontà di op-porsi alle autorità. Herling, che organizzò uno sciopero della fame insieme a un gruppo di altri prigionieri polacchi, descrive la reazione degli amici russi:

Erano eccitati e affascinati dal fatto stesso che noi avessimo osato andar contro le inflessibili leggi della schiavitù, che non erano mai state disturbate prima da un gesto di ribellione. D'altra parte, vi era l'istintivo timore, avanzo della loro vita passata, di esser coinvolti in qualcosa di pericoloso, forse un processo con l'incombente minaccia di un tribunale di guerra. Chi poteva sapere se gli interrogatori non avrebbero rivelato le conversazioni che erano state scambiate nelle baracche con i ribelli, dopo l'inizio dello sciopero?61

Tuttavia, anche in questo caso, gli archivi ci offrono una versione diversa, perché rivelano che nei campi scoppiavano molte proteste minori e spesso si verificavano interruzioni del lavoro. A quanto pare erano soprattutto i capi dei criminali comuni a promuovere gli scioperi sul posto di lavoro, brevi e apolitici, quando volevano qualcosa dalle autorità del campo che, da parte loro, trattavano tali incidenti come piccoli fastidi. Soprattutto tra la fine degli anni Trenta e l'inizio degli anni Quaranta, grazie alla loro posizione di privilegio i criminali di professione temevano meno le punizioni e avevano maggiori opportunità di organizzare queste piccole rivolte.62

Le proteste spontanee dei criminali talvolta scoppiavano anche durante i lunghi viaggi in treno verso est, quando mancavano l'acqua o il cibo, a parte le aringhe salate. Per costringere le guardie a dare loro dell'acqua, i criminali si mettevano d'accordo per "urlare e strepitare tutti insieme", producendo un frastuono odiato dalle guardie, come ricorda un detenuto: "Una volta i legionari romani

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piansero udendo l'urlo degli antichi germanici, poiché era terrificante. I sadici del Gulag provavano lo stesso terrore...".63 Questa tradizione continuò per tutti gli anni Ottanta, quando, come ricorda la poetessa e dissidente Irina Rarusinskaja, i prigionieri di un convoglio, se insoddisfatti per il trattamento ricevuto, spingevano ancora oltre la protesta:

"Ragazzi! Dondolate!" ... i prigionieri cominciarono a far oscillare il vagone. Tutti insieme, a tempo, spostandosi da una parete all'altra della gab-bia. Il vagone è così gremito di gente che il risultato è quasi immediato. In questo modo si può semplicemente far uscire il vagone dai binari e, di conseguenza, far deragliare tutto il treno.64

Il sovraffollamento e la scarsità di cibo potevano anche provocare proteste la cui migliore definizione è crisi di isterismo organizzate. Un testimone ha descritto una scena di questo tipo, messa in atto da un gruppo di criminali comuni:

Circa duecento donne, quasi all'improvviso, si spogliarono e corsero in cortile completamente nude. Si affollarono intorno alle guardie in posizioni volgari, e cominciarono a gridare, strillare, ridere, imprecare, buttarsi per terra con convulsioni spaventose, strapparsi i capelli, graffiarsi la faccia a sangue, poi ricaddero a terra e di nuovo si alzarono e corsero al cancello.

"Sìììììì!!!", ululò la folla.65

A parte questi momenti di follia e spontaneità, veniva utilizzata anche un'altra forma di protesta tradizionale e più antica, lo sciopero della fame, di cui si erano adottati obiettivi e metodi direttamente dai primi prigionieri politici (che a loro volta li avevano ereditati dalla Russia prerivoluzionaria): socialdemocratici, anarchici, menscevichi reclusi all'inizio degli anni Venti. I prigionieri di questo gruppo ripresero la tradizione dello sciopero della fame nel 1925, quando vennero trasferiti dalle Soloveckie nelle prigioni di isolamento. Fino a quando non venne giustiziato nel 1937, Aleksandr Fe-dodeev, un dirigente dei socialisti rivoluzionari, continuò a indire scioperi della fame nella prigione di Suzdal', per rivendicare il diritto di corrispondere con i propri parenti.66

Anche dopo essere stati ritrasferiri dalla prigione nei campi, alcuni cercarono di mantenere viva la tradizione. Alla metà degli anni Trenta alcuni veri trockisti aderirono agli scioperi della fame indetti dai socialisti. Nell'ottobre 1936, centinaia di trockisti, anarchici e altri politici di un lagpunkt di Vorkuta cominciarono uno sciopero della fame che, secondo i dati ufficiali, durò 132 giorni. Senza alcun dubbio avevano obiettivi politici: chiedevano di essere separati dai criminali, di avere una giornata lavorativa limitata a otto ore, di es~

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sere nutriti a sufficienza indipendentemente dalla quantità di lavoro svolto, e volevano la revoca delle loro condanne. In un altro lagpunkt di Vorkuta si verificò uno sciopero ancora più lungo, durato 115 giorni, cui si unirono anche alcuni malavitosi. Nel marzo 1937 l'amministrazione del Gulag ordinò di accogliere le richieste degli scioperanti ma, alla fine del 1938, essi erano ormai stati in larga parte assassinati durante le esecuzioni di massa di quell'anno.67

All'incirca nello stesso periodo un altro gruppo di trockisti scese in sciopero nel campo di transito di Vladivostok, mentre aspettava di essere trasferito nella Kolyma. Durante la loro permanenza nel campo tennero delle riunioni organizzative ed elessero un capo. Questi chiese di essere autorizzato a esaminare la nave con cui sarebbero stati trasportati. La richiesta fu respinta. Tuttavia, mentre salivano sulla nave, cantarono inni rivoluzionari e, se si deve credere ai rapporti dell'NKVD, dispiegarono manifesti con slogan tipo: "Viva Trockij, genio rivoluzionario!" e "Abbasso Stalin!". Quando il vapore arrivò nella Kolyma, i prigionieri cominciarono di nuovo ad avanzare richieste. A ciascuno doveva essere assegnato un lavoro confacente alla sua specializzazione, tutti dovevano essere retribuiti, le coppie di coniugi non dovevano essere divise, tutti i prigionieri avevano il diritto di mandare e ricevere posta senza limitazioni. In seguito indissero una serie di scioperi della fame, uno dei quali durò 100 giorni. Un osservatore dell'epoca racconta: "I capi dei detenuti trockisti della Kolyma erano entrati in un mondo fantastico e ignoravano i veri rapporti di potere". A tempo e luogo anche loro furono tutti condannati a morte e fucilati,68 ma il loro sacrificio lasciò il segno. Anni dopo un ex procuratore della Kolyma ricordava molto bene quelle vicende:

Tutto quello che accadde in seguito suscitò una impressione così forte in me e nei miei compagni che per diversi giorni io vagai come in una nebbia, vedendomi camminare davanti una fila di trockisti giustiziati, fanatici, che lasciavano la vita senza paura con i loro slogan sulle labbra...69

Forse per reazione a questi casi di ribellione, l'NKVD cominciò a dedicare grande attenzione agli scioperi della fame dei politici e alle astensioni dal lavoro. Dalla fine degli anni Trenta, chi si rendeva colpevole di tali insubordinazioni veniva condannato a ulteriori pene detentive o a morte. Gli scioperi della fame venivano presi sul serio, Qia la renitenza al lavoro ancora di più, perché del tutto in contrasto con l'etica dei campi. Un prigioniero che rifiutava di lavorare non rap-Presentava soltanto un problema disciplinare, ma ostacolava in modo

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significativo gli obiettivi economici. Soprattutto dopo il 1938, gli scio. peranti venivano puniti con severità, come racconta un testimone:

Alcuni prigionieri rifiutarono di andare a lavorare ... c'era qualcosa riguardo a del cibo andato a male. Ovviamente l'amministrazione si mosse con energia. Quattordici capi del gruppo, dodici uomini e due donne, furono fucilati. Le esecuzioni avvennero nel campo con tutti i prigionieri in fila a vedere lo spettacolo, poi squadre di tutte le baracche aiutarono a scavare le fosse giusto al di là dello steccato di filo spinato, niente più possibilità di un'altra rivolta fino a che resta fresco il ricordo di questa ...70

Tuttavia, nemmeno la prospettiva della punizione e la consapevolezza della morte certa riuscivano a soffocare l'impulso dei prigionieri a ribellarsi e in seguito, dopo la morte di Stalin, alcuni lo fecero in massa. Comunque, persino quando Stalin era vivo, persino negli anni di guerra più pesanti e più difficili, lo spirito di rivolta continuò a esistere, come dimostra la straordinaria storia dell'insurrezione di Ust'-Usa, scoppiata nel gennaio 1942.

Negli annali del Gulag la rivolta di Ust'-Usa, per quanto ne sappiamo, rappresenta un caso unico. Non abbiamo notizie di altre insurrezioni di massa mentre Stalin era vivo, invece abbiamo molti dati relativi a Ust'-Usa: versioni distorte della storia fanno da tempo parte della tradizione orale del Gulag, ma negli ultimi anni la vicenda è stata anche documentata con precisione.71

Per quanto strano possa sembrare, non fu guidata da un prigioniero ma da un lavoratore libero, Mark Retjunin, che all'epoca era amministratore capo del lagpunkt di Lesoreid, un piccolo campo forestale all'interno del complesso del Vorkutlag. Il lagpunkt ospitava circa 200 prigionieri, per la maggior parte politici. Nel 1942 Retjunin era ormai esperto del sistema dei campi: come molti dirigenti di grado inferiore, era un detenuto, che aveva scontato dieci anni per una presunta rapina in una banca. Tuttavia l'amministrazione gli aveva dato fiducia e uno degli amministratori lo descriveva come un uomo "pronto a sacrificare la vita per gli interessi produttivi del campo". Altri lo ricordano come una persona diversa, un ubriacone dedito al gioco d'azzardo, un elemento forse collegato alle sue origini criminali. Altri ancora lo descrivono come un amante della poesia, di "carattere forte", con la tendenza a vantarsi e a millantare, il che spiega, forse, la leggenda di cui è oggetto.

I veri motivi del comportamento di Retjunin restano oscuri. A quanto pare, era rimasto profondamente scosso quando, dopo lo scoppio della guerra nel giugno 1941, la NKVD aveva diffuso un'or-

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finanza con cui si proibiva a tutti i prigionieri politici di lasciare il campo, anche a quelli che avevano finito di scontare la pena. Afana-gij Jaskin, l'unico dei cospiratori che sopravvisse alla ribellione, spiegò agli inquirenti dell'NKVD la convinzione di Retjunin che tutti gli abitanti del lagpunkt, prigionieri e liberi, sarebbero stati giustiziati quando l'invasione dei tedeschi fosse proseguita all'interno dell'Unione Sovietica. "Che cosa abbiamo da perdere, anche se ci uccidono?" aveva chiesto esortandoli. "Per noi che differenza fa perire domani o morire oggi come ribelli? ... le autorità del campo fucileranno tutti quelli con condanne controrivoluzionarie, persino noi, lavoratori liberi che siamo trattenuti qui fino alla fine della guerra." Non era una sensazione del tutto paranoica: essendo stato anche lui un detenuto del Vorkutlag nel 1938, sapeva di certo che l'NKVD non arretrava di fronte agli eccidi. E, nonostante la sua posizione privilegiata di capo di un intero lagpunkt, di recente gli avevano negato il permesso di tornare a casa in vacanza.

Non si conoscono altri particolari riguardo ai preparativi. Retjunin non lasciò documenti scritti, e non sorprende. Tuttavia lo svolgersi degli eventi dimostra che la rivolta fu progettata con cura. I ribelli fecero la prima mossa nel pomeriggio del 24 gennaio 1942. Era un sabato, e quel giorno per le guardie armate del campo era il turno dei bagni. Si prenotarono come prescritto. L'attendente al bagno del campo, un detenuto cinese che si chiamava Lu Fa ed era complice della cospirazione, chiuse in fretta le porte dietro di loro. Subito gli altri cospiratori disarmarono le guardie lasciate di sentinella alla vahta. Due reagirono, una fu uccisa e l'altra ferita. Le loro armi caddero nelle mani dei ribelli: dodici mitragliatrici e quattro rivoltelle in tutto.

Ben presto un gruppo di ribelli aprì i depositi del campo e cominciò a distribuire abiti e stivali di buona qualità ai prigionieri. Erano stati accantonati apposta da Retjunin, che esortò i detenuti a unirsi alla rivolta. Non tutti lo fecero. Alcuni avevano paura, altri capivano che la situazione era senza speranza, alcuni cercarono persino di dissuadere i ribelli dal continuare. Altri accettarono. Più o meno alle cinque del pomeriggio, circa un'ora dopo l'inizio dell'insurrezione, un gruppo di cento uomini marciava in colonna verso Ust'-Usa, la città più vicina.

In un primo momento gli abitanti della città, sviati dall'aspetto dei detenuti ben vestiti, non compresero che cosa stava succedendo. Poi i ribelli, ormai divisi in due gruppi, assaltarono l'ufficio postale e la prigione. Entrambi gli attacchi riuscirono. Aprirono le celle e altri

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dodici detenuti si unirono a loro. All'ufficio postale tagliarono le linee di comunicazione con il mondo esterno. Ust'-Usa era caduta sotto il controllo dei prigionieri.

A questo punto gli abitanti della città cominciarono a battersi. Qualcuno di loro prese le armi all'edificio della milizia cittadina. Alcuni corsero a difendere l'aeroporto, dove c'erano per caso, in pista, due piccoli aeroplani. Altri cercarono aiuto: un poliziotto della città saltò a cavallo e corse al vicino lagpunkt di Polja-Kurja. Poi si diffuse il panico. Il comandante del campo, convinto che fossero arrivati i tedeschi, ordinò immediatamente a tutti i prigionieri di togliersi le scarpe in modo che non potessero fuggire. Quindici guardie armate si diressero a piedi da Polja-Kurja verso Ust'-Usa, pensando di andare a difendere la patria.

Ormai nel centro di Ust'-Usa era scoppiata la battaglia aperta. I ribelli avevano disarmato alcuni poliziotti della città e si erano procurati altre armi, ma non riuscivano ad avere ragione dei difensori accaniti dell'edificio della milizia. La lotta imperversò tutta la notte e la mattina i ribelli avevano subito gravi perdite: 9 morti, 1 ferito, 40 catturati. Quelli rimasti in vita decisero di adottare una nuova tattica: avrebbero lasciato Ust'-Usa e si sarebbero diretti verso un'altra città, Kozva. Non sapevano, peraltro, che le autorità di Ust'-Usa avevano già telegrafato per chiedere aiuto, usando un trasmettitore radio nascosto nella foresta. Tutte le strade, in tutte le direzioni, stavano lentamente riempiendosi di miliziani armati.

Tuttavia, all'inizio gli insorti ebbero fortuna. Raggiunsero un villaggio dove non incontrarono una vera resistenza. Poi esortarono gli agricoltori della locale fattoria collettiva a unirsi alla rivolta, ma fallirono. All'ufficio postale intercettarono una linea aperta e si resero conto che la milizia stava dirigendosi verso di loro. Abbandonarono la strada principale e si incamminarono verso l'interno della tundra, nascondendosi in un allevamento di renne. La mattina del 28 gennaio furono scoperti: scoppiò un'altra battaglia, con pesanti perdite da entrambi le parti. Al calar delle tenebre, però, i ribelli sopravvissuti erano ormai fuggiti: una trentina erano ancora vivi, rintanati in un rifugio di cacciatori su una montagna vicina. Alcuni decisero di restare li e di combattere, anche se ormai, essendo a corto di munizioni, non avevano speranze. Altri si allontanarono nei boschi dove, in pieno inverno, in aperta campagna, comunque non avevano speranze.

La resa dei conti si ebbe il 31 gennaio, e durò un giorno e una notte. Mentre la milizia si avvicinava, alcuni ribelli, compreso Rerjunin, si spararono. L'NKVD braccò gli altri nei boschi, catturandoli uno per

Ribellione e fuga  425

Bozzetto di ritratto di due "zek"; disegno di Sergej Rejhenberg, Magadan. (Associazione Memorial, Mosca)

Nelle baracche: un detenuto suona per i compagni; disegno di Benjamin Mkrtcjan, Ivdel, 1953. (Associazione Memorial, Mosca) ' '

Gulag

uno. Accatastarono i cadaveri: la milizia, in un accesso di odio, ]\ mutilò e poi li fotografò. Le immagini, conservate negli archivi regionali, mostrano corpi contorti e straziati, coperti di neve e di sangue. .. Non esistono dati sul luogo di sepoltura delle salme. Secondo la leggenda locale, i miliziani li arsero sul posto.

In seguito, i ribelli catturati furono inviati a Syktyvkar, il capoluo-go regionale, e messi immediatamente sotto indagine. Dopo oltre sei mesi di interrogatori e torture, a 19 furono comminate nuove condanne ai lavori forzati, e 49 furono giustiziati il 9 agosto 1942.

Il prezzo pagato in vittime dai difensori dell'ordine sovietico fu alto. Ma non era soltanto la perdita di qualche dozzina di guardie e civili a preoccupare l'NKVD. Secondo la testimonianza verbalizzata, anche Jaskin giunse a "confessare" che lo scopo ultimo di Retjunin era di rovesciare le autorità regionali, imporre un regime fascista e, naturalmente, allearsi con la Germania nazista. Sapendo quello che sappiamo riguardo ai metodi sovietici di indagine, possiamo scartare queste motivazioni con una certa tranquillità.

Eppure, l'insurrezione fu assai più di una tipica ribellione di criminali comuni: aveva motivazioni palesemente politiche ed era apertamente antisovietica. E nemmeno i partecipanti corrispondevano al profilo del fuggiasco criminale tipico, poiché erano in gran parte politici. Le voci sulla ribellione si sarebbero diffuse rapidamente nei molti campi vicini, in cui durante la guerra il numero dei politici era insolitamente alto, e l'NKVD lo sapeva. Alcuni, allora e in seguito, sospettarono che i tedeschi sapessero dell'esistenza dei campi di Vorkuta e progettassero di sfruttarli come quinta colonna, se la loro avanzata in Russia fosse proseguita. Ancora oggi persistono voci riguardo al fatto che spie tedesche furono davvero paracadutate nella zona.

A Mosca temevano che il fatto si ripetesse, ed entrarono in azione. Il 20 agosto 1942 tutti i comandanti di tutti i campi del sistema ricevettero un memorandum intitolato "Sull'intensificazione delle attività controrivoluzionarie nei campi di lavoro correzionale dell'NKVD". In esso si imponeva di eliminare gli "elementi controrivoluzionari e antisovietici" dei loro campi nel giro di due settimane. Le indagini conseguenti, condotte in tutta l'Unione Sovietica, portarono alla "scoperta" di un ingente numero di presunte cospirazioni, che andavano dal "Comitato per la liberazione del popolo" di Vorkuta alla "Società russa per la vendetta contro i bolscevichi" di Omsk. Un rapporto pubblicato nel 1944 dichiarava che tra il 1941 e il 1944 erano stati scoperti 603 gruppi insurrezionali operanti all'interno dei campi, con un totale di 4640 partecipanti.72

Ribellione e fuga  427

Ovviamente, questi gruppi in larga parte non esistevano ed erano stati inventati per dimostrare che la rete di informazione interna del Gulag stava davvero facendo qualcosa. Tuttavia, le autorità avevano raeione a preoccuparsi: la ribellione di Ust'-Usa si sarebbe dimostrata davvero un pericolo per il futuro. Seppure soffocata, non venne dimenticata, come non fu dimenticato il sacrificio dei socialisti e dei trockisti giustiziati. Dieci anni dopo, una nuova generazione di prigionieri avrebbe reinventato lo sciopero politico, riprendendolo dal punto in cui l'avevano lasciato i ribelli e gli scioperanti della fame, modificando la loro tattica per adeguarla ai tempi nuovi.

A rigor di logica, però, la loro storia appartiene ai capitoli successivi. Non fa parte della storia della vita nei campi al culmine dell'impero del Gulag, ma di una saga successiva: la storia di come il Gulag giunse alla fine.

Parte terza

ASCESA E DECLINO

DEL COMPLESSO INDUSTRIALE DEI CAMPI 1940-1986

r

XIX LA GUERRA

Ero un soldato, ora sono un galeotto. Ho l'anima in ghiaccio, la lingua muta. Dov'è il poeta, dov'è l'artista che saprà descrivere la mia atroce prigionia?

E i corvi malvagi non sapevano

la condanna che ci avevano dato

quando ci torturavano, quando ci incalzavano

dalla prigione all'esilio al lager.

Ma i miracoli accadono! Sopra la cava splende una stella libera. Ho l'anima gelata ma non distrutta. Ho la lingua muta... ma parlerà!

LEONID SITKO1

Nella memoria collettiva dell'Occidente è consolidata l'idea che la Seconda guerra mondiale sia scoppiata il 1° settembre 1939, con l'invasione della Polonia occidentale da parte della Germania. Ma per la coscienza storica dei russi né questa data, né il 15 settembre 1939, giorno in cui i sovietici invasero la Polonia orientale, rappresentano l'inizio delle ostilità. Per quanto drammatica, l'invasione congiunta del territorio polacco, prevista dai negoziati che si conclusero con il patto Hitler-Stalin, non ebbe grande influenza sulla maggior parte dei cittadini sovietici.

Invece nessuno di loro dimenticò mai il 22 giugno 1941, giorno in cui Hitler diede inizio all'operazione Barbarossa, l'attacco a sorpresa contro gli alleati sovietici. Karlo Stajner, allora detenuto a Noril'sk,

tì la notizia dalla radio del campo:

Improvvisamente ci fu un'interruzione e ascoltammo la voce di Molotov e annunciava l'"attacco perfido" dei nazisti contro la Russia. Dopo qual-

Gulag

che parola, la trasmissione fu interrotta. C'erano un centinaio di uomini nella baracca, ma vi regnava un silenzio di morte. Ci guardavamo l'un l'altro smarriti. Il vicino di Vasilij mormorò: "Questa volta siamo fottuti!".2

I prigionieri politici, abituati a pensare che ogni evento pubblico di qualche importanza avesse ripercussioni negative sulla loro situazione, accolsero la notizia dell'invasione con un senso di orrore. Avevano ragione: in alcuni casi i "nemici del popolo", che in quej momento diventavano una quinta colonna potenziale, furono subito isolati e sottoposti a una più rigida repressione. Alcuni - la cifra è ancora indeterminata - furono giustiziati, ètajner racconta che dal secondo giorno di guerra ci fu un taglio delle razioni alimentari: "lo zucchero fu eliminato, e dimezzarono perfino la nostra razione di sapone". Il terzo giorno di guerra furono convocati tutti i prigionieri di nazionalità straniera. Stajner, che era cittadino austriaco (sebbene si considerasse un comunista iugoslavo), venne di nuovo arrestato, trasferito dal campo e chiuso in prigione. La pubblica accusa riaprì le indagini su di lui.

Lo stesso schema si ripetè in tutto il Gulag. Nell'Ust'vymlag, il primo giorno di guerra il comando vietò lettere, pacchi e giornali, e smontò gli altoparlanti della radio.31 dirigenti della Kolyma privarono i prigionieri politici del diritto di leggere lettere e giornali e impedirono loro di ascoltare la radio. Ovunque si intensificarono le perquisizioni, e le procedure di appello mattutine divennero più lunghe. I comandanti dei lagpunkt allestirono baracche di massima sicurezza in cui relegare i prigionieri di origine tedesca: "Presto, tutti i vari berg, burg e stein a sinistra! Sì, insomma, gli Hin-den-burg o i Dit-gen-stein" gridavano le guardie, e avrebbero voluto che anche Evgenija Ginz-burg si unisse a loro. Lei riuscì ad arrivare all'ufficio Registrazione e distribuzione, e a convincere un ispettore a verificare la sua nazionalità e cittadinanza: "Per la prima volta nella storia mondiale essere ebrea aiutò in qualcosa!".4

L'amministrazione del Karlag espulse dalla fabbrica di legname del campo tutti i prigionieri di origine finlandese e tedesca, mandandoli a tagliare gli alberi nei boschi. Un prigioniero finlandese-americano ricorda: "Dopo cinque giorni la fabbrica non era più m grado di produrre, perché finlandesi e tedeschi erano i soli tecnici esperti del lavoro ... Senza avere il permesso da Mosca, ci riportarono in fabbrica".5

La novità più drammatica, per chi ne fu colpito, fu l'ordine, emanato anch'esso il 22 giugno 1941, con cui si proibiva di lasciare il Gulag a tutti i prigionieri condannati per "tradimento della patria/

Hr  La guerra 433

I spionaggio, terrorismo, diversione, trockismo, tendenze destrorse e I Banditismo" (in altre parole, tutti i politici). I detenuti definivano il decreto un "supplemento di pena", anche se in effetti era un'ordinanza amministrativa e non una nuova condanna. Secondo i dati ufficiali, esso riguardò da subito 17.000 condannati, e altri vi vennero inclusi in seguito.6 Di solito non c'era nessun preavviso: se il prigioniero corrispondeva alle caratteristiche indicate, il giorno stabilito per il rilascio riceveva un documento che gli imponeva di restare dietro il filo spinato "fino alla fine della guerra".7 Molti ritennero che l'ordinanza li condannasse a restare in carcere per sempre. "Soltanto allora capii fino in fondo quanto fosse tragica la mia situazione" ricorda uno di loro.8

Più tragica che mai era la situazione delle donne con figli. Una prigioniera polacca racconta la storia di una donna costretta a lasciare il figlio piccolo in un nido esterno al campo. Ogni giorno trascorso in prigionia non pensava ad altro che al modo di riprenderlo con sé. Poi, quando arrivò il momento del rilascio, le dissero che non sarebbe stata liberata a causa della guerra: "Lei gettò da parte il lavoro che stava facendo, si abbattè sul tavolo e si mise non a singhiozzare, ma a ululare come un animale".9

Anche Ol'ga Adamova-Sliozberg racconta di una donna, Nadja Fedorovic, che sarebbe dovuta uscire il 25 giugno 1941. Suo figlio abitava con certi lontani parenti che volevano sbarazzarsi di lui e aspettava il suo ritorno; lei gli scriveva esortandolo ad avere pazienza. Poi, quando la sua condanna stava per finire, seppe che non sarebbe stata liberata, e gli scrisse di nuovo. Il figlio non rispose:

Finalmente, nell'inverno del 1942, le arrivò una lettera da uno sconosciuto, il quale aveva raccolto Borja alla stazione di una località remota della Siberia, nei pressi di Irkutsk, e si era accorto che il ragazzo aveva la polmonite. Se l'era portato a casa e l'aveva curato finché era migliorato. L'uomo rimproverava a Nadja di aver dimenticato il figlio appena era stata liberata; la accusava di essere una cattiva madre, che magari se n'era andata, si era risposata e sistemata mentre il figlio quattordicenne, imbarcatosi a Rjazan' senza biglietto su un treno diretto a Irkutsk, moriva di fame.

Nadja cercò invano di mettersi in contatto con lo sconosciuto: i censori non lasciavano più partire le lettere dei prigionieri politici, soprattutto quelle che parlavano di condanne prolungate a data indeterminata. In seguito, venne a sapere che il figlio si era associato a una banda, e nel 1947 anche lui finì alla Kolyma, condannato a cinque annUo

Mentre la guerra continuava, la vita si faceva sempre più dura per

Gulag

chi era rimasto dietro il filo spinato. Nuove leggi fissarono una giornata lavorativa più lunga; la renitenza al lavoro non era più soltanto illegale, diventava alto tradimento. Nel gennaio 1941 Vasilij Cernysev allora capo dell'amministrazione centrale del Gulag, inviò una circolare ai comandanti di tutti i campi e le colonie di lavoro in cui descriveva il destino di 26 prigionieri: il sistema giurisdizionale del campo li aveva sottoposti a processo e riconosciuti colpevoli di renitenza al lavoro: a 5 aveva aumentato la pena detentiva di dieci anni, mentre gli altri 21 erano stati condannati a morte. In tono brusco, Cernysev diceva ai suoi sottoposti di "informare [delle sentenze] tutti i prigionieri dei campi e delle colonie di lavoro correzionale".11

Il messaggio si diffuse rapidamente attraverso i vari canali. Come scrive Gustaw Herling, tutti i prigionieri sapevano bene che "i reati più gravi che si potessero commettere nel campo dopo il 22 giugno 1941 erano la diffusione del disfattismo e il rifiuto di lavorare, che in base ai nuovi regolamenti rientrava nella categoria del "sabotaggio dello sforzo bellico"".12

Tutti questi provvedimenti, uniti alla grave penuria di cibo, ebbero effetti drammatici. Le esecuzioni di massa non erano così frequenti come tra il 1937 e il 1938, ma nonostante ciò il tasso di mortalità fra i prigionieri registrato tra il 1943 e il 1944 è il più alto di tutta la storia del Gulag. Secondo le statistiche ufficiali, quasi certamente inesatte per difetto, nel 1942 morirono 352.560 prigionieri, ossia uno su quattro. Nel 1943 ne morirono 267.826, ossia uno su cinque.13 È probabile che la percentuale di malati, calcolata secondo le fonti ufficiali al 22 per cento nel 1943 e al 18 nel 1944, fosse molto superiore, dato che nei campi imperversavano il tifo, la dissenteria e altre epidemie.14

Nel gennaio 1943 la situazione era talmente grave che il governo sovietico istituì uno speciale "fondo alimentare" per il Gulag; seppure "nemici", i prigionieri erano comunque necessari per sostenere la produzione bellica. In effetti, la situazione degli approvvigionamenti migliorò quando le sorti della guerra volsero a favore dell'Unione Sovietica ma, anche contando i supplementi, il contenuto calorico della razione fissata dalle normative alla fine del conflitto era inferiore di un terzo a quello stabilito nella seconda metà degli anni Trenta.15 Durante gli anni di guerra, nei campi e nelle colonie del Gulag morirono in totale ben oltre due milioni di persone, senza contare coloro che pe" rirono in esilio o mentre erano sottoposti ad altre forme di carcerazione. Fra questi, più di 10.000 furono fucilati, per tradimento o per sabotaggio, su ordine dei procuratori del Gulag.16

La guerra  435

Per inquadrare meglio queste cifre e questa nuova situazione, bisogna dire che, durante la guerra, in Unione Sovietica soffrivano anche i liberi cittadini, e che l'inasprimento di norme e regime non colpiva soltanto i prigionieri, ma anche gli operai impiegati fuori dai campi. Già nel 1940, in seguito all'invasione della Polonia e delle repubbliche baltiche da parte dei sovietici, il Soviet supremo stabilì una giornata lavorativa di otto ore, sette giorni su sette, per tutte le fabbriche e istituzioni. In base a una norma ancora più severa, tutti gli operai avevano l'obbligo di non lasciare il posto di lavoro: farlo era considerato un reato, punibile con una condanna ai lavori forzati. Era reato ("sabotaggio") anche produrre beni di "qualità scadente", e pure le altre infrazioni o mancanze venivano punite con maggior severità. Gli operai accusati di piccoli furti sul posto di lavoro, come la sottrazione di pezzi di ricambio, arnesi, carta o materiale di cancelleria, potevano essere condannati a un anno di lavori forzati, o anche di più.17

La popolazione soffriva la fame fuori dai campi quasi altrettanto che dentro: durante il blocco di Leningrado imposto dall'assedio tedesco, la razione quotidiana di pane fu ridotta a meno di 120 grammi, insufficienti per sopravvivere. Inoltre, trovare petrolio da riscaldamento era impossibile, e quindi l'inverno nel rigido clima settentrionale divenne un tormento. La gente catturava uccelli e topi, rubava il cibo ai bambini moribondi, mangiava cadaveri, uccideva pur di procurarsi le tessere alimentari. "Chiusi nei loro alloggi, i leningradesi lottavano per sopravvivere, come esploratori polari ridotti allo stremo" ricorda un superstite.18

Leningrado non era affatto la sola città ridotta alla fame. Secondo i rapporti dell'NKVD per l'aprile 1945, la carestia e la denutrizione erano un fenomeno di massa anche nell'Asia centrale, nell'Uzbekistan, in Mongolia e nella repubblica dei tatari. Più di tutti soffrivano i familiari dei militari al fronte, che non potevano più disporre del sostegno economico dei loro congiunti. Anche l'Ucraina era colpita dalla carestia: ancora nel 1947 vennero documentati casi di cannibalismo.19 L'Unione Sovietica dichiarò di aver perduto complessivamente venti milioni di cittadini durante la guerra; fra il 1941 e il 1945, le fosse comuni non furono un fenomeno limitato al Gulag.

La dichiarazione di guerra produsse, come immediata conseguenza, non soltanto un inasprimento del regime e l'imposizione di riorme più severe, ma anche il caos. L'invasione tedesca procedeva a una velocità sconvolgente. Nelle prime quattro settimane dell'operazione Barbarossa furono sbaragliate quasi tutte le 319 unità com-

Gulag

battenti sovietiche.20 All'arrivo dell'autunno le truppe naziste avevano occupato Kiev, cinto d'assedio Leningrado, e sembravano in procinto di conquistare anche Mosca.

Gli avamposti del Gulag sui confini occidentali furono travolti nei primissimi giorni di guerra. Nel 1939 le autorità avevano chiuso le ultime baracche delle isole Soloveckie, trasferendo tutti i prigionieri in carceri continentali, perché ritenevano che quel campo fosse troppo vicino al confine finlandese.21 (Durante l'evacuazione e con la successiva occupazione finlandese, gli archivi del campo sparirono. Probabilmente furono distrutti come prescritto, ma secondo una diceria mai confermata tutta la documentazione sarebbe stata trafugata dalle truppe finlandesi e ancor oggi si troverebbe a Helsinki, nascosta in qualche segretissimo deposito governativo sotterraneo.)22 Nel luglio 1941 le autorità avevano anche ordinato al Belbaltlag, il comando dei campi del canale del mar Bianco, di disporre l'evacuazione dei prigionieri, lasciando però cavalli e bestiame per l'Armata rossa. Dai documenti non è possibile sapere se le truppe abbiano potuto servirsene prima che cominciasse l'invasione tedesca.23

In altre località, i funzionari dell'NKVD furono semplicemente presi dal panico, soprattutto nelle zone di recente occupazione come la Polonia orientale e gli stati baltici, dove le prigioni erano stracol-me di detenuti politici. L'NKVD non aveva il tempo di evacuarli, ma non voleva lasciare dei "terroristi antisovietici" a disposizione dei tedeschi. Il 22 giugno, lo stesso giorno dell'invasione, gli agenti dell'NKVD cominciarono a fucilare i detenuti nelle prigioni di Leo-poli, la città polacco-ucraina vicina alla frontiera fra Germania e URSS. Ma durante l'operazione la città fu travolta da una ribellione guidata da nazionalisti ucraini, e l'NKVD dovette abbandonare le prigioni. Incoraggiati dall'improvvisa assenza delle guardie e sentendo gli spari sempre più vicini, dei carcerati della Brygidka, una prigione nel cuore della città, sfondarono i cancelli per fuggire. Altri, invece, non vollero lasciare le celle, nel timore che le guardie fossero all'esterno ad aspettarli, per avere la scusa di ucciderli tutti.

Questi ultimi avrebbero pagato caro il loro errore. Il 25 giugno gli agenti dell'NKVD tornarono, accompagnati per rinforzo dalle guardie di confine: liberarono i detenuti "comuni" e mitragliarono tutti i prigionieri politici nelle loro celle sotterranee. I carri armati e i camion che passavano per le strade soffocarono il rumore degli spari. I detenuti delle altre prigioni della città fecero la stessa fine. In tutto, a Leo-poli l'NKVD uccise circa 4000 prigionieri e li seppellì in fosse cornuru, che ebbe appena il tempo di coprire con un sottile strato di sabbia.24

La guerra  437

In tutte le zone di confine si verificarono atrocità analoghe. In conseguenza della ritirata dei sovietici, l'NKVD si lasciò alle spalle circa 21.000 prigionieri, liberandone altri 7000. Ma, in un'ultima esplosio-ne di violenza, le truppe dell'NKVD e dell'Armata rossa assassinarono circa 10.000 detenuti in dozzine di città e villaggi baltici e polacchi: Vilnius, Drochobycz, Pinsk.25 Li fucilavano nelle loro stesse celle, nei cortili delle prigioni o nelle foreste vicine. Nel corso della ritirata, i militari dell'NKVD incendiarono edifici e fucilarono dei civili, a volte uccidendo i proprietari delle case dove avevano trovato alloggio i loro stessi commilitoni.26

Nelle zone più lontane dal confine, dove c'era più tempo per predisporre le cose, la direzione del Gulag cercò di organizzare vere e proprie evacuazioni dei campi. Tre anni dopo, in una lunga e tronfia enumerazione delle operazioni compiute per favorire lo sforzo bellico, il capo del Gulag in tempo di guerra, V.G. Nasedkin, definiva "ordinate" quelle evacuazioni. I piani erano stati "elaborati dal Gulag in coordinamento con il trasferimento dei centri di produzione industriale" affermava Nasedkin, anche se "per i noti problemi del trasporto, una quota significativa di prigionieri fu evacuata a piedi".27

In effetti, non esistevano piani già predisposti, e le evacuazioni si svolsero in un clima frenetico di panico generale, spesso sotto i bombardamenti tedeschi. I "noti problemi del trasporto" significavano che i prigionieri morivano soffocati nei vagoni sovraffollati dei treni, o che le bombe li colpivano distruggendoli prima dell'arrivo a destinazione. Un detenuto polacco, Janusz Puchinski, arrestato e deportato il 19 giugno, riuscì a fuggire da un treno incendiato stracolmo di prigionieri, insieme alla madre e ai fratelli:

A un certo punto si sentì un forte scoppio e il treno si fermò. La gente cominciò a scendere ... Vidi che il treno era fermo in una profonda gola. Pensai che non sarei mai riuscito a uscirne. Gli aerei mi passavano ululando sopra la testa, mi sembrava di avere le gambe di cotone. Non so come riuscii ad arrampicarmi fino all'orlo dello strapiombo e cominciai a correre verso i boschi, a 200-250 metri dai binari. Quando ci arrivai, mi voltai e vidi che alle mie spalle, nella zona scoperta, c'era una gran folla di persone. In quel momento arrivò un altro stormo di aerei che cominciarono a mitragliare la folla.. ,28

Le bombe colpirono anche un treno che trasportava i detenuti della prigione di Kolomyja: alcuni furono uccisi, ma circa trecento riuscirono a mettersi in salvo. I militari della scorta ne catturarono centocinquanta, ma poi li lasciarono andare. In seguito spiegarono che non disponevano di nessuna risorsa per alimentare e alloggiare i Prigionieri. Tutte le carceri della zona erano state evacuate.29

Gulag

Tuttavia furono in pochi a vivere l'esperienza di trovarsi su un convoglio di prigionieri sotto un bombardamento/ se non altro perché era rarissimo che i detenuti fossero trasferiti per ferrovia. Sui treni in partenza dai campi, i familiari e i bagagli delle guardie e del personale amministrativo prendevano tanto spazio da non lasciarne più per i detenuti.30 In altri casi, le attrezzature industriali avevano la priorità sulle persone, per motivi pratici e anche propagandistici. Il comando sovietico, dopo essere stato sbaragliato sul confine occidentale, promise di ricostituirsi a est degli Urali.31 Di conseguenza, la "quota significativa" di prigionieri - in realtà, una stragrande maggioranza -che, secondo Nasedkin, era stata "evacuata a piedi" dovette sottoporsi a lunghe marce forzate. Nelle descrizioni di queste ultime si ritrova l'eco ossessiva delle marce a cui furono costretti i prigionieri dei campi di concentramento nazisti quattro anni dopo: "Non abbiamo mezzi di trasporto" dichiarò una sentinella a un drappello di prigionieri, sotto le bombe che cadevano. "Chi può camminare dovrà camminare. Protestiate o no, camminerete tutti. Quelli che non possono camminare li fucileremo. Non lasceremo nessuno per i tedeschi... decidete voi il vostro destino."32

E i prigionieri camminavano, anche se in molti casi il loro tragitto fu troncato dopo poco. La rapida avanzata tedesca metteva in agitazione i militari dell'NKVD, che quando diventavano nervosi cominciavano a sparare. Il 2 luglio i 954 detenuti del carcere di Czortków, nell'Ucraina occidentale, cominciarono la marcia verso est. Lungo la strada, l'ufficiale che in seguito scrisse il rapporto identificò 123 di loro come nazionalisti ucraini e li fucilò per "tentativo di ribellione e di fuga". Dopo una marcia di oltre due settimane, con le truppe tedesche a 20-30 chilometri di distanza, fece fucilare anche tutti i superstiti.33

A volte le cose non andavano meglio neppure per quanti riuscivano a proseguire. Nasedkin afferma: "l'apparato del Gulag nelle aree di frontiera fu mobilitato per assicurare che le squadre di evacuazione e i mezzi di trasporto dei detenuti disponessero di servizi medi-co-sanitari e di provviste alimentari".34 Ecco invece come descrive l'evacuazione della prigione di Kirovograd M. Stejnberg, una prigioniera politica arrestata nel 1941 per la seconda volta:

Su tutto batteva un sole accecante. A mezzogiorno divenne insopportabile. Eravamo in Ucraina, in agosto. Tutti i giorni si arrivava a 35 gradi. C'era un numero immenso di persone in cammino, e su questa folla era sospesa una nuvola di polvere. Non si respirava, non c'era aria...

Ogni prigioniero recava un fagotto. Anch'io lo avevo. Mi ero portata addirittura un cappotto, perché senza è difficile sopravvivere alla detenzione-

r

La guerra  439

Serve da cuscino, da coperta, da riparo... per tutto. In quasi tutte le prigioni non ci sono letti, né materassi, né biancheria. Ma dopo aver fatto 30 chilometri con quella calura, lasciai cadere il mio fagotto al margine della strada. Sapevo che non avrei avuto la forza di portarlo. Le altre donne, per la stragrande maggioranza, fecero lo stesso. Quelle che non avevano abbandonato il loro fagotto dopo i primi 30 chilometri lo lasciarono dopo 200. Nessuna riuscì a portarlo fino a destinazione. Dopo altri 20 chilometri, io mi tolsi le scarpe e abbandonai anche quelle...

Quando superammo Adzamka, mi trascinai dietro per 30 chilometri la mia compagna di cella, che si chiamava Sokolovskaja. Era vecchia, aveva più di settantanni, con i capelli bianchi... faceva molta fatica a camminare. Si aggrappava a me, e continuava a parlare del nipote quindicenne con il quale abitava un tempo. Il massimo terrore della sua vita era che anche il nipote fosse arrestato. Per me era faticoso trascinarla, e anch'io cominciai a vacillare. Lei mi disse: "riposati un po', cammino da sola". E in poco tempo rimase indietro di un chilometro. Eravamo le ultime della colonna. Quando mi accorsi che era rimasta indietro, mi voltai, pensando di raggiungerla... e vidi che la uccidevano. Con un colpo di baionetta. Nella schiena. Lei non se ne accorse nemmeno. È chiaro che sapevano come colpire. Lei non si mosse neppure. In seguito mi resi conto che era stata una buona morte, più facile di quella di altre: non vide la baionetta. Non ebbe il tempo di spaventarsi.. .35

Nel complesso, l'NKVD si occupò dell'evacuazione di 750.000 prigionieri da 27 campi e 210 colonie di lavoro.36 Altri 140.000 furono evacuati da 272 prigioni e trasferiti in carceri dell'est.37 Una quota significativa di essi - anche se è praticamente impossibile fornire cifre esatte - non arrivò mai a destinazione.

XX "FORESTIERI"

I salici sono salici dappertutto.

Salice di Alma-Ata, sei bellissimo,

rivestito di splendente brina bianca.

Ma se ti dimenticassi,

salice avvizzito di via Rozbrat, a Varsavia,

che la mia mano possa anch'essa disseccarsi!

I monti sono monti dappertutto.

Tian Shan, dinanzi ai miei occhi,

svetta in un cielo viola...

Ma se dovessi dimenticarvi,

vette del latra che mi sono lasciato alle spalle

ruscello di Biafy, dove con mio figlio

fantasticavamo variopinte crociere...

che io mi trasformi in una pietra del Tian Shan.

Se ti dimenticassi

se dimenticassi la mia città natale...

ALEKSANDER WAT, Salici di Alma-Ata1

Fin dalla nascita del Gulag, tra i detenuti era sempre esistita una notevole quantità di cittadini stranieri. Per lo più si trattava di comunisti e membri del Comintern di paesi occidentali, ma c'era anche un ristretto numero di mogli francesi o inglesi di cittadini sovietici, e qualche uomo d'affari espatriato. Erano considerati delle rarità, delle curiosità, eppure grazie al loro passato di comunisti e all'esperienza di vita in Unione Sovietica riuscivano a trovare un buon affiatamento con i compagni di prigionia. Scrive Lev Razgon:

Li consideravamo tutti "di casa", perché erano nati o cresciuti da noi, oppure erano venuti a vivere qui per libera scelta. Anche se parlavano malissimo il russo, o non lo parlavano affatto, erano dei nostri. E nella mescolanza di

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popoli dei campi ben presto smettevano di spiccare fra gli altri o di apparire diversi. Quelli che sopravvivevano al primo o al secondo anno nel lager finivano col distinguersi in mezzo a "noi" solo per il fatto di parlar male il russo.2

Gli stranieri che comparvero dopo il 1939 erano tutt'altra cosa. Senza preavviso, l'NKVD aveva scelto i nuovi venuti - polacchi, baltici, ucraini, bielorussi o moldavi - strappandoli al loro mondo borghese o contadino, dopo che i sovietici avevano invaso regioni multietniche come la Polonia orientale, la Bessarabia e gli stati baltici, per relegarli in grandi quantità nel Gulag e nei villaggi di confino. Per differenziarli dagli stranieri "di casa", Razgon li chiamava "forestieri". Essendo stati "scacciati dal loro paese e scaraventati all'estremo nord della Russia da una forza storica aliena e ostile che essi non potevano comprendere", risultavano immediatamente riconoscibili per il carattere degli oggetti in loro possesso: "Appena arrivavano nell'Ust'vymlag venivamo a saperlo subito, perché fra i detenuti per reati comuni comparivano articoli di vestiario esotici: i colbacchi di ispida pelliccia e le cinture colorate della Moldavia, e dalla Bucovina i panciotti di pelliccia ricamati e le eleganti giacche attillate con una spessa imbottitura alle spalle".3

Nei territori di recente occupazione, all'indomani dell'invasione sovietica della Polonia orientale del settembre 1939, erano cominciati gli arresti, proseguiti con le successive invasioni della Romania e delle repubbliche baltiche. L'obiettivo dell'NKVD era da un lato la sicurezza - si voleva impedire la rivolta e la formazione di quinte colonne - dall'altro la sovietizzazione: di conseguenza le persone prese di mira erano quelle che secondo l'NKVD più probabilmente avrebbero contrastato il regime sovietico. Si trattava, oltre che dei funzionari della precedente amministrazione polacca, di mercanti e commercianti, poeti e scrittori, contadini e agricoltori benestanti; arrestando questo genere di persone si poteva incrinare la resistenza psicologica degli abitanti della Polonia orientale.4 L'NKVD prendeva di mira anche i profughi della Polonia occidentale sotto l'occupazione tedesca, fra i quali si trovavano migliaia di ebrei in fuga dalle persecuzioni hitleriane.

In seguito, i criteri per procedere agli arresti diventarono più precisi/ almeno nella misura in cui potevano essere precisi i criteri stabiliti dal regime sovietico a riguardo. In un documento del maggio 1941, relativo all'espulsione di elementi "socialmente estranei" originali delle repubbliche baltiche, della Romania e della Polonia occupate, si richiedeva fra l'altro l'arresto di "attivisti delle organizzazioni controrivoluzionarie" (ossia dei partiti politici), di ex funzionari della

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polizia giudiziaria o carceraria, di eminenti capitalisti e borghesi, di ex ufficiali degli eserciti nazionali, dei familiari di tutte le persone sopra indicate, di tutti coloro che rimpatriassero dalla Germania, di profughi dell'"ex Polonia", come pure di ladri e prostitute.5

Un'altra serie di istruzioni emanate nel novembre 1940 dal commissario della Lituania da poco sovietizzata imponeva la deportazione, oltre che degli appartenenti alle categorie suddette, di

coloro che viaggiano spesso all'estero, sono in corrispondenza con paesi d'oltremare oppure in contatto con esponenti di stati esteri; gli esperantisti; i filatelici; i collaboratori della Croce Rossa; i profughi; i contrabbandieri; coloro che sono stati espulsi dal Partito comunista; i sacerdoti e i membri attivi di congregazioni religiose; i nobili, proprietari terrieri, ricchi commercianti, banchieri, industriali, proprietari di alberghi e ristoranti.6

Chiunque infrangesse le leggi sovietiche, comprese quelle che vietavano la "speculazione", cioè tutte le forme di commercio privato, poteva essere arrestato, e lo stesso valeva per chi cercasse di attraversare il confine sovietico allo scopo di rifugiarsi in Ungheria o in Romania.

Dato il numero così ingente di arresti, le autorità di occupazione sovietiche dovettero ben presto rinunciare anche a una finzione di legalità. Fra quanti furono catturati dall'NKVD nei nuovi territori occidentali solo pochissimi subirono un vero e proprio processo, furono incarcerati o condannati. La guerra invece riportò in auge il sistema della "deportazione amministrativa", il procedimento iniziato dal potere zarista che era stato usato contro i kulaki. In effetti, "deportazione amministrativa" è un nome altisonante che corrisponde a una procedura semplicissima: militari o guardie di convoglio dell'NKVD arrivavano in una casa e imponevano agli abitanti di partire, lasciando loro per prepararsi a volte un giorno, a volte pochi minuti. Poi arrivavano i camion, li trasportavano alla stazione ferroviaria, e via. Non c'erano arresti o processi, nessuna formalità procedurale.

Le cifre sono astronomiche. Lo storico Aleksandr Gurjanow stima che nei territori della Polonia orientale siano state arrestate e trasferite nei campi di lavoro 108.000 persone, mentre altre 320.000 furono deportate nei villaggi di residenza coatta, alcuni dei quali erano stati fondati dai kulaki, nell'estremo nord e in Kazakistan.7 Occorre poi aggiungere i 96.000 detenuti arrestati e i 160.000 deportati dalle repubbliche baltiche, oltre a 36.000 moldavi.8 Fra deportazioni e guerra, la popolazione delle repubbliche baltiche subì un contraccolpo gravissimo: dal 1939 al 1945 gli abitanti dell'Estonia diminuirono del 25 per cento.9

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Queste deportazioni, come le deportazioni dei kulaki, hanno una storia a parte rispetto a quella del Gulag vero e proprio e, come ho detto, nell'ambito del presente volume non è possibile riferire per esteso la vicenda di questo movimento di famiglie su larga scala. Tuttavia non si tratta di argomenti del tutto separati. Spesso non è facile capire perché l'NKVD decidesse di deportare un determinato individuo, esiliandolo in uno dei villaggi di residenza coatta, e perché decidesse invece in un altro caso di arrestare una persona per mandarla a vivere in un campo di lavoro forzato: infatti i precedenti degli uni e degli altri potevano essere analoghi. A volte, quando una persona era condannata al campo, la moglie e i figli venivano deportati; oppure si arrestava il figlio e si deportavano i genitori. Alcuni fra gli arrestati scontavano la condanna nel campo e poi andavano ad abitare in un villaggio di esiliati, a volte insieme ai familiari che erano stati deportati.

A parte la funzione punitiva, le deportazioni si inserivano bene nel grandioso progetto staliniano di ripopolamento dei territori settentrionali della Russia. Come il Gulag, i villaggi di residenza coatta erano situati per deliberato proposito nelle regioni più remote, e non erano intesi come situazioni provvisorie, ma definitive. Certo, gli agenti dell'NKVD dicevano a molti esuli che non sarebbero mai tornati alle loro case, e addirittura, quando i deportati salivano sui treni, pronunciavano dei discorsi in cui si congratulavano con i "nuovi cittadini" per la loro emigrazione permanente in Unione Sovietica.10 Nei villaggi di esuli, spesso i comandanti del luogo ricordavano ai nuovi arrivati che la Polonia ormai era stata spartita fra la Germania e l'Unione Sovietica e non sarebbe esistita mai più. Un insegnante russo disse a una scolaretta polacca che la rinascita della Polonia aveva la stessa probabilità di verificarsi della "crescita del pelo sulle [sue] mani".11 Nel frattempo, nelle città e nei villaggi dove gli esuli erano vissuti, i nuovi funzionari sovietici confiscavano e ridistribuivano le loro proprietà: case private diventavano istituzioni pubbliche - scuole, ospedali, cliniche ostetriche - e gli arredi domestici (che non fossero stati ancora rubati dai vicini o dall'NKVD) venivano usati per orfanotrofi o scuole materne.12

I deportati soffrivano altrettanto, se non di più, rispetto ai compatrioti che erano stati mandati nei campi di lavoro. Per lo meno i detenuti dei campi avevano una razione quotidiana di pane e un posto Per dormire, mentre spesso gli esiliati non disponevano neppure di Questo. Le autorità li abbandonavano nel pieno di una foresta vergi-ne o in minuscoli villaggi della Russia settentrionale, del Kazakistan 0 dell'Asia centrale, e li lasciavano a provvedere a se stessi, talvolta

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senza che ne avessero le risorse. Nella prima ondata di deportazioni le guardie addette alla sorveglianza impedivano loro di portare cori sé qualsiasi cosa, arnesi da cucina, vestiario o utensili. Soltanto nel novembre 1940 la direzione delle guardie di sorveglianza sovietiche si riunì e annullò la precedente disposizione: perfino le autorità si erano rese conto che se gli esiliati non possedevano nulla il tasso di mortalità diventava altissimo, e quindi ordinarono ai sorveglianti di avvisarli, come si è notato in precedenza, che dovevano portare con sé abiti pesanti sufficienti per un periodo di tre anni.13

Nonostante questo, molti deportati non erano preparati né nello spirito né nel fisico a una vita da boscaioli o da contadini di kolhoz. Il paesaggio stesso sembrava estraneo e terrorizzante. Nel suo diario, una donna lo descrive come lo vide per la prima volta dal treno: "Ci trasportano attraverso questa distesa sterminata; una terra piatta e immensa dove si incontrano solo radi insediamenti umani disseminati qua e là. Ogni volta vediamo squallide baracche di fango con il tetto di paglia e finestre piccole, sporche e cadenti, senza steccati e senza alberi...".14

Di solito, all'arrivo la situazione era ancora peggiore. Molti esuli erano avvocati, medici, negozianti e commercianti, abituati a vivere in città grandi o piccole, in condizioni di relativa raffinatezza. Invece, un rapporto datato dicembre 1941 descrive gli esuli provenienti dai "nuovi" territori occidentali che vivono in baraccamenti sovraffollati: "Gli edifici sono sporchi, e di conseguenza c'è un alto tasso di malattie e di mortalità, soprattutto fra i bambini ... la maggior parte degli esiliati non ha abiti pesanti e non è abituata al freddo".15

Nei mesi e negli anni seguenti le sofferenze non fecero che aumentare, come attesta una serie insolitamente numerosa di rapporti. Dopo la guerra, quello che allora era il governo polacco in esilio commissionò e conservò una raccolta di "memoriali" delle deportazioni scritti da bambini. Questi documenti servono meglio di qualsiasi resoconto stilato da adulti a illustrare sia il trauma culturale, sia la condizione di deprivazione fisica vissuti dai deportati. Un ragazzo polacco, che aveva tredici anni quando lo "arrestarono", scrisse la seguente descrizione dei mesi trascorsi in esilio:

Non c'era niente da mangiare. Le persone mangiavano ortica che le faceva gonfiare, e se ne andavano all'altro mondo. Ci obbligavano ad andare nella scuola russa perché se non andavi a scuola non ti davano il pane. Ci insegnavano a non pregare Dio perché Dio non c'è e quando, alla fine della lezione, tutti ci siamo alzati e abbiamo cominciato a pregare, il comandante del villaggio mi ha rinchiuso nella tjurma [prigione].16

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Da altri racconti dei bambini traspare il trauma subito dai genitori. "La mamma voleva togliersi la vita insieme a noi, per non vivere in un così grande tormento, ma quando le dissi che intendevo vedere papa e tornare in Polonia, la mamma si riprese" scrive un altro bambino, che aveva otto anni quando fu arrestato.17 Ma non sempre le mamme riuscivano a riprendersi. Un altro ragazzo, che all'epoca della deportazione aveva quattordici anni, descrìve il tentativo di suicidio della madre:

La mamma venne nella baracca, prese una corda, un po' di pane, e se ne andò nel bosco. Io cercai di trattenerla e lei nel suo dolore mi colpì con la corda e se ne andò. Poche ore dopo trovarono la mamma su un abete, con la corda intorno al collo. Sotto l'abete c'erano delle ragazze, la mamma credeva che fossero le mie sorelle e voleva dire qualcosa ma le ragazze fecero un grande baccano intorno al comandante che prese l'ascia dalla cintura e abbattè l'abete... La mamma ormai era impazzita, prese l'ascia del comandante e lo colpì alla schiena, il comandante cadde a terra...

Il giorno dopo portarono la mamma in una prigione a 300 chilometri da dove ero io. Io mi resi conto che dovevo lavorare e continuai a trasportare legname. Avevo un cavallo che continuava a cadere insieme a me. Trasportai legname per un mese e poi mi ammalai e non potevo più lavorare. Il comandante avvisò il venditore che non ci doveva dare del pane ma il venditore aveva comprensione per i bambini e ci dava il pane di nascosto... presto la mamma tornò dalla prigione con i piedi congelati e le rughe sulla faccia.. ,18

E non tutte le mamme sopravvivevano, come racconta un altro bambino:

Arrivammo nel villaggio e il secondo giorno ci portarono al lavoro sui camion, dove dovevamo lavorare dall'alba alla notte. Quando arrivava il giorno di paga, il massimo erano dieci rubli per quindici giorni, così dopo due giorni non bastava neanche per il pane. La gente moriva di fame. Mangiavano cavalli morti. Così lavorava la mia mamma e si ammalò per il freddo perché non aveva abiti pesanti le venne la polmonite e rimase ammalata per cinque mesi si era ammalata il 3 dicembre. Il 3 aprile andò in ospedale. In ospedale non la curarono per niente forse se non fosse andata in ospedale sarebbe ancora viva, tornò nelle baracche del villaggio e morì non c'era niente da mangiare e così è morta di fame il 30 aprile 1941. La mamma stava morendo e io e mia sorella eravamo a casa. Papa non c'era era a lavorare e la mamma morì quando papa tornò dal lavoro la mamma morì e così la mamma morì di fame. E poi arrivò l'amnistia e uscimmo da quell'inferno.19

Commentando questa antologia di racconti, insoliti per quantità e Dualità, Bruno Bettelheim ha cercato di descrivere la particolare for-.fta di disperazione che evocano:

Dato che i bambini li hanno scritti dopo essere tornati in libertà e in un ambiente sicuro, sembrerebbe ragionevole che parlassero della loro speranza di essere liberati, se l'avevano. Ma poiché mancano accenni in questo senso, si

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può supporre che non ne avessero affatto. A questi bambini era stata rubata la libertà di esprimere sentimenti profondi e normali; erano invece costretti a reprimerli per sopravvivere anche solo un altro giorno. Un bambino privato della speranza per il futuro è un bambino che vive in un inferno.. .20

Non meno crudele è il destino di un altro gruppo di esuli, che durante la guerra fecero la stessa fine dei polacchi e dei baltici: si tratta dei gruppi di minoranza dell'Unione Sovietica, che Stalin fin dai primi giorni di guerra aveva individuato come quinte colonne potenziali, o aveva in seguito additato come "collaborazionisti" dei tedeschi. Le "quinte colonne" erano i tedeschi del Volga, una popolazione i cui antenati, provenienti dalla Germania, erano stati invitati a vivere in Russia all'epoca di Caterina la Grande (anche lei teneva molto a colonizzare le immense distese disabitate del suo impero), e la minoranza di lingua finlandese della repubblica sovietica di Carelia. Non tutti i tedeschi del Volga parlavano ancora tedesco, e neppure i finlandesi di Carelia parlavano tutti il finlandese, ma costituivano comunità a sé e avevano usi diversi da quelli dei loro vicini russi. Nel contesto della guerra contro la Finlandia e la Germania, tanto bastava per renderli persone sospette. Con un salto logico piuttosto contorto anche per i cri-teri sovietici, nel settembre 1941 l'intera popolazione dei tedeschi del Volga fu condannata in base all'accusa di "nascondere dei nemici" :

Secondo notizie attendibili ricevute dalle autorità militari, fra la popolazione tedesca residente nella regione del Volga si trovano migliaia e decine di migliaia di deviazionisti e spie, i quali, a un segnale da parte della Germania, sono pronti a compiere azioni di sabotaggio nella regione abitata dai tedeschi del Volga ... [Tuttavia] nessuno fra i tedeschi del Volga ha segnalato alle autorità sovietiche l'esistenza di una quantità così grande di deviazionisti e spie fra i tedeschi del Volga; di conseguenza la popolazione tedesca del Volga nasconde al suo interno nemici del popolo sovietico e del potere sovietico.21

Le autorità sovietiche possedevano "notizie attendibili" circa l'esistenza di migliaia di spie, eppure nessuno ne aveva segnalato la presenza. Ergo, tutti erano colpevoli di nascondere il nemico.

Tra i "collaborazionisti" si contavano varie piccole popolazioni caucasiche - i caraciai, i balcari, i calmucchi, i ceceni e gli ingusci - oltre ai tatari di Crimea e altri piccoli gruppi di minoranze: i turchi me-skheti, i curdi e i chemscili, oltre a gruppi ancor più esigui di greci, bulgari e armeni.22 Mentre Stalin era ancora vivo, soltanto le deportazioni dei ceceni e dei tatari vennero rese pubbliche: sebbene fossero stati esiliati nel 1944, le "Izvestija" pubblicarono la notizia come se l'operazione fosse stata compiuta nel giugno 1946:

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Durante la grande guerra patriottica, quando i popoli dell'URSS difendevano eroicamente l'onore e l'indipendenza della madrepatria nella lotta contro gli invasori tedeschi e fascisti, molti ceceni e tatari di Crimea, istigati da agenti tedeschi, si sono arruolati nelle truppe volontarie al comando dei tedeschi... Di conseguenza, i ceceni e i tatari di Crimea sono stati trasferiti in altre regioni dell'URSS.23

In effetti, non esistono prove che i ceceni o i tatari abbiano collabo-rato in massa con il nemico/ anche se i tedeschi erano molto attivi nel cercare di arruolarli, assai più di quanto lo fossero con i russi. Le truppe tedesche si fermarono a ovest di Groznyj, la capitale della Ce-cenia, e soltanto qualche centinaio di ceceni attraversò la linea del fronte.24 Un rapporto dell'NKVD calcola a soli 335 il numero dei "banditi" nella repubblica cecena.25 In modo analogo, sebbene i tedeschi fossero riusciti a occupare la Crimea, a cooptare i tatari nel regime di occupazione e ad arruolarli nella Wehrmacht, così come arruolavano francesi e olandesi, non vi sono prove che i tatari abbiano collaborato con gli invasori in misura maggiore o minore rispetto alla popolazione di altre zone occupate dell'Unione Sovietica (o dell'Europa), né che abbiano preso parte al massacro degli ebrei di Crimea. Secondo uno storico, invece, i tatari che combatterono nell'Armata rossa contro la Germania nazista sono più di quanti indossarono la divisa della Wehrmacht.26

In realtà, è probabile che Stalin non fosse mosso dal proposito di vendicarsi per gli atti di collaborazionismo, almeno per quanto riguarda le deportazioni dei popoli caucasici e dei tatari. Sembra invece che si sia servito della guerra come una sorta di copertura, come scusa per portare a termine delle operazioni di pulizia etnica che progettava da tempo. Gli zar sognavano una Crimea liberata dai tatari fin da quando Caterina la Grande aveva incorporato la penisola nell'impero russo. I ceceni erano un flagello anche per gli zar di Russia, e avevano causato danni ancor maggiori all'Unione Sovietica. In Cecenia si erano susseguite le rivolte antirusse e antisovietiche, alcune dopo la Rivoluzione d'ottobre, altre in seguito alla collettivizzazione del 1929. Un'altra rivolta era scoppiata ancora nel 1940. Tutti gli elementi di fatto sembrano indicare che Stalin volesse semplicemente sbarazzarsi di una popolazione turbolenta e con radicati sentimenti antisovietici.27

Come quelle della Polonia, anche le deportazioni dei tedeschi del dei popoli del Caucaso e della Crimea riguardarono un gran numero di persone. Alla fine della guerra, i tedeschi sovietici deportati erano 1.200.000; i calmucchi 90.000; i caraciai 70.000; i ceceni

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390.000; gli ingusci 90.000; i balcari 40.000; i tatari di Crimea 180.000, oltre a 9000 finlandesi e altri.?"

Tenendo conto di queste cifre, è notevole la rapidità con cui le operazioni furono condotte, ancor più velocemente delle deportazioni dei polacchi e dei baltici. Forse l'NKVD aveva ormai acquisito una certa esperienza, sta di fatto che questa volta non ci furono indecisioni circa quel che si poteva permettere di portare con sé e chi potesse farlo, su chi dovesse essere arrestato o quale procedura andasse seguita. Nel maggio 1944,31.000 ufficiali, soldati e operativi dell'NKVD portarono a termine l'intera deportazione di 200.000 tatari in tre giorni, usando 100 jeep, 250 camion e 67 treni. Secondo le speciali direttive predisposte in precedenza, ciascuna famiglia poteva portare con sé una quantità limitata di bagaglio. Dato che il tempo concesso per prepararsi era di quindici-venti minuti, nella maggior parte dei casi non si arrivava neppure alla metà della quantità consentita. I tatari furono ammassati in stragrande maggioranza sui treni e mandati in Uzbekistan: uomini, donne, vecchi e bambini. Prima dell'arrivo ne morirono fra i 6000 e gli 8000.29

Nei confronti dei ceceni l'operazione si svolse con crudeltà se possibile ancor maggiore. Molti osservatori ricordano che per deportare i ceceni l'NKVD si avvalse di Studebaker di fabbricazione americana, acquisite da poco nell'ambito del programma di affitti e prestiti, e spedite attraverso il confine con l'Iran. Molti hanno anche descritto come i ceceni venivano fatti scendere dai Studebaker e chiusi in vagoni ferroviari sigillati: non solo non avevano acqua, come i detenuti "comuni", ma neppure cibo. Durante il solo trasferimento in treno, forse ne morirono circa 78.000.30

Arrivati nel luogo di esilio designato - Kazakistan, Asia centrale, Russia settentrionale - i deportati che non erano stati arrestati e mandati nel Gulag venivano relegati in insediamenti speciali, come quelli in cui vivevano i polacchi e i baltici. Dicevano loro che chi tentava la fuga sarebbe stato condannato a vent'anni di lavori forzati. Le esperienze erano analoghe: molti, disorientati, strappati alla società tribale e al villaggio natio, non riuscirono a adattarsi. Di solito erano disprezzati dalla popolazione locale, spesso restavano senza lavoro: ben presto si indebolivano e si ammalavano. Forse il trauma più grande era il cambiamento di clima. "Quando arrivammo nel Kazakistan" ricorda una deportata cecena "il terreno era indurito dal gelo, e noi pensammo che saremmo morti tutti."31 Nel 1949 risultavano morte centinaia di migliaia di appartenenti alle popolazioni caucasiche, e fra un terzo e la metà dei tatari di Crimea.32

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Tuttavia, dal punto di vista di Mosca, c'era una differenza notevole tra le ondate di arresti e deportazioni del tempo di guerra e quelle avvenute in precedenza: era stato scelto un nuovo bersaglio. Per la prima volta, Stalin aveva deciso di eliminare non soltanto singoli individui appartenenti a determinati gruppi nazionali sospetti, oppure a categorie di "nemici" politici, ma intere popolazioni - uomini, donne, vecchi e bambini - cancellandoli dalla carta geografica.

Forse "genocidio" non è il termine giusto per definire queste deportazioni, dal momento che non vi furono esecuzioni di massa (negli ultimi anni della sua vita Stalin cercò collaboratori e alleati anche fra i membri di quei gruppi "nemici", perciò il suo non era un puro odio razziale), ma non sarebbe per nulla sbagliato parlare di "genocidio culturale". Dopo la deportazione, i nomi delle popolazioni trasferite a forza sparirono dai documenti ufficiali, perfino dall'enciclopedia, la Bol'saja sovetskaja enciklopedija. Il governo fece sparire dalle carte geografiche le loro patrie, abolendo la repubblica autonoma di ceceni e ingusci, la repubblica autonoma dei tedeschi del Volga, la repubblica autonoma dei cabardino-balcari e la provincia autonoma dei caraciai. Anche la repubblica autonoma di Crimea fu liquidata, e la Crimea divenne semplicemente un'altra provincia sovietica. Le autorità regionali distrussero i cimiteri, cambiarono i nomi di città e villaggi, e cancellarono gli ex residenti dai libri di storia.33

Nelle loro nuove residenze, tutti i deportati musulmani, cioè ceceni, ingusci, balcari, caraciai e tatari, furono costretti a mandare i loro figli nelle scuole elementari di lingua russa. Si cercava di dissuaderli dall'usare la propria lingua, dal praticare la propria religione, dal conservare memoria del passato. Senza dubbio, si voleva che i ceceni, i tatari, i tedeschi del Volga, i piccoli gruppi nazionali del Caucaso - e anche, nel lungo periodo, i baltici e i polacchi - svanissero e fossero assorbiti dal mondo sovietico e russofono. Alla fine, dopo la morte di Stalin, tutte queste identità nazionali "ricomparvero", sia pure lentamente. I ceceni ebbero il permesso di tornare in patria nel 1957, ma i tatari poterono farlo soltanto con l'avvento di Gorbacev: ottennero la "cittadinanza" della Crimea, il diritto legale alla residenza, soltanto nel 1994.

Considerando il clima dell'epoca, la crudeltà della guerra e la presenza, poche migliaia di chilometri più a ovest, di un altro genocidio Pianificato, alcuni si sono chiesti come mai Stalin non abbia senz'albo sterminato i gruppi etnici che tanto disprezzava. La mia ipotesi è che per i suoi fini fosse meglio distruggere le culture che i popoli. Con questa operazione pensava di sbarazzare l'URSS da quelle che

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considerava strutture sociali "nemiche": istituzioni borghesi, religiose e nazionali che avrebbero potuto opporgli resistenza; persone colte che avrebbero potuto contrastarlo. Nello stesso tempo, rimaneva disponibile un maggior numero di "unità lavorative" da utilizzare in futuro.

La storia degli stranieri nei campi di lavoro non si esaurisce però con i ceceni e i polacchi. I forestieri avevano altre occasioni di finire nel sistema concentrazionario sovietico: quelli che vi entrarono in percentuale di gran lunga maggiore di tutti gli altri furono i prigionieri di guerra.

Da un punto di vista tecnico, i primi campi sovietici per prigionieri di guerra furono allestiti dall'Armata rossa nel 1939, subito dopo l'occupazione della Polonia orientale. Il primo decreto sui campi per prigionieri di guerra emanato durante il conflitto risale al 19 settembre dello stesso anno, quattro giorni dopo che i carri armati sovietici ebbero attraversato il confine.34 Alla fine di settembre l'Armata rossa aveva catturato 230.000 militari polacchi, tra ufficiali e soldati.35 Molti furono rilasciati, in particolare i giovani di grado inferiore, anche se alcuni, considerati potenziali partigiani, finirono poi comunque o nel Gulag o in uno dei circa cento campi di prigionia militari situati all'interno del territorio sovietico. Dopo l'invasione tedesca, questi vennero evacuati, insieme ad altre strutture detentive, e i prigionieri trasferiti in campi più a oriente.36

Dei prigionieri polacchi, ed è un'ignominia, alcuni non arrivarono neppure ai campi in oriente. Nell'aprile 1940, su precisi ordini di Stalin, l'NKVD uccise in segreto, con un colpo alla nuca, oltre 20.000 ufficiali polacchi che erano stati fatti prigionieri.37 Stalin fece uccidere gli ufficiali per lo stesso motivo per cui aveva ordinato di arrestare sacerdoti e insegnanti polacchi - voleva eliminare l'elite della società polacca - e poi mise tutto a tacere. Nonostante accaniti sforzi, il governo polacco in esilio non riuscì a scoprire che fine avessero fatto gli ufficiali, se non quando furono ritrovati dai tedeschi. Nella primavera del 1943, infatti, gli occupanti tedeschi scoprirono 4000 cadaveri nella foresta di Katyn'.38 L'Unione Sovietica negò ogni responsabilità per il "massacro di Katyn'", come più tardi venne chiamato, e anche se gli Alleati sottoscrissero tale versione, citando addirittura l'eccidio come un delitto di cui i tedeschi furono chiamati a rispondere davanti al tribunale di Norimberga, i polacchi avevano le loro fonti e sapevano che i veri responsabili erano gli agen" dell'NKVD. L'episodio era destinato a rimanere un elemento di di-

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sturbo dell'"alleanza" sovietico-polacca non solo durante la guerra, ma anche nei cinquantanni successivi. Soltanto nel 1991 il presidente russo Boris El'cin ha riconosciuto che gli autori del massacro erano sovietici.39

Per tutta la durata della guerra, i prigionieri di guerra polacchi continuarono a comparire nei battaglioni di lavoratori forzati e nelle strutture del Gulag, ma i primi campi di lavoro su scala davvero massiccia non erano stati costruiti per i polacchi. Allorché le sorti della guerra volsero a favore dell'Unione Sovietica, l'Armata rossa cominciò, tutt'a un tratto e - a quanto pare - in modo inatteso, a catturare un gran numero di militari tedeschi e delle potenze dell'Asse. Le autorità dimostrarono una palese e tragica impreparazione. In seguito alla resa dei tedeschi dopo la battaglia di Stalingrado, spesso ricordata come la svolta cruciale della guerra, l'Armata rossa fece prigionieri 91.000 militari nemici, per i quali non si era pensato di allestire nessun tipo di struttura né preparare razioni alimentari. Dopo tre o quattro giorni, il cibo che venne finalmente fornito non era affatto sufficiente: "Una pagnotta da dividere tra dieci prigionieri, più un po' di zuppa fatta con acqua, grani di miglio e pesce salato".40

Per le prime settimane di prigionia la situazione non migliorò un granché, e non soltanto per i superstiti di Stalingrado. A mano a mano che l'Armata rossa avanzava verso occidente, diventava normale ammassare le truppe catturate in campi aperti, lasciandole con minime quantità di cibo e nessun genere di medicinali, quando non venivano fucilate sul posto. In mancanza di riparo per la notte, i prigionieri "dormivano ammucchiati nella neve. Molti si svegliavano e scoprivano che quelli accanto erano morti congelati".41 Nei primissimi mesi del 1943 il tasso di mortalità fra i prigionieri era prossimo al 60 per cento (dai documenti ufficiali risulta che 570.000 morirono durante la prigionia, per fame, malattia o ferite trascurate).42 Ma potevano essere anche molti di più, perché è quasi certo che molti prigionieri siano morti prima ancora di poter essere contati.

Dal marzo 1944, tuttavia, l'NKVD si occupò di "migliorare" la situazione, istituendo una nuova sezione di campi di lavoro forzato in cui collocare appunto i prigionieri di guerra. I nuovi campi erano sotto la giurisdizione della polizia segreta, ma a rigor di termini non facevano parte del Gulag, appartenendo invece alla direzione dei Prigionieri di guerra (UPV) dell'NKVD, e dopo il 1945 alla direzione centrale dei prigionieri e internati di guerra (GUPV).43

Non era detto che con la nuova struttura burocratica il trattamen-to fosse migliore. Per esempio le autorità giapponesi stimano che

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l'inverno 1945-46, dopo la fine della guerra, sia stato il più duro per i prigionieri giapponesi: fra questi, uno su dieci morì durante la prigionia. Non si può certo dire che i militari catturati fossero in grado di comunicare informazioni utili per il nemico, e tuttavia la loro corrispondenza con i familiari era sottoposta a rigide restrizioni che non furono mai attenuate: soltanto dal 1946 in poi ebbero il permesso di scrivere a casa, e dovevano farlo su speciali moduli contrassegnati dalla scritta "lettera di un prigioniero di guerra". Al preciso scopo di leggere le loro lettere furono allestiti speciali uffici con cen-sori esperti di lingue straniere.44

Anche il problema del sovraffollamento non si attenuò. Per tutto l'ultimo anno di guerra, e anche dopo, i prigionieri continuarono ad affluire nei nuovi campi, raggiungendo cifre da capogiro. Secondo le statistiche ufficiali, fra il 1941 e il 1945 l'Unione Sovietica catturò 2.388.000 militari tedeschi. Furono fatti prigionieri anche 1.097.000 combattenti europei di altre forze dell'Asse - soprattutto italiani, ungheresi, rumeni e austriaci, insieme ad alcuni francesi, olandesi e belgi - e circa 600.000 giapponesi, una cifra stupefacente se si considera che la guerra tra il Giappone e l'Unione Sovietica ebbe una durata relativamente breve. Al momento dell'armistizio, i militari catturati erano oltre 4 milioni in totale.45

La cifra, per quanto ingente, non comprende tutti gli stranieri finiti nei campi sovietici durante l'avanzata dell'Armata rossa in Europa. Anche l'NKVD, al seguito delle truppe sovietiche, cercava di catturare dei prigionieri ma di altro genere: gli imputati di crimini di guerra, le presunte spie (anche a favore di un governo alleato), chiunque fosse ritenuto antisovietico per qualsiasi motivo, chiunque avesse suscitato la personale antipatia di un agente della polizia segreta. L'NKVD aveva particolare libertà di azione nei paesi centroeuropei, dove i sovietici intendevano rimanere anche dopo la fine della guerra. Per esempio, a Budapest si affrettarono a catturare circa 75.000 civili ungheresi, inviandoli prima nei campi provvisori organizzati in Ungheria, e poi nel Gulag, a far compagnia alle centinaia di migliaia di prigionieri di guerra ungheresi che già vi si trovavano.46

Chiunque, in pratica, poteva essere arrestato. Fra gli ungheresi catturati a Budapest, per esempio, si trovava il sedicenne George Bien, fermato insieme al padre perché in possesso di una radio.47 All'altro capo della scala sociale, fu catturato anche Raul Wallenberg, il dip°" matico svedese che da solo era riuscito a salvare dalla deportazione nei campi di sterminio nazisti migliaia di ebrei ungheresi. Per riuscire nell'impresa, Wallenberg aveva avuto molti contatti sia con le autorità

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fasciste, sia con esponenti dei governi occidentali. Inoltre apparteneva a un'illustre e agiata famiglia svedese. Per l'NKVD erano motivi sufficienti per considerarlo sospetto. Fu arrestato a Budapest nel gennaio 1945, insieme al proprio autista: entrambi furono inghiottiti dalle carceri sovietiche, dove Wallenberg venne registrato come "prigioniero di guerra", e di loro non si ebbe più alcuna notizia. Per tutto l'ultimo decennio del Novecento il governo svedese si è adoperato per trovare indizi sulla sorte finale di Wallenberg, ma senza risultato. Oggi è opinione diffusa che sia morto durante un interrogatorio o sia stato giustiziato subito dopo l'arresto.48

In Polonia l'NKVD prese di mira i superstiti capi dell'esercito polacco in patria, la formazione di partigiani che fino al 1944 aveva addirittura combattuto contro i tedeschi al fianco dei sovietici. Ma appena l'Armata rossa ebbe varcato l'antico confine della Polonia, i militari dell'NKVD fecero prigioniere e disarmarono le unità parti-giane dell'esercito in patria e ne arrestarono i comandanti. Alcuni partigiani si nascosero nelle foreste polacche, continuando a combattere fino a metà degli anni Quaranta; altri furono giustiziati, il resto deportati. In questo modo, decine di migliaia di cittadini polacchi sospetti, sia partigiani sia civili, finirono nel Gulag e nei villaggi di residenza coatta dopo la guerra.49

Ma nessuno dei paesi occupati fu risparmiato. Le repubbliche bal-tiche e l'Ucraina, come ho detto, dopo la guerra subirono repressioni su larga scala, come pure avvenne in Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, e soprattutto in Germania e in Austria. L'NKVD portò a Mosca, per interrogarli, tutti coloro che furono trovati nel bunker di Hitler quando l'Armata rossa invase Berlino. In Austria catturarono anche numerose persone imparentate alla lontana con Hitler: fra gli altri una cugina, Maria Koopensteiner, alla quale Hitler aveva mandato del denaro, e con lei il marito, i fratelli e il figlio di un fratello. Dal 1906 in poi, nessuno di costoro, neppure Maria, aveva più visto Hitler. Morirono tutti in URSS.50

A Dresda l'NKVD prelevò anche un cittadino statunitense, John Noble, rimasto bloccato nella Germania nazista, dove durante la guerra era tenuto agli arresti domiciliari, insieme al padre, nato in Germania ma naturalizzato cittadino degli Stati Uniti. Alla fine, do-P° quasi dieci anni, Noble fece ritorno in patria: li aveva passati qua-Sl tutti a Vorkuta, dove era stato soprannominato amerikanec (l'ame-flcarto) dai compagni di detenzione.51

La stragrande maggioranza di quanti si trovarono presi nella mi-prima o poi finì nei campi, quelli riservati ai prigionieri di guer-

Gulag

ra o quelli del Gulag stesso. La distinzione fra i due generi di campi non fu mai pienamente chiarita. Sebbene dipendessero da strutture burocratiche distinte, ben presto i campi per i prigionieri di guerra cominciarono a essere gestiti in modo analogo ai campi di lavoro forzato: al punto che quando si ricostruisce la storia degli uni e degli altri diventa difficile tenerli separati. A volte i campi del Gulag allestivano speciali lagpunkt riservati ai prigionieri di guerra, e gruppi di forzati lavoravano fianco a fianco con i militari catturati.52 Non è neppure ben comprensibile la ragione per cui in certi casi l'NKVD relegasse i prigionieri di guerra direttamente nel sistema del Gulag.53

A guerra finita, le razioni alimentari assegnate ai prigionieri di guerra erano più o meno le stesse dei detenuti colpiti da una condanna penale; erano simili anche le baracche in cui vivevano e i lavori cui erano assegnati. Come gli zek, i prigionieri di guerra lavoravano nell'edilizia, nelle miniere, nelle fabbriche, nei cantieri stradali e ferroviari.54 Come gli zek, alcuni prigionieri di guerra più istruiti furono incorporati nelle saraska, dove progettavano nuovi aerei militari per l'Armata rossa.55 Ancor oggi, gli abitanti di certi quartieri di Mosca parlano con orgoglio degli appartamenti in cui abitano, perché quei palazzi, innalzati da meticolosi prigionieri di guerra tedeschi, sarebbero stati eseguiti e rifiniti con particolare perizia.

Sempre come gli zek, anche i prigionieri di guerra venivano prima o poi assoggettati a qualche forma di "rieducazione politica" di stampo sovietico. Dal 1943 l'NKVD cominciò a organizzare nei campi di prigionia scuole e corsi di "antifascismo". Le lezioni avevano lo scopo di persuadere gli allievi a "combattere per la ricostruzione "democratica" dei rispettivi paesi e sradicare i resti del fascismo" quando avessero fatto ritorno in Germania, Romania o Ungheria... dove, s'intende, dovevano aprire la strada alla dominazione sovietica.56 In effetti molti prigionieri di guerra tedeschi finirono poi arruolati nelle nuove forze di polizia della Germania orientale comunista.57

Tuttavia, anche per chi dava prova della sua nuova lealtà non era facile tornare a casa. Già nel giugno 1945 l'URSS rimpatriò un gruppo di 225.000 prigionieri, per lo più soldati semplici ammalati o feriti; seguì un flusso costante di ritorni, ma per portare a termine il rirA" patrio di tutti i prigionieri di guerra dall'Unione Sovietica occorse più di un decennio: nel 1953, alla morte di Stalin, ne rimanevano ancora 20.000.58 Stalin, sempre persuaso dell'utilità degli schiavi di stato, considerava il lavoro forzato dei prigionieri una sorta di ripara" zione, e riteneva del tutto giustificato il fatto di trattenerli a lungo in detenzione. Per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta, e anche dopo/

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come dimostra il caso Wallenberg, le autorità sovietiche continuarono a occultare la questione dei prigionieri stranieri con una cortina mimetica fatta di confusione, propaganda e contropropaganda, rilasciandoli quando lo ritenevano opportuno, negando anche di conoscerne l'esistenza se così a loro conveniva. Per esempio, nell'ottobre 1945 Berija scrisse a Stalin per chiedergli di autorizzare il rilascio di prigionieri di guerra ungheresi nell'imminenza delle elezioni in Ungheria; nella lettera, Berija aggiungeva che gli americani e gli inglesi avevano liberato i loro prigionieri, lasciando intendere che l'Unione Sovietica avrebbe fatto cattiva figura se non li avesse imitati.59

La cortina di nebbia rimase attiva per decenni. Nei primi anni del dopoguerra, da tutto il mondo giungevano a Mosca ambasciatori che insistevano presso le autorità presentando elenchi di cittadini di vari paesi, scomparsi durante l'occupazione dell'Europa da parte dell'Armata rossa, oppure finiti, per un motivo o per l'altro, nei campi di prigionia o nel Gulag. Talvolta non era facile ottenere delle risposte, perché la stessa NKVD non riusciva sempre a rintracciare questi dispersi. Alla fine il governo sovietico istituì delle commissioni speciali per scoprire quanti fossero gli stranieri ancora detenuti nell'URSS, ed esaminare le motivazioni per un eventuale rilascio.60

I casi più complessi non si risolvevano se non dopo anni. Jacques Rossi, un comunista francese nato a Lione, internato nei campi del Gulag dopo aver lavorato qualche anno a Mosca come insegnante, nel 1958 cercava ancora di tornare in patria. Dato che gli avevano rifiutato il visto di uscita per la Francia, cercò di averlo per la Polonia, dove, come dichiarò alle autorità, vivevano il fratello e la sorella: gli negarono anche questo.61 D'altra parte, in certi casi tutte le obiezioni sembravano cadere d'un tratto e gli stranieri venivano rimpatriati quando meno se l'aspettavano. In un certo momento del 1947, quando era al colmo la carestia postbellica, l'NKVD liberò senza preavviso diverse centinaia di migliaia di prigionieri di guerra. La spiegazione non era politica, ma assai più elementare: il governo sovietico stimava di non avere risorse alimentari sufficienti per tenerli tutti in vita.62

II flusso del rimpatrio non andava in una sola direzione. Alla fine della guerra un gran numero di cittadini dell'Europa occidentale era in Russia, ma una quantità altrettanto considerevole di russi era rimasta nell'Europa occidentale. Nella primavera del 1945, più di cinque Bilioni e mezzo di cittadini sovietici si trovavano fuori dai patrii contini. Alcuni erano soldati, catturati e rinchiusi nei campi di prigionia

ti. Altri erano stati costretti al lavoro forzato nei campi della Ger-

Gulag

mania e dell'Austria. Alcuni avevano scelto di collaborare con i tedeschi occupanti, e si erano ritirati insieme alle forze armate naziste C'erano poi circa 150.000 "vlasoviani", militari sovietici che avevano combattuto - oppure, caso più frequente, erano stati costretti a combattere - contro l'Armata rossa nell'unità comandata dal generale Andrej Vlasov, l'alto ufficiale russo che era stato fatto prigioniero e ribellandosi a Stalin, aveva combattuto dalla parte di Hitler, oppure in altre brigate della Wehrmacht antistaliniane e filohitleriane. Alcuni, per quanto strano possa sembrare, non erano affatto cittadini sovietici. Dispersi in tutta Europa, ma soprattutto in lugoslavia, c'erano poi gli emigrati anticomunisti: i cosiddetti "russi bianchi", che avevano perduto la battaglia contro i bolscevichi e si erano stabiliti in Occidente. Stalin voleva indietro anche loro: nessuno doveva sfuggire alla vendetta bolscevica.

E, alla fine, li ottenne. Fra le molte decisioni discutibili raggiunte con la conferenza di Jalta, nel febbraio 1945, ci fu anche l'accordo fra Roosevelt, Churchill e Stalin in base al quale tutti i cittadini sovietici, indipendentemente dalle loro vicende personali, dovevano essere rimpatriati in Unione Sovietica. I protocolli firmati a Jalta non obbligavano in modo esplicito gli Alleati a rimpatriare i cittadini sovietici contro la loro volontà, ma in realtà accadde proprio questo.

Alcuni volevano davvero rientrare in patria. Leonid Sitko, un soldato dell'Armata rossa che era stato rinchiuso in un lager nazista, e in seguito sarebbe rimasto ancora più a lungo in un campo sovietico, racconta di avere scelto di tornare a casa. Più tardi, Sitko espresse i sentimenti riguardo a questa decisione in una poesia:

C'erano quattro strade - c'erano quattro paesi. In tre mi promettevano pace e tranquillità. Nel quarto, lo sapevo, spezzano la lira del poeta e quanto a me, è quasi certo, mi uccideranno.

E com'è andata? Agli altri tre paesi ho detto: al diavolo! E ho scelto la mia patria.63

Altri, sebbene spaventati da quanto sarebbe potuto accadere, vennero persuasi a tornare dai funzionari dell'NKVD che visitavano i campi sparsi in tutta Europa in cui erano raccolti prigionieri di guer" ra e profughi. Gli agenti facevano il giro dei campi cercando i russi, per offrire loro rosee visioni di un futuro radioso. Tutto sarebbe stato perdonato, sostenevano: "Adesso noi vi consideriamo autentici cittadini dell'Unione Sovietica, non importa che siate stati costretti ad arruolarvi nell'esercito tedesco.. .".64

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Alcuni, soprattutto chi aveva già avuto modo di conoscere le forme della giustizia sovietica, non volevano affatto rientrare in Russia. L'addetto militare dell'URSS in Gran Bretagna spiegò a un gruppo di soldati sovietici detenuti nei campi di prigionia dello Yorkshire: "In patria c'è posto per tutti", e uno dei reclusi ribattè: "Sappiamo che specie di posto ci sarà per noi".65 Ma gli ufficiali alleati avevano l'ordine di lasciarli andare, e così fecero. A Fort Dix, nel New Jersey, 145 prigionieri sovietici che erano stati catturati con indosso la divisa tedesca si barricarono all'interno del loro alloggio per non essere rimandati in patria. Quando le truppe statunitensi gettarono i lacrimogeni nell'edificio per costringerli a uscire, quelli che non si erano suicidati si precipitarono fuori brandendo coltelli da cucina e bastoni, e ferirono alcuni soldati. In seguito spiegarono che volevano indurre gli americani a sparare loro addosso.66

Ancora più gravi sono gli episodi riguardanti donne e bambini. Nel maggio 1945 le truppe inglesi, in base a ordini che credevano provenire direttamente da Churchill, cominciarono a rimpatriare oltre 20.000 cosacchi che vivevano in Austria. Si trattava di ex partigiani antibolscevichi, alcuni dei quali si erano schierati con Hitler per avere modo di combattere Stalin; molti avevano lasciato l'Unione Sovietica dopo la rivoluzione, e nella maggior parte dei casi non possedevano più il passaporto sovietico. Dopo aver trascorso molti giorni promettendo loro di trattarli bene, gli inglesi li presero con l'inganno. Invitarono gli ufficiali cosacchi a una "riunione", li consegnarono alle truppe sovietiche, e il giorno dopo radunarono le loro famiglie. In un episodio particolarmente atroce avvenuto in un campo nei dintorni di Lienz, in Austria, i soldati britannici utilizzarono le baionette e il calcio dei fucili per costringere migliaia di donne e bambini a salire sui treni che li avrebbero riportati in URSS. Piuttosto che partire, le donne gettavano i figli dai ponti e poi saltavano a loro volta. Un uomo uccise la moglie e i figli, ne distese ordinatamente i corpi sull'erba e poi si uccise. I cosacchi sapevano bene che cosa li aspettava al ritorno in Unione Sovietica: il plotone d'esecuzione o il Gulag.67

Anche coloro che tornarono in patria perché volevano farlo potevano risultare sospetti. Che avessero lasciato l'URSS perché lo volevano oppure perché costretti, che avessero collaborato con gli occupanti o fossero stati catturati, che fossero tornati per loro volontà o Perché caricati a forza sui carri bestiame, alla frontiera ricevettero tutti un modulo da compilare, in cui si chiedeva se fossero stati collaborazionisti. Quelli che confessarono di esserlo stati (e ce ne furo-n°) e quelli che sembravano sospetti - compreso un gran numero di

Gulag

prigionieri di guerra, nonostante i tormenti patiti nei lager tedeschi -furono rinchiusi nei campi di smistamento per essere ancora interrogati. Questi campi, allestiti durante la guerra, avevano tutta l'apparenza, e anche la sostanza, dei campi di lavoro del Gulag. Dietro i recinti di filo spinato erano rinchiusi detenuti che, anche se non nominalmente, erano in tutto e per tutto lavoratori coatti.

In effetti, l'NKVD aveva allestito molti campi di smistamento nei pressi dei centri industriali, in modo che i "sospetti" potessero fornire manodopera gratuita all'Unione Sovietica mentre le autorità indagavano su di loro.68 Fra il 27 dicembre 1941 e il 1° ottobre 1944, l'NKVD sottopose a indagine 421.199 detenuti nei campi di smistamento. Nel maggio 1945 vi si trovavano ancora 160.000 detenuti, costretti al lavoro coatto, che per oltre la metà di loro consisteva nell'estrazione del carbone.69 Nel gennaio 1946 l'NKVD chiuse i campi e rimpatriò in URSS altre 228.000 persone da sottoporre a ulteriori indagini.70 Molti, si ritiene, finirono nel Gulag.

Tuttavia, anche fra i prigionieri di guerra c'erano casi particolari. Forse proprio perché l'NKVD comminava condanne ai lavoratori coatti e ai prigionieri di guerra sovietici - persone che in effetti non avevano commesso alcun reato - il potere inventò un nuovo tipo di condanna per i veri e propri criminali di guerra, persone che si affermava avessero commesso crimini autentici. Già nell'aprile 1943 il Soviet supremo dichiarò che l'Armata rossa, durante le operazioni militari per liberare il territorio sovietico, aveva scoperto "azioni di inaudita bestialità e orripilante violenza compiute dai mostri fascisti tedeschi, italiani, rumeni, ungheresi e finlandesi, da agenti di Hitler e anche da spie e traditori sovietici".71 Quindi l'NKVD dichiarò che i criminali di guerra riconosciuti colpevoli sarebbero stati condannati a quindici, venti o anche venticinque anni di detenzione, da scontare in lagpunkt costituiti allo scopo. I lagpunkt furono infatti costruiti a Nò-rii'sk, Vorkuta e nella Kolyma, i tre campi settentrionali più duri.72

Con un curioso guizzo lessicale, e un senso ironico della storia che potrebbe essere effetto di un intervento dello stesso Stalin, l'NKVD usò per questi lagpunkt un termine ripreso dal diritto penale della Russia zarista: katorga. Probabilmente non fu una scelta casuale. La ripresa di questo termine del passato, che riecheggiava il riaP" parire della terminologia zarista in altri settori della vita sovietica (per esempio rinascevano le scuole militari per i figli degli ufficiali)/ doveva servire a designare una nuova forma di castigo per un nuovo genere di detenuto, irrecuperabile e pericoloso. A differenza dei

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criminali comuni, condannati a pene comuni nei campi di lavoro correzionale del Gulag, i condannati alla katorga non potevano mai sperare di ravvedersi e redimersi, neppure in teoria.

Certo sembra che la ripresa della parola katorga abbia causato una qualche costernazione: dopo essersi battuti contro questa istituzione, adesso i bolscevichi la ripristinavano, come i maiali della Fattoria degli animali di George Orwell, che avevano vietato agli animali di consumare alcolici e poi si erano messi loro stessi a bere whisky. Inoltre, la katorga veniva reinventata proprio mentre il mondo cominciava a scoprire la verità sui campi di sterminio nazisti. Usare una parola simile era come adombrare l'idea che i campi sovietici somigliassero a quelli del "capitalismo" un po' più di quanto il governo sovietico intendesse lasciar apparire.

Forse per questo il generale Nasedkin, comandante del Gulag in tempo di guerra, in quel periodo aveva fatto compilare una storia della katorga zarista, consegnandola a Berija che l'aveva richiesta. Oltre a fornire varie "note esplicative", lo studio cerca di spiegare con precisione la differenza fra la katorga bolscevica, quella zarista e altre forme di pene adottate in Occidente:

nelle condizioni dello stato socialista sovietico, la katorga - esilio e lavoro forzato - come pena inflitta ai condannati si fonda su un principio diverso da quello del passato. Nella Russia zarista e negli stati borghesi questa gravissima condanna penale era comminata agli elementi più progressisti della società ... nelle nostre condizioni, la katorga permette di limitare l'alto numero di condanne capitali, e colpisce i nemici di particolare pericolosità...73

Leggendo le direttive emanate per descrivere il nuovo regime, viene fatto di chiedersi se alcuni condannati alla katorga non avrebbero forse preferito la sentenza capitale. I condannati alla katorga erano separati dagli altri detenuti da alti recinti e vestivano uniformi speciali, a righe, con il numero cucito sul dorso. Di notte venivano chiusi a chiave nelle baracche, con le sbarre alle finestre. Avevano un orario di lavoro più lungo di quello degli altri prigionieri, meno giorni di riposo, e non potevano svolgere altre mansioni se non i più pesanti lavori manuali, almeno per i primi due anni di pena. Erano sorvegliati con cura: a ciascun gruppo di dieci prigionieri erano assegnati due sorveglianti, e ciascun campo doveva impiegare almeno cinque cani. I condannati alla katorga non potevano neppure essere trasferiti da un campo all'altro senza una specifica disposizione della direzione del Gulag di Mosca.74

Inoltre, a quanto pare, i condannati alla katorga divennero la colonna portante di un nuovissimo settore dell'industria sovietica. Nel

Gulag

1944, elencando i risultati ottenuti in ambito economico, l'NKVD affermava di aver prodotto il cento per cento dell'uranio dell'Unione Sovietica. "Non è difficile dedurre chi fosse a estrarre e lavorare il materiale radioattivo" afferma la storica Galina Ivanova.75 Dopo la guerra furono sempre dei condannati, insieme ai militari, a costruire il primo reattore nucleare a Celjabinsk: "All'epoca, l'intero cantiere di costruzione era una specie di campo di lavoro" ricorda un operaio. Nel cantiere, venivano edificate speciali casette "finlandesi" per gli specialisti tedeschi, che erano stati anch'essi arruolati per lavorare al progetto.^

Senza dubbio, fra i condannati alla katorga si trovavano molti autentici collaborazionisti e criminali di guerra nazisti, anche coloro che avevano sterminato centinaia di migliaia di ebrei sovietici. Un superstite della Kolyma, Semen Vilenskij, doveva avere in mente proprio questo quando mi suggeriva di non credere che tutti i detenuti del Gulag fossero innocenti: "Quella era gente che qualsiasi regime avrebbe messo in prigione, avrebbe dovuto mettere in prigione". Di regola, gli altri detenuti evitavano i criminali di guerra prigionieri, e in certi casi addirittura li aggredivano per picchiarli.77

Cionondimeno, molti dei 60.000 detenuti che nel 1947 risultavano condannati alla katorga erano stati giudicati su princìpi piuttosto discutibili.78 Per esempio, c'erano migliaia di partigiani antisovietici polacchi, baltici e ucraini, molti dei quali si erano battuti contro i nazisti prima di mettersi a combattere l'Armata rossa: lo facevano tutti perché convinti di lottare per la propria liberazione nazionale. Secondo un documento sui minorenni condannati alla katorga, inviato a Be-rija nel 1945, fra questi partigiani si trovava Andre] Levcuk, accusato di far parte dell'organizzazione dei nazionalisti ucraini (OUN), uno dei due principali gruppi di partigiani antisovietici sortì in Ucraina. Secondo l'accusa, Levcuk, in quanto membro di quell'organizzazione, avrebbe "preso parte all'assassinio di cittadini innocenti, disarmato soldati dell'Armata rossa appropriandosi dei loro averi". Al momento dell'arresto, nel 1945, Levcuk aveva quindici anni.

Un'altra "criminale di guerra" dello stesso genere era Jaroslava Krutigolova, che faceva parte di un gruppo partigiano della OUN (era infermiera) ed era stata arrestata quando aveva sedici anni.79 L'NKVD aveva catturato anche una donna di origine tedesca che era stata tra-duttrice per i partigiani sovietici. Quando aveva saputo che era stata arrestata per "complicità con il nemico", il capo della sua brigata par-tìgiana si era messo in viaggio, lasciando il fronte, per testimoniare in suo favore. Grazie a lui, le furono comminati dieci anni di katorga m* vece di venticinque.80

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Infine, fra i condannati alla katorga c'era anche Aleksandr Klejn, un ufficiale dell'Armata rossa che era stato catturato dai tedeschi, ma era riuscito a fuggire e a raggiungere una divisione sovietica. Tornato con i suoi, era stato interrogato, come riferì in seguito:

All'improvviso il maggiore si raddrizzò di scatto e mi chiese: "Lei può dimostrare di essere ebreo?".

Sorrisi, imbarazzato, e dissi che avrei potuto... se mi toglievo i calzoni. Il maggiore gettò un'occhiata a Sorokin, poi si rivolse di nuovo a me: "E dice che i tedeschi non sapevano che lei fosse ebreo?" "Se lo avessero capito, mi creda, adesso non sarei qui." "Ah, giudeo farabutto!" esclamò quel gentiluomo, e mi tirò un calcio nel basso ventre, così forte che mi mancò il fiato e caddi a terra.

"Che bugie sono queste? Figlio di puttana, raccontaci per quale missione ti hanno mandato da noi? Per chi lavori? Quando ti sei venduto? Per quanto? Quanto ti sei fatto dare per venderti, tanto sei fatto per questo? Qual è il tuo nome in codice?"

In seguito all'interrogatorio, in un primo tempo Klejn fu condannato a morte, ma poi la sentenza capitale fu commutata in venticinque anni di katorga.sl

"Nei campi c'erano persone di tutti i generi, soprattutto dopo la guerra " ha scritto in seguito Hava Volovic. "Ma tutti subivamo lo stesso tormento: buoni e cattivi, colpevoli e innocenti".82

Se è vero che durante la guerra milioni di stranieri entrarono nel sistema del Gulag senza volerlo, ce ne fu almeno uno che vi arrivò di sua volontà. È vero che nei dirigenti sovietici la guerra provocò ulteriori parossismi di paranoia xenofobica, ma proprio grazie alla guerra un politico americano di alto rango ebbe l'occasione di visitare il Gulag, per la prima e unica volta. Nel maggio 1944 Henry Wal-lace, vicepresidente degli Stati Uniti, arrivò fino alla Kolyma... e non si rese neppure conto di essere stato invitato a visitare una struttura carceraria.

Il viaggio di Wallace ebbe luogo nella fase culminante dell'amicizia tra sovietici e americani, durante il periodo bellico, nel momento in cui il clima fra i due alleati era più cordiale e la stampa americana usava chiamare Stalrn "lo zio Joe". Forse per questa ragione, già prima di partire Wallace tendeva ad avere un atteggiamento bonario nei confronti dell'Unione Sovietica. Alla Kolyma vide confermati tutti i suoi pregiudizi. Appena arrivato, notò i molti parallelismi che si potevano trovare fra la Russia e gli Stati Uniti: erano entrambi grandi Paesi, nazioni "nuove", che si erano sbarazzate del bagaglio aristocratico del passato europeo. Wallace credeva, e lo disse ai padroni di casa, che l'"Asia sovietica" fosse in realtà il "selvaggio Ovest della

Gulag

Russia". Pensava che non esistessero "due paesi più simili fra loro dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti"; "Le immense distese del vostro territorio, le foreste vergini, i larghi fiumi e i grandi laghi, la più ampia varietà di climi - dal tropicale all'artico - le inesauribili ricchezze, tutto mi fa pensare alla mia patria".83

A Wallace piacque non solo il paesaggio, ma anche quella che egli riteneva fosse la capacità industriale della nazione. Nikisov, il famigerato dirigente del Dal'stroj, corrotto e amante della bella vita, accompagnò Wallace a visitare Magadan, la città principale della Kolyma. A sua volta, Wallace immaginava che Nikisov, un alto ufficiale dell'NKVD, fosse più o meno l'equivalente di un capitalista americano: "Qui tutto è sotto la sua gestione. Con le risorse del Dal'stroj a sua disposizione, è un milionario". Wallace gradiva molto la compagnia del nuovo amico "Ivan", e lo guardava "aggirarsi a gran passi" per la taigà, "godendo immensamente per quell'aria meravigliosa". Inoltre ascoltava con attenzione "Ivan" che gli raccontava come fosse nato il Dal'stroj: "Abbiamo dovuto fare un bel po' di fatica per avviare le cose. Dodici anni fa sono arrivati i primi coloni e hanno costruito otto case prefabbricate. Oggi Magadan ha 40.000 abitanti e sono tutti sistemati come si deve".

S'intende, Nikisov si astenne dal precisare che i "primi coloni" erano detenuti, e che la maggior parte dei 40.000 abitanti era composta da confinati, obbligati alla residenza coatta. Allo stesso modo, Wallace ignorava la situazione degli operai attivi in quel momento, quasi tutti detenuti, e nel descrivere la visita parla con approvazione dei minatori che lavoravano nelle miniere d'oro della Kolyma. Erano, ricorda Wallace, "giovanotti grandi e grossi", operai liberi che secondo lui lavoravano con molta più lena rispetto ai prigionieri politici relegati nell'estremo nord ai tempi degli zar: "Gli abitanti della Siberia sono una popolazione vigorosa e robusta, ma non perché sia costretta a sottomettersi".84

I capi del Dal'stroj, si capisce, volevano che Wallace pensasse proprio questo. Secondo la relazione scritta poi per Berija dallo stesso Nikisov, Wallace aveva chiesto di visitare un campo di detenuti, ma ne era stato tenuto lontano. Nikisov inoltre assicurava ai suoi superiori che il visitatore aveva incontrato esclusivamente operai liberi e non detenuti. Molti di loro erano forse membri del Komsomol, la lega dei giovani comunisti, ai quali erano state fornite tute da minatori e stivali di gomma solo pochi minuti prima dell'arrivo di Wallace, e sapevano che cosa rispondere se interpellati. In seguito, Wallace osservo. "Ho parlato con alcuni di loro: erano ben decisi a vincere la guerra".

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In un secondo momento, Wallace incontrò davvero detenuti autentici, ma senza saperlo; erano i cantanti e i musicisti che un tempo si esibivano nei teatri dell'opera di Mosca e di Leningrado ed erano stati arrestati. Furono loro a suonare e cantare per lui nel teatro di Magadan. Al visitatore era stato detto che appartenevano a un "coro di dilettanti dell'Armata rossa" di stanza nella città, e Wallace si stupì per il livello artistico raggiunto da quei dilettanti. In effetti, ciascuno di loro era stato avvisato: "una sola parola o un segnale da cui si potesse capire che eravamo detenuti sarebbe stato considerato alto tradimento".86

Wallace potè vedere inoltre alcuni manufatti eseguiti dai prigionieri, ma anche in questo caso non ne seppe nulla. Nikisov lo portò a una mostra di ricami, dicendogli che le opere esposte erano state eseguite da un gruppo di "donne del posto che durante i rigidi inverni si riunivano a intervalli regolari per dedicarsi ai lavori d'ago". Naturalmente le prigioniere avevano eseguito quei lavori in previsione della visita di Wallace. Quando l'americano si fermò davanti a un manufatto, palesemente ammirato, Nikisov lo staccò dalla parete e glielo porse. Con sua (piacevole) sorpresa, la moglie di Nikisov, la temutissima Gridasova, confessò con modestia di essere lei l'autrice del lavoro. In seguito Vera Ustieva, una detenuta, venne a sapere che uno dei due quadri donati per ricordo all'illustre visitatore era il suo. "Il nostro capo ricevette una lettera dalla moglie del vicepresidente, che la ringraziava per il dono e diceva di aver appeso i quadri nell'ingresso di casa" scrisse poi.87 Nelle sue memorie, anche Wallace descrive i doni: "Adesso i due dipinti appesi al muro comunicano a chi viene a trovarmi nella mia casa di Washington una visione intensa della bellezza del paesaggio rurale russo".88

La visita del vicepresidente degli Stati Uniti coincise più o meno con l'arrivo nella Kolyma dei "doni dall'America". Il programma americano di affitti e prestiti, formulato per inviare armi e attrezzature militari agli alleati degli Stati Uniti così da consentire loro di difendersi dalla Germania, portò nella Kolyma anche trattori, camion, escavatrici a cucchiaio a vapore e arnesi vari, cosa che non corrispondeva del tutto alle intenzioni del governo statunitense. Portò anche una boccata d'aria proveniente dal mondo esterno. Le parti Meccaniche arrivavano avvolte in vecchi giornali, dai quali Thomas Sgovio venne a sapere che nel Pacifico era in corso una guerra: fino a quel momento aveva creduto, come quasi tutti i detenuti, che l'esercito sovietico stesse sostenendo da solo il peso del conflitto, mentre 1 America contribuiva solo con i rifornimenti.89 Lo stesso Wallace

li

Gulag

aveva osservato che i minatori della Kolyma (o i membri del Korrv-somol travestiti da minatori) portavano stivali americani, sempre grazie al programma di affitti e prestiti. Quando sollevò la questione - non era consentito che i doni ricevuti in base al programma fossero usati per l'estrazione nelle miniere d'oro - i suoi anfitrioni dichiararono di avere comprato gli stivali pronta cassa.90

Il vestiario mandato dagli Stati Uniti finì, nella stragrande maggioranza dei casi, addosso agli addetti all'amministrazione dei campi e alle loro mogli, anche se alcuni indumenti furono usati negli allestimenti teatrali dei campi e qualche scatoletta di prosciutto cotto riuscì anche ad arrivare ai detenuti. I quali lo mangiarono con grande gusto: molti di loro non avevano mai visto la carne in scatola. Meglio ancora, usarono le lattine vuote per fare bicchieri, lumi a olio, vasi, padelle, tubi di stufa e perfino bottoni: non avrebbero mai immaginato la sorpresa che la loro ingegnosa operosità era destinata a suscitare nel paese dove le lattine erano state fabbricate.91

Prima della partenza di Wallace, Nikisov diede un solenne banchetto in suo onore. Furono servite pietanze ricercate, i cui ingredienti erano stati sottratti dalle razioni dei detenuti; vi furono brindisi a Roosevelt, Giunchili e Stalin. Lo stesso Wallace pronunciò un discorso in cui compaiono alcune frasi memorabili:

In modi diversi, sia i russi sia gli americani cercano confusamente un modo di vivere che in qualunque luogo del mondo possa permettere all'uomo comune di ottenere tutto quanto c'è di meglio nella tecnologia moderna. Non c'è nessuna contraddizione inconciliabile fra gli scopi e i propositi dei due paesi. Chi proclama il contrario, che lo sappia o no, cerca la guerra: e, secondo me, questo è criminale.92

XXI L'AMNISTIA, E IL DOPO

Con un allegro sorriso, oggi al campo ho detto addio, al filo spinato che per un anno ini ha precluso la libertà... Qui oggi di me non resterà nulla, nulla che rallenti la fretta del mio passo?

Oh no! Dietro i reticolati lascio un calvario di dolore che ancora vuoi trascinarmi al fondo della disperazione. Mi lascio alle spalle tombe d'angoscia, rovine di nostalgia e lacrime sparse in segreto, i grani del nostro rosario...

Ora sembra tutto volato via, come la foglia colta da un ramo. Alfine abbiamo spezzato i ceppi della nostra schiavitù. Non ho più il cuore colmo d'odio

perché oggi nei miei occhi, dietro le nubi, s'affaccia l'arcobaleno!

JANUSZ WEDÓW, Addio al campo1

Molte delle metafore utilizzate per descrivere il sistema di repressione sovietico - il "tritacarne", la "catena di montaggio" - tendono a farlo apparire implacabile, inesorabile, inflessibile. Nello stesso tempo, però, non si trattava di un sistema statico: continuava a girare come una trottola, a portare alla luce nuove sorprese. Se è vero che per milioni di detenuti sovietici il periodo fra il 1941 e il 1943 volle dire morte, malattia e tragedia, è altrettanto vero che per milioni di altri la guerra fu sinonimo di libertà.

I provvedimenti di amnistia riguardanti gli uomini in età di poter combattere cominciarono a essere emanati già a pochi giorni di distanza dallo scoppio della guerra. Fin dal 12 luglio 1941 il Soviet supremo ordinò al Gulag di mettere in libertà alcune categorie di dete-nuti trasferendoli direttamente all'Armata rossa: "i condannati per assenze sul lavoro, per reati comuni e di scarsa rilevanza riguardan-h materie amministrative ed economiche". L'ordinanza fu reiterata

Gulag

più volte. Nei primi tre anni di guerra l'NKVD liberò 975.000 detenuti, oltre a parecchie centinaia di migliaia di ex kulaki condannati al confino speciale. Altre amnistie furono promulgate fino all'ultimo assalto a Berlino, e anche nel corso di esso.2 Il 21 febbraio 1945, tre mesi prima della fine della guerra, fu di nuovo ordinato di rilasciare dei prigionieri: secondo le direttive, il Gulag doveva tenerli pronti a essere integrati nell'esercito per il 15 marzo.3

Le amnistie, che riguardarono un numero così ingente di persone, durante la guerra ebbero un effetto sconvolgente sulla composizione demografica dei campi di lavoro, e di conseguenza sulla vita di chi vi rimaneva. Nei campi si riversavano nuovi prigionieri, altri venivano liberati dalle amnistie di massa, mentre milioni di persone morivano: perciò le statistiche relative agli anni del conflitto risultano estremamente ingannevoli. I dati per il 1943 mostrano un'apparente diminuzione della popolazione di detenuti: da 1.500.000 a 1.200.000. Ma un altro dato dello stesso anno indica che fra arrestati, rilasciati, trasferiti da un campo all'altro e morti, i detenuti passati attraverso il sistema del Gulag furono 2.421.ODO.4 Tuttavia, nonostante le centinaia di migliaia di nuovi detenuti che arrivavano ogni mese, il numero totale di prigionieri del Gulag diminuì in modo netto fra il giugno 1941 e il luglio 1944. Parecchi campi forestali, allestiti in fretta nel 1938 per alloggiare i nuovi detenuti in soprannumero, furono eliminati con la stessa celerità.5 Sebbene i prigionieri rimasti avessero giornate lavorative sempre più lunghe, la scarsità di manodopera restava un fenomeno endemico. Durante la guerra, nella Kolyma anche i liberi cittadini, nelle ore di riposo dopo il lavoro, dovevano contribuire all'estrazione dell'oro.6

Non a tutti i prigionieri fu concesso di andarsene: le ordinanze di amnistia escludevano espressamente sia i "criminali recidivi", vale a dire i criminali di professione, sia i prigionieri politici. Vi furono ra-rissime eccezioni. Dopo l'invasione sovietica della Polonia vennero rilasciati alcuni ufficiali condannati per reati politici, forse perché le autorità si rendevano conto che gli arresti di alti ufficiali, effettuati alla fine degli anni Trenta, avevano recato grave danno all'Armata rossa. Uno di loro era il generale Aleksandr Gorbatov, richiamato a Mosca nell'inverno del 1940 da un remoto lagpunkt della Kolyma. Vedendo Gorbatov, il funzionario incaricato di interrogarlo per riaprire le indagini sul suo caso tornò a esaminare una fotografia scattata prima dell'arresto e cominciò subito a fargli domande: voleva chiarire se lo scheletro che aveva di fronte potesse davvero essere uno dei più dotati giovani ufficiali dell'esercito. "Avevo dei calzoni

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di trapunta pieni di toppe, le gambe fasciate di stracci e ai piedi un paio di scarponi da minatore. Portavo anche un giubbotto imbottito, liscio e lucido per lo sporco. In testa avevo un berretto logoro e sudicio con i paraorecchi..."7 Alla fine, Gorbatov fu rilasciato nel marzo 1941, poco prima dell'offensiva tedesca, e nella primavera del 1945 guidò uno degli assalti contro Berlino.

L'amnistia non era però garanzia di sopravvivenza per i soldati semplici. Molti presumono, sebbene la loro ipotesi non abbia ancora trovato conferma negli archivi, che i detenuti rilasciati dal Gulag per entrare nell'Armata rossa fossero assegnati a "battaglioni punitivi" e subito spediti nelle zone più pericolose del fronte. L'Armata rossa era tristemente famosa per la sua disponibilità a sacrificare uomini, e non è difficile immaginare che i comandanti fossero tanto più disposti a sacrificare ex galeotti.

Uno di loro, il dissidente Avraham Sifrin, affermò di essere stato messo in un battaglione punitivo perché era figlio di un "nemico del popolo". Secondo quanto riferisce, era stato inviato immediatamente al fronte, insieme ai suoi compagni, nonostante una grave carenza di equipaggiamento: erano cinquecento e disponevano di cento fucili appena. "Le vostre armi sono nelle mani dei nazisti" avevano detto gli ufficiali. "Andate a prendervele." Sifrin sopravvisse, pur restando ferito due volte.8

Nonostante tutto, i prigionieri sovietici arruolati nell'Armata rossa spesso si facevano onore. Potrà sembrare strano, ma a quanto pare pochissimi rifiutavano di combattere per Stalin. Il generale Gorbatov, almeno a quanto afferma lui stesso, non ebbe mai un attimo di esitazione all'idea di rientrare nelle forze armate sovietiche, e neppure a combattere per conto del Partito comunista che lo aveva arrestato senza motivo. Appena seppe che i tedeschi avevano invaso la Russia, il suo primo pensiero fu di avere avuto fortuna a essere stato liberato, perché avrebbe potuto mettere al servizio della madrepatria le forze recuperate. Gorbatov scrive anche con orgoglio delle "armi sovietiche" di cui i suoi uomini potevano disporre, "grazie all'industrializzazione del nostro paese", e non fa commenti circa il modo in cui l'industrializzazione era avvenuta. È vero che in certi casi parla con disprezzo dei "funzionar! politici" dell'Armata rossa, cioè la polizia segreta militare, che interferivano troppo spesso con il lavoro delle truppe; lui stesso fu redarguito un paio di volte dagli agenti dell'NKVD, i quali fecero oscure allusioni al fatto che "nella Kolyma non aveva imparato la lezione". Ma sarebbe difficile dubitare del suo sincero patriottismo.9

Gulag

Altrettanto sembra si possa dire di molti altri ex detenuti, almeno a quanto risulta dai documenti conservati negli archivi dell'NKVD. Nel maggio 1945 il direttore del Gulag, Nasedkin, stilò una relazione dettagliata, quasi entusiasta, sul patriottismo e lo spirito combattivo dimostrato dagli ex internati entrati nell'Armata rossa, allegando lunghi brani tratti dalle lettere che essi stessi avevano inviato ai campi da cui provenivano. "Innanzitutto, vi informo che mi trovo in un ospedale di Har'kov, ferito" scriveva un ex detenuto. "Ho difeso l'amata madrepatria, senza curarmi della mia vita. Anch'io ero stato condannato perché lavoravo male, ma il nostro amato Partito mi ha dato l'occasione di ripagare i debiti verso la società conseguendo la vittoria al fronte. Ho calcolato di aver ucciso cinquantatré fascisti con le mie pallottole di acciaio."

Un altro scriveva per ringraziare:

Innanzitutto, scrivo per ringraziarvi sinceramente di avermi rieducato. In passato ero un recidivo, giudicato pericoloso per la società, e quindi ero stato messo più volte in carcere, dove ho imparato a lavorare. Adesso l'Armata rossa ripone in me ancora maggior fiducia, mi ha insegnato a essere un buon comandante e mi ha affidato dei compagni combattenti. Con loro, vado alla battaglia da coraggioso, loro mi rispettano perché mi prendo cura di loro e perché svolgiamo con scrupolo le mansioni militari che ci vengono affidate.

In qualche caso, anche gli ufficiali scrivevano ai comandanti dei campi. "Durante l'assalto a Òernigov, il compagno Kolesnicenko ha comandato una compagnia" scriveva un capitano. "L'ex detenuto è maturato trasformandosi in un comandante istruito, fidato e militante".

A parte cinque ex zek insigniti del titolo di eroi dell'Unione Sovietica, la massima onorificenza militare dell'Armata rossa, non sembra che vi sia una documentazione specifica su quanti altri ex detenuti abbiano ricevuto una medaglia. Ma su mille zek che avevano scritto ai campi dove erano stati detenuti si ha una documentazione istruttiva: 85 erano diventati ufficiali, 34 erano stati ammessi al Partito comunista, 261 avevano ricevuto una medaglia.10 Forse non si tratta di un campione abbastanza rappresentativo della categoria degli ex prigionieri, ma non c'è neppure motivo di credere che fosse del tutto atipico. La guerra suscitò in tutta l'Unione Sovietica un'ondata di patriottismo, alla quale fu consentito che partecipassero anche gliex detenuti.11

Forse c'è un altro fatto più sorprendente: talvolta, anche i prig10" nieri ancora detenuti nei campi a scontare la loro condanna erano

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presi da sentimenti patriottici. Perfino i nuovi e più rigorosi regolamenti e i tagli delle razioni non ebbero sempre l'effetto di trasformare tutti gli zek del Gulag in accaniti oppositori del regime sovietico. Anzi, in seguito molti scrissero che, trovandosi in un campo di concentramento nel giugno 1941, la cosa peggiore da sopportare era di non poter andare al fronte. La guerra imperversava, i compagni combattevano, mentre loro si trovavano nelle lontane retrovie, pieni di ardori patriottici. Cominciarono subito a voltare le spalle a tutti i prigionieri tedeschi, tacciandoli di fascisti, a insultare le guardie perché non erano al fronte, e si scambiavano di continuo notizie e dicerie sulla guerra. Lo ricorda la Ginzburg: "Siamo pronti a dimenticare e perdonare di fronte alla pubblica calamità. Faremo come se niente di ingiusto sia stato compiuto nei nostri confronti".12

In rari casi, i detenuti dei campi più vicini al fronte ebbero l'occasione di esprimere in modo concreto il loro patriottismo. In una relazione che l'autore (Pokrovskij, un ex dipendente del Soroklag, un campo di lavoro nella repubblica di Carelia, poco lontano dal confine finlandese) intende come un contributo alla storia della Seconda guerra mondiale, si descrive un episodio avvenuto durante la precipitosa evacuazione del campo:

La colonna di carri armati era sempre più vicina, la situazione si faceva critica, quando uno dei prigionieri ... salì d'un balzo nella cabina di un camion e partì a tutta velocità verso il carro armato. Nello scontro con il blindato, l'eroico detenuto rimase ucciso e il camion distrutto, ma anche il carro armato si bloccò e prese fuoco. La strada era ostruita, gli altri carri invertirono la marcia. Il gesto ci salvò, permettendoci di portare a termine l'evacuazione della colonia.

Pokrovskij racconta anche come un gruppo di oltre seicento detenuti liberati, rimasti nel campo per mancanza di collegamenti ferro-viari, si fosse dedicato volontariamente a costruire le difese della città di Belomorsk:

Tutti accettarono all'unanimità, e subito si suddivisero in brigate di lavoro, nominando capisquadra e supervisori. Questo gruppo di detenuti liberati lavorò con un ardore straordinario alle difese per oltre una settimana, dal-1 alba fino a tarda sera, per tredici-quattordici ore ogni giorno. In cambio chiesero soltanto che qualcuno tenesse con loro dei colloqui politici, per '^formarli sulla situazione al fronte. Eseguii con scrupolo questo compito.13

La propaganda del campo, che incoraggiava simili sentimenti patriottici, in generale nel corso della guerra andò intensificandosi. Co-1)16 accadeva nel resto dell'Unione Sovietica, vi furono manifesti, film di guerra e conferenze. "[A noi prigionieri] dicevano che a-

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vremmo dovuto lavorare ancor più intensamente, perché ogni grammo d'oro che riuscivamo a estrarre sarebbe stato un colpo al fascismo".14 Certo è impossibile sapere se tali iniziative propagandi-stiche fossero efficaci, come del resto è sempre impossibile accertare se la propaganda funzioni o no. Ma forse l'amministrazione del Gulag prese il messaggio in più seria considerazione quando all'improvviso la forza produttiva dei campi di lavoro divenne decisiva per lo sforzo bellico dell'URSS. Nel suo opuscolo sulla rieducazione intitolato Ritorno alla vita, l'agente Loginov della KVC scrisse che lo slogan "Tutto per il fronte! Tutti per la vittoria!" aveva suscitato un'"eco calorosa" nel cuore di chi lavorava nelle retrovie, cioè nei campi del Gulag: "Nel loro temporaneo isolamento dalla società, i detenuti raddoppiavano e triplicavano il ritmo delle proprie attività. Lavorando con abnegazione nelle fabbriche, nei cantieri edili, nei boschi e nei campi, si sono impegnati con tutte le loro forze altamente produttive per accelerare la sconfitta del nemico al fronte".15

Senza dubbio, la produzione industriale del Gulag contribuì allo sforzo bellico. Nei primi diciotto mesi della guerra, trentacinque "colonie" del sistema furono riconvertite per produrre munizioni. Molti campi dediti al taglio del legname passarono a produrre bossoli di proiettili. Almeno in venti campi di lavoro si confezionavano le uniformi dell'Armata rossa, mentre in altri furono prodotti telefoni da campo, oltre 1.700.000 maschere antigas e 24.000 affusti di mortai. Oltre un milione di prigionieri fu incaricato di lavorare alla costruzione di ferrovie, strade e campi d'aviazione. Ogniqualvolta si presentava una improvvisa e urgente necessità di trovare operai per un cantiere, quando un oleodotto cedeva oppure si doveva costruire una nuova strada ferrata, di solito il lavoro era affidato al Gulag. Come in passato, si può dire che l'intera produzione di oro dell'Unione Sovietica veniva estratta nel Dal'stroj.16

Tuttavia questo dato, che sembra in sé indicare efficienza produttiva, risulta altrettanto illusorio quanto lo era in tempo di pace. "Fin dai primi giorni di guerra, il Gulag organizzò le sue industrie allo scopo di soddisfare le esigenze di quanti combattevano al fronte" scrive Nasedkin. Ma non poteva darsi che dei lavoratori liberi fossero più adeguati a rispondere a tali necessità? Altrove Nasedkin osserva che la produzione di certi tipi di munizioni si quadruplicò. Non se ne sarebbe potuta produrre una quantità assai maggiore se i detenuti animati da patriottismo avessero potuto lavorare nelle normali fabbriche? Migliaia di soldati che potevano essere impiegati al fronte erano trattenuti nelle retrovie, per sorvegliare la manodopera

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carcerata. Migliaia di agenti dell'NKVD erano stati incaricati prima di arrestare e poi di rilasciare i polacchi: anche per loro si sarebbe potuta trovare una migliore utilizzazione. Fu così che il Gulag partecipò allo sforzo bellico: ed è anche probabile che abbia contribuito a minarlo alla base.

Oltre al generale Gorbatov e a qualche altro militare, la regola generale che impediva l'amnistia dei politici ebbe un'altra eccezione assai più cospicua. Nonostante quel che veniva loro detto dall'NKVD, i polacchi relegati in zone remote dell'Unione Sovietica in realtà non erano destinati a restare per sempre confinati. Il 30 luglio 1941, un mese dopo l'apertura dell'operazione Barbarossa, il generale Sikorski, capo del governo polacco in esilio a Londra, e l'ambasciatore Majskij, ambasciatore sovietico in Gran Bretagna, firmarono una tregua. Il trattato, detto Patto Sikorski-Majskij, stabiliva che la Polonia rinascesse come Stato autonomo entro confini ancora da stabilire, e concedeva l'amnistia a "tutti i cittadini polacchi attualmente presenti nel territorio sovietico in stato di privazione della libertà".

Furono liberati per disposizione ufficiale sia i detenuti del Gulag sia i deportati al confino, e li destinarono a confluire in una nuova divisione dell'esercito polacco da costituirsi in territorio sovietico. A Mosca, il generale Wladyslaw Anders, un ufficiale polacco da venti mesi incarcerato alla Lubjanka, seppe di essere stato nominato comandante del nuovo corpo d'armata durante un incontro a sorpresa con lo stesso Berija. Dopo il colloquio, il generale Anders lasciò la prigione in una macchina dell'NKVD dotata d'autista: aveva indosso camicia e calzoni, ma non le scarpe.18

Da parte polacca, molti trovarono inopportuno l'uso della parola "amnistia" riferito alla liberazione di persone innocenti, ma non era il momento di andare troppo per il sottile: i rapporti fra i due nuovi "alleati" erano già vacillanti. I sovietici rifiutavano ogni responsabilità morale per i "soldati" della nuova divisione, tutti in pessime condizioni di salute, e rifiutavano di fornire cibo o provviste al generale Anders. Agli ufficiali veniva detto: "Siete polacchi: ci pensi la Polonia a rifornirvi".19 Alcuni comandanti dei campi rifiutavano addirittura di rilasciare i loro detenuti polacchi. Gustaw Herling, ancora prigioniero nel novembre 1941, rendendosi conto che se non fosse uscito dal cam-PO non sarebbe "sopravvissuto fino alla primavera", dovette fare uno sciopero della fame prima di riuscire finalmente a ottenere il rilascio.20

H governo sovietico complicò ancor più le cose affermando, pochi mesi dopo la promulgazione dell'amnistia, che essa non si applicava

Gulag

a tutti i cittadini dell'ex Polonia, ma soltanto ai polacchi per appartenenza etnica: chi era invece di origine ucraina, bielorussa o ebraica doveva rimanere nell'URSS. Ne nacquero violente tensioni. Molti appartenenti alle minoranze cercavano di farsi passare per polacchi ma venivano smascherati dai polacchi veri, i quali temevano a loro volta di essere arrestati di nuovo se fosse stata scoperta l'identità dei loro "falsi" compagni. In seguito, i passeggeri di un treno di evacuati polacchi, diretto in Iran, cercarono di espellere un gruppo di ebrei: temevano che il treno non avrebbe potuto lasciare l'URSS se si fosse scoperto che portava viaggiatori "non polacchi".21

Altri detenuti polacchi furono liberati dai campi o dalle località di confino, ma senza ricevere denaro né istruzioni su dove andare. Un ex detenuto ricorda: "Le autorità sovietiche di Omsk non vollero aiutarci, ci dissero che non sapevano niente di una divisione polacca, e ci proposero invece di cercare un impiego nei dintorni".22 Un ufficiale dell'NKVD fornì a Gustaw Herling un elenco dei luoghi in cui ottenere un permesso di soggiorno, ma negò di sapere dell'esistenza di una divisione polacca.231 prigionieri polacchi rilasciati, fidandosi delle voci che correvano, percorsero l'intera Unione Sovietica chiedendo passaggi e viaggiando sui treni, alla ricerca del corpo d'armata polacco.

A Stefan Waydenfeld, confinato insieme alla famiglia nella Russia settentrionale, nessuno parlò dell'esistenza di una divisione polacca, né fornì alcun mezzo di trasporto: dissero loro soltanto che potevano andarsene. Per lasciare il villaggio isolato in cui si trovavano, costruirono una zattera e navigarono lungo il corso del fiume locale fino alla "civiltà": una cittadina che avesse una stazione ferroviaria. Mesi dopo, i loro vagabondaggi ebbero finalmente termine quando Stefan riconobbe una sua connazionale, una ex compagna di scuola, in un'osteria di Cimkent, nel Kazakistan meridionale: fu lei a indicare loro dove trovare l'esercito polacco.2'4

Tuttavia, gli ex zek, insieme alle mogli e ai figli deportati con loro, riuscirono alla fine a trovare la strada di Kujbysev, il campo base della divisione polacca, e a raggiungere gli altri distaccamenti nelle varie zone del paese. All'arrivo, molti rimasero sconvolti dalla sensazione di ritrovare la "Polonia", come scrive Kazimierz Zarod: "Intorno a noi, in tutte le direzioni, si parlava polacco, si vedevano facce famili3" ri di polacchi! Anch'io rincontrai molte vecchie conoscenze, vi furono scene di giubilo e di esultanza, con uomini e donne che si salutavano con abbracci e baci".25 Per festeggiare l'arrivo del generale Anders, un altro ex zek, Janusz Wedów, compose una poesia dal titolo Benvenuto al comandante:

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Ah, cuore mio! Hai ripreso a battere forte e allegro.

Io credevo che ti fossi indurito, mi fossi morto dentro.. ,26

Pochi mesi dopo però l'ottimismo stava già scemando. L'unità mancava di rifornimenti alimentari, di medicinali e di attrezzature, insomma di ogni cosa. I soldati erano per lo più uomini malati, stanchi, denutriti, che avrebbero avuto bisogno di cure mediche speciali-stiche. Un ufficiale ricorda l'orrore provato quando si rese conto di come "un'immensa marea di esseri umani che avevano lasciato i luoghi di confino o di deportazione ... affluiva ora nelle province affamate dell'Uzbekistan, per costituire un organismo militare a sua volta denutrito e decimato dalle malattie".27

Per di più, i rapporti con i sovietici continuavano a essere tutt'altro che buoni. I dipendenti dell'ambasciata polacca, inviati in varie zone del paese, continuavano a essere arrestati senza motivazione. Temendo che la situazione peggiorasse, nel marzo 1942 il generale Anders modificò i suoi piani. Anziché far procedere i suoi uomini verso occidente, in direzione del fronte, ottenne il permesso di evacuare l'intero contingente militare oltre i confini dell'Unione Sovietica. Fu un'ope-azione su vasta scala: 74.000 militari polacchi, più 41.000 civili, fra li molti bambini, furono caricati sui treni e inviati in Iran.

Nella fretta di partire, il generale Anders si lasciò alle spalle altre migliaia di polacchi, oltre ai loro ex concittadini di origine ebraica, ucraina e bielorussa. Alcuni di costoro si unirono poi alla divisione Kosciuszko, una sezione polacca dell'Armata rossa. Altri furono rimpatriati soltanto alla fine della guerra. Altri ancora non partirono più. Ancora oggi, alcuni loro discendenti continuano a vivere in comunità di polacchi nel Kazakistan e nella Russia settentrionale.

Quelli che partirono continuarono a combattere. Dopo essersi rifugiata in Iran, la divisione di Anders riuscì in effetti a raggiungere le forze alleate in Europa. Marciando attraverso la Palestina, e in alcuni casi attraverso il Sudafrica, le sue truppe arrivarono infine in Italia per la cui liberazione si batterono a Montecassino. Mentre la guerra proseguiva, i civili polacchi venivano smistati in varie località dell'impero britannico. I bambini finirono in orfanotrofi in India, m Palestina, perfino in Africa orientale. La maggior parte di loro non fece mai ritorno nella Polonia del dopoguerra, sotto occupazione sovietica. I circoli polacchi, le associazioni di storia polacca e i ristoranti polacchi che ancora si trovano nei quartieri occidentali di Londra attestano la presenza di questi esuli nel periodo postbellico.28

I polacchi che avevano lasciato l'Unione Sovietica svolsero un'atti-

Gulag

vita di incommensurabile valore per i loro meno fortunati ex compagni di prigionia. In Iran e in Palestina, l'esercito e il governo polacco in esilio condussero varie inchieste sistematiche sui soldati e sulle loro famiglie per accertare con precisione che cosa fosse accaduto ai compatrioti deportati in Unione Sovietica. Dal momento che il contingente evacuato da Anders era stato l'unico gruppo cospicuo di detenuti cui fosse mai stato consentito di lasciare l'Unione Sovietica, il materiale ricavato con tali questionari e dagli studi storici piuttosto affrettati è rimasto per cinquant'anni l'unica prova concreta dell'esistenza del Gulag. E tenendo conto dei suoi limiti, si trattava di materiale di sorprendente precisione: sebbene non conoscessero nella sua realtà la storia del Gulag, i prigionieri polacchi riuscirono però a dare un'idea delle dimensioni gigantesche del sistema dei campi, della sua estensione geografica - bastava che elencassero l'ampia gamma di luoghi in cui erano stati mandati - e delle spaventose condizioni in cui vi si viveva durante il conflitto.

Dopo la guerra, le esperienze riferite dagli ex deportati polacchi costituirono il primo nucleo della documentazione relativa ai campi di lavoro coatto in URSS realizzata dalla Biblioteca del Congresso e dall'AFL, la Federazione americana del lavoro. I loro resoconti di prima mano sul sistema sovietico della manodopera schiava costituirono uno shock per molti americani, che dopo il boicottaggio del legname sovietico attuato negli anni Venti non avevano più avuto una chiara percezione dell'esistenza dei campi di lavoro. Tali documenti ebbero una vasta circolazione e nel 1949, nel tentativo di convincere le Nazioni Unite a indagare sulla pratica del lavoro forzato negli Stati membri dell'organizzazione, l'AFL presentò una corposa raccolta di testimonianze sulla sua esistenza in Unione Sovietica:

Meno di quattro anni fa i lavoratori del mondo hanno conseguito la loro prima vittoria, la vittoria contro il totalitarismo nazista, dopo una guerra condotta con i più grandi sacrifici e contro la pratica nazista di ridurre in schiavitù tutti i popoli dei paesi invasi ...

Ma nonostante la vittoria degli Alleati, il mondo è profondamente scosso da notizie che sembrano indicare come i mali che abbiamo cercato di estirpare lottando, e per sconfiggere i quali sono morti in tanti, siano tuttora virulenti in numerosi luoghi del mondo.. ,29

Era cominciata la guerra fredda.

Spesso la vita nel sistema dei campi era lo specchio e l'eco della vita nel più vasto ambito dell'Unione Sovietica: e questo non fu mai così vero come negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. Mentre

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la Germania si disintegrava, Stalin cominciava a pensare agli accordi del dopoguerra. I suoi progetti per attirare l'Europa centrale nella sfera d'influenza dell'Unione Sovietica si andavano concretando. Non fu una coincidenza se anche l'NKVD entrò in quella che potremmo definire una fase di espansione, di "internazionalismo". In una conversazione con Tito, riportata dal comunista iugoslavo Milovan Gilas, Stalin osservò: "Questa guerra è diversa da tutte quelle del passato, chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale. Ciascuno impone il suo sistema sociale, fin dove riesce ad arrivare il suo esercito".301 campi di concentramento erano un tratto fondamentale del "sistema sociale" sovietico e, mentre la guerra si avviava alla conclusione, la polizia segreta sovietica cominciò a esportare i suoi metodi e i suoi agenti nell'Europa sotto occupazione sovietica, per insegnare a nuovi protetti stranieri i regimi e i metodi dei campi, che in patria erano ormai perfezionati.

Fra i campi creati in quello che sarebbe diventato il "blocco sovietico" dell'Europa orientale, quelli istituiti nella Germania dell'Est erano forse i più brutali. A mano a mano che nel 1945 l'Armata rossa avanzava in territorio tedesco, l'amministrazione militare sovietica cominciò subito a costruirli, e alla fine aveva organizzato in tutto undici campi di concentramento "speciali", gli spedager'. Due di essi, Sachsenhausen e Buchenwald, occupavano l'area degli ex campi di sterminio nazisti. Erano tutti sotto il comando diretto dell'NKVD, che li organizzava e li gestiva allo stesso modo in cui gestiva in patria i campi di lavoro del Gulag, con le stesse norme di lavoro obbligato, razioni alimentari ridotte al minimo e baracche sovraffollate. Con la carestia che imperversò dopo la guerra, sembra che questi campi tedeschi siano stati ancor più letali dei loro corrispettivi situati nell'URSS. Nei cinque anni della loro esistenza vi soggiornarono circa 240.000 prigionieri, soprattutto politici. Si ritiene che ne siano morti 95.000, oltre un terzo. Se il governo sovietico non aveva mai tenuto in particolare considerazione la vita dei detenuti sovietici, dava ancora meno peso a quella dei "fascisti" tedeschi.

Per lo più, gli internati dei campi nella Germania dell'Est non erano gerarchi nazisti di alto grado, né criminali di guerra accertati. Di solito quel genere di prigionieri veniva trasferito a Mosca e dopo gli wterrogatori inserito nei campi sovietici per prigionieri di guerra o nel Gulag. Gli spedager', invece, dovevano avere la stessa funzione delle deportazioni inflitte ai polacchi e ai baltici: avevano lo scopo di spezzare la schiena della borghesia tedesca. Di conseguenza, non accoglievano capi del nazismo o criminali di guerra, ma giudici, avvo-

Gulag

cati, imprenditori, finanzieri, medici e giornalisti. Fra loro si trovavano perfino alcuni dei pochissimi oppositori tedeschi al regime hitleriano, temuti, paradossalmente, anche dall'Unione Sovietica. In fondo, chi aveva osato combattere i nazisti magari non si sarebbe peritato di combattere contro l'Armata rossa.31

Nei campi di prigionia ungheresi e cecoslovacchi l'NKVD provvide a internare persone dello stesso genere. Essi erano stati allestiti dai servizi segreti locali su consiglio dei sovietici, dopo che nel 1948 il Partito comunista si era assicurato il potere a Praga, e nel 1949 a Budapest. Furono effettuati arresti seguendo una logica che è stata definita una "caricatura" di quella sovietica: un meteorologo ungherese fu internato dopo aver annunciato "un influsso d'aria gelida proveniente da nordest, in arrivo dall'Unione Sovietica" nel giorno in cui era arrivata in Ungheria una divisione sovietica; un uomo d'affari ceco si ritrovò chiuso in un campo perché un vicino lo aveva accusato di aver parlato di "quell'imbecille di Stalin".32

Tuttavia, in sé, i campi non erano affatto una caricatura. In un memoriale su Reczk, il più famigerato dei campi ungheresi, il poeta magiaro Gyòrgy Faludy delinea un sistema che sembra quasi una copia esatta del Gulag, fino ad accogliere la pratica della tufta e ad avere i detenuti affamati che nei boschi cercano di raccogliere bacche selvatiche e funghi.33 Anche il sistema ceco aveva una caratteristica speciale: un complesso di diciotto lagpunkt, tutti intorno alle miniere di uranio di Yachimov. Con il senno di poi, è evidente che i prigionieri politici con le condanne più pesanti - l'equivalente della katorga sovietica - erano mandati in quei campi minerari per morire. Benché lavorassero a estrarre l'uranio per il nuovo progetto sovietico di bomba atomica, non avevano indumenti speciali né alcuna forma di protezione. È noto che il tasso di mortalità era elevato, sebbene ancora non si sappia con precisione quanto.34

In Polonia la situazione era più complessa. A guerra finita, una quota considerevole della popolazione polacca risultava internata in un campo di qualche genere, fosse un campo profughi (ebrei, ucraini, ex lavoratori schiavi dei nazisti) o un campo di detersione (tedeschi e Volkdeutsch, i polacchi che avevano dichiarato la propria origine tedesca), oppure in una colonia penale. L'Armata rossa aveva istituito in Polonia alcuni campi per prigionieri di guerra, popolandoli non solo di militari tedeschi, ma anche di appartenenti all'esercito polacco m patria, destinati alla deportazione in URSS. Nel 1954, in Polonia si trovavano ancora incarcerati 84.200 prigionieri politici.35

I campi esistevano anche in Romania, in Bulgaria e nella lugosla-

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via di Tìto, sebbene quest'ultimo avesse fama di "antisovietico". Come quelli dell'Europa centrale, anche i campi dei Balcani all'inizio imitavano il Gulag, ma con il passare del tempo cominciarono a differenziarsene. Nella maggior parte dei casi erano stati allestiti dalla polizia locale, con la consulenza e qualche sorta di guida da parte dei sovietici. La polizia segreta rumena, la Securitate, sembra in effetti aver lavorato direttamente agli ordini dei colleghi sovietici. Forse è per questo che i campi rumeni presentano il massimo grado di somiglianzà con il Gulag, al punto dì dedicarsi ad attuare progetti assurdi e dalle ambizioni esagerate, del genere di quelli patrocinati dallo stesso Stalin in Unione Sovietica. Il più famoso, il canale Danu-bio-mar Nero, sembra in effetti non aver avuto nessuna reale funzione economica. Ancora oggi, appare altrettanto vuoto e deserto come il canale del mar Bianco, con il quale ha una così misteriosa affinità. Uno slogan propagandistico affermava che "il canale Danubio-mar Nero è la tomba della borghesia rumena". Considerando che per costruirlo potrebbero essere morte fino a 200.000 persone, è addirittura probabile che fosse questo il vero obiettivo del canale.36

I campi bulgari e iugoslavi seguivano princìpi diversi. A quanto pare, la polizia bulgara si preoccupava più di seviziare gli internati che di realizzare piani. Un'attrice bulgara, sopravvissuta alla prigionia, ha raccontato di essere stata picchiata a sangue dopo essere crollata per il caldo:

Mi coprirono di stracci e mi lasciarono stare. Il giorno dopo gli altri andarono al lavoro, mentre io rimasi tutto il giorno rinchiusa, senza mangiare né bere e senza cure. Ero troppo debole per alzarmi, per le botte ricevute e tutto quel che avevo sopportato il giorno prima. Mi avevano picchiato brutalmente. Ero rimasta in coma quattordici ore, e ne uscii viva per miracolo.37

La stessa donna racconta di aver visto picchiare a morte un padre e un figlio alla presenza l'uno dell'altro, solo per soddisfare il gusto sadico di chi li pestava. Altri superstiti dei campi bulgari raccontano di essere stati tormentati dal caldo, dal freddo, dalla fame e dalle violenze fisiche.38 Anche la collocazione geografica di questi campi, più a sud, era motivo di nuove sofferenze: uno dei più famigerati campi iugoslavi era stato costruito sull'isola adriatica di San Grego-rio, dove l'acqua scarseggiava e la sete era il tormento più diffuso.39

A differenza di quanto accadde per il Gulag, la maggior parte di questi campi non durò a lungo, e prima della morte di Stalin molti erano già stati chiusi. Gli speclager' della Germania Est, in effetti, fu-r°no smantellati nel 1950, soprattutto perché contribuivano alla Profonda impopolarità del Partito comunista tedesco orientale. Per

Gulag

migliorare l'immagine del nuovo regime - e per impedire che i tedeschi continuassero a fuggire in Occidente, cosa all'epoca ancora possibile - la polizia segreta della Germania Est arrivò addirittura a curare i detenuti in modo da rimetterli in salute prima di liberarli, e li rifornì di abiti nuovi. Ma non tutti furono rilasciati: quelli che erano considerati i più seri oppositori politici del nuovo regime vennero trasferiti in Unione Sovietica, come i polacchi arrestati nella stessa epoca. Sembra che siano stati deportati anche gli appartenenti alle squadre addette alla sepoltura negli speclager', per paura che si lasciassero sfuggire qualcosa sull'esistenza delle fosse comuni nei campi, identificate ed esaminate soltanto negli anni Novanta.40

Nemmeno i campi cechi durarono a lungo: nel 1949 arrivarono al massimo dello sviluppo, dopodiché cominciarono a diminuire per poi scomparire del tutto. Imre Nagy, il leader riformatore ungherese, li smantellò subito dopo la morte di Stalin, nel luglio 1953. Invece i comunisti bulgari continuarono a tenere in funzione parecchi campi di lavoro duro fin quasi al 1980, quando la gran parte del sistema dei campi sovietici era stata smantellata. Lovec, uno dei lager più crudeli del sistema bulgaro, è rimasto in funzione dal 1949 al 1962.41

Imprevedibilmente, la politica di esportazione del Gulag ha avuto l'effetto più durevole fuori dall'Europa. All'inizio degli anni Cinquanta, al culmine dell'epoca della collaborazione fra Cina e URSS, gli "esperti" sovietici contribuirono ad allestire parecchi campi in Cina, organizzando brigate di lavoratori coatti in una miniera di carbone presso Fushun. I campi cinesi, i laogai, esistono ancora oggi, anche se somigliano ben poco ai campi staliniani che intendevano emulare all'epoca in cui furono creati. Sono tuttora campi di lavoro, e chi è condannato a scontarvi una pena spesso deve poi subire anche un periodo di confino, proprio come nel sistema staliniano. I loro comandanti, però, sembrano meno ossessionati dalle norme di produzione da realizzare e dalla pianificazione centralizzata, e più concentrati su una forma di rigorosissima "rieducazione". Agli occhi delle autorità si direbbe che l'espiazione dei detenuti, il rito in cui si umiliano di fronte al Partito, abbia un'importanza pari se non superiore alla quantità di beni che essi riescono a produrre.42

Alla fine, le condizioni specifiche della vita quotidiana nei campi degli Stati alleati e satelliti dell'Unione Sovietica - a cosa servivano i campi, quanto tempo sono durati, quanto sono diventati rigorosi o disorganizzati nel tempo, quanto crudeli o aperti - dipendevano tutte dalle caratteristiche di ciascun paese e dalla sua particolare cultura. È risultato chiaro che era relativamente facile per le diverse na-

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/ioni modificare il modello sovietico per adeguarlo alle proprie e-sigenze. O forse dovrei dire che è relativamente facile. Il brano che segue, tratto da una raccolta pubblicata nel 1998, descrive un'espe-rien/a vissuta in un campo di concentramento, nell'ultimo paese comunista del continente eurasiatico, in tempi ancor più recenti:

Fin dal primo giorno - avevo nove anni - mi fu assegnata una quota. Il primo lavoro che dovetti svolgere consisteva nel salire sulla montagna per raccogliere un grosso carico di legna da ardere da portare a scuola. Mi fu detto di rifare la stessa cosa dieci volte. Per andare e tornare dalla montagna alla scuola portando un carico di legna ci volevano due o tre ore. Se non avevo finito non potevo tornare a casa. Continuai a lavorare fino a notte, e quando ebbi finito era passata la mezzanotte e caddi a terra. Si capisce che gli altri bambini, i quali si trovavano laggiù da più tempo, riuscivano a fare più in fretta ...

Fra gli altri tipi di lavoro c'era quello di filtrare con un setaccio l'oro dalla sabbia del fiume (che veniva scossa e lavata nell'acqua del fiume). Era una cosa molto più facile: a volte avevi fortuna e riuscivi ad arrivare alla norma stabilita un po' prima, e allora potevi giocare almeno un pochino, invece di dire al maestro che avevi già realizzato la norma .. .43

Lo scrittore Kang Chol-Hwan ha lasciato la Corea del Nord nel 1992. In precedenza aveva trascorso dieci anni, insieme a tutta la sua famiglia, nel campo di punizione di Yodok. Secondo un gruppo che si occupa di diritti umani a Seul, in questo genere di campi di prigionia vengono trattenuti ancora circa 200.000 nordcoreani, per "crimini" come aver letto un giornale straniero, aver ascoltato una stazione radio straniera, aver parlato con uno straniero o aver in qualunque modo "ingiuriato l'autorità" del governo della Corea del Nord. Si ritiene che durante la prigionia in questi campi siano morti circa 400.000 detenuti.44

I campi nordcoreani non esistono soltanto nella Corea del Nord. Nel 2001 il giornale "Moscow Times" ha riferito che il governo nord-coreano paga il debito con la Russia inviando delle squadre di lavoratori nei campi minerari e di taglio e trasporto del legname, sotto stretta sorveglianza, in zone isolate della Siberia. I campi, che rappresentano uno "Stato all'interno dello Stato", dispongono di una propria rete di distribuzione alimentare, una propria prigione e un proprio servizio di sorveglianti. Si ritiene che l'operazione abbia riguardato circa 6000 operai. Non si sa bene se fossero pagati o no, ma e certo che non erano liberi di andarsene.45

In altre parole, l'idea dei campi di concentramento non era solo così generale da poter essere esportata, ma è stata anche così dure-vole da poter sopravvivere fino ai nostri giorni.

XXII L'APOGEO DEL COMPLESSO INDUSTRIALE DEI CAMPI

A diciassette anni adoravamo studiare.

A venti abbiamo imparato a morire,

a sapere che se ti lasciano vivere

vuoi dire che non è successo niente... ancora.

A venticinque abbiamo imparato a barattare la vita con un pezzo di pesce secco, legna da ardere e patate...

A quaranta, cosa restava da imparare? Abbiamo saltato troppe pagine, forse abbiamo imparato che la vita è breve... E del resto, già a vent'anni lo sapevamo.

M1HAIL FROLOVSK1J, La mia generazione1

Intanto al nostro paese, a tutta l'Europa orientale, soprattutto a tutti i nostri luoghi di deportazione, si stava avvicinando l'anno quarantanove, fratello di sangue del trentasette.

EVGENIJA GINZBURG, Viaggio nella vertigine 22

Con la fine della guerra vennero le parate vittoriose, gli abbracci e le lacrime al ritorno dal fronte, e si diffuse la convinzione che la vita sarebbe stata più facile, e che dovesse esserlo. Per vincere la guerra, milioni di uomini e donne avevano sopportato privazioni terribili, e volevano ormai un'esistenza più agevole. Nelle campagne si diffuse in breve tempo la voce secondo cui stavano per essere abolite le fattorie collettive. La popolazione delle città si lamentava apertamente dei prezzi elevati imposti per l'acquisto degli alimenti razionati-Inoltre, la guerra aveva permesso a milioni di cittadini sovietici, ml" litari o lavoratori coatti, di venire a conoscenza delle relative agia~

r

L'apogeo del complesso industriale dei campi 481

tezze della vita in Occidente; quindi il regime sovietico non poteva più plausibilmente sostenere, come un tempo faceva, che in Unione Sovietica la condizione economica dei lavoratori era migliore di quanto non fosse in Occidente.3

Molti di quelli che occupavano posizioni di potere sentivano che era giunto il momento di dare nuovi obiettivi al sistema produttivo sovietico, riducendo gli armamenti e aumentando la quantità di beni di consumo di cui la popolazione aveva un disperato bisogno. In una conversazione telefonica privata, intercettata e registrata per i posteri dalla polizia segreta, un generale sovietico spiegò a un collega: "Tutti dicono apertamente di essere insoddisfatti di questa vita. Sui treni, e un po' dovunque, è quello che dicono tutti".4 Senza dubbio, rifletteva il generale, Stalin doveva esserne al corrente, e ben presto avrebbe preso delle decisioni.

Nella primavera del 1945 anche fra i detenuti si nutrivano grandi aspettative. Nel gennaio di quell'anno, il governo aveva promulgato un'altra amnistia generale per le donne in gravidanza o con figli in tenera età, e furono rilasciate in gran numero, per la precisione 734.785 entro il mese di luglio.5 Le restrizioni del tempo di guerra erano state attenuate, i detenuti avevano di nuovo il permesso di ricevere da casa pacchi con vestiario e alimenti. Nella maggior parte dei casi, le nuove regole non erano dettate dalla compassione. Le autorità avevano concesso l'amnistìa alle donne, escluse ovviamente le detenute politiche, non certo per uno slancio del cuore, ma piuttosto in seguito allo spaventoso aumento degli orfani, da cui derivava di conseguenza il problema dei bambini sbandati, del teppismo e delle bande di minorenni criminali in tutta l'URSS: si pensava, sia pur a malincuore, che liberare le madri fosse un primo passo verso la soluzione del problema. Anche l'abolizione delle restrizioni sui pacchi non era un segno di bontà, ma un tentativo di mascherare gli effetti delle carestie negli anni postbellici: l'amministrazione dei campi non aveva mezzi per il mantenimento dei prigionieri e, dunque, perché non farsi aiutare dalle famiglie? In una direttiva dell'amministrazione centrale si affermava seccamente: "per quanto riguarda l'alimentazione e il vestiario dei detenuti, gli invii di pacchi e di denaro devono essere considerati un contributo".6 Tuttavia, molti furono rincuorati dalle recenti disposizioni, in cui vedevano l'annuncio di un'epoca nuova, meno rigida.

Non sarebbe stato così. Entro un anno dalla vittoria ebbe inizio la guerra fredda. Quando gli americani lanciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, il governo sovietico si persuase che avreb-

Gulag

be dovuto porsi come obiettivo economico di massima priorità la produzione militare e l'industria pesante, e non la fabbricazione di frigoriferi e di calzature per bambini. Nonostante le devastazioni prodotte da cinque anni e mezzo di combattimenti, gli autori dei piani quinquennali sovietici si sforzarono più che mai di abbreviare i tempi, di affrettare la ricostruzione... e di usare quanto più possibile la manodopera coatta.7

In effetti, rispetto agli obiettivi strategici di Stalin, la nuova minaccia contro l'Unione Sovietica era appunto la scusa necessaria al dittatore per esercitare un controllo ancor più ferreo sul suo popolo, che era stato esposto all'influenza corruttrice del mondo esterno. Perciò Stalin impose ai suoi subordinati di ""sferrare un forte colpo" a ogni discorso di "democrazia"", ancor prima che si diffondesse nei discorsi della gente.8 Inoltre rafforzò e riorganizzò l'NKVD, che nel marzo 1946 fu divisa in due corpi: il ministero dell'Interno, cioè l'MVD, continuava ad avere giurisdizione sul Gulag e sui villaggi di confino, diventando in pratica il ministero del Lavoro coatto. Il secondo nucleo burocratico, una struttura più prestigiosa, l'MGB, più tardi denominata KGB, si occupava del controspionaggio e dei servizi segreti all'estero, delle guardie di frontiera, e in ultima analisi teneva sotto sorveglianza anche gli oppositori del regime.9

In definitiva, invece di attenuare la repressione con la fine della guerra, i dirigenti sovietici intrapresero una nuova serie di arresti, sferrando di nuovo un attacco contro le forze armate, e prendendo di mira le minoranze etniche, ebrei sovietici compresi. La polizia segreta "scoprì" una serie di congiure di giovani antistalinisti quasi in ogni città del paese.10 Nel 1947 furono introdotte nuove leggi che vietavano i matrimoni, e in pratica tutti i rapporti amorosi, fra cittadini sovietici e stranieri. Anche gli accademici sovietici che comunicavano dati scientifici ai colleghi stranieri potevano essere accusati di reati penali. Nel 1948, le autorità arrestarono circa 23.000 dipendenti delle imprese agricole collettive, accusandoli di non aver fornito il numero prescritto di giornate lavorative nell'anno precedente: i lavoratori furono mandati al confino in località sperdute, senza processi né ulteriori indagini.11

Esistono testimonianze di arresti di carattere più inconsueto compiuti alla fine degli anni Quaranta. In base ai verbali degli interrogatori di un prigioniero di guerra tedesco, fermato dai servizi segreti, e soltanto da poco non più coperti dal segreto di Stato, dopo la guerra anche due aviatori americani erano finiti nel sistema del Gulag. Nei 1954 l'ex prigioniero di guerra tedesco raccontò agli investigatori

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statunitensi di aver incontrato nel 1949 due militari dell'aviazione americana nel campo di prigionia situato nella regione dei Komi, presso Uhta. I due pilotavano un aereo caduto nelle vicinanze di Har'kov, in Ucraina; accusati di spionaggio, a quanto si capisce dalla descrizione del tedesco, erano stati inseriti in una sorta di brigata di condannati alla katorga. Sembra che uno di loro sia morto nel campo, ucciso da criminali comuni. L'altro più tardi era stato trasferito, presumibilmente a Mosca.12

Vi erano poi anche dicerie più vaghe e più intriganti riguardo alla regione dei Komi. Secondo una leggenda locale, negli anni Quaranta finirono incarcerati in un altro lagpunkt, Sevdoz, sempre nei dintorni di Uhta, altri inglesi, o quantomeno anglofoni. Secondo il racconto di un abitante del luogo, gli inglesi erano spie, paracadutate in Germania alla fine della guerra. L'Armata rossa li aveva catturati, interrogati e deportati nel Gulag in gran segreto, dato che, in fondo, l'Inghilterra e l'URSS durante la guerra erano alleate. Le prove attestanti la loro presenza sono esigue: un lagpunkt soprannominato dagli abitanti del luogo anglijskaja kolonija, "la colonia inglese", e l'accenno, nell'archivio militare di Mosca, a "dieci scozzesi" (qualunque sia il senso di questa espressione) presenti in un campo di prigionieri di guerra della zona.13

Grazie all'afflusso di nuovi prigionieri, dopo la guerra il Gulag non subì contrazioni, anzi si estese, e nei primi anni Cinquanta raggiunse la sua massima espansione. Secondo le statistiche ufficiali, al 1° gennaio 1950 il Gulag ospitava 2.561.351 detenuti, distribuiti nei campi e nelle colonie penali del sistema: un milione in più di quanti ve ne fossero cinque anni prima, nel 1945.14 Crebbe anche il numero dei confinati speciali, a causa delle massicce operazioni di deportazione condotte nelle repubbliche baltiche, in Moldavia e in Ucraina, con l'obiettivo deliberato di portare a termine la "sovietizzazione" di quei popoli. E più o meno nello stesso periodo, l'NKVD risolse una volta per tutte lo spinoso dilemma del futuro dei confinati, decretando che tutti i deportati erano stati esiliati "in perpetuo", insieme ai figli. Negli anni Cinquanta il numero dei confinati era più o meno Pari a quello dei detenuti nei campi.15

Nel secondo semestre del 1948 e nel primo del 1949 gli ex internati del Gulag furono colpiti da una nuova inattesa tragedia: vennero arrestati, o meglio riarrestati, moltissimi ex detenuti, per lo più coloro che avevano subito il primo arresto tra il 1937 e il 1938, che erano stati condannati a dieci anni e quindi liberati. Le operazioni si svolto in modo sistematico, accurato e stranamente senza spargimento

Gulag

di sangue. Solo in rari casi furono avviate nuove indagini, e in linea di massima gli interrogatori furono solo formali.16 La comunità dei confinati di Magadan e della vallata della Kolyma si rese conto che qualcosa non andava quando giunse voce che ex "politici", i cui cognomi cominciavano con le prime tre lettere dell'alfabeto russo, erano stati arrestati, perché risultava evidente che la polizia segreta aveva cominciato a riarrestare la gente andando in ordine alfabetico.17 Nessuno riuscì a stabilire se si trattasse di una cosa buffa o tragica. Evgenija Ginzburg afferma che, mentre "nel trentasette l'ingiustizia aveva rivestito forme monumentali e tragiche ... nel qua-rantanove il Serpente Desolatore, sbadigliando di sazietà e di noia, compilava senza fretta elenchi in ordine alfabetico di quelli che dovevano essere annientati...".18

Nelle descrizioni dei riarrestati prevale in larghissima maggioranza un senso di indifferenza. Il primo arresto era stato un trauma, ma anche una lezione: molti erano stati costretti per la prima volta ad affrontare la verità sul loro sistema politico. Il secondo arresto non portava nuove cognizioni: "Ora nel quarantanove sapevo che la sofferenza purifica solo fino a un certo punto. Quando essa si protrae per decenni e diventa quotidianità, non purifica più, ma semplicemente ci trasforma in pezzi di legno" scrive la Ginzburg: "dopo il mio secondo arresto, mi sarei immancabilmente trasformata in un pezzo di legno".19

Quando i poliziotti vennero a prenderla per la seconda volta, Ol'-ga Adamova-Sliozberg si avvicinò all'armadio per fare i bagagli, ma poi si fermò, colta da un pensiero: "Perché preoccuparmi di portare qualcosa con me? La mia roba può servire ai ragazzi più che a me. E evidente che questa volta non riuscirò a sopravvivere, come potrei sopportarlo?".20 La moglie di Lev Razgon fu arrestata di nuovo, e il marito volle sapere perché. Quando gli fu detto che era stata condannata per gli stessi delitti, insistette per ricevere una spiegazione più esauriente:

"Aveva già scontato la sua condanna. La legge vi permette davvero di punire una persona due volte per lo stesso reato?" Il procuratore mi guardò sbalordito. "Certo che no. Ma che cosa c'entra la legge?"21

Nella maggior parte dei casi, gli arrestati per la seconda volta non furono rimandati nei campi ma relegati al confino, di solito nell province più isolate e spopolate del paese: la Kolyma, KrasnojarsK/ Novosibirsk, il Kazakistan,22 dove per lo più vivevano un'esistenz

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di tedio senza sollievo. Esclusi dalla comunità dei residenti locali in quanto "nemici", faticavano a trovare un alloggio o un lavoro. Nessuno voleva avere contatti con spie e sabotatori.

Le vittime comprendevano bene i progetti di Stalin: a chi era stato condannato per spionaggio, per sabotaggio o qualsiasi forma di opposizione politica non si doveva mai più consentire di tornare a casa. Se era stato rilasciato, avrebbe ricevuto un "passaporto da lupi", che gli vietava di abitare entro una data distanza dalle principali città, e sarebbe stato passibile in permanenza di un nuovo arresto.23 Il Gulag, e il sistema del confino che ne costituiva il complemento, non rappresentavano più pene temporanee: per chi era condannato a subirle, erano diventati un modo di vivere.

Tuttavia, la guerra ebbe davvero un effetto durevole sul sistema dei campi, sebbene non sia facile quantificarlo. La vittoria non portò una liberalizzazione delle normative e dei regolamenti del campo, ma erano cambiati i detenuti stessi, e in particolare quelli politici.

Innanzitutto, ce n'erano di più. L'impennata demografica degli anni di guerra e le amnistie da cui venivano esclusi di proposito i condannati per reati politici avevano lasciato nei campi di lavoro una percentuale assai maggiore di detenuti di questo genere. Al 1° luglio 1946, oltre il 35 per cento degli internati di tutto il Gulag scontavano condanne per crimini "controrivoluziona ri". In alcuni campi la cifra era assai più alta, superava addirittura il 50 per cento.24

In seguito, la cifra complessiva sarebbe di nuovo diminuita, ma anche la posizione dei detenuti politici era cambiata. La nuova generazione dei politici era appunto nuova, ed era portatrice di esperienze diverse. I politici arrestati negli anni Trenta, e in particolare quelli degli anni ] 937-38, erano intellettuali, membri del Partito e lavoratori comuni. Nella maggior parte dei casi, l'arresto li aveva traumatizzati. Dal punto di vista psicologico non erano preparati per la vita del carcere e dal punto di vista fisico non erano preparati al lavoro forzato. Ma nell'immediato dopoguerra i condannati per reati politici erano ex militari dell'Armata rossa, ufficiali dell'esercito nazionale polacco, partigiani ucraini e baltici, prigionieri di guerra tedeschi e giapponesi. Erano uomini e donne che avevano combattuto in trincea, organizzato gruppi clandestini, comandato truppe. Alcuni era-no superstiti dei lager tedeschi, altri avevano guidato bande di par-"giani. Molti erano antisovietici o anticomunisti in modo esplicito, e n°n si stupivano affatto di trovarsi dietro il filo spinato, come ricor-^a un internato: "Avevano guardato la morte negli occhi, erano pas-

Gulag

sati attraverso il fuoco e l'inferno della guerra, avevano superato la fame e grandi tragedie: erano una generazione del tutto diversa rispetto ai prigionieri di prima della guerra".25

Il nuovo genere di detenuti cominciò a procurare noie alle autorità quasi fin dal momento in cui cominciò a fare la sua comparsa nei campi. Già nel 1947 i criminali di professione non riuscivano più a tenerli sotto controllo con tanta facilità. Comparve un nuovo clan fra le disparate tribù criminali e nazionali che dominavano la vita del campo: "berretti rossi" (krasnaja sapocka). Erano per lo più ex soldati o ex partigiani che avevano formato delle bande per combattere il predominio dei ladri, e più in generale per contrastare l'amministrazione dei campi che li tollerava. Questi gruppi continuarono ad agire per gran parte del decennio successivo, nonostante si fosse cercato di disperderli. Nell'inverno del 1954-55 Viktor Bulgakov, allora detenuto a Inta, un campo minerario dell'estremo nord, nella provincia di Vorkuta, fu testimone di un tentativo dell'amministrazione di "spezzare" un raggruppamento di politici introducendo nel campo un contingente di sessanta malavitosi. I criminali si erano armati e si preparavano ad aggredire i politici:

Riuscirono tutt'a un tratto a impadronirsi di "armi bianche" [coltelli], proprio come potevamo aspettarci che accadesse in quei frangenti ... venimmo a sapere che avevano rubato i soldi e le proprietà di un prigioniero più vecchio. Chiedemmo loro di restituirle, ma non erano abituati a restituire niente. Perciò, verso le due del mattino, quando cominciava appena a far chiaro, circondammo la loro baracca da tutti i lati, e attaccammo. Li picchiammo e continuammo a picchiarli finché non si rialzarono più. Uno saltò attraverso la finestra ... corse verso la vahta, e crollò sulla soglia. Ma quando arrivarono le guardie, non c'era più nessuno ... Tolsero i ladri dalla zona.26

Un incidente analogo si verificò a Noril'sk, come racconta un internato:

In un lagpunkt dove tutti i detenuti erano politici arrivò un gruppo di ladri che cominciò a cercare di imporre il suo regime. I prigionieri, che erano tutti ex ufficiali dell'Armata rossa, li fecero a pezzi, pur non avendo armi. I ladri superstiti si precipitarono dalle guardie e dai comandanti, urlando come pazzi per chiedere aiuto.27

Perfino le donne non erano più le stesse. Stanca di subire intimidazioni, una prigioniera politica disse a un gruppo di malavitose: "[Se non restituite il denaro che avete rubato] vi sbatteremo tutte fuori, con i vostri stracci, e per stanotte potrete dormire all'aperto". Le "comuni" restituirono i soldi rubati.28

Si capisce che non sempre erano i malavitosi a perdere. In un epi-

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sodio avvenuto nel Vjatlag, la lotta fra prigionieri politici e condannati comuni finì con la morte di nove politici. I criminali avevano preteso un pizzo di 25 rubli da ciascun prigioniero, e semplicemente uccidevano quelli che si rifiutavano di pagarlo.29

Tuttavia, le autorità presero nota della situazione. Se i prigionieri politici potevano riunirsi in bande per combattere i criminali, potevano associarsi anche per combattere l'amministrazione dei campi. Nel 1948, prevedendo la possibilità di una rivolta, i capi moscoviti del Gu-lag ordinarono che tutti ipolitici "piùpericolosi" fossero relegati in un nuovo gruppo di campi "speciali" (osobyj lager'). Questi, progettati e-spressamente per "le spie, i sabotatori, i terroristi, i trockisti, i destrorsi, i menscevichi, i socialisti rivoluzionari, gli anarchici, i nazionalisti, gli emigrati bianchi e i membri di altre organizzazioni antisovietiche", erano in effetti un'estensione del regime della katorga e ne avevano alcune caratteristiche: le divise a strisce, il numero scritto sul davanti del berretto, sul dorso e sul petto, le sbarre alle finestre, le baracche chiuse a chiave durante la notte. I contatti fra i prigionieri e il mondo esterno erano ridotti al minimo, in certi casi si potevano scrivere solo una o due lettere l'anno. La corrispondenza con persone non appartenenti alla stretta cerchia familiare era rigorosamente vietata. La giornata lavorativa era fissata a dieci ore e i detenuti non potevano svolgere mansioni diverse dal lavoro manuale. I servizi sani tari erano ridotti al minimo: all'interno dei complessi dei campi speciali non erano stati previsti "settori per invalidi".30

Come i lagpunkt della katorga, con i quali ben presto cominciarono a confondersi, anche i campi speciali erano situati esclusivamente nelle zone più inospitali del paese: Inta, Vorkuta, Noril'sk e la Kolyma - tutti campi minerari non lontani dal Circolo polare artico o anche più a nord - oppure nel deserto del Kazakistan o nelle tetre foreste della Mordovia. In effetti erano campi all'interno dei campi, perché nella maggior parte dei casi erano allestiti all'interno di strutture di lavoro coatto preesistenti. Si distinguevano soltanto per una cosa. Con uno stupefacente tocco poetico, le autorità del Gulag li avevano chiamati con nomi a carattere paesaggistico: Minerale, Monte, Quercia, Steppa, Litorale, Fiume, Lago, Sabbia e Prato, per citarne solo alcuni. Si può presumere che vi fossero motivi di segretezza - si voleva tenere nascosta la natura dei campi - dato che nel campo della Quercia non c'erano piante di quercia, né certamente esisteva un litorale nel campo Litorale- Ben presto, però, secondo l'uso sovietico, i nomi furono abbreviati,

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Diventando Minlag, Gorlag, Dubravlag, Steplag ecc. All'inizio del 1953 i dieci campi speciali ospitavano 210.000 persone.31

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Tuttavia non bastò mettere in isolamento i prigionieri politici "più pericolosi" per renderli più docili. Al contrario, i campi speciali liberarono i politici dai continui conflitti con i criminali e dall'influsso degli altri prigionieri, che poteva attenuare i contrasti. Essendo lasciati a se stessi, i politici diventarono soltanto ancora più rigorosi nella loro opposizione al sistema: correva il 1948, non il 1937. Avrebbero finito con l'intraprendere una lotta lunga, determinata e senza precedenti, contro le autorità.

I prigionieri politici non furono gli unici a subire gli effetti dell'inasprimento della repressione. In un momento in cui i profitti acquistavano un'importanza più che mai decisiva, i capi del Gulag cominciarono a rivedere il proprio atteggiamento verso i criminali di professione. Questi ultimi, essendo corrotti, svogliati e minacciosi verso le guardie, nuocevano alla produttività dei campi. Ormai non servivano più a tenere a freno i prigionieri politici, ma non producevano neppure altri vantaggi. I detenuti comuni non sarebbero mai stati considerati con la stessa ostilità suscitata dai politici, né avrebbero mai ricevuto lo stesso odioso trattamento dalle guardie del campo, ma è vero che, nel dopoguerra, le autorità del Gulag decisero di mettere fine al dominio dei criminali sulla vita dei campi e di eliminare per sempre la figura dei "ladri legittimi" che si rifiutavano di lavorare.

In pratica, la guerra del Gulag contro i ladri si svolse sia in forme esplicite, sia in forme occulte. In primo luogo, i criminali più pericolosi e incalliti furono semplicemente separati dagli altri internati e condannati a pene più lunghe: dieci, quindici, venticinque anni.32 Nell'inverno del 1948, inoltre, nel Gulag si decise di fondare un gruppo di lagpunkt a regime duro per criminali, in cui relegare i recidivi nei reati comuni. Secondo le direttive impartite da Mosca, vi potevano lavorare soltanto le guardie più disciplinate e "dal fisico più sano", mentre i reticolati dovevano essere particolarmente alti e robusti. A parte erano specificate le caratteristiche tecniche. Il Gulag richiese immediatamente la creazione di ventisette campi di questo genere, in cui trovarono posto oltre 115.000 detenuti.33

Purtroppo sappiamo pochissimo riguardo alla vita quotidiana che si svolgeva in simili lagpunkt di punizione, e neppure ci è noto se tutti i campi previsti dal piano siano poi stati di fatto realizzati: la probabilità che questi criminali, quando sopravvivevano alla prigionia, scrivessero le loro memorie era ancora più remota di quanto non lo fosse per i criminali rinchiusi nei campi comuni. In pratica, tuttavia, quasi rutti i campi avevano qualche forma di carcerazione separata per i eri-

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minali incalliti e, per un caso disgraziatissimo, Evgenija Ginzburg ebbe la sorte di trovarvisi per breve tempo: a Izvestkovaja, un lagpunkt di punizione nella Kolyma. Era l'unica prigioniera politica in un gruppo di condannate per reati comuni.

Durante il periodo trascorso a Izvestkovaja, la Ginzburg lavorava in una cava di calce, dove, non riuscendo a realizzare la norma prevista, non le veniva dato da mangiare. Nei primi giorni dopo l'arrivo al campo, aveva passato le serate seduta "ben diritta" in un angolo della baracca, perché nelle cuccette non c'era spazio, a guardare le donne, quasi tutte nude, che bevevano surrogati di alcolici in una camerata surriscaldata. In seguito, una delle donne, malata di sifilide all'ultimo stadio, le fece posto e le permise di stendersi, ma questo non potè esserle di grande sollievo: "il fetore soverchiante di putrefazione" che veniva dal naso della donna, ormai in dissoluzione, quasi la soffocava. "A Izvestkovaja, proprio come nell'inferno, non solo non ci sono né giorni né notti, ma non c'è neanche una temperatura media, che permetta di esistere. O il freddo ghiacciato della cava o il calore soffocante, infernale della baracca."

Nel campo, la Ginzburg riuscì a malapena a evitare di essere stuprata. Una sera le guardie del campo, che erano "molto, molto lontane dai loro capi", fecero irruzione nelle baracche e cominciarono ad aggredire le donne. Un'altra volta, a sorpresa, una di loro le gettò una pagnotta: i dirigenti del campo, che temevano un'ispezione, si preoccupavano che non morisse. "La nostra truppa, rimbecillita dall'isolamento, dal cibo e dall'alcol, dalle continue liti con le ragazze, aveva perso del tutto l'orientamento, e non capiva bene che cosa potesse capitarle. In ogni caso, un decesso nell'imminenza dell'arrivo dei capi era fuori posto."34

La Ginzburg, però, riuscì a scamparla. Con l'aiuto di amici potè farsi trasferire in un altro campo, grazie nientemeno che ai buoni uffici della donna delle pulizie del capo del Sevvostlag. Altri non a-vrebbero avuto la sua fortuna.

Tuttavia, per abbattere la supremazia dei criminali comuni, l'amministrazione non aveva come uniche armi l'imposizione di un regime più rigoroso e di condanne più lunghe. In tutta l'Europa centrale la grande forza dell'Unione Sovietica come potenza occupante era la capacità di corrompere le élite locali, inducendole a collaborare all'oppressione del loro stesso popolo. Tecniche identiche furono adottate per tenere sotto controllo le élite criminali dei campi. Era un metodo diretto: ai criminali di professione, cioè i ladri legittimi, si offrivano privilegi e trattamenti speciali se abbandonavano la loro "legge" e col-

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laboravano con le autorità. Chi accettava otteneva la totale libertà di maltrattare i propri ex compagni, e perfino di torturarli e assassinarli mentre i sorveglianti guardavano altrove. Questi collaborazionisti criminali, del tutto corrotti, erano denominati suka, ossia "cagne", e i violenti scontri che scoppiavano fra loro e gli altri "comuni", criminali incalliti, presero il nome di "guerra fra i ladri e le cagne".

Dopo la guerra, il conflitto tra i malavitosi, così come la battaglia per la sopravvivenza intrapresa dai politici, era una delle caratteristiche peculiari della vita nei campi. Già prima si verificavano conflitti fra gruppi di criminali, ma non erano mai stati così accaniti, né così platealmente provocati: nel 1948 le singole battaglie scoppiarono tutte insieme, in tutto il sistema dei campi, il che lasciava ben pochi dubbi circa il ruolo in esse svolto dalle autorità.35 Moltissimi memorialisti hanno documentato vari aspetti del conflitto, anche se, ancora una volta, la maggioranza di coloro che ne ha scritto non vi aveva preso parte diretta. Erano stati invece osservatori inorriditi e, in qualche caso, vittime. Anatolij Zigulin racconta:

I ladri e le cagne combattevano all'ultimo sangue. I ladri che si trovavano in un lagpunkt di cagne, se non erano riusciti a rifugiarsi in una baracca di punizione, si trovavano spesso di fronte a un dilemma: o morire o diventare cagne a loro volta. Allo stesso modo, se un folto gruppo di ladri arrivava in un lagpunkt, tutte le cagne si nascondevano nelle baracche di punizione, perché il potere era passato di mano ... quando il regime cambiava, spesso gli effetti erano sanguinosi.36

Un malavitoso raccontò a un prigioniero che tutte le cagne erano "già come morti, sono stati condannati dal resto di noi, e alla prima occasione qualche blatnoj [ladro legittimo] li ucciderà".37 Un altro descrive le conseguenze di una di queste battaglie:

Dopo un'ora e mezzo, i ladri del nostro gruppo furono riportati indietro e gettati a terra. Erano irriconoscibili. Gli avevano strappato di dosso tutti i vestiti buoni che avevano. In cambio gli avevano dato delle divise lacere, e invece degli scarponi avevano fasce da piedi. Erano stati picchiati come bestie, molti avevano perso i denti. Uno non riusciva più ad alzare il braccio, gliel'avevano spezzato con un tubo di ferro.38

Leonid Sitko fu testimone dell'inizio di uno scontro particolarmente sanguinoso:

Una guardia correva nel corridoio gridando "Guerra! Guerra!", e allora subito tutti i ladri, che erano in numero minore rispetto alle cagne, corsero a nascondersi nella cella di punizione del campo. Le cagne li inseguirono, ammazzandone parecchi. Poi le guardie aiutarono gli altri a nascondersi, per" che non volevano che morissero tutti, e il giorno dopo li fecero andar via dal campo di nascosto.39

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A volte, anche i detenuti non criminali rimanevano coinvolti nelle battaglie, in particolare quando i comandanti dei campi concedevano maggior libertà di movimento alle cagne. Anche se "non è il caso di leggere in chiave romantica i ladri e le loro leggi, ossia quel che regola la loro vita e le loro usanze", Zigulin prosegue:

Nelle carceri e nei campi le cagne erano davvero qualcosa di tremendo per i detenuti comuni. Erano fedeli servitori dei direttori delle prigioni, lavoravano come capisquadra, comandanti, supervisori. Si comportavano da belve con i lavoratori comuni, li derubavano di tutti i loro averi, li spogliavano di tutto quel che avevano addosso. Le cagne non facevano solo la spia: eseguivano assassinii in combutta con i dirigenti del campo. Nei campi dominati dalle cagne la vita dei detenuti era davvero dura.

Ma l'epoca era quella del dopoguerra e i politici non erano più del tutto indifesi di fronte a simili maltrattamenti. Nel campo di Zigulin, un gruppo di ex militari dell'Armata rossa riuscì dapprima a pestare di santa ragione la scorta dell'odiatissimo capo delle cagne del lagpunkt, e poi a uccidere lui stesso, legandolo a una delle macchine per tagliare il legname. Quando il resto del gruppo di cagne si barricò nelle camerate, i politici mandarono loro a dire: tagliate la te-|Sta al vice del capo, fatecela vedere dalla finestra, e noi non uccidere-10 gli altri. Quelli fecero così. "Era evidente che tenevano più alla propria vita che alla testa del loro capo."40

Questo conflitto aperto divenne così accanito che alla fine anche le autorità si stancarono. Nel 1954 il ministero dell'Interno (MVD) suggerì che i comandanti dei campi istituissero "campi separati per incarcerare i recidivi di particolari reati", assicurando la "detenzione separata dei prigionieri" minacciati da altri detenuti. Isolare "i gruppi ostili gli uni agli altri" era il solo modo per evitare carneficine. I capi avevano permesso che la guerra cominciasse perché volevano tenere i ladri sotto controllo: la fecero finire perché non riuscivano più a dominare il conflitto.41

All'inizio degli anni Cinquanta, i padroni del Gulag si trovarono a dover affrontare una situazione paradossale. Avevano cercato di spezzare la resistenza dei criminali recidivi per poter accrescere la produzione e assicurare il funzionamento senza scosse del sistema produttivo dei campi. Avevano cercato di isolare i controrivoluzio-nari per impedire che contagiassero gli altri detenuti con le loro idee Pericolose. Eppure, imprimendo un giro di vite al sistema repressivo, avevano complicato il loro stesso compito. La riottosità dei politici e i conflitti fra i criminali affrettarono lo scoppio di una crisi an-

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cora peggiore: finalmente le autorità cominciavano a capire che i campi erano una fonte di spreco, di corruzione e, soprattutto, non producevano il profitto desiderato.

O meglio, tutti cominciavano a capirlo tranne Stalin. Ancora una volta, nella sua mentalità la mania della repressione e la passione per l'economia basata sul lavoro coatto si saldavano così bene che per gli osservatori del tempo diventava difficile determinare se Stalin facesse aumentare il numero delle persone arrestate per poter costruire altri campi, oppure se facesse allestire nuovi campi per dare una sistemazione alla grande quantità di detenuti.42 Per tutto il decennio 1940-50, Stalin continuò a voler aumentare sempre più la potenza economica del ministero dell'Interno, al punto che nel 1952, un anno prima della sua morte, l'MVD controllava il 9 per cento degli investimenti di capitale in Russia, più di ogni altro ministero. Il piano quinquennale stilato per il 1951-55 prevedeva che l'investimento diventasse oltre il doppio.43

Ancora una volta, Stalin diede il via a una serie di grandi progetti nell'ambito del Gulag, spettacolari e tali da catturare l'attenzione di tutti, simili a quelli cui aveva dato inizio negli anni Trenta. Su precisa richiesta dello stesso Stalin, l'MVD costruì un nuovo impianto per la produzione dell'amianto, un progetto che richiedeva un alto grado di specializzazione tecnologica, appunto quella che il Gulag era meno in grado di fornire. Inoltre, Stalin patrocinò di persona la costruzione di una seconda linea ferroviaria che attraversasse la tundra artica, da Salehard a Igarka: un progetto cui fu dato il nome di "strada della morte".44 La fine degli anni Quaranta fu inoltre l'epoca dei canali Volga-Don, Volga-Baltico e del grande canale del Turkmenistan, oltre che delle centrali elettriche di Stalingrado e di Kujbysev (quest'ultima era la più grande del mondo). Nel 1950, l'MVD avviò anche la costruzione di una galleria e di una linea ferroviaria che collegavano l'isola di Sahalin alla terraferma; il progetto avrebbe richiesto molte decine di migliaia di lavoratori forzati.45

Ormai non c'era più un Gor'kij che cantasse le lodi delle nuove costruzioni staliniane. Al contrario, i nuovi progetti erano giudicati da molti uno spreco e un inutile sfoggio di grandezza. Finché Stalin visse, nessuno avanzò obiezioni esplicite, ma molti di questi progetti, fra cui la "strada della morte" e la galleria per Sahalin, già qualche giorno dopo la sua scomparsa erano stati abbandonati. Era ben chiaro a tutti come simili imprese di rozza manovalanza fossero del tutto insensate, e lo provano gli archivi stessi del Gulag. Un'ispezione del 1951 mostrò che ben 83 chilometri della ferrovia dell'estremo settentrione, costruì-

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ta con grande dispendio finanziario e al prezzo di molte vite, non venivano più usati da tre anni. Altri 370 chilometri di una rotabile altrettanto costosa non erano più usati da diciotto mesi.46

Nel 1953 il comitato centrale ordinò un'altra ispezione, che accertò come il costo di manutenzione dei campi superasse di gran lunga i profitti ottenuti con il lavoro coatto. In effetti, nel 1952 lo Stato aveva sovvenzionato il Gulag con 2 miliardi 300.000 rubli, oltre il 16 per cento del totale degli stanziamenti di bilancio.47 Uno storico russo ha osservato che spesso i rapporti sull'espansione del sistema del Gulag, sottoposti a Stalin dal ministero dell'Interno, esordivano con l'espressione "secondo i Suoi desideri...", quasi a sottolineare le tacite obiezioni di chi scriveva.48

I capi moscoviti del Gulag erano ben consapevoli anche del clima di scontento e di irrequietezza diffuso nei campi. Nel 1951 i casi di renitenza in massa al lavoro, da parte sia dei detenuti comuni sia dei politici, erano ormai arrivati a livelli da crisi: in quell'anno l'MVD calcolò di aver perduto oltre un milione di giornate lavorative a causa di scioperi e proteste. Nel 1952 la cifra era raddoppiata. In base alle statistiche stilate dalla stessa amministrazione del Gulag, nel 1952 il 32 per cento dei detenuti non aveva realizzato la norma di lavoro stabilita.49 L'elenco dei più gravi episodi di sciopero e delle azioni di protesta relativi al 1950-52, compilato dalle stesse autorità, sorprende per la sua lunghezza. Fra gli altri, nell'inverno del 1949-50 vi era stata un'insurrezione armata nella Kolyma; una fuga in armi dal Kraslag nel marzo 1951; scioperi della fame in massa nell'Uhtizem-lag e nell'Ekibastuzlag, a Karaganda; e, nel 1952, uno sciopero nel-l'Ozerlag.so

La situazione era ormai talmente grave che nel gennaio 1952 il comandante di Noril'sk scrisse una lettera al generale Ivan Dolgih, allora comandante in capo del Gulag, in cui elencava i provvedimenti presi per prevenire la rivolta. Proponeva di abbandonare le zone di grande produzione dove non era possibile assicurare una sufficiente supervisione dei detenuti, di raddoppiare il numero dei sorveglianti (e riconosceva che sarebbe stato difficile) e di isolare l'una dall'altra le varie fazioni dei detenuti. Anche questo sarebbe stato difficile, come scriveva: "Dato il grande numero di detenuti che sono parte attiva in una fazione o nell'altra ... riusciamo a isolarne soltanto i capi". Il comandante suggeriva inoltre di isolare i lavoratori liberi dai detenuti, nei luoghi di produzione; e infine aggiungeva che sarebbe stato vantaggioso rilasciare del tutto 15.000 detenuti, perché come lavoratori liberi sarebbero stati più produttivi. Inutile dire che il suo suggerimen-

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to era un'implicita obiezione, perché metteva in discussione la logica stessa del sistema del lavoro coatto.51

Alcuni, situati più in alto nella scala gerarchica del potere, erano d'accordo con lui. "Adesso ci occorre una tecnologia di prim'ordi-ne" riconosceva Kruglov, allora capo dell'MVD: era evidente che la tecnologia di terz'ordine di cui disponeva il Gulag non era più considerata adeguata. Una riunione del comitato centrale del 25 agosto 1949 fu addirittura dedicata all'analisi di una lettera ricevuta da un detenuto istruito, identificato con il nome di Zdanov: "II sistema dei campi ha la sua principale debolezza nel fatto di fondarsi sul lavoro coatto" scriveva il mittente. "Ora, il tasso di produttività reale del lavoro coatto è bassissimo. In condizioni diverse, basterebbe la metà delle persone per eseguire il doppio del lavoro che oggi svolgono i detenuti."52

In seguito a questa lettera, Kruglov promise di elevare la produttività dei prigionieri, soprattutto ripristinando i compensi salariali per chi otteneva risultati migliori e anche reintroducendo la politica degli sconti di pena per i detenuti che lavoravano meglio. Nessuno sembra aver messo in risalto che entrambe queste forme di "incentivi" erano state eliminate alla fine degli anni Trenta - la seconda per iniziativa dello stesso Stalin - e appunto perché si affermava che riducevano i profitti del lavoro eseguito nei campi.

La cosa ebbe scarso peso, perché le novità non produssero grandi effetti. In realtà i compensi attribuiti ai detenuti arrivavano solo in minima parte nelle tasche dei legittimi titolari: un'indagine effettuata dopo la morte di Stalin dimostrò che il Gulag e altre istituzioni avevano confiscato illegalmente 126 milioni di rubli dai conti personali dei detenuti.53 Ed è probabile che perfino le cifre irrisorie su cui gli internati riuscivano davvero a mettere le mani non avessero un effetto benefico, ma piuttosto rovinoso. In molti campi, i caporioni criminali istituivano sistemi di estorsione e di protezione, costringendo i detenuti loro sottoposti a pagare un pizzo per ottenere il privilegio di non essere picchiati o assassinati. Il denaro rendeva possibile anche "comprare" lavori più facili e di fiducia.54 Nei campi per politici, i detenuti si servivano dei nuovi salari per corrompere le guardie: con quei soldi si poteva far entrare nei campi la vodka e, in seguito, anche la droga.55

La promessa di sconti di pena per chi avesse lavorato più sodo può aver suscitato maggior entusiasmo fra i lavoratori. Certo l'MVD sosteneva con forza questo tipo di incentivo, e nel 1952 suggerì addirittura di liberare folti gruppi di detenuti in tre delle maggiori im-

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prese del nord - la miniera di carbone di Vorkuta, quella di Inta e la raffineria di Uhta - per riutilizzarli come lavoratori liberi. Sembra che perfino i gestori delle aziende appartenenti alla giurisdizione dell'MVD preferissero semplicemente dover trattare con uomini liberi piuttosto che con i detenuti.56

L'economia dei campi suscitava tali preoccupazioni che nell'autunno del 1950 Berija ordinò a Kruglov di aprire un'inchiesta generale sul Gulag per accertare la verità. Nella relazione poi presentata da Kruglov si affermava che i detenuti "impiegati" dal ministero dell'Interno non erano meno produttivi degli operai comuni. Tuttavia, Kruglov riconosceva che i costi del mantenimento, cioè le spese per l'alimentazione, il vestiario, gli alloggi e soprattutto i sorveglianti, ormai necessari in quantità oltremodo elevata, superavano di gran lunga i costi dei salari per i comuni lavoratori liberi.57

In altre parole, i campi erano un sistema antieconomico, e ormai

10 sapevano in molti. Tuttavia nessuno, neppure Berija, osò prendere iniziative finché Stalin rimase in vita, cosa che forse non stupisce. Negli anni fra il 1950 e il 1952 chi si trovava nella cerchia più ristretta di Stalin deve aver ritenuto il momento troppo pericoloso per comunicare al dittatore che i progetti cui teneva tanto rappresentavano un fallimento economico. Sebbene malato e alle soglie della morte, Stalin non si era ammorbidito con l'età, anzi diventava sempre più paranoico e tendeva a vedere dappertutto congiure e complotti. Nel giugno 1951 ordinò all'improvviso l'arresto di Abaku-mov, capo del controspionaggio sovietico. Nell'autunno dello stesso anno, senza consultarsi con nessuno, dettò di persona una risoluzione del comitato centrale in cui si parlava di una "congiura dei nazionalisti mingreli" (i mingreli erano un gruppo etnico della Geòrgia, il cui membro più illustre era Berija). Per tutto il 1952 un'ondata di arresti, licenziamenti in tronco ed esecuzioni capitali falciò l'elite dei comunisti georgiani, travolgendo molti intimi e protetti di Berija. È quasi certo che Stalin mirasse a fare dello stesso Berija il bersaglio finale dell'epurazione.58

Ma Berija non sarebbe stato la sola vittima degli ultimi giorni di Stalin, ormai in preda alla follia. Nel 1952 il dittatore era ormai interessato a perseguitare un altro gruppo etnico. Nel novembre di quell'anno

11 Partito comunista ceco, che ormai aveva preso il potere in Cecoslovacchia, mise sotto processo quattordici dei suoi maggiori esponenti, undici dei quali ebrei, denunciandoli come "avventurieri sionisti". Un mese dopo, durante una riunione, Stalin dichiarò: "Ogni ebreo è un nazionalista e un agente dello spionaggio americano". Poi, il 13

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gennaio 1953, l'organo di stampa del Partito comunista, la "Pravda", rivelò l'esistenza della "congiura dei medici"; un "gruppo di medici terroristi" affermava il giornale "si era posto l'obiettivo di stroncare la vita di personaggi pubblici attivi dell'Unione Sovietica sabotandone le terapie mediche". Su nove "medici terroristi", sei erano ebrei. Furono tutti denunciati per presunte connessioni con il Comitato antifascista ebraico, i cui capi operanti durante la guerra, eminenti intellettuali e scrittori ebrei, pochi mesi prima erano stati condannati per il reato di diffusione del "cosmopolitismo".59

La "congiura dei medici" fu un episodio di tragica e terribile ironia. Solo dieci anni prima, centinaia di migliaia di ebrei sovietici, residenti nelle province occidentali del paese, erano state assassinate da Hitler. Altre centinaia di migliaia avevano deciso di rifugiarsi in Unione Sovietica, per sfuggire all'occupazione nazista della Polonia. Tuttavia, Stalin passò gli ultimi anni della sua vita a progettare una nuova serie di processi farsa, un'altra ondata di esecuzioni capitali di massa, una nuova sequela di deportazioni. In fondo, forse progettò anche di deportare tutti gli ebrei residenti nelle principali città sovietiche in località di confino dell'Asia centrale e della Siberia.60

Il paese fu di nuovo travolto da un vortice di paura e di paranoia. Intellettuali ebrei terrorizzati firmarono una petizione che condannava i medici. Vennero arrestate centinaia di medici ebrei. Altri ebrei persero il lavoro, mentre il paese era colto da una violenta recrudescenza di antisemitismo. Nel suo isolato confino di Karaganda, Ol'ga Adamova-Sliozberg sentì alcune donne del posto che chiacchieravano di certi pacchi mandati all'ufficio postale da persone con un cognome ebraico. Si diceva che contenessero batuffoli di cotone impregnati di pidocchi portatori di tifo.61 Nel Kargopol'lag, un campo a nord di Arcangelo, anche Isaak Fil'stinskij sentì dire che i detenuti ebrei sarebbero stati mandati in campi speciali dell'estremo nord.62

Poi, proprio mentre sembrava che la "congiura dei medici" avrebbe mandato altre decine di migliaia di nuovi detenuti nei campi e al confino, proprio mentre il cappio andava stringendosi alla gola di Be-rija e dei suoi scherani, e proprio mentre il Gulag entrava in quella che pareva una crisi economica impossibile da superare, Stalin morì.

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XXIII LA MORTE DI STALIN

Nelle ultime dodici ore la mancanza di ossigeno divenne acuta. Il volto e le labbra diventavano cianotiche mentre [Stalin] moriva di una lenta asfissia. L'agonia fu terribile. Soffocò letteralmente fino a morire, davanti ai nostri occhi. In quello che sembrava l'ultimo momento, aprì gli occhi e lanciò uno sguardo a ciascuno nella stanza. Fu uno sguardo terribile, pazzo o forse furioso, e

pieno di paura della morte.

SVETLANA STALIN1

Negli anni Trenta molti detenuti sovietici avevano creduto che il Gu-lag fosse un grosso sbaglio, un macroscopico errore sfuggito chissà come all'occhio paterno del compagno Stalin, ma negli anni Cinquanta erano ben pochi a nutrire simili illusioni. Un medico in servizio in un campo ricorda che l'opinione generale era più schietta: "La stragrande maggioranza sapeva e capiva di che pasta fosse fatto quell'uomo. Capivano che era un tiranno, che teneva sotto il tallone un grande paese, e che il destino di ciascun detenuto era in qualche modo legato al destino di Stalin".2

Negli ultimi anni di vita del dittatore, i prigionieri politici speravano e pregavano che morisse, ne parlavano di continuo, anche se in forme non esplicite, per non attirare l'attenzione degli informatori della polizia. Per esempio, dicevano con un sospiro: "Eh, i georgiani sono molto longevi", e così esprimevano un desiderio di morte senza rendersi apertamente colpevoli di alto tradimento. Perfino quando Stalin si ammalò, continuarono a essere prudenti. Maja Ul'janov-skaja, che apprese la notizia della malattia di cui poi sarebbe morto da una donna che sapeva essere una delatrice, rispose con prudenza: "E allora? Chiunque può ammalarsi. Ha dei bravi medici, lo ricetteranno in salute".3

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II 5 marzo 1953, quando finalmente fu annunciata la morte di Sta-lin, alcuni non rinunciarono alla cautela. In Mordovia, i politici nascosero con cura la propria eccitazione, per paura di subire un aggravio di pena.4 Nella Kolyma, le donne "piangevano a gran voce il morto con grande zelo e urlando le rituali esclamazioni".5 In un lagpunkt di Vorkuta, Pavel Negretov sentì leggere l'annuncio ad alta voce nella mensa del campo. Nessuno disse una parola: né il comandante, che aveva letto il comunicato, né i detenuti. "L'annuncio fu accolto da un silenzio di tomba. Nessuno disse niente."6

In un lagpunkt di Noril'sk i detenuti si riunirono nel cortile e ascoltarono in un'atmosfera solenne la notizia della morte del "grande dirigente del popolo sovietico e di tutta l'umanità desiderosa di libertà". Seguì un lungo silenzio. Poi uno dei prigionieri alzò la mano: "Compagno comandante, ho da parte un po' di denaro inviatomi da mia moglie, non ho potuto spenderlo. Mi piacerebbe offrire una corona alla nostra guida. È possibile?".7

Altri, invece, manifestarono il proprio giubilo. Nello Steplag vi furono urla selvagge e ululati di festa. Nel Vjatlag, i detenuti gettarono in aria i berretti gridando: "Urrà!".8 Per le vie di Magadan, un detenuto rivolse a un altro questo saluto: "Buona Pasqua! Auguri per la Santa resurrezione di Cristo!".9 Non era il solo a provare un'emozione di carattere religioso: "C'era stata una leggera gelata, e tutto era silenzio. Ben presto il cielo sarebbe diventato azzurro. Jurij Nikolaevic ha sollevato le braccia e dichiarato con passione: "Cantino i galli sulla Santa Russia! Presto spunterà il giorno sulla Santa Russia!"".(tm)

Quali che fossero i loro sentimenti, e che si azzardassero o no a manifestarli, quasi tutti i detenuti e i confinati erano convinti fin dal primo momento che le cose sarebbero cambiate. Nel suo confino di Karaganda, Ol'ga Adamova-Sliozberg, appresa la notizia, cominciò a tremare e si coprì il volto con le mani in modo che le sue sospettose compagne di lavoro non potessero vedere la sua gioia. "O ora o mai più. Tutto deve cambiare. O ora o mai più."11

In un altro lagpunkt di Vorkuta, Bernhard Roeder sentì l'annuncio dall'altoparlante del campo mentre indossava la tenuta da minatore:

Ci scambiammo occhiate furtive, esplosioni di odio trionfante, sussurri clandestini, movimenti eccitati... ben presto la sala si svuotò. Tutti si affrettavano a comunicare agli altri la buona notizia ... Quel giorno a Vorkuta nessuno lavorò. I prigionieri formavano dei gruppi, chiacchieravano animatamente ... sentivamo le sentinelle sulle torrette che si scambiavano telefonate concitate e, poco dopo, le prime risse di ubriachi.12

La morte di Stalin  499

Fra gli amministratori dei campi si diffuse una profonda confusione. Ol'ga Vasil'evna, che all'epoca lavorava nella sede moscovita del Gulag, ricorda di aver pianto davanti a tutti: "Piangevo e piangevano quasi tutti, le donne e anche gli uomini, piangevano senza ritegno...".13 Come milioni di compatrioti, gli impiegati del Gulag non piangevano soltanto per la morte del loro leader, ma anche perché avevano paura per se stessi e per il proprio posto di lavoro. In seguito lo stesso Hruscev scrisse: "Non piangevo solo per Stalin; ero terribilmente preoccupato per il futuro del partito e del paese. Intuivo già che Berija avrebbe cominciato a spadroneggiare su tutti e questo sarebbe stato l'inizio della fine".14

Si capisce che, parlando di "fine", Hruscev intendeva la propria: senza dubbio la morte di Stalin avrebbe provocato nuovi spargimenti di sangue. Avendo lo stesso timore, molti caporioni del Gulag, a quanto si seppe, furono colti da attacchi di cuore, crisi di ipertensione, gravi accessi di febbre e di influenza. L'angoscia, la condizione di totale marasma emotivo, li aveva fatti star male sul serio. Erano, alla lettera, malati di terrore.15

Se i secondini erano preda della confusione, anche i nuovi occupanti del Cremlino non avevano le idee troppo chiare circa il prossimo futuro. Come Hruscev aveva temuto, Berija, che alla vista del cadavere di Stalin riusciva a malapena a trattenere l'esultanza, prese davvero il potere e cominciò a cambiare le cose a velocità stupefacente. Il 6 marzo, quando Stalin non era stato ancora sepolto, Berija annunciò che la polizia segreta sarebbe stata riorganizzata. Dispose che il suo direttore trasferisse la giurisdizione sul Gulag al ministero della Giustizia, mentre soltanto i campi speciali per i politici sarebbero rimasti sotto la responsabilità del ministero dell'Interno (MVD). Trasferì ad altri ministeri molte imprese gestite dal Gulag, sia quelle per lo sfruttamento del legname, sia quelle minerarie o manifatturiere.16 Il 12 marzo, inoltre, Berija mise fine a oltre venti progetti di punta del Gulag, con il pretesto che non "corrispondevano alle esigenze dell'economia nazionale". I lavori per il grande canale del Turkmenistan furono interrotti, e anche quelli per il canale Volga-Urali, per il canale Volga-Baltico, per la diga sul basso Don, per il porto a Doneck, per la galleria di Sahalin. Anche la "strada della morte", la ferrovia da Salehard a Igarka, venne abbandonata e il progetto non fu mai portato a termine.17

Quindici giorni dopo, Berija scrisse un memorandum per il presi-dium del comitato centrale, in cui delincava con stupefacente chiarezza la situazione dei campi di lavoro. Riferì che gli internati erano

Gulag

2.526.402, di cui soltanto 221.435 erano veri e propri "criminali pericolosi per lo Stato", e si pronunciò a favore del rilascio degli altri:

Fra i detenuti ci sono 438.788 donne, di cui 6286 gravide e 35.505 accompagnate da figli minori di due anni. Molte donne hanno figli minori dì dieci anni, che vengono allevati da parenti o negli orfanotrofi.

Vi sono 238.000 detenuti anziani - uomini e donne di età superiore ai cin-quant'anni - mentre 31.181 sono minori di diciotto anni, per lo più condannati per piccoli furti e atti di teppismo.

Circa 198.000 detenuti che vivono nei campi sono affetti da malattie gravi, incurabili, e sono del tutto inabili al lavoro.

È ben noto che i prigionieri dei campi... lasciano parenti e amici in situazioni molto difficili, il che spesso produce la frantumazione del nucleo familiare e gravi effetti negativi che si ripercuotono su tutta la loro esistenza.18

In base a tali argomentazioni dal tono umanitario, Berija chiedeva che fosse promulgata un'amnistia per tutti i condannati a pene non superiori ai cinque anni, per tutte le donne in gravidanza, per tutte le donne con bambini piccoli, per tutti i minori di diciotto anni: un milione di persone in totale. L'amnistìa fu annunciata il 27 marzo, e subito si cominciarono a liberare i detenuti.19

Una settimana dopo, il 4 aprile, Berija mise fine all'inchiesta giudiziaria sul "complotto dei medici". Fu questo il primo mutamento visibile alla popolazione. Ancora una volta fu la "Pravda" a pubblicare la notizia: "I^e persone accusate di aver condotto l'indagine in modo scorretto sono state arrestate e sottoposte a procedimento penale".20

Le implicazioni erano evidenti: avevano riscontrato delle carenze nella giustizia staliniana. In segreto, Berija operò altri cambiamenti: vietò a tutti i funzionar! di polizia di usare la forza fisica contro gli arrestati, ponendo così fine alla pratica della tortura.21 Cercò di modificare, rendendola più liberale, la politica seguita nei confronti dell'Ucraina occidentale, le repubbliche baltiche e perfino la Germania orientale, eliminando la prassi della sovietizzazione e della russificazione che, nel caso dell'Ucraina, era stata adottata dallo stesso Hruscev.22 Quanto al Gulag, il 16 giugno mise le carte in tavola, dichiarando in modo esplicito che intendeva "liquidare il sistema del lavoro coarto, perché inefficiente dal punto di vista economico e perché mancante di una visione a lungo termine".23

A tutt'oggi restano misteriosi i motivi che indussero Berija a introdurre questi repentini mutamenti. Alcuni hanno cercato di dipingerlo come un democratico in pectore, che sotto il regime staliniano mordeva il freno e anelava alle riforme. 1 suoi colleghi sospettavano che cercasse di accrescere il potere della polizia segreta a spese del Partito comunista: liberare il ministero dell'Interno del fardello in-

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gombrante e costoso dei campi era semplicemente un modo per rafforzarlo. Forse Berija cercava di rendersi popolare tra la gente in generale, e di conquistare le simpatie di molti ex agenti della polizia segreta, i quali avrebbero potuto finalmente lasciare i campi situati in località remote. Verso la fine degli anni Quaranta Berija aveva preso l'abitudine di riassumere al suo servizio gli ex detenuti di questa categoria, assicurandosi così, almeno in linea di principio, la loro fedeltà. Ma la spiegazione più probabile è che Berija fosse ben informato: forse si rendeva conto meglio di chiunque altro nelI'URSS che i campi erano oltremodo antieconomici, e che per la maggior parte i detenuti erano innocenti. In fondo, proprio lui per quasi dieci anni aveva sovrinteso al sistema e proceduto agli arresti.24

Quali che fossero le sue motivazioni, Berija si era mosso troppo in fretta. Le riforme gettarono i suoi colleghi nel turbamento e nella confusione. Il più scosso era Hruscev, che Berija sottovalutava enormemente, forse perché era stato tra i primi a organizzare l'indagine sul "complotto dei medici", forse perché teneva molto all'Ucraina. Probabilmente Hruscev temeva che prima o poi sarebbe finito sulla nuova lista nera di Berija. A poco a poco, con una campagna intensiva di voci di corridoio, riuscì a mettere contro Berija gli altri leader del Partito e, a fine giugno, li aveva tutti dalla sua parte. Durante una riunione fece circondare l'edificio da militari a lui fedeli e il colpo a sorpresa riuscì. L'uomo che aveva occupato il secondo posto tra i potenti dell'Unione Sovietica fu arrestato e tradotto in prigione, sconvolto e balbettante.

Berija rimase in carcere per il resto della vita, cioè per qualche mese. Come Jagoda ed Ezov prima di lui, passava il tempo a scrivere lettere in cui chiedeva pietà. Fu processato in dicembre e non sappiamo se sia stato giustiziato allora o in precedenza, sappiamo solo che alla fine del 1953 Berija era morto.25

I dirigenti dell'Unione Sovietica abbandonarono alcune linee politiche di Berija con la stessa velocità con cui erano state adottate. Ma né Hruscev né altri ripresero mai i grandiosi progetti di costruzione del Gulag, e neppure abrogarono l'amnistia decretata da Berija. I prigionieri continuarono a essere liberati, e questo dimostra che Berija, per quanto caduto in disgrazia, non era stato il solo a dubitare dell'efficienza del Gulag. I nuovi dirigenti sovietici sapevano benissimo che i campi erano un peso morto per l'economia, così come sapevano che milioni di detenuti erano innocenti. L'epoca del Gulag si avviava al tramonto.

Gulag

Forse adeguandosi a quanto suggerivano le voci provenienti da Mosca, anche gli impiegati e le guardie del Gulag si adattarono alla nuova situazione. Superati timori e malanni, molte guardie modificarono il proprio comportamento quasi dall'oggi al domani, attenuando il rigore delle norme perfino prima di aver ricevuto l'ordine di farlo. Un comandante del lagpunkt della Kolyma in cui si trovava Alexander Dolgun, appena giunse notizia che Stalin si era ammalato, e prima che arrivasse l'annuncio ufficiale della sua morte, si mise a stringere la mano ai detenuti e a chiamarli "compagno".26 Un prigioniero ricorda: "II regime del campo divenne meno rigido, più umano".27 Un altro vedeva la situazione in modo un po' diverso: "Rispetto a quando Stalin era vivo, le guardie non dimostravano più lo stesso genere di patriottismo".28 Nessuno puniva più i detenuti che rifiutavano di eseguire incombenze particolarmente faticose, spiacevoli o ingiuste. Nessuno puniva più i detenuti che rifiutavano di lavorare la domenica.29 Scoppiavano manifestazioni di protesta spontanee, e nemmeno i manifestanti venivano più puniti, come ricorda Barbara Armonas:

In un certo senso l'amnistia modificò alla base la disciplina dei campi... Un giorno ritornavamo dalla campagna e fummo colti da un temporale che ci ridusse bagnati fradici. La direzione ci mandò alle docce senza permetterci di andare prima nei nostri alloggi. A noi non andava bene, perché avremmo voluto toglierci gli abiti bagnati e prendere del vestiario asciutto. I detenuti, in una lunga fila, cominciarono a protestare, con urla e grida ingiuriose, e a chiamare i dirigenti "cekisti" e "fascisti". Poi non facemmo altro che rifiutare di muoverci, e non cedemmo né ai tentativi di persuasione, né alle minacce. Dopo un'ora di lotta silenziosa i dirigenti si arresero, e noi andammo a prendere la roba asciutta nei nostri alloggi.30

Il cambiamento riguardava anche le prigioni. Nei mesi che seguirono la morte di Stalin, Susanna Pecora si trovava in una cella di isolamento, sottoposta a un secondo interrogatorio: in quanto ebrea "controrivoluzionaria", era stata convocata a Mosca dal campo in cui si trovava, nell'ambito dell'inchiesta sul "complotto dei medici". Poi, tutt'a un tratto, la sua inchiesta si interruppe e il funzionario che la interrogava la convocò: "Lei capisce, io non sono colpevole di nessun torto verso di lei, non l'ho mai picchiata, non le ho fatto niente" le disse. Quindi la mandò in una cella diversa, dove per la prima volta la Pecora sentì una delle donne parlare della morte di Stalin. "Che cos'è successo?" chiese. Le sue compagne di cella ammutolirono: tutti sapevano che Stalin era morto, e dunque erano sicure che la nuova venuta fosse una delatrice, mandata a sondare le loro opinioni. Susanna Pecora impiegò un'intera giornata a convincerle che la

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sua ignoranza era autentica, e da quel momento la situazione subì un rivolgimento totale:

Le guardie avevano paura di noi, noi facevamo quel che ci pareva, gridavamo durante l'ora d'aria, facevamo discorsi, ci arrampicavamo sulle finestre. Quando entravano nella cella e ci ordinavano di non restare sdraiate nelle cuccette, noi ci rifiutavamo di alzarci. Sei mesi prima, per un comportamento di quel genere ci avrebbero fucilato.31

Non tutto, però, era cambiato. Nel marzo 1953 anche Leonid Trus era sotto interrogatorio. Forse riuscì a scampare alla pena capitale proprio grazie alla morte di Stalin, ma fu comunque condannato a venticinque anni di lavori forzati. Un suo compagno di cella ebbe dieci anni per aver detto una cosa indelicata riguardo alla morte di Stalin.32 E non tutti erano stati liberati. In fondo l'amnistia aveva riguardato soltanto le persone molto giovani, quelle molto anziane, le donne con figli piccoli e i prigionieri con condanne non superiori ai cinque anni. Si trattava per la maggior parte di individui condannati per reati comuni, oppure per reati politici ma insolitamente lievi. Nel Gulag rimaneva pur sempre più di un milione di detenuti, fra i quali centinaia di migliaia di politici con condanne a lungo termine.

In certi campi i prigionieri che stavano per essere liberati ricevevano una valanga di regali, di piccole gentilezze, di lettere da consegnare agli amici e ai familiari.33 Con pari frequenza, si verificavano violenti episodi di ostilità fra i detenuti amnistiati e gli altri. Quarant'anni dopo, un ex internato che non aveva beneficiato della prima amnistia la ricordava ancora con rancore come un'"amnistia per gli scippatori", una libertà concessa ai ladruncoli: "I ladri erano felici, furono tutti rilasciati".34 In uno dei campi, una banda di donne con condanne a lungo termine malmenò per puro dispetto una prigioniera che aveva una condanna breve. Anche gli amnistiati tendevano a provocare la collera degli altri, standosene per conto proprio e guardando dall'alto in basso i "criminali" destinati a rimanere dentro.35

Esplodevano anche altre forme di violenza. Alcuni dei condannati a pene più lunghe si rivolgevano ai medici del campo pretendendo di ottenere l'ambito certificato di "invalidità" che avrebbe assicurato loro l'immediata scarcerazione. I medici che si rifiutavano subivano minacce o aggressioni. Nel Pecorlag vi furono sei incidenti del genere: i medici "venivano terrorizzati in modo sistematico", erano picchiati e perfino accoltellati. Nello Juzkuzbasslag, quattro detenuti minacciarono di morte il medico del campo. Altrove, i prigionieri rilasciati per "invalidità" risultarono in numero superiore rispetto agli invalidi registrati in precedenza nei lager.36

Gulag

Vi fu però un gruppo specifico di detenuti, in un particolare gruppo di campi, che provò emozioni di un genere ben diverso. In effetti, gli internati nei "campi speciali" erano davvero "casi speciali"; j^ quei lager i prigionieri avevano da scontare pene di dieci quindici o venticinque anni, e non potevano sperare di uscire grazie all'amnistia di Berija. Nei primissimi mesi dopo la morte di Stalin il loro regime carcerario subì ben pochi mutamenti: venne loro concesso, per esempio, di ricevere pacchi da casa, ma soltanto una volta l'anno. Di malavoglia, i dirigenti permisero che nei campi si formassero squadre di calcio da far giocare le une contro le altre. Ma questi detenuti continuavano a portare divise con il numero, a vivere in baracche con le finestre sbarrate e che la notte venivano chiuse a chiave. I loro contatti con il mondo esterno erano mantenuti al minimo livello possibile.37

Era la ricetta migliore per fomentare la rivolta. Nel 1953 gli internati dei campi speciali erano ormai da cinque anni, cioè dal 1948, separati da criminali e "comuni". Abbandonati a se stessi, avevano elaborato dei sistemi di organizzazione e resistenza interna che non avevano precedenti nel passato. Ormai da anni erano in procinto di scatenare una rivolta organizzata, e congiuravano e progettavano, trattenuti solo dalla speranza che con la morte di Stalin sarebbe arrivata la loro liberazione. Quando videro che la morte del dittatore non produceva alcun mutamento, alla speranza subentrò la rabbia.

XXIV LA RIVOLUZIONE DEGLI ZEK

Dormir non posso, infuria la bufera

da un tempo ignoto, che non lascia traccia,

e la steppa è cosparsa delle tende

versicolori di Tamerlano... Ardono i fuochi, ardono...

Diventerò una principessa mongola, che galoppa nel fondo del passato e dietro al mio cavallo aggancerò tanto i miei cari come i miei nemici...

E poi, durante una delle battaglie, in un'orgia di sangue inconcepibile nell'istante dell'ineluttabile sconfitta mi getterò sulla mia spada.

ANNA BARKOVA, Nelle baracche del campo di prigionia1

Dopo la morte di Stalin i campi speciali furono invasi dalle voci, come il resto del paese. Berija avrebbe vinto; Berija era morto. Il maresciallo Zukov e l'ammiraglio Kuznecov erano entrati a Mosca e stavano attaccando il Cremlino con i carri armati; Hruscev e Molotov erano stati assassinati. Tutti i detenuti sarebbero stati liberati; rutti i detenuti sarebbero stati giustiziati; i campi erano stati circondati da truppe armate dell'MVD, pronte a soffocare qualsiasi scintilla di ribellione. I prigionieri ripetevano queste storie bisbigliando o gridando, sperando ed elucubrando.2

Allo stesso tempo, le organizzazioni nazionali dei campi speciali stavano rafforzandosi e stringendo tra loro legami più saldi. Sono tipiche di questo periodo le esperienze di Viktor Bulgakov, arrestato nella primavera del 1953, per la precisione la notte della morte di Stalin, con l'accusa di appartenere a un circolo studentesco politico antistalinista. Poco dopo arrivò nel Minlag, il campo speciale del

Gulag

complesso di estrazione del carbone di Inta, a nord del Circolo polare artico.

La descrizione di Bulgakov dell'atmosfera del Minlag contrasta in modo stridente con i ricordi di detenuti del periodo precedente. Arrivò, ancora adolescente, in una comunità bene organizzata, antistalinista e antisovietica. Scioperi e proteste si verificavano "con regolarità". I detenuti si erano divisi in diversi gruppi nazionali molto ben distinti tra loro, ciascuno con un proprio carattere. I baltici avevano un'"organizzazione rigida, ma senza una gerarchia operante". Gli ucraini, in larga parte ex partigiani, erano "assai ben organizzati, dato che prima della detenzione i loro capi avevano diretto le formazioni partigiane: si conoscevano bene tra loro, e la loro struttura emergeva in modo quasi automatico".

Nel campo erano ospitati anche prigionieri che credevano nel comunismo, i quali comunque si erano divisi in due gruppi: quelli che seguivano pedissequamente la linea del Partito e quelli che si consideravano comunisti per fede o convinzione e credevano nella riforma dell'Unione Sovietica. Per finire, era diventato possibile essere marxisti antisovietici, una cosa inconcepibile negli anni precedenti. Bulgakov faceva parte dell'Unione popolare del lavoro, il Narodno-trudovoj sojuz, o NTS, un movimento antistalinista che una ventina d'anni dopo, quando le autorità paranoidi cominciarono a vedere ovunque i segni della sua influenza, acquisì molta fama.

I pensieri di Bulgakov avrebbero sbalordito anche la generazione precedente di prigionieri. Nel Minlag i detenuti riuscivano a pubblicare un giornale clandestino, scritto a mano e distribuito nel Gulag. Avevano un atteggiamento intimidatorio verso i pridurok, gli "imboscati", i quali di conseguenza cominciarono ad "avere paura dei detenuti". Come altri prigionieri dei campi speciali, tenevano d'occhio anche gli informatori.

Pure Dmitrij Panin ha descritto la guerra all'ultimo sangue sempre più incalzante contro gli informatori:

Le punizioni venivano eseguite in modo sistematico. Nel giro di otto mesi furono eliminati 45 informatori. Le operazioni contro di loro erano coordinate da un centro clandestino ... Vedemmo molti delatori che, incapaci di reggere alla minaccia incombente di essere eliminati, cercavano di sfuggire alla loro sorte facendosi rinchiudere nella prigione del campo, l'unico posto in cui potevano nascondersi dalle rappresaglie certe. Venivano tenuti tutti nella stessa cella, soprannominata il "buco dei vigliacchi".3

Uno studioso della storia dei campi ha scritto che gli omicidi di informatori divennero "avvenimenti talmente comuni da non susci-

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tare l'interesse o la sorpresa di nessuno", osservando che i delatori "si estinsero in fretta".4 Pure in questo caso, la vita all'interno del Gulag rispecchiava, amplificandola, la vita all'esterno. Anche le organizzazioni partigiane antisovietiche nell'Ucraina occidentale avevano cercato con molto impegno di distruggere gli informatori, e i loro capi portarono con sé nei campi quell'ossessione.5 Forse gli amministratori del lager di Panin ne erano consapevoli, infatti separarono i detenuti ucraini dagli altri, perché li consideravano responsabili della morte degli informatori. Questo non fece altro che consolidare la loro solidarietà e la loro rabbia.6

Inoltre, nel 1953 i compagni di Bulgakov al Minlag cercavano anche di registrare in modo sistematico i dati relativi al loro gruppo e alle loro condizioni di vita, e di trasmettere tali informazioni in Occidente, tramite i secondini disposti a collaborare e altre tecniche che, come vedremo, vennero poi perfezionate negli anni Settanta e Ottanta nei campi dove venivano rinchiusi i dissidenti. Lo stesso Bulgakov si assunse il compito di nascondere tali documenti, nonché copie di canzoni e poesie composte dai detenuti. Leonid Sitko faceva lo stesso lavoro nello Steplag, usando lo scantinato di un edificio in costruzione per nascondere i documenti. Tra l'altro c'erano "brevi descrizioni di vite individuali, lettere di internati deceduti, un breve documento firmato da una dottoressa, Galina Miskina, sulle condizioni inumane all'interno del Gulag (comprendente statistiche sulla mortalità, i livelli di denutrizione ecc.), un rapporto sull'organizzazione e il diffondersi dei campi del Kazakistan, un rapporto più dettagliato sulla storia dello Steplag e poesie".7

Tanto Sitko quanto Bulgakov erano convinti che un giorno o l'altro i campi sarebbero stati chiusi e le baracche incendiate, e che la documentazione avrebbe potuto essere recuperata. Vent'anni prima nessuno avrebbe osato nemmeno immaginare una cosa del genere, figuriamoci entrare in azione sulla base di tale convinzione.

Ben presto, la tattica e la strategia della cospirazione si diffusero in tutto il sistema dei campi speciali, grazie alla stessa amministrazione del Gulag. Nel passato, i detenuti sospettati di ordire delle cospirazioni venivano semplicemente divisi. Le autorità di Mosca trasferivano i prigionieri da un campo all'altro, distruggendo le reti dei ribelli prima ancora che cominciassero ad agire. Nel clima più particolare dei campi speciali, però, questa tattica non funzionava. Infatti i frequenti trasferimenti dei detenuti divennero un sistema eccellente per diffondere la ribellione.8

Gulag

A nord del Circolo polare artico, l'estate è brevissima e molto calda. Verso la fine di maggio lo strato di ghiaccio che ricopre i fiumi comincia a crcparsi; le giornate si allungano, fino a quando la notte scompare del tutto. A un certo punto, in giugno, alcuni anni addirittura in luglio, il sole prende d'un tratto a bruciare, a volte per un mese, a volte per due. Da un giorno all'altro, i fiori selvatici dell'Artico cominciano d'improvviso a sbocciare, e per un breve periodo di qualche settimana la tundra diventa una festa di colori. Per gli esseri umani, rimasti rinchiusi per tutti i nove mesi precedenti, l'estate porta un desiderio travolgente di uscire all'aperto, di essere liberi. Nelle poche, calde giornate estive che ho trascorso a Vorkuta, mi è sembrato che gli abitanti del luogo passassero all'aperto in pratica tutti i giorni e tutte le notti bianche: passeggiavano per le vie della città, stavano seduti nei parchi, chiacchieravano indugiando sulla soglia di casa. Non è un caso se la primavera era la stagione in cui i detenuti tentavano la fuga. E non è un caso se le tre rivolte più importanti, più pericolose e più celebri scoppiate nel Gulag si sono tutte verif icate in primavera nei campi dell'estremo nord.

Nella primavera del 1953, nel Gorlag, il campo speciale all'interno del complesso di Noril'sk, l'atmosfera era carica di una rabbia particolare. Nell'autunno precedente un folto gruppo di detenuti, composto da circa 1200 persone, era stato trasferito al Gorlag da Karaganda, dove molti, a quanto pare, avevano partecipato ai tentativi di fuga armata e alle manifestazioni di protesta avvenute qualche mese prima. Tutti erano stati condannati per "attività rivoluzionaria nell'Ucraina occidentale e nelle repubbliche baltiche". Secondo gli incartamenti dell'MVD, avevano cominciato a organizzare un "comitato rivoluzionario" già durante il viaggio di trasferimento a Noril'sk.

A quanto riferiscono i prigionieri, pochi giorni dopo l'arrivo avevano anche ucciso a colpi di piccone quattro delatori del campo.9 Nella primavera del 1953 il gruppo, animato da profonda rabbia per l'amnistia da cui era rimasto escluso, aveva creato nel campo quella che l'MVD definisce un'"organizzazione antisovietica": vale a dire, probabilmente, che avevano rafforzato le organizzazioni nazionali già esistenti.

Per tutto il mese di maggio continuò a serpeggiare lo spirito di rivolta. Il 25 maggio gli agenti della scorta della colonna di prigionieri che si recavano sul luogo di lavoro spararono a un uomo. La mattina successiva, due divisioni del campo scesero in sciopero per protesta. Qualche giorno dopo, le guardie aprirono il fuoco sui detenuti che gettavano messaggi oltre il muro di separazione fra il settore ma-

La rivoluzione degli "zek"  509

schile e quello femminile. Alcuni rimasero feriti. Poi, il 4 giugno, alcuni prigionieri abbatterono la barriera di legno che separava le baracche di punizione del campo dal resto della zona e liberarono 24 detenuti. Inoltre catturarono un amministratore del campo e lo portarono nella zona come ostaggio. Le guardie aprirono il fuoco, uccidendo 5 prigionieri e ferendone 14. Altre quattro squadre di lavoro si unirono alla protesta. Il 5 giugno i prigionieri in sciopero erano 16.379.1 soldati circondarono i campi, bloccando tutte le uscite.10

Più o meno nello stesso periodo, si verificò una situazione analoga nel Reclag, il campo speciale appartenente al complesso delle miniere di carbone di Vorkuta. I detenuti avevano cercato di organizzare scioperi di massa già nel 1951, e in seguito la direzione affermò di avere scoperto nel campo non meno di cinque "organizzazioni rivoluzionarie" tra il 1951 e il 1952.n Alla morte di Stalin, i detenuti del Reclag erano anche in una condizione di particolare vantaggio per seguire gli avvenimenti del mondo. Non solo si erano organizzati in gruppi nazionali, come nel Minlag e altrove, ma avevano anche affidato ad alcuni il compito di seguire le trasmissioni delle radio occidentali su apparecchi rubati o presi in prestito, e di trascrivere le notizie sotto forma di bollettini commentati, che distribuivano in modo capillare fra gli altri detenuti. Così non solo vennero a sapere della morte di Stalin e dell'arresto di Berija, ma anche degli scioperi di massa scoppiati a Berlino Est il 17 giugno 1953, e soffocati dai carri armati sovietici.12

Sembra che questa notizia avesse elettrizzato i detenuti: se i berlinesi erano scesi in sciopero, anche loro potevano farlo. John Noble, l'americano arrestato a Dresda subito dopo la guerra, ricorda: "La loro iniziativa fu un'ispirazione per noi, e per giorni non parlammo d'altro. ... Il mese dopo eravamo diventati degli schiavi impertinenti. Il sole delle lunghe giornate estive aveva sciolto la neve e con il suo calore rinnovava in noi il coraggio e l'energia. Ragionavamo sulla possibilità di indire uno sciopero, ma nessuno sapeva che cosa fare".13

Il 30 giugno gli internati della miniera Kapital'naja avevano cominciato a distribuire dei volantini in cui si invitavano i detenuti a "fermare la fornitura di carbone". Lo stesso giorno, sulle pareti della miniera n. 40 qualcuno scrisse: "Niente forniture di carbone finché non ci sarà un'amnistia". I carrelli erano vuoti: i detenuti avevano smesso di estrarre il carbone.14 Il 17 luglio, i dirigenti della miniera Kapital'naja ebbero ancora più gravi motivi di allarmarsi: quel giorno, un gruppo di detenuti malmenò un caposquadra, a quanto si sa-

Gulag

peva perché aveva detto loro di "smetterla con le azioni di sabotaggio". Quando venne l'ora in cui doveva subentrare il secondo turno, il caposquadra si rifiutò di scendere nel pozzo.

Mentre i detenuti del Reclag apprendevano queste notizie, giunse un nuovo contingente di prigionieri, sempre da Karaganda. Erano un buon numero; a tutti erano state promesse condizioni di vita migliori e la revisione del processo. Quando arrivarono al lavoro nella miniera n. 7 di Vorkuta, invece di un miglioramento trovarono le condizioni più aspre dell'intero sistema dei campi. Il giorno dopo, il 19 luglio, 350 di loro scesero in sciopero.15

Seguirono altri scioperi, anche grazie alla stessa situazione geografica di Vorkuta. Il Vorkutlag si trovava al centro di un immenso bacino carbonifero, uno dei maggiori del mondo. Per sfruttare i giacimenti di carbone, era stata scavata una serie di pozzi minerari in un'ampia circonferenza tutto intorno al bacino. Fra una miniera e l'altra sorgevano altri impianti industriali - centrali elettriche, fabbriche di mattoni e di cemento - ciascuno collegato a un campo di lavoro, ma anche alla città di Vorkuta e a un centro abitato più piccolo, Jur-Sor. Questi siti erano collegati da una linea ferroviaria. I treni, come tutto il resto a Vorkuta, erano manovrati da prigionieri, e fu così che la rivolta si propagò: insieme al carbone e alle altre merci che portavano da un lagpunkt all'altro, i macchinisti detenuti diffondevano anche la notizia dello sciopero nel campo n. 7. A mano a mano che i treni percorrevano la grande circonferenza, migliaia di reclusi udivano i racconti sussurrati, altre migliaia vedevano gli slogan dipinti sulle fiancate dei vagoni: AL DIAVOLO IL VOSTRO CARBONE. VOGLIAMO LA LIBERTÀ.16 Allo sciopero aderirono tutti i campi, uno dopo l'altro, finché, il 29 luglio 1953, sei divisioni del Reclag su diciassette, vale a dire 15.604 persone, avevano già incrociato le braccia.17

All'interno della maggior parte dei lagpunkt di Vorkuta e Noril'sk, i comitati degli scioperanti si trovarono a gestire una situazione che era evidentemente pericolosa. Il personale amministrativo dei campi era fuggito in preda al terrore, e c'erano grandi probabilità che le cose precipitassero nell'anarchia. In certi casi, i comitati dovettero assumersi il compito di distribuire il vitto ai detenuti. In altri casi, cercarono di persuadere i compagni a non sfogare la propria aggressività sui delatori, ormai del tutto indifesi. Sia nel Reclag sia nel Gor-lag, memoriali e archivi concordano nel riferire che i capi (quando c'erano) erano quasi sempre ucraini occidentali, polacchi o baltici. In seguito l'MVD indicò come capo della rivolta di Noril'sk un ucraino

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di nome German Stepanjuk, e un polacco, Kendzerski, "ex capitano dell'esercito polacco", per quella di Vorkuta. Un altro polacco, Edward Buca, scrivendo un resoconto della ribellione afferma di aver guidato lo sciopero della miniera n. 29 di Vorkuta. Sebbene all'epoca si trovasse di certo in quel campo, abbiamo motivo di dubitare delle sue affermazioni, anche perché i veri promotori degli scioperi furono poi quasi tutti fucilati.18

Anni dopo, i nazionalisti ucraini affermavano che tutti gli scioperi più importanti scoppiati nel Gulag erano stati progettati e messi in atto dalle loro organizzazioni segrete, che si nascondevano dietro i comitati multietnici degli scioperanti: "Nella media, i detenuti, e ci riferiamo in particolare a quelli provenienti da paesi occidentali e ai russi, non erano in grado né di partecipare al processo decisionale, né di comprendere il meccanismo del movimento". A dimostrazione, citavano due "etap di Karaganda", i contingenti di ucraini giunti in entrambi i campi, subito prima che scoppiassero gli scioperi.19

Gli stessi dati documentali inducono altri a concludere che gli scioperi fossero provocati da elementi interni allo stesso MVD. Forse i servizi di sicurezza temevano che Hruscev abolisse del tutto i campi di lavoro, licenziando il personale direttivo. Perciò fomentavano rivolte per poterle soffocare e quindi dimostrare quanto fosse ancora necessaria la loro presenza. Semen Vilenskij, ex zek e editore, che in seguito organizzò due convegni sul tema dell'opposizione nel Gulag, trova il modo migliore per esprimere questo concetto: "Chi aveva la gestione dei campi? Migliaia di persone prive di preparazione per una professione da civili, abituate a vivere in uno stato di totale assenza di leggi, a considerare i detenuti cosa propria, dato che potevano fare di loro quel che volevano. Ed erano persone che rispetto ad altri cittadini lavoratori venivano pagate piuttosto bene".

Vilenskij resta persuaso di aver assistito a un episodio di provocazione nel 1953, quando si trovava in un campo speciale della Koly-ma. Tutt'a un tratto, racconta, arrivò un nuovo contingente di prigionieri. Uno dei nuovi venuti cominciò apertamente a organizzare un gruppo di rivoltosi reclutando i più giovani. Parlavano di scioperare, scrivevano volantini, attiravano altri detenuti. Arrivarono a usare l'officina metallurgica del campo per fabbricare dei coltelli. Si comportavano in modo così scoperto e provocatorio che Vilenskij si insospettì. Non poteva essere un caso che la direzione del campo tollerasse simili attività. Si mise alla guida dell'opposizione contro i nuovi arrivati, finché non fu trasferito in un altro campo.20

In linea di principio le due tesi sono compatibili. Può darsi che

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degli elementi dell'MVD abbiano introdotto dei rivoltosi ucraini nei campi proprio per suscitare qualche forma di sommossa. Può anche darsi che i capi degli scioperanti ucraini credessero di agire per propria iniziativa. Ma, sia dai resoconti ufficiali sia da quelli dei testimoni oculari, sembra più probabile che l'iniziativa degli scioperi abbia preso slancio solo grazie alla cooperazione all'interno dei vari gruppi nazionali e fra un gruppo e l'altro. Nei casi in cui i gruppi nazionali erano in più aperta competizione gli uni con gli altri, o non erano in buoni rapporti, come nel Minlag, era molto più difficile organizzare gli scioperi.21

All'esterno dei campi, in pratica, gli scioperanti non trovavano sostegno di alcun tipo. I rivoltosi del Gorlag, che erano detenuti in campi vicinissimi alla città di Noril'sk, cercarono appunto di dare pubblicità alla loro causa con uno striscione: COMPAGNI, ABITANTI DI NORIL'SK! AIUTATECI NELLA LOTTA.22 Ma la popolazione della città era costituita per lo più da ex detenuti, che quasi certamente avevano troppa paura per aderire all'invito. Nonostante la terminologia burocratica, i rapporti stilati dall'MVD poche settimane dopo i fatti permettono di cogliere benissimo il terrore che gli scioperi provocarono, sia tra i detenuti sia tra i lavoratori liberi. Un ragioniere del Gorlag dichiarò all'MVD: "Se gli scioperanti escono dalla zona, li combatteremo come se combattessimo il nemico".

Un altro lavoratore libero raccontò all'MVD di avere incontrato per caso gli scioperanti: "Ero rimasto oltre lo scadere del turno, per finire di trapanare una parete. Mi si è avvicinato un gruppo di prigionieri. Mi hanno preso il trapano elettrico e mi hanno ordinato di smettere di lavorare, minacciando di castigarmi. Mi sono spaventato e ho interrotto il lavoro...". Per sua fortuna, i detenuti gli avevano illuminato il viso con una lanterna e, riconoscendolo come lavoratore libero, lo avevano lasciato in pace.23 Solo, nel buio della miniera, circondato da scioperanti ostili, rabbiosi, neri di carbone, doveva essersi spaventato davvero.

Anche i dirigenti locali dei campi si sentivano intimiditi. Rendendosene conto, gli scioperanti del Gorlag e del Reclag chiesero di incontrare i rappresentanti moscoviti del governo sovietico e del Partito comunista: sostenevano che i comandanti periferici non potevano comunque decidere nulla senza l'autorizzazione della capitale, il che era verissimo.

Così, Mosca arrivò. Ossia, in varie occasioni, i rappresentanti delle "commissioni moscovite" incontrarono i comitati di detenuti del Gorlag e del Reclag, per ascoltare e discutere le loro richieste. Defini"

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re questi incontri come una rottura della prassi consolidata non riesce a rendere l'idea della portata di una tale novità. Prima di allora, le richieste dei detenuti non avevano mai trovato altra risposta se non l'uso della forza bruta. Ma nella nuova epoca poststaliniana, Hruscev sembrava almeno disposto a cercare di placare la rivolta con autentiche concessioni.

Hruséev, però, non ebbe successo, o meglio non lo ebbero i suoi rappresentanti. Dopo quattro giorni di sciopero a Vorkuta, una commissione inviata da Mosca, presieduta da un ufficiale di alto grado, il generale LI. Maslennikov, offrì ai detenuti un nuovo elenco di concessioni: giornata lavorativa di nove ore, uniformi senza più il numero in evidenza, permesso di incontrarsi con i parenti, permesso di ricevere da casa lettere e denaro. Ma, secondo quanto riferisce il rapporto ufficiale, molti capi degli scioperanti accolsero l'offerta con "ostilità" e non ripresero il lavoro. La stessa reazione aveva incontrato nel Gor-lag un'iniziativa analoga. A quanto pare, i detenuti volevano l'amnistia, non un semplice miglioramento delle loro condizioni di vita.

Tuttavia, anche se non si era più nel 1938, non si era neppure ancora nel 1989: Stalin era morto, ma il suo retaggio aleggiava ancora. Come primo passo, si poteva anche aver tentato il negoziato, ma il secondo fu la repressione brutale.

A Noril'sk, in un primo tempo le autorità promisero che avrebbero "esaminato le richieste dei prigionieri". Invece, come spiega il rapporto dell'MVD, "la commissione dell'MVD dell'Unione Sovietica aveva deciso di stroncare gli scioperi". La decisione, quasi certamente presa dallo stesso Hruscev, ebbe conseguenze immediate e drammatiche sul terreno degli scontri. I militari circondarono i campi in sciopero e li sgomberarono, un lagpunkt dopo l'altro, arrestando i capi della sedizione e trasferendo altrove gli altri detenuti.

In rari casi, la liquidazione della rivolta si svolse con relativa facilità. Arrivando nella prima divisione del campo, i soldati colsero i detenuti di sorpresa. Il capo della pubblica accusa di Noril'sk, Vavilov, tramite l'altoparlante del campo ordinò ai detenuti di lasciare la zona, assicurando loro che chi si fosse allontanato pacificamente non sarebbe stato punito per aver preso parte al "sabotaggio". Secondo il rapporto ufficiale, la maggior parte dei detenuti in effetti uscì. Vedendosi isolati, uscirono anche i capi. Fuori, nella taigà, i soldati e i dirigenti del campo divisero i prigionieri in gruppi. Quelli che erano sospettati di aver fomentato lo sciopero furono caricati sui camion in attesa, mentre agli "innocenti" fu concesso di tornare al campo.

In seguito, a volte le cose non andarono così lisce. Il giorno dopo,

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quando le autorità seguirono la stessa procedura in un altro lag-punkt, gli scioperanti cominciarono a minacciare quelli che volevano andarsene, poi si barricarono in una delle camerate e per farli uscire si dovette usare la forza. Nel settore femminile le detenute si disposero in cerchio e nel mezzo esposero una bandiera nera, simbolo delle compagne assassinate ingiustamente, e si misero a urlare e a gridare slogan. Dopo cinque ore passate in questo modo, le guardie cominciarono a colpirle con il getto di potenti idranti e solo allora il cerchio si allentò, tanto da permettere ai militari di trascinare le prigioniere fuori dal campo.

Nel lagpunkt n. 5, ben millequattrocento detenuti, per lo più ucraini e baltici, rifiutarono di lasciare la zona, esponendo invece bandiere nere sulle baracche e mostrando, per usare l'espressione di un burocrate dell'MVD, una "estrema aggressività". Poi, quando le guardie del campo, insieme a quaranta soldati, cercarono di circondare le baracche in modo da proteggere le provviste alimentari, un gruppo di cinquecento detenuti cominciò l'attacco. I prigionieri gridavano ingiurie ed evviva, tiravano sassi, colpivano i soldati con mazze e picconi, cercavano di strappare loro i fucili. Il rapporto ufficiale prosegue descrivendo che cosa accadde dopo: "Nel momento più critico dell'attacco alle guardie, i soldati aprirono il fuoco sui detenuti. Terminata la scarica di spari, i detenuti furono obbligati a stendersi a terra. Dopodiché, cominciarono a eseguire tutti gli ordini delle guardie e della direzione del campo".24

Secondo lo stesso rapporto, quel giorno morirono 23 detenuti. A quanto affermano i testimoni oculari, nel corso di vari giorni a No-ril'sk morirono diverse centinaia di prigionieri, in una serie di episodi analoghi.

Nello stesso modo le autorità stroncarono lo sciopero di Vorkuta: in un lagpunkt dopo l'altro, i soldati e i poliziotti costrinsero i detenuti a uscire dai campi, li suddivisero in gruppi di cento, sottoponendoli a un processo di "filtraggio" per separare i presunti caporioni dagli altri. Per convincere i detenuti a uscire in modo pacifico, la commissione di Mosca fece inoltre reboanti promesse che tutti i processi sarebbero stati sottoposti a revisione e i capi della rivolta non sarebbero stati fucilati. Lo stratagemma riuscì: grazie all'atteggiamento "paterno" del generale Maslennikov, "noi gli credemmo" spiegò in seguito uno dei partecipanti.25

Ci fu però un campo - il lagpunkt annesso al pozzo n. 29 - in cui i detenuti non credettero al generale, e si rifiutarono di obbedirgli quando Maslennikov ordinò loro di riprendere il lavoro. Arrivarono

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i soldati con un carro dei pompieri, intenzionati a usare gli idranti per disperdere la folla:

Ma prima che potessero svolgere i tubi e puntare gli idranti contro di noi, Ripeckij fece un cenno ai prigionieri di procedere, e si fece avanti una muraglia umana, che respinse il veicolo fuori dai cancelli del campo come se fosse stato un giocattolo ... Le guardie spararono una scarica di fucileria, mirando alla massa dei detenuti. Ma noi eravamo fermi e ci tenevamo sottobraccio, e in un primo momento nessuno cadde, anche se molti rimasero uccisi e feriti. L'unico isolato era Ichnatowicz, un po' avanti rispetto agli altri. Per un attimo sembrò rimanere sbalordito, poi si voltò verso di noi. Le sue labbra si mossero, ma non ne uscì alcun suono. Allungò un braccio e cadde.

Mentre lui cadeva, spararono una seconda volta, poi una terza e una quarta. Infine aprirono il fuoco con l'artiglieria pesante.

Ancora una volta, ci sono notevoli discordanze nelle varie stime di quanti rimasero uccisi al pozzo n. 29.1 documenti ufficiali parlano di 42 morti e 135 feriti. I testimoni invece raccontano di "centinaia" di vittime.26

Gli scioperi erano finiti. Ma nessuno dei due campi fu mai completamente pacificato. Per tutto il resto di quell'anno e del successivo 1954, continuarono a scoppiare manifestazioni di protesta spora-diche a Vorkuta e a Noril'sk, negli altri campi speciali, e nei campi a regime ordinario. "Il lascito dello sciopero fu un senso di trionfo, sostenuto dall'aumento salariale che avevamo conquistato" ha scritto Noble. Quando lo trasferirono al pozzo n. 29, dove era avvenuto il massacro, i detenuti superstiti gli mostrarono con orgoglio le cicatrici rimaste da quella giornata.27

A mano a mano che i detenuti si imbaldanzivano, i campi venivano coinvolti uno dopo l'altro nella protesta. Per esempio, nel novembre 1953, 530 detenuti del Vjatlag rifiutarono di lavorare: chiedevano salari migliori e la fine delle "anomalie" nella distribuzione del vestiario e nelle condizioni di vita. La direzione del campo accettò le loro richieste, ma il giorno dopo i prigionieri si astennero di nuovo dal lavoro, chiedendo di essere inclusi nell'amnistia di Berija. Lo sciopero ebbe fine quando gli organizzatori furono arrestati e incarcerati.28 Nel marzo 1954 un gruppo di "banditi" si impadronì di un lagpunkt del Kargopol'lag, minacciando la rivolta se i detenuti non avessero ricevuto un vitto migliore e della vodka.29 Nel luglio 1954, 900 detenuti del Minlag misero in atto uno sciopero della fame di una settimana, per protestare contro la morte di un detenuto che era rimasto ucciso tra le fiamme quando era scoppiato un incendio nelle celle di punizione. I detenuti distribuirono volantini in tutto il campo e nel villaggio vicino, spiegando le ragioni dello sciopero; smise-

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ro soltanto quando da Mosca arrivò una commissione che accettò le loro richieste di un trattamento migliore. In altri punti del Minlag gli scioperi divennero una costante della vita quotidiana: a volte scioperavano singole squadre, a volte tutti gli addetti a una miniera.3*)

Come ben sapevano i dirigenti, si progettavano nuove sommosse. Nel giugno 1954 l'MVD inviò il rapporto di un informatore direttamente al ministro dell'Interno, Kruglov. Nel rapporto si riferiva una conversazione avvenuta in un gruppo di detenuti ucraini, che il delatore aveva conosciuto nella prigione di transito di Sverdlovsk. I detenuti venivano dal Gorlag e avevano preso parte allo sciopero che vi si era svolto; sarebbero stati trasferiti altrove, ma già si preparavano per la volta successiva:

Nella cella tutti, io compreso, fummo invitati a spiegare a Pavlisin e a Stepanjuk che cos'avevano fatto durante lo sciopero ... In mia presenza, Morusko riferì a Stepanjuk un episodio avvenuto sulla chiatta da Noril'sk a Krasnojarsk. Sul battello aveva fatto una cernita fra i detenuti, e quelli che non gli servivano li aveva eliminati. Stepanjuk disse a Pavlisin: "La missione che vi era stata affidata è stata eseguita, adesso le nostre azioni saranno ricordate nella storia dell'Ucraina". Poi abbracciò Morusko e disse:

"Fan Morusko, lei ha reso grandi servigi alla nostra organizzazione ... le sarà data una medaglia per questo, e dopo il crollo del potere sovietico occuperà una carica importante".31

È possibilissimo che l'autore del rapporto abbia davvero udito una conversazione simile a questa, ma deve anche aver inventato qualcosa: più avanti nel testo, accusa gli ucraini di avere tramato un complotto molto improbabile per uccidere Hruscev. Tuttavia, il fatto che un'informazione così poco attendibile fosse inviata addirittura allo stesso Kruglov indica quanto le autorità prendessero sul serio, ormai, le minacce di nuove rivolte. Entrambe le commissioni inviate a indagare sulla situazione del Reclag e del Gorlag avevano concluso che era necessario aumentare il numero delle guardie, rendere il regime carcerario più severo e, soprattutto, accrescere il numero degli informatori.32

I fatti dimostrarono che avevano ragione di preoccuparsi. La rivolta più pericolosa doveva ancora scoppiare.

Come le due sommosse precedenti, l'insurrezione che Solzenicyn chiamò "i quaranta giorni di Kengir" non fu improvvisa né inaspettata.33 Si andò formando a poco a poco, nella primavera del 1954, con l'accumulo di una serie di episodi avvenuti nel campo speciale dello Steplag situato accanto al villaggio di Kengir, nel Kazakistan.

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Nel periodo che seguì alla morte di Stalin, i comandanti dello Steplag, come i loro colleghi del Reclag e del Gorlag, non sapevano come trattare i loro detenuti. Uno degli storici che hanno studiato lo sciopero ha esaminato gli archivi del campo dal 1953 in poi, ed è arrivato a concludere che la direzione aveva "perso del tutto il controllo sulla situazione". Mentre lo sciopero si avvicinava, i comandanti dello Ste-plag inviavano a Mosca i loro rapporti a scadenze periodiche, descrivendo le organizzazioni clandestine che si erano formate, gli episodi di disordine, lo stato di "crisi" in cui versava il sistema degli informatori, ormai quasi del tutto paralizzato. In risposta, da Mosca arrivò l'ordine di isolare gli ucraini e i baltici dagli altri detenuti; ma la direzione non voleva o non poteva farlo. In quel momento, su 20.000 internati nel campo circa la metà erano ucraini e un quarto baltici e polacchi; forse mancavano del tutto le strutture per tenerli separati. Quindi i prigionieri continuarono a infrangere le norme, mettendo in atto a intermittenza scioperi e manifestazioni di protesta.34

Non riuscendo ad ammansire i prigionieri con le minacce, le guardie fecero ricorso alla violenza vera e propria. Alcuni, Solzenicyn compreso, ritengono che tali episodi fossero anche provocazioni, attuate per fare scoccare la scintilla della successiva rivolta. Sia vero o no - e non esiste una documentazione in un senso o nell'altro - nell'inverno del 1953 e nella primavera del 1954 le guardie del campo aprirono più volte il fuoco sui detenuti che si rifiutavano di collabora-re, e ne uccisero parecchi.

Poi, forse nel disperato tentativo di riprendere in mano la situazione, la direzione mandò nel campo un gruppo di criminali, con l'esplicito incarico di provocare risse con i politici nel lagpunkt n. 3, il più sedizioso dello Steplag. Il progetto si ritorse contro di loro. Solzenicyn scrive: "Ma quando si dice il corso imprevedibile dei sentimenti umani e dei movimenti sociali! Iniettando nel distaccamento n. 3 di Kengir una dose da cavallo di quel ben collaudato veleno cadaverico, i padroni ottennero non la pacificazione di un lager, bensì la più grande rivolta di tutta la storia dell'arcipelago Gulag".35 Invece di combattersi, i due gruppi si allearono.

Come in altri campi, i detenuti dello Steplag erano organizzati per nazionalità, ma, a quanto pare, gli ucraini avevano fatto progredire alquanto la loro organizzazione sulla strada della clandestinità. Invece di scegliere i loro capi alla luce del sole, avevano formato un Centro di cospirazione, un gruppo segreto di cui non si seppe mai la composizione vera, e che probabilmente comprendeva rappresentanti di tutte le nazionalità presenti nel campo. Quando arrivò il

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gruppo dei malavitosi, il Centro aveva già cominciato a produrre armi - coltelli rudimentali, mazze e picconi - nelle officine del campo, e si era messo in contatto con gli internati dei due lagpunkt adiacenti, il n. 1, una zona riservata alle donne, e il n. 2. Forse, con il loro lavoro, questi politici irriducibili produssero grande impressione sui criminali oppure, come sostiene Solzenicyn, forse li terrorizzarono. In ogni caso, tutti concordano sul fatto che durante una riunione notturna i rappresentanti dei due gruppi, criminali e politici, si strinsero la mano e stabilirono di coalizzarsi.

Il 16 maggio la loro cooperazione portò il primo frutto. Quel pomeriggio, un folto gruppo di detenuti del lagpunkt n. 3 cominciò ad abbattere il muro di pietra che separava il loro settore da quelli adiacenti e dal cortile di servizio, in cui si trovavano sia le officine del campo sia i magazzini. In passato il loro scopo sarebbe stato stuprare le donne, ma in quel momento su entrambi i lati del muro si trovavano partigiani nazionalisti ucraini, uomini e donne, e quindi gli uomini sentivano di venire in aiuto delle loro donne: parenti, amiche o addirittura mogli.

L'abbattimento del muro proseguì per tutta la notte. La reazione delle guardie del campo fu di aprire il fuoco (tredici detenuti rimasero uccisi, quarantatré feriti) e di malmenare gli altri prigionieri, donne comprese. Il giorno dopo, in preda al furore per i compagni uccisi, i detenuti del lagpunkt n. 3 attuarono in massa una manifestazione di protesta, scrivendo slogan antisovietici sulle pareti della mensa. Quella notte, gruppi di detenuti irruppero nelle celle di isolamento, distrussero letteralmente l'edificio a mani nude e liberarono i 252 prigionieri che vi erano rinchiusi. Presero il controllo totale dei magazzini del campo, delle cucine e del forno oltre che delle officine, subito riconvertite alla produzione di coltelli e mazze. La mattina del 19 maggio la maggior parte dei detenuti era in sciopero.

Sembrava che nessuno sapesse che cosa fare, né i dirigenti di Mosca né quelli locali. Il comandante del campo si affrettò a informare dell'accaduto Kruglov, il capo dell'MVD. Con eguale prontezza, Kru-glov ordinò a Gubin, il capo dell'MVD in Kazakistan, di condurre un'inchiesta. A quel punto Gubin chiese alla direzione del Gulag di mandare una commissione da Mosca. La commissione arrivò. Seguirono le trattative: la commissione, nel tentativo di guadagnare tempo, promise ai detenuti che ci sarebbe stata un'inchiesta sulle fucilazioni illegittime, sarebbe stata lasciata aperta la comunicazione fra i campi e addirittura sarebbe stata accelerata la revisione dei processi.

I prigionieri credettero alle promesse e il 23 maggio ripresero il la-

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voro. Ma quando il turno di giorno rientrò agli alloggi, si accorsero che almeno una delle promesse era già stata infranta: le mura che separavano i lagpunkt erano state ricostruite. Il 25 maggio il capo di Kengir, V.M. Bockov, aveva già ricominciato a inviare frenetici telegrammi per ottenere il permesso di imporre ai detenuti il "regime duro": niente lettere, niente visite, niente invii di denaro, niente revisione dei processi. Inoltre, espulse dai campi circa 420 detenuti per reati penali, inviandoli in un lagpunkt diverso dove peraltro essi continuarono a scioperare.

Risultato: quarantott'ore dopo, i detenuti avevano scacciato dalla zona tutti i sorveglianti del campo, sotto la minaccia delle loro armi appena fabbricate. I sorveglianti avevano armi da fuoco, ma furono sopraffatti dal numero. Nelle tre divisioni del campo vivevano oltre 5000 internati, che in maggioranza avevano aderito all'insurrezione. Chi non aveva aderito era troppo intimorito per protestare. Chi si sentiva neutrale ben presto rimase contagiato dallo spirito della rivolta dei quaranta giorni. La prima mattina dello sciopero, ricorda un detenuto con stupore, "le guardie non vennero a svegliarci, non fummo salutati da urla e grida".

Si direbbe che in un primo tempo le autorità del campo si aspettassero il fallimento dello sciopero per disgregazione dall'interno. Presto

0 tardi, si supponeva, sarebbe nato un dissidio fra criminali e politici. I prigionieri si sarebbero abbandonati all'anarchia e alla depravazione, avrebbero stuprato le donne e rubato le provviste. Ma, per quanto non si debba idealizzare il comportamento tenuto dai detenuti durante lo sciopero, è vero che accadde quasi l'opposto: il campo cominciò a essere gestito in un clima di stupefacente armonia.

Quasi subito i detenuti elessero un comitato per lo sciopero, che doveva occuparsi delle trattative e di organizzare la vita quotidiana.

1 racconti circa l'origine del comitato sono del tutto discordanti. Nei documenti ufficiali si afferma che la direzione aveva in corso una serie di trattative generali con vari gruppi di detenuti, quando tutt'a un tratto si fece avanti un gruppo di persone che affermavano di costituire il comitato degli scioperanti e negarono a tutti gli altri il diritto di parlare. Ma secondo alcuni testimoni furono le stesse autorità a suggerire ai prigionieri di formare un comitato, che fu poi costituito con un'elezione democratica.

Il reale rapporto fra il comitato di scioperanti e i "veri" capi dell'insurrezione è un'altra cosa che rimane non chiarita, ed è probabile che fosse tale anche all'epoca dei fatti. Benché gli insorti non avessero progettato una per una le loro mosse, il Centro, diretto dagli ucraini,

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era evidentemente l'occulta forza motrice dello sciopero ed ebbe un ruolo decisivo nell'elezione "democratica" del comitato. Sembra che gli ucraini insistessero perché il comitato fosse multietnico: non volevano che lo sciopero sembrasse troppo antirusso o antisovietico, e desideravano che avesse un russo alla sua testa.

L'uomo prescelto fu il colonnello Kapiton Kuznecov, il quale, anche in una vicenda complessa come quella di Kengir, spicca come personaggio di considerevole ambiguità. Già ufficiale dell'Armata rossa, durante la guerra Kuznecov era stato catturato dai nazisti e rinchiuso in un campo di prigionia. Nel 1948 era stato arrestato con l'accusa di avere collaborato con la direzione nazista del lager e, addirittura, di aver combattuto contro i partigiani sovietici. Se le accuse fossero vere, basterebbero a spiegare il suo comportamento durante lo sciopero; avendo già cambiato bandiera una volta, anche in quel caso Kuznecov era in grado di tenere il piede in due staffe.

A quanto pare, gli ucraini avevano scelto Kuznecov sperando di dare una parvenza "sovietica" all'insurrezione, togliendo alla direzione un pretesto per reprimere i detenuti. Kuznecov eseguì senz'al-tro questo incarico, forse perfino con eccesso di zelo. Su sua insistenza, i detenuti in sciopero appesero qua e là nel campo striscioni con le scritte VIVA LA COSTITUZIONE SOVIETICA!, LUNGA VITA AL REGIME SOVIETICO!, ABBASSO GLI ASSASSINI DI BERIJA! L'ex colonnello arringava i detenuti per convincerli a non scrivere più i loro volantini, sostenendo che la propaganda "controrivoluzionaria" poteva soltanto nuocere alla loro causa. Fece una corte assidua agli internati "sovietici", quelli che avevano ancora fede nel Partito, e li convinse a cooperare per mantenere l'ordine.

Quel che è certo è che Kuznecov ripagò con cattiva moneta la fiducia degli ucraini, i quali pure avevano contribuito a farlo eleggere. Nella lunga e dettagliatissima confessione scritta dopo che lo sciopero fu giunto all'inevitabile esito cruento, Kuznecov affermò di avere sempre ritenuto che il Centro fosse illegittimo e di essersi sforzato di contrastarne i diktat segreti durante lo sciopero. Ma neppure gli ucraini si erano mai fidati di lui. Per tutto il periodo della rivolta, due ucraini armati lo avevano seguito ovunque: ufficialmente per proteggerlo, in realtà perché con ogni probabilità volevano assicurarsi che non tradisse la causa, fuggendo di nascosto nottetempo dal campo.

Forse gli ucraini non sbagliavano a temere la fuga di Kuznecov, perché un altro membro del comitato, Aleksej Makeev, alla fine lasciò davvero il campo di soppiatto, poche settimane dopo l'inizio

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dello sciopero. In seguito, Makeev cominciò a leggere comunicati alla radio del campo in cui si esortavano i detenuti a riprendere il lavoro. Forse aveva capito prima degli altri che lo sciopero era destinato a fallire, oppure potrebbe essere stato fin da principio uno strumento nelle mani delle autorità.

Tuttavia, non sempre era giusto dubitare della sincerità con cui i membri del comitato si impegnavano nell'impresa. In seguito lo stesso Kuznecov avrebbe affermato che almeno tre di loro - "Gleb" Slucenkov, Gers Keller e Jurij Knopmus - in effetti erano rappresentanti del Centro segreto. Anche la direzione del campo indicò in uno di essi, Gers Keller, un componente del gruppo clandestino di ucraini, e sembra che davvero la biografia di Keller confermi tale quadro. Sebbene fosse stato registrato come ebreo, Keller era di nazionalità ucraina (in realtà si chiamava Pendrak, ed era riuscito a nascondere la propria identità nazionale agli agenti dell'MVD che lo avevano arrestato). Si era assunto l'incarico di guidare la sezione "militare" dello sciopero e di organizzare la difesa nel caso che le guardie avessero attaccato i detenuti ribelli. Era stato ìui ad avviare nelle officine dei campo la produzione su larga scala di armi - coltelli, randelli, picconi, mazze - e ad allestire un "laboratorio" in cui fabbricare granate improvvisate, bottiglie molotov e altre armi "calde". Inoltre, Keller sovrintendeva alla costruzione di barricate e aveva disposto che in ciascuna baracca si tenesse accanto alla porta un barile di frammenti di vetro da lanciare negli occhi dei soldati, se e quando si fossero presentati.

Se Keller rappresentava gli ucraini, Gleb Slucenkov era piuttosto legato ai malavitosi del campo. Lo stesso Kuznecov lo descrive come un "esponente del mondo criminale", e le fonti dei nazionalisti ucraini parlano di Slucenkov come del capo dei ladri. Durante la rivolta Sluèenkov gestiva l'attività di "controspionaggio" del comitato. Aveva una sua "polizia" che pattugliava il campo, manteneva l'ordine e catturava le spie e i voltagabbana potenziali. Aveva strutturato i detenuti di tutti i campi in settori, affidando ciascuna a un "comandante". In seguito Kuznecov si lamentò perché i nomi di questi comandanti erano tenuti segreti, e soltanto Slucenkov e Keller li conoscevano.

Kuznecov si mostra meno velenoso nei confronti di Knopmus, un tedesco nato a San Pietroburgo, che nell'insurrezione guidava la sezione "propaganda". Durante la rivolta Knopmus ebbe il comportamento più rivoluzionario e più antisovietico di tutti. La sua attività di "propaganda" comprendeva la produzione di volantini, distribuiti

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fra la popolazione del luogo all'esterno del campo, la stampa di un "giornale murale" a beneficio degli scioperanti e, cosa più straordinaria di tutte, l'allestimento di una stazione radio di fortuna.

Poiché le autorità avevano tagliato la fornitura di energia elettrica fin dai primi giorni di sciopero, la stazione radio non era soltanto un gesto di sfida, ma un'impresa tecnica notevole. In primo luogo, gli zek avevano messo insieme una centrale "idroelettrica", usando l'acqua di un rubinetto. Convertirono un motore in generatore, in modo da ricavare sufficiente elettricità da far funzionare i telefoni del campo, oltre alla radio. La radio, poi, fu fabbricata usando pezzi dei proiettori cinematografici portatili usati nel campo.

Nel giro di pochi giorni, il campo disponeva di annunciatori e di notiziari programmati regolarmente, che si rivolgevano ai detenuti ma anche alla popolazione locale esterna, guardie e soldati compresi. Gli stenografi del campo trascrissero il testo di uno dei comunicati radio, letto quando la rivolta era in corso ormai da un mese e le provviste alimentari cominciavano a scarseggiare. Era destinato ai soldati di guardia all'esterno del campo e il suo resoconto stenografico è finito nell'archivio dell'MVD:

Compagni soldati! Noi non abbiamo paura di voi e vi chiediamo di non entrare nella nostra zona. Non sparateci addosso, non appiattitevi sulla volontà degli accoliti di Berija. Noi non abbiamo paura di loro, come non abbiamo paura della morte. Preferiamo morire di fame in questo campo, piuttosto che arrenderci ai banditi di Berija. Non sporcatevi le mani con lo stesso sangue di cui sono lorde quelle dei vostri ufficiali.. ,36

Nel frattempo, Kuznecov organizzava la distribuzione del vitto, che era preparato e cucinato dalle donne del campo. Ciascun detenuto ne riceveva la stessa quantità - niente razioni supplementari per i priàurok - che andava sempre diminuendo, con il passare delle settimane e il calare delle scorte. Squadre di volontari si incaricavano di tenere puliti gli alloggi, di provvedere al bucato e di fare la guardia. Un internato ricorda che "l'ordine e la pulizia" regnavano nella mensa, dove in passato avevano spesso imperato il sudiciume e il caos. Il bagno era in funzione come al solito, e anche l'infcrmeria, sebbene la direzione del campo rifiutasse di fornire le medicine e il materiale necessari.

I detenuti organizzavano anche i loro "divertimenti". Secondo un memoriale, un aristocratico polacco, il conte Bobrinski, aveva aperto un "locale" dove serviva il "caffè": "aggiungeva qualcosa all'acqua, la faceva bollire, e a metà di una giornata calda i detenuti bevevano la miscela con soddisfazione, ridendo". Il conte stesso se ne stava se-

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duto in un angolo del suo "caffè" e cantava vecchie romanze accompagnandosi con la chitarra.37 Altri detenuti organizzarono serie di conferenze e anche concerti. Un gruppo di filodrammatici entusiasti allestì uno spettacolo teatrale dopo una serie di prove. Una setta religiosa, i cui adepti di entrambi i sessi erano tornati insieme grazie all'abbattimento delle mura, proclamò, secondo quanto aveva predetto il loro profeta, che tutti loro sarebbero stati portati in cielo da vivi. Rimasero seduti sui loro materassi nella piazza principale, al centro della zona, aspettando di essere rapiti in paradiso. Purtroppo, non accadde nulla.

Fecero la loro comparsa anche un gran numero di nuove coppie di sposi, le cui nozze erano state celebrate dai molti sacerdoti che erano stati arrestati insieme ai loro fedeli baltici o ucraini. Fra loro ve n'erano alcuni che si erano sposati trovandosi ai due lati delle mura del campo, e potevano incontrarsi di persona per la prima volta. Ma anche se uomini e donne si frequentavano liberamente, tutti i resoconti dello sciopero concordano sul fatto che le donne non furono mai molestate, e certo neppure assalite o stuprate, come accadeva tanto spesso nei campi ordinar!.

Naturalmente furono scritte delle canzoni. Qualcuno compose un inno ucraino, che in certi momenti veniva cantato in coro da tutti i 13.500 detenuti in sciopero. Il ritornello diceva:

Non saremo, non saremo schiavi non porteremo più il giogo...

In un'altra strofa si parlava di

Fratelli di sangue, di Vorkuta e Noril'sk, di Kolyma e Kengir...

Quarantacinque anni dopo, Irena Arginskaja ricorda: "Fu un periodo meraviglioso. Prima di allora non avevo mai provato un simile senso di libertà, e non l'ho mai più provato dopo". Altri avevano presentimenti meno ottimistici. Ljubov' Bersadskaja ricorda: "Facevamo tutto senza renderci conto di niente: nessuno di noi sapeva che cosa ci aspettava, e neppure ci pensava".

Le trattative con le autorità proseguirono. Il 27 maggio la commissione dell'MVD incaricata di occuparsi dello sciopero ebbe il primo incontro con i detenuti. Fra quelli che Solzenicyn chiama i "personaggi con i gradi d'oro sulle spalline", facevano parte della commissione Sergej Egorov, il vicecapo dell'MVD; Ivan Dolgih, allora comandante dell'intero sistema del Gulag; Vavilov, il viceprocuratore generale di Stato responsabile della supervisione sul Gulag. Furono accolti da

Gulag

un'assemblea di 2000 detenuti, capeggiati da Kuznecov, che presentò loro un elenco di richieste.

Nel momento in cui lo sciopero era in pieno svolgimento, l'elenco era arrivato a comprendere sia la richiesta di sottoporre a procedimento penale le guardie che avevano sparato sui detenuti, richiesta presentata fin da principio, sia altre di carattere più specificamente politico. Per esempio si chiedeva la riduzione di tutte le condanne a venticinque anni; la revisione di tutti i processi dei detenuti politici; l'eliminazione delle celle e delle baracche di punizione; maggior libertà di comunicazione con i parenti; l'eliminazione dell'esilio perpetuo imposto necessariamente a tutti i detenuti liberati; migliori condizioni di vita per le detenute; la riunificazione definitiva dei campi maschili e femminili.

Inoltre, i detenuti chiedevano di incontrare uno dei membri del comitato centrale del Partito comunista. Continuarono a insistere su questo punto fino alla fine, asserendo di non poter essere sicuri che né la direzione degli Steplag, né l'MVD tenessero fede a eventuali impegni. Sembra che a questo punto Egorov, il viceministro dell'Interno, abbia replicato: "E chi può avere instillato in voi tanto odio per l'MVD?".

Se lo sciopero fosse stato dichiarato qualche anno prima, s'intende che non ci sarebbe stata nessuna trattativa. Invece nel 1954, in effetti, era già cominciata, sia pure con lentezza, una revisione delle condanne politiche. Nel corso dello sciopero accadde perfino che singoli detenuti fossero chiamati a lasciare il campo per presenziare alle udienze del tribunale che riesaminava il loro processo. Sapendo che già molti detenuti erano morti, e a quanto pare volendo arrivare a concludere le cose presto e in modo pacifico, quasi subito Dolgih cominciò a esaudire alcune richieste secondarie, facendo togliere le sbarre alle finestre delle baracche, fissando la giornata lavorativa a otto ore, addirittura allontanando da Kengir alcuni sorveglianti e funzionar! particolarmente detestati. In un primo momento, su esplicito ordine di Mosca, Dolgih si astenne dall'usare la forza. Cercò tuttavia di piegare la resistenza dei detenuti, insistendo perché lasciassero il campo e vietando ogni rifornimento di generi alimentari o di medicine.

Tuttavia, con il passare del tempo, a Mosca persero la pazienza. In un telegramma inviato il 15 giugno, Kruglov strapazzava il suo vice, Egorov, per aver riempito i suoi rapporti di statistiche irrilevanti - per esempio, quanti piccioni erano stati fatti partire dal campo per trasportare volantini - e lo informava dell'imminente arrivo di uno scaglione di militari, accompagnati da cinque carri armati T-34.

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Negli ultimi giorni di sciopero la tensione divenne altissima. La commissione dell'MVD usava il sistema di altoparlanti del campo per lanciare aspri moniti. I detenuti replicavano trasmettendo messaggi dalla loro stazione radio improvvisata, raccontando al mondo che stavano per morire di fame. Kuznecov fece un discorso in cui riferì le vicende della propria famiglia, distrutta dal suo arresto. Un detenuto ricorda: "Anche molti di noi avevano perduto dei parenti, e ascoltandolo rinsaldammo i nostri propositi e decidemmo di tenere duro fino alla fine".

Alle tre e mezzo del mattino del 26 giugno, appena prima dell'alba, l'MVD colpì. La sera prima, Kruglov aveva telegrafato a Egorov suggerendogli di usare "tutte le risorse possibili" e questi obbedì: il campo fu circondato da non meno di millesettecento soldati, con no-vantotto cani e i cinque T-34. In un primo tempo, i militari fecero partire dei razzi che esplosero in aria, al di sopra delle baracche, e spararono a salve. Gli altoparlanti del campo cominciarono a diffondere moniti incalzanti: "I soldati stanno entrando. I detenuti intenzionati a collaborare devono lasciare il campo pacificamente. Contro i detenuti che opporranno resistenza sarà aperto il fuoco...".

Mentre i prigionieri, disorientati, scorrazzavano qua e là per il campo, i carri armati varcarono il cancello. Dietro di loro avanzavano i soldati in assetto di guerra. Secondo alcuni resoconti, sia i carristi, sia gli uomini che seguivano a piedi erano ubriachi. Forse si tratta di una leggenda nata in un secondo tempo, ma sta di fatto che, tanto nell'Armata rossa quanto nella polizia segreta, era tradizione rifornire di vodka i soldati incaricati di eseguire lavori sporchi: nelle fosse comuni, accanto ai cadaveri si trovano quasi sempre delle bottiglie vuote.

LJbriachi o no, i carristi non ebbero scrupoli a travolgere sotto i cingoli i detenuti che venivano loro incontro. Ljubov' Bersadskaja ricorda: "Io stavo in mezzo, e tutto intorno a me i carri armati schiacciavano persone vive". I carri travolsero un gruppo di donne, le quali si tenevano sottobraccio e stavano ferme sul loro tragitto, non riuscendo a credere che avrebbero avuto il coraggio di investirle. Travolsero una coppia di sposi novelli che si erano gettati volutamente sotto i cingoli, tenendosi stretti. Travolsero le baracche, con la gente dentro addormentata. Resistettero al tiro delle granate casalinghe, e anche alle pietre, ai picconi e agli altri arnesi metallici scagliati dai detenuti. Con sorprendente rapidità - in un'ora e mezzo, secondo il rapporto archiviato in seguito - i soldati avevano riportato l'ordine nel campo, portato via i detenuti che avevano accettato di uscire senza opporre resistenza e ammanettato gli altri.

Gulag

Secondo i documenti ufficiali, quel giorno morirono 37 internati-9 morirono più tardi per le ferite riportate; altri 106 rimasero feriti come pure 40 soldati. Si tratta ancora una volta di cifre assai inferiori a quelle registrate dai detenuti stessi. La Bersadskaja, che aveva aiutato il medico del campo, Julian Fuster, ad assistere i feriti, parla di 500 morti:

Fuster mi disse di mettere una cuffia bianca e una mascherina da chirurgo (la conservo ancora) e mi chiese di restare accanto al tavolo operatorio e scrivere i nomi di quelli che riuscivano ancora a dirlo. Purtroppo, quasi nessuno era in grado. Quasi tutti i feriti morirono durante le medicazioni e, mentre con lo sguardo si congedavano da noi, dicevano: "Scriva a mia madre. .. a mio marito... ai miei figli" e così via.

Quando non resistetti più, perché era troppo caldo e si soffocava, mi tolsi la cuffia e mi guardai nello specchio. Avevo i capelli tutti bianchi. Sul momento pensai di essermi sporcata con della polvere che era dentro la cuffia. Non mi rendevo conto che restando al centro di quell'incredibile macello, a guardare tutto quel che accadeva, i capelli mi si erano imbiancati in un quarto d'ora.

Fuster rimase in piedi tredici ore, per salvare tutti quelli che potè. Alla fine, quel chirurgo così capace e resistente non riuscì più a farcela, e cadde svenuto. Così le operazioni terminarono...38

Dopo la battaglia, tutti i vivi che non erano in ospedale furono fatti uscire dal campo e condotti fuori, nella taigà. I soldati armati di mitra li fecero sdraiare per terra bocconi, con le braccia aperte come crocifissi, e li lasciarono così per molte ore. Servendosi delle fotografie che avevano scattato durante le assemblee e dei pochi rapporti degli informatori di cui disponevano, le autorità del campo scelsero tra i prigionieri 436 persone che furono arrestate: fra di esse c'erano tutti i membri del comitato dello sciopero. Sei sarebbero stati giustiziati, compresi Keller, Slucenkov e Knopmus. Kuznecov, che qua-rantott'ore dopo l'arresto presentò alle autorità una lunga ed elaborata confessione scritta, fu condannato a morte, ma risparmiato. Venne trasferito nel Karlag e liberato nel 1960. Altri 1000 detenuti, 500 uomini e 500 donne accusati di aver sostenuto la rivolta, furono trasferiti in altri campi, dell'Ozerlag e della Kolyma. Alla fine del decennio, anche quasi tutti i componenti di questo gruppo, sembra, erano tornati in libertà.

A quanto pare, nel corso della rivolta le autorità non avevano idea che all'interno del campo potesse esistere una forza organizzativa diversa dal comitato degli scioperanti ufficiale: solo dopo cominciarono a ricomporre i pezzi dell'intera vicenda, probabilmente grazie al dettagliato resoconto di Kuznecov. Identificarono cinque rappre-

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sentanti del Centro: il lituano Kondratas, gli ucraini Keller, Sunicuk e Vahaev, e il ladro conosciuto nella malavita con lo pseudonimo di "Baffo". I dirigenti del campo stilarono addirittura uno schema in cui si indicavano le linee di comando che partivano verso l'esterno dal Centro per arrivare, attraverso il comitato degli scioperanti, fino alle sezioni incaricate della propaganda, della difesa e del controspionaggio. Sapevano dell'esistenza delle brigate organizzate per difendere ciascuna baracca, sapevano della stazione radio e del gruppo elettrogeno di fortuna.

Ma non riuscirono mai a identificare tutti i componenti del Centro, i veri organizzatori della rivolta. Secondo un testimone, molti dei "veri attivisti" rimasero nel campo, continuando a scontare la loro condanna tranquillamente, in attesa dell'amnistia. Non si conoscono i loro nomi, ed è probabile che non si conosceranno mai.

XXV DISGELO... E LIBERTÀ

Non facciamola troppo lunga, basta con le chiacchiere. Noi siamo i figli del culto. Siamo carne e sangue suo.

Ci hanno cresciuti nella nebbia di una vera ambiguità, fra gigantomania e di spirito povertà...

ANDRE] VOZNESENSKIJf, Figli del culto, 29671

Gli scioperanti di Kengir avevano perduto la loro battaglia, ma vinsero la guerra. Dopo la rivolta nello Steplag, il governo dell'Unione Sovietica si disamorò del tutto dei campi di lavoro coatto, e con una rapidità stupefacente.

Nell'estate del 1954 era ormai ampiamente riconosciuto che i campi erano un'impresa in perdita. Una nuova analisi della situazione finanziaria del Gulag, effettuata nel giugno 1954, aveva dimostrato di nuovo che i campi ricevevano ingenti finanziamenti e in particolare che i costi di mantenimento del personale di sorveglianza li rendevano antieconomici.2 Durante una riunione di comandanti dei campi e di alti funzionari del Gulag, tenuta poco dopo i fatti di Kengir, molti amministratori espressero le loro lagnanze per la cattiva organizzazione degli approvvigionamenti alimentari, per l'abnorme proliferazione degli adempimenti burocratici - vi erano ben diciassette regolamenti distinti per il vitto - e per la grave disorganizzazione dei campi. Alcuni rimanevano aperti, ma con pochissimi internati. Intanto gli scioperi e i disordini continuavano. Nel 1955 i detenuti organizzarono un nuovo sciopero generale a Vorkuta.3 Ormai la pressione

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per cambiare le cose era diventata incontrollabile. E, infatti, le cose cambiarono.

Il 10 luglio 1954 il comitato centrale emanò una direttiva che ripristinò la giornata lavorativa di otto ore, semplificò il regime detentivo e rese possibile ai detenuti ottenere uno sconto di pena lavorando di pili. I campi speciali furono aboliti. I detenuti potevano scrivere lettere e ricevere pacchi, spesso senza restrizioni. In certi campi, potevano sposarsi e addirittura vivere con i rispettivi coniugi. Le guardie di scorta e i cani latranti divennero cosa del passato. Gli internati furono autorizzati ad acquistare nuovi artìcoli: per esempio, capi di vestiario, cosa impossibile in precedenza, e arance.4 Nei campi dell'Ozerlag ebbero addirittura il permesso di coltivare fiori.5

Ormai, negli strati più alti dell'elite sovietica si era anche aperto un dibattito più ampio sulla giustizia staliniana. All'inizio del 1954 Hruscev aveva richiesto e ottenuto un rapporto in cui era indicato in dettaglio quanti detenuti fossero stati accusati di atti criminosi controrivoluzionar i dal 1921 in poi, e quanti si trovavano ancora in carcere. Per definizione, si trattava di cifre incomplete, che non comprendevano i milioni di persone mandate al confino, né gli innocenti accusati di reati non politici in senso tecnico, né gli imputati giudicati da tribunali ordinari, né quanti erano stati reclusi senza avere subito alcun processo. Ma dal momento che il rapporto si riferiva a coloro che erano stati uccisi o incarcerati senza nessun morivo, bisogna dire che l'entità di tali cifre è scioccante. Secondo i calcoli dello stesso ministero dell'Interno, 3.777.380 persone erano state riconosciute "colpevoli" di fomentare la controrivoluzione dai collegi giudicanti dell'OGPU, dalle trojke dell'NKVD, dalle commissioni speciali e da tutti i collegi giudicanti e i tribunali che avevano emanato sentenze a ritmo industriale per tutto il trentennio precedente. 2.369.220 di essi erano stati mandati nei campi, 765.180 al confino, 642.980 erano stati giustiziati.6

Pochi giorni dopo, il comitato centrale avviò il riesame di tutti questi processi, come pure di quelli dei "ripetenti", i detenuti che nel 1948 erano stati condannati a un nuovo periodo di confino. Hruscev nominò un comitato nazionale presieduto dal procuratore generale dell'Unione Sovietica, con funzioni di supervisore. Inoltre designò comitati locali in ogni repubblica e provincia del paese, per riesaminare le condanne inflitte ai detenuti. In questa fase, alcuni politici furono rilasciati, ma senza annullare le sentenze originarie: la vera riabilitazione, cioè il riconoscimento da parte dello Stato che era stato commesso un errore, sarebbe arrivata in seguito.7

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Cominciarono le scarcerazioni, anche se nel corso dei successivi diciotto mesi procedettero con penosa lentezza. Talvolta veniva liberato chi aveva già scontato due terzi della condanna, senza spiegazioni né riabilitazioni. Altri venivano trattenuti senza alcun motivo. Pur sapendo benissimo che i campi erano antieconomici, i funziona-ri del Gulag si dimostravano riluttanti a chiuderli: a quanto pare, ci voleva un nuovo scossone dall'alto.

Lo scossone arrivò nel febbraio 1956, quando Hruscev lesse quello che sarebbe stato denominato il "rapporto segreto", durante una seduta a porte chiuse del XX congresso del Partito comunista. Per la prima volta, Hruscev rivolse un esplicito attacco a Stalin e al "culto della personalità" che gli veniva tributato:

... non è lecito ed è estraneo allo spirito del marxismo-leninismo esaltare una sola persona, e trasformarla in un superuomo in possesso di doti sovrane naturali simili a quelle di un dio. Un simile uomo è ritenuto in grado di sapere tutto, vedere tutto, pensare per tutti, fare qualsiasi cosa ed essere infallibile nella propria condotta. Un simile culto per un uomo, e precisamente per Stalin, è stato diffuso fra di noi per molti anni.8

Il resto del rapporto era in gran parte tendenzioso. Nell'elencare le colpe di Stalin, Hruscev si era concentrato in modo quasi esclusivo sulle vittime del 1937-38, mettendo in rilievo la sorte dei novantotto membri del comitato centrale che erano stati fucilati, come pure quella di un pugno di bolscevichi della prima ora. "Nel 1939 l'ondata degli arresti in massa cominciò a diminuire" dichiarò: una palese falsità, dato che negli anni Quaranta la quantità complessiva di detenuti era aumentata. Tuttavia Hruscev parlò delle deportazioni dei ceceni e delle popolazioni balcaniche, forse perché non erano opera sua. Non parlò della collettivizzazione, né della carestia in Ucraina, né delle repressioni di massa condotte nell'Ucraina occidentale e nelle repubbliche baltiche, forse perché in quelle operazioni era coinvolto in prima persona. Parlò di 7679 condannati riabilitati, ma nonostante l'applauso dei presenti, bisogna dire che si trattava di una percentuale minima rispetto ai milioni di persone arrestate con false motivazioni, come lo stesso Hruscev sapeva bene.9

Nonostante le sue carenze, il rapporto - ben presto diffuso, sempre in segreto, tra le cellule del Partito su tutto il territorio sovietico -scosse l'URSS dalle fondamenta. Non era mai accaduto che la dirigenza sovietica ammettesse delle colpe, meno che mai su scala tanto estesa. Perfino Hruscev non sapeva bene quale potesse essere la reazione. In seguito scrisse: "Uscivamo da un periodo traumatico. C'era ancora della gente in carcere e nei campi di prigionia, e non sapevamo cosa

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raccontar loro a proposito di quanto era avvenuto né cosa fare di loro, una volta che fossero stati liberati".10

Il rapporto ebbe un effetto elettrizzante sull'MVD, sul KGB e sugli amministratori dei campi. Nel giro di poche settimane, l'atmosfera all'interno dei lager si alleggerì ancora, e finalmente il processo di liberazione e di riabilitazione cominciò ad accelerare. Mentre nei tre anni precedenti al rapporto segreto erano state riabilitate poco più di 7000 persone, nei dieci mesi successivi ne furono riabilitate 617.000. Per accelerare ancora le cose, furono creati nuovi meccanismi. Per ironia della sorte, molti detenuti che erano stati condannati dalle trojke venivano rimessi in libertà sempre per ordine di una trojka. Le commissioni, composte da tre persone - un pubblico accusatore, un membro del comitato centrale e un membro del Partito riabilitato, spesso un ex detenuto - percorsero l'intero paese da un campo all'altro, da una località di confino all'altra. I tre erano autorizzati a condurre rapide indagini relative a singoli casi, a interrogare i detenuti e a decretarne l'immediato rilascio.11

Nei mesi che seguirono la lettura del rapporto segreto, anche l'MVD si accinse a introdurre novità assai più sostanziali nella struttura stessa dei campi. In aprile il nuovo ministro dell'Interno, N.P. Dudorov, presentò al comitato centrale una proposta di riassetto. La situazione dei campi e delle colonie penali, scriveva Dudorov, era "ormai da anni catastrofica"; sarebbe stato necessario chiuderli, mandando i criminali più pericolosi in carceri speciali, isolate, situate in province remote: come possibile destinazione Dudorov citò specificamente il cantiere abbandonato della ferrovia Salehard-Igarka. Invece i colpevoli di reati minori dovevano rimanere nelle province d'origine e scontare la condanna in colonie carcerarie lavorando nell'industria leggera e nelle fattorie collettive. A nessun condannato doveva essere imposto il lavoro di tagliaboschi, minatore o manovale edile, né qualsiasi altra forma di lavoro pesante e non qualificato.12

Nel rapporto di Dudorov contava di più il linguaggio usato delle proposte in sé: non si trattava di propugnare soltanto la creazione di un sistema di campi più ristretto, ma di una struttura diversa per qualità; era il ritorno a un sistema carcerario "normale", o almeno a un sistema carcerario che sarebbe stato riconosciuto come tale nelle altre nazioni europee. Le nuove colonie carcerarie non avrebbero più preteso di essere autosufficienti sul piano economico. I detenuti avrebbero lavorato per acquisire utili capacità, non per arricchire lo Stato: il loro lavoro avrebbe avuto come obiettivo la riabilitazione e non il profitto.13

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II progetto, per quanto possa sorprendere, suscitò adirate obiezioni. I rappresentanti dei ministeri economici si dichiararono favorevoli, ma LA. Serov, il capo del KGB, demolì con violenza le proposte del ministero dell'Interno, definendole "sbagliate" e "inammissibili", per non parlare del loro costo. Si oppose alla costruzione di nuove colonie carcerarie, con il pretesto che tale provvedimento avrebbe "creato l'impressione che nell'Unione Sovietica esistesse un numero enorme di luoghi di carcerazione". Si oppose alla liquidazione dei campi, e disse che non capiva perché gli zek non potessero lavorare come boscaioli o minatori: in fondo, il duro lavoro manuale avrebbe contribuito a "rieducarli a una vita da onesti lavoratori secondo lo spirito della società sovietica".14

Lo scontro fra le due branche dei servizi di sicurezza diede origine a una riforma molto variegata. Da un lato, il Gulag vero e proprio, cioè il Glavnoe iipravlenie lagerej o Direzione generale dei campi, fu sciolto. Nel 1957 vennero smantellati sia il Dal'stroj sia Noril'sk, due complessi tra i più grandi e più consistenti. Altri campi ebbero la stessa sorte. I ministeri competenti, quelli delle risorse minerarie, dell'industria meccanica, del legname o della costruzione di strade, incamerarono gran parte di quel che era stato il complesso industriale dei campi.15 La manodopera coatta non avrebbe mai più costituito una considerevole fonte di ricchezza per l'URSS.

Tuttavia, al tempo stesso, il sistema giudiziario non subì alcuna riforma. I giudici erano altrettanto politicizzati, altrettanto prevenuti, altrettanto ingiusti. Anche il sistema carcerario rimase in pratica intatto. Gli stessi secondini continuarono ad applicare gli stessi regimi nelle stesse celle, mai ridipinte, mai ristrutturate. Quando, con il tempo, il sistema carcerario cominciò di nuovo a espandersi, anche i programmi di riabilitazione e di rieducazione, che avevano suscitato tanta preoccupazione e interesse, rimasero aleatori e fittizi come in passato.

Anche la stupefacente, velenosissima polemica scoppiata fra Du-dorov, il capo dell'MVD, e Serov, capo del KGB, prefigurava a sua volta altre polemiche più ampie che sarebbero seguite. Adeguandosi a quello che credevano fosse il proposito di Hruscev, gli innovatori volevano affrettarsi a modificare quasi tutti gli ambiti della vita sovietica. Nello stesso tempo, i difensori del vecchio regime volevano bloccare, invertire o attenuare queste modifiche, in particolare quando andavano a incidere sul modo di guadagnarsi la vita di gruppi di persone dotate di grande influenza. Lo scontro produsse effetti prevedibili: non solo non potè modificare le celle delle prigioni, ma an-

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che le riforme a metà e i nuovi privilegi concessi furono ben presto revocati, e i dibattiti pubblici immediatamente troncati. In effetti, l'epoca che sarebbe stata chiamata "disgelo" fu davvero un periodo di cambiamenti, ma di un genere particolare: le riforme facevano due passi avanti, e poi un passo, o qualche volta tre, indietro.

Che avvenisse nel 1926 o nel 1956, la liberazione aveva sempre suscitato nei prigionieri uno stato d'animo ambivalente. Gennadij Andreev-Homjakov, rilasciato negli anni Trenta, rimase sorpreso dalle sue stesse reazioni emotive:

Immaginavo che sarei uscito a passo di danza anziché camminando, e che quando finalmente avessi riavuto la mia libertà ne sarei rimasto inebriato. Ma quando davvero mi rilasciarono, non ebbi affatto questo genere di sensazioni. Superai i cancelli, mi lasciai alle spalle l'ultima sentinella, senza provare nessuna felicità, neppure il minimo sollievo ... Là, lungo la banchina inondata di sole, correvano due ragazzine in abiti estivi, e chissà perché ridevano allegre. Io le guardavo sbalordito. Come potevano ridere? Come poteva, tutta quella gente, andare in giro chiacchierando e ridendo come se al mondo non accadesse nulla di insolito, come se in mezzo a loro non fosse presente un incubo impossibile da dimenticare?...16

Dopo la morte di Stalin e il rapporto di Hruscev, i prigionieri tornarono in libertà sempre più in fretta, e le reazioni diventarono an-cor più confuse. I detenuti che si aspettavano di dover passare ancora dieci anni dietro il filo spinato venivano liberati da un giorno all'altro. Nel corso della giornata lavorativa, alcuni confinati furono convocati all'ufficio della miniera: si sentirono dire che potevano tornarsene a casa. Uno di essi ricorda come lo speckomendant, tenente Isaev, avesse "aperto una cassaforte, estratto i nostri documenti e [li avesse] distribuiti a tutti noi...".17 Detenuti che avevano presentato petizioni su petizioni, per chiedere il riesame del processo, si accorgevano d'un tratto che non servivano altre lettere: potevano semplicemente andarsene.

Altri detenuti, che avevano sempre avuto il pensiero fisso della libertà, si trovarono stranamente riluttanti a viverla: "Non riuscii a credere a me stessa: mentre mi avviavo verso la libertà, piangevo.... Eppure avevo la sensazione di aver strappato il cuore dalle cose più care e amate, dai compagni di sventura. Chiuso il portone, fu tutto finito".18

Molti, semplicemente, non erano preparati. A Kotlas, nel 1954, Jurij Zorin salì su un treno affollatissimo di detenuti diretto a sud, ma non riuscì a proseguire oltre la seconda fermata. "Che cosa vado a fare a

Gulag

Mosca?" si chiese: e tornò indietro nel suo vecchio campo, dove l'ex comandante lo aiutò a trovare lavoro come operaio libero. Vi rimase altri sedici anni.19 Evgenija Ginzburg conosceva una donna che addirittura non voleva lasciare l'alloggio nel campo: "II fatto è che io ... Io non posso vivere in libertà. Io... Io avrei voluto rimanere nel lager!" diceva agli amici.20 Un altro prigioniero scrisse nel diario: "In realtà non voglio essere libero. Che cosa mi attira nella libertà? Mi sembra che là fuori ci siano menzogne, ipocrisia, avventatezza. Là fuori è tutto irreale e fantastico, mentre qui è tutto vero".21 Siccome molti diffidavano di Hruscev e si aspettavano che le cose volgessero di nuovo al peggio, accettarono impieghi provvisori da lavoratori liberi a Vorkuta o a Noril'sk. Preferivano non dover affrontare le emozioni e lo strapazzo del ritorno, visto che erano destinati a essere riarrestati.

Perfino quelli che volevano tornare a casa, molto spesso non ci riuscivano comunque. Non avevano denaro e disponevano di scarsissi-me provviste alimentari. Venivano liberati dai campi con una razione pari a mezzo chilo di pane per ogni giorno presunto di viaggio, una razione da fame.22 Inoltre era insufficiente anche perché quasi sempre il viaggio durava più a lungo del previsto, dato che risultava praticamente impossibile procurarsi i biglietti per i rari aerei e treni diretti a sud. Arjadna Efron giunse alla stazione di Krasnojarsk e trovò "una folla tale che partire era impossibile, proprio impossibile. C'era gente uscita da tutti i campi, da tutta Noril'sk". Alla fine riuscì ad avere un biglietto per puro miracolo, grazie a un "angelo", una donna che per caso ne aveva due. Altrimenti, forse sarebbe stata costretta ad aspettare per mesi.23

Di fronte a un treno altrettanto sovraffollato, Galina Usakova, come molti altri, trovò la soluzione di viaggiare seduta sul ripiano dei bagagli.24 Altri ancora non riuscirono affatto a partire: non di rado accadeva che gli ex detenuti morissero durante il difficile tragitto, oppure dopo poche settimane o pochi mesi dall'arrivo. Indeboliti da anni di dura fatica, spossati dal viaggio, erano sopraffatti dalle emozioni legate al ritorno a casa, e venivano colpiti da infarti e ictus. Uno di essi si stupiva: "In quanti sono morti a causa di questa libertà!".25

Alcuni si ritrovarono in prigione. Lo stesso MVD pubblicò una relazione che rivelava come i detenuti liberati, usciti dai campi di Vorkuta, Pecora e Inta, non fossero in grado di comprare abiti, scarpe o coperte, perché "le città oltre il Circolo polare non hanno mercati". Per disperazione, alcuni commisero reati minori per farsi riarrestare. In prigione, almeno la razione di pane era garantita.26 E non era nemmeno sempre vero che i responsabili dei campi si preoccu-

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passero per questa situazione: alle prese con una crisi di manodope-ra, l'amministrazione di Vorkuta tendeva a disobbedire agli ordini superiori e addirittura cercò di impedire che determinate categorie di internati lasciassero le miniere.27

Quando poi riuscivano a far ritorno a Mosca, a Leningrado, o nel villaggio da cui provenivano, gli ex detenuti scoprivano spesso di non avere una vita più facile. Insomma, il rilascio non bastava per riprendere un'esistenza "normale". Privi dei documenti che attestassero la riabilitazione vera e propria, cioè che annullassero la condanna pronunciata in origine, gli ex prigionieri politici restavano comunque persone sospette.

Ancora pochi anni prima, è vero, avrebbero ricevuto il temuto passaporto "da lupi", che vietava agli ex condannati per reati politici di risiedere nelle principali città dell'Unione Sovietica o anche nei loro dintorni. Altri ancora sarebbero stati mandati senz'altro al confino. Ormai i passaporti "da lupi" erano stati aboliti, ma risultava comunque difficile trovare un alloggio, un lavoro o, a Mosca, ottenere il permesso di risiedere nella capitale. Al ritorno, gli ex internati scoprivano che la loro casa era stata da tempo requisita, i loro beni dissipati. Molti parenti, considerati "nemici" per contiguità, erano morti o ridotti in miseria: ancora per molto tempo dopo il rilascio, le famiglie dei "nemici del popolo" continuavano a portare lo stigma della discriminazione da parte delle autorità e non potevano essere impiegate in determinate occupazioni. Le amministrazioni locali continuavano a considerare sospetti gli ex detenuti. Thomas Sgovio impiegò un anno a "presentare istanze e arrabattarsi" prima di ottenere la residenza legale nell'appartamento della madre.281 più anziani scoprirono che era impossibile farsi assegnare una pensione adeguata.29

Trovandosi alle prese con questi problemi, e anche perché feriti nel loro senso della giustizia, molti tentarono di ottenere la piena riabilitazione, ma anche questo non era un processo semplice né immediato. Molti addirittura non ne avevano neppure la possibilità. Per esempio, l'MVD rifiutava categoricamente di sottoporre a revisione i processi di chi era stato condannato prima del 1935.30 Anche quelli che nel campo avevano ricevuto un supplemento di condanna, per insubordinazione, dissidenza o furto, non ottenevano mai il sospirato documento di riabilitazione.311 processi contro i bolscevi-chi più eminenti - Buharin, Kamenev, Zinov'ev - rimanevano un tabù, e tutti coloro che erano stati condannati nelle stesse inchieste riguardanti quei personaggi non ottennero la riabilitazione se non negli anni Ottanta.

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Chi poteva tentare di intraprendere la strada della riabilitazione scopriva che si trattava di un processo lunghissimo. La richiesta doveva essere presentata dai detenuti stessi o dai loro familiari, i quali spesso dovevano scrivere due, tre lettere, o anche molte di più, prima che fosse accolta. Anche dopo essere stati riabilitati, spesso accadeva che il macchinoso processo si invertisse: Anton Antonov-Ov-seenko ottenne un certificato postumo di riabilitazione per il padre, che però nel 1963 fu revocato.32 Molti ex detenuti continuarono, per prudenza, ad astenersi dal fare domanda. Coloro che venivano convocati a una seduta della commissione per la riabilitazione, tenuta di solito nella sede dell'MVD o del ministero della Giustizia, spesso si presentavano infagottati in vari strati di abiti, carichi di pacchi di vettovaglie e seguiti da parenti in lacrime: erano sicuri che li avrebbero rispediti nel Gulag.33

Nelle alte sfere, molti temevano che il processo di riabilitazione fosse troppo rapido e si espandesse troppo. In seguito Hruscev scrisse: "Eravamo spaventati, proprio spaventati. Avevamo paura che il disgelo scatenasse un'alluvione in cui saremmo annegati perché non eravamo in grado di dominarla".34 Anatolij Spragovskij, un ex investigatore di alto grado nel KGB, ricorda che tra il 1955 e il 1960 aveva percorso in lungo e in largo la provincia di Tomsk, per interrogare i testimoni e visitare i luoghi in cui si sarebbero svolti i presunti fatti criminosi. Apprese, fra l'altro, che degli ex detenuti erano stati accusati di avere complottato per far saltare fabbriche o ponti mai esistiti. Ma quando lo stesso Spragovskij scrisse a Hruscev, suggerendogli di snellire il processo di riabilitazione per accelerarlo, ottenne un secco rifiuto: a quanto pareva, i funzionar! di Mosca non volevano che gli errori degli anni staliniani sembrassero troppo estesi o troppo assurdi, e neppure che le indagini sui vecchi processi andassero troppo in fretta. Anastas Mikojan, membro del Politbjuro ai tempi di Stalin che era riuscito a sopravvivere fino a Hruscev, spiegò a un certo punto perché era impossibile riabilitare troppo in fretta le persone: se gli accusati fossero stati tutti dichiarati subito innocenti, "si sarebbe visto che il paese non era governato da una struttura legale, ma da una banda di delinquenti".35

Anche il Partito comunista andava molto cauto nell'ammettere i propri errori. Furono riesaminate oltre 70.000 petizioni di ex membri, i quali chiedevano di essere reintegrati nel Partito, ma ne furono accettate meno della metà.36 Di conseguenza, la piena riabilitazione sociale, con il reintegro completo nell'impiego, nell'alloggio e nel diritto alla pensione, rimase un fenomeno rarissimo.

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Molto più frequente era un'esperienza maggiormente variegata, accompagnata da sentimenti ambivalenti, come quella vissuta per e-sempio da Ol'ga Adamova-Sliozberg, che nel 1954 fece domanda di riabilitazione per sé e per il marito. Attese due anni. Nel 1956, dopo il rapporto segreto di Hruscev, ottenne il certificato in cui si diceva che l'inchiesta su di lei era stata revisionata e archiviata per mancanza di circostanze probanti: "Ero stata arrestata il 27 aprile 1936. Vale a dire che per quello sbaglietto ho pagato con venti anni e quarantuno giorni della mia vita". In risarcimento, dichiarava il certificato, la Adamova-Sliozberg aveva diritto a due mesi di salario suo e del marito morto, oltre a 11 rubli e 50 copechi come rifusione del denaro di cui il marito era in possesso al momento della morte. Tutto qui.

Mentre la Adamova-Sliozberg si trovava nella sala d'attesa davanti a un ufficio della sede della Corte suprema, a Mosca, e cercava di digerire la notizia, si rese conto che qualcuno stava gridando. Era un'anziana donna ucraina, alla quale era stata appena consegnata una comunicazione di carattere analogo:

La vecchia ucraina prese il certificato e cacciò un grido terribile.

"Non ho bisogno dei soldi per il sangue di mio figlio. Teneteveli!", poi strappò il certificato e scagliò i pezzetti a terra.

"Cittadina, si calmi."

Ma la vecchia gridò ancora:

"Assassini!" sputò in faccia al militare e cadde giù svenuta.

Arrivarono di corsa un medico e due infermieri e la portarono via.

Tutti tacevano, turbati. Qua e là si udivano scoppi di pianto e singhiozzi.

Tornai nel mio appartamento, da dove ora i poliziotti non avrebbero potuto cacciarmi. In casa non c'era nessuno, e io finalmente potei piangere.

Piansi per mio marito, morto a trentasette anni nei sotterranei della Lu-bjanka, nel fiore delle forze fisiche e intellettuali. Piansi per i miei figli che erano cresciuti come degli orfani, con il marchio di figli di nemici del popolo, per i miei genitori morti di dolore, per Nikolaj, e per le sue sofferenze nei lager, piansi per gli amici, ormai sepolti nella terra gelata della Kolyma, che non erano riusciti a vedere la propria riabilitazione.37

Sebbene le storie ufficiali dell'Unione Sovietica spesso ignorino questo aspetto, veder tornare a casa dal Gulag e dal confino milioni di persone deve avere sbalordito i milioni di altri cittadini sovietici con cui i reduci si incontravano. Il rapporto segreto di Hruscev aveva provocato un trauma, ma si trattava di un avvenimento lontano, che riguardava la gerarchla di Partito. Invece, veder ricomparire qualcuno che da tempo si era creduto morto dava a quel rapporto un contenuto ben più concreto e personalmente diretto a un ventaglio ben più vasto di persone. L'epoca di Stalin era stata segnata dalle torture segrete

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e dalla violenza occulta. Tutt'a un tratto, ecco comparire i reduci dei campi, che fornivano la prova vivente di quanto era accaduto.

Erano anche pronti a fornire notizie, buone e cattive, di quelli che erano scomparsi. Nel corso degli anni Cinquanta divenne una con-suetudine che gli ex prigionieri andassero a far visita ai parenti dei compagni morti o vivi, per trasmettere messaggi che erano stati loro affidati o per riferire le ultime parole dei moribondi. MS. Rotfort tornò a Har'kov passando da Cita e da Irkutsk, per andare a trovare le famiglie degli amici.38 Gustaw Herling ebbe un imbarazzante incontro con la moglie di un compagno di prigionia, il generale Kru-glov: durante la visita la donna lo implorò di non dire alla figlia che il padre aveva ricevuto un supplemento di condanna, continuò a guardare l'orologio e lo pregò di andarsene al più presto.39

I prigionieri che tornavano portavano anche il terrore: in primo luogo per i capi, per i colleghi, per le persone che li avevano fatti incarcerare. Anna Andreevna ricorda come nell'estate del 1956 tutti i treni diretti a Mosca provenienti da Karaganda e Pot'ma fossero pieni di ex detenuti. "C'era un'atmosfera generale di gioia ma anche del suo contrario, perché i reduci incontravano quelli che li avevano fatti condannare o avevano fatto condannare altri. Era felicità e tragedia insieme, e poco dopo in tutta Mosca l'atmosfera sarebbe stata la stessa."40 Nel romanzo Divisione cancro Solzenicyn immagina la reazione di un pezzo grosso del Partito, malato di cancro, quando la moglie gli dice che un ex amico - un uomo da lui denunciato con il preciso intento di subentrargli nel possesso di un alloggio - sta per essere riabilitato:

appariva fiaccato, nella vita, nelle spalle, nelle braccia, mentre la testa era tutta distorta dal tumore.

"Perché me l'hai detto" si lamentò con voce dolente, debolissima. "Non soffro abbastanza? Non soffro forse abbastanza?" e per due volte ebbe un singulto, senza lacrime ...

"Che diritto hanno di rilasciarli ora? ... Perché ferire a questo modo la gente?"41

II senso di colpa poteva essere intollerabile. Dopo il rapporto segreto di Hruscev, Aleksandr Fadeev, devoto seguace di Stalin e burocrate letterario temutissimo, si abbandonò a un'orgia alcolica. Mentre era ubriaco, confessò a un amico che quando era capo dell'Unione degli scrittori aveva avallato l'arresto di molti colleghi di cui conosceva l'innocenza. Il giorno dopo si uccise. Sembra che avesse lasciato un biglietto di addio consistente in una sola frase, rivolta al comitato centrale: "La pallottola che ho sparato mirava alla politica di Stalin, all'estetica di Zdanov, alla genetica di Lysenko".42

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Altri impazzirono. Ol'ga Misakova, un'impiegata del Komsomol, I aveva denunciato Kosarev, il capo dell'organizzazione che riuniva i giovani comunisti. Dopo il 1956 Kosarev fu riabilitato e il comitato centrale del Komsomol espulse la Misakova. Nonostante questo, ancora per un anno la donna continuò ad andare in ufficio, per starsene tutto il giorno seduta nella stanza vuota che un tempo era la sua, addirittura osservando l'intervallo per il pranzo. Quando il Komsomol le confiscò la tessera di accesso, continuò lo stesso ad andarvi, trascorrendo quello che era il suo orario d'ufficio ferma sulla porta d'ingresso. Il marito fu trasferito a Rjazan', ma lei continuò ogni giorno a prendere il treno per Mosca alle quattro del mattino, per trascorrere la giornata davanti al suo antico ufficio, e tornare a casa la sera. Alla fine fu ricoverata in manicomio.43

Anche quando non arrivavano a provocare la follia o il suicidio, queste situazioni imbarazzanti, che dopo il 1956 affliggevano la vita sociale moscovita, potevano essere un vero tormento. "Due Russie si fronteggiano, occhi negli occhi" scrisse Anna Ahmatova. "Quelli che sono stati in prigione e quelli che ce li hanno mandati."44 Parecchi dirigenti del paese, Hruscev compreso, conoscevano di persona molti reduci. Secondo Antonov-Ovseenko, uno di questi "vecchi amici" si presentò appunto sulla porta di casa di Hruscev e lo convinse ad accelerare il processo di riabilitazione.45 Le situazioni peggiori nascevano quando gli ex detenuti incontravano i loro ex carcerieri o gli agenti che li avevano interrogati. Nel 1964, sulla rivista politica clandestina di Roj Medvedev uscì un memoriale firmato con uno pseudonimo in cui veniva descritto l'incontro fra un uomo e l'agente che aveva condotto il suo interrogatorio, e che ora gli chiedeva dei soldi per comprarsi da bere: "Gli detti tutto quel che mi era rimasto dal viaggio, e non era poco. Gli detti tutto perché se ne andasse al più presto. Avevo paura di non riuscire a trattenere il desiderio soverchiante di dare libero sfogo al rancore che mi ero tenuto dentro tanto tempo, contro di lui e contro quelli come lui".46

Un'ulteriore occasione di fortissimo imbarazzo potevano essere gli incontri con i propri amici di un tempo divenuti prosperi cittadini sovietici. Nel 1968, oltre dieci anni dopo l'uscita dalla prigionia, Lev Razgon si imbattè in un vecchio amico: "Mi accolse ... come se ci fossimo lasciati la sera prima. Certo, mi fece le condoglianze per la morte di Oksana, chiese notizie di Elena. Ma sempre con un atteggiamento spiccio, pratico... e tutto finì lì".47 In una poesia dal titolo A un poeta famoso, Jurij Dombrovskij esprime i sentimenti suscitati da un amico che troppo tardi gli aveva presentato le sue condoglianze:

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Neppure i nostri figli avevano pena per noi. Perfino le nostre mogli non ci volevano. Solo una sentinella ci sparava, prendendo con cura la mira sul nostro numero...

Tu non facevi che girare per trattorie distribuendo storielle fra un bicchiere e l'altro. Tu che capivi tutto e accoglievi tutti, ma non ti accorgevi che eravamo morti.

E allora spiegami, per favore, perché mentre rivedono l'ordine di combattimento e io sono riemerso da una tomba del nord vieni a trattarmi come se fossi un eroe?

Le donne ti baciavano le mani.

Era forse per il tuo coraggio? Per le torture subite?48

Lev Kopelev ha scritto che, dopo il suo ritorno, non riusciva più a sopportare la compagnia delle persone di successo, preferiva frequentare i perdenti.49

Per gli ex detenuti, un altro motivo di tormento era trovare il modo giusto di parlare dei campi con gli amici e i familiari, e anche stabilire quanto dovessero parlarne. Molti cercavano di nascondere la verità ai figli, per proteggerli. Korolev, progettista di missili, raccontò alla figlia di essere stato in carcere solo quando essa aveva ormai quasi vent'anni e doveva riempire un questionario in cui si chiedeva se qualche parente fosse mai stato arrestato.50 Al momento del rilascio dai campi, molti detenuti furono costretti a firmare documenti che vietavano loro di parlare dell'esperienza che avevano vissuto. Alcuni ne furono così atterriti da ammutolire del tutto sull'argomento, ma altri non si lasciarono intimorire. Quando fu liberata, Susanna Pecora non solo si rifiutò di firmare qualunque documento, ma, per usare le sue parole, "non smise più di parlarne".51

Altri si accorsero che non si trattava tanto di mancanza di interesse, quanto piuttosto del fatto che amici e parenti non volevano conoscere troppi particolari su dove erano stati i reduci o che cosa era loro avvenuto. Avevano troppa paura: non solo dell'onnipresente polizia segreta, ma proprio di quel che avrebbero potuto apprendere sul conto delle persone amate. Nella sua trilogia Le generazioni dell'inverno il romanziere Vasilij Aksenov, figlio di Evgenija Ginzburg, ha descritto una scena tragica ma orribilmente verosimile, in cui un uomo rivede la moglie dopo che entrambi hanno trascorso molti anni nei campi di concentramento. Il marito si accorge subito che lei ha un aspetto troppo florido: "Prima di tutto spiegami come hai fatto a

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non diventare brutta... non sei neanche dimagrita!" dice, conoscendo fin troppo bene gli espedienti con cui le donne riuscivano a sopravvivere nel Gulag. Quella sera, i due coniugi si coricano nello stesso letto, ma ben lontani e incapaci di parlarsi: "La malinconia e il dolore li avevano ridotti in cenere".52

Anche lo scrittore e cantautore Bulat Okudzava ha scritto un racconto in cui descrive l'incontro di un uomo con la madre che ha passato dieci anni nei campi. Il protagonista pregustava il ritorno della madre come un momento festoso, pensava che sarebbe andato a prenderla alla stazione e, dopo le lacrime di gioia dell'incontro, l'avrebbe portata a casa a pranzo, le avrebbe raccontato la sua vita, forse addirittura sarebbe andato al cinema con lei. Invece si trova di fronte una donna con gli occhi asciutti e il volto impassibile: "Mi guardava ma non mi vedeva, aveva il viso indurito, ghiacciato". Il figlio si aspettava di trovare una donna affranta nel fisico, ma era del tutto impreparato a una menomazione emotiva: la stessa esperienza deve essere stata vissuta da milioni di persone.53

Spesso nella vita reale si verificavano episodi altrettanto mesti. Nadezda Kapralova ha descritto l'incontro con la madre dopo tredici anni dalla loro separazione, avvenuta quando aveva solo otto anni: "Eravamo madre e figlia, legate dal rapporto di parentela più stretto che ci sia, eppure ci sentivamo due estranee, parlavamo di cose futili, per lo più piangevamo senza dire nulla".54 Un altro detenuto, Evgenij Gagen, rivide la moglie dopo quattordici anni, ma si accorse che non avevano più nulla in comune: lui provava la sensazione di essere "cresciuto", mentre gli pareva che in tutti quegli anni lei non fosse cambiata affatto.55 Nel 1948, quando potè tornare insieme al figlio, Ol'ga Adamova-Sliozberg dovette muoversi con cautela: "Avevo paura di raccontargli quel che avevo imparato stando "dall'altra parte". Senza dubbio avrei potuto persuaderlo che il nostro paese aveva gravi difetti, che Stalin, il suo idolo, in realtà era ben lontano dalla perfezione, ma mio figlio aveva soltanto diciassette anni. Avevo paura di parlargli con troppa franchezza".56

Non tutti, peraltro, si sentivano a disagio nella società sovietica. Può sembrare sorprendente, ma molti reduci erano ansiosi di rientrare nel Partito comunista, e non per semplice desiderio di riottenere i privilegi e la posizione sociale del passato, ma proprio per sentirsi di nuovo membri a pieno titolo del progetto comunista, se così si può dire. La storica Nanci Adler cerca di spiegare i sentimenti di un reduce reintegrato nel Partito ricordando che "l'adesione a un sistema di fede può avere radici profonde e non razionali":

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L'elemento più importante che mi ha permesso di sopravvivere in una situazione così dura è stata la fede indefettibile, inestirpabile nel nostro Partito leninista, nei suoi princìpi di umanesimo. È stato il Partito a darmi la forza fisica di resistere ai loro processi... Il reintegro nelle file del Partito comunista, da dove ero venuta, è stata la più grande felicità di tutta la mia vita.57

La storica Catherine Merridale fa ancora un passo avanti, arrivando a sostenere che il Partito e l'ideologia collettivista dell'Unione Sovietica, in realtà aiutarono le persone a guarire dai traumi subiti: "Sembra davvero che i russi siano riusciti a convivere con le loro storie personali di lutti inenarrabili lavorando, cantando, agitando le bandiere rosse. Oggi alcuni ne ridono, ma quasi tutti provano nostalgia per uno spirito collettivo e un intento comune che sono andati perduti. In certa misura, il totalitarismo funzionava".58

Pur avendo l'oscura percezione che si trattava di una lotta falsa, e pur sapendo che il loro paese non era così glorioso come proclamavano i dirigenti, che intere città sovietiche erano state costruite sulle ossa di persone condannate senza colpa ai lavori forzati, alcune vittime dei campi di lavoro si sentirono pur sempre meglio quando non furono più escluse, ma tornarono a partecipare allo sforzo collettivo.

In ogni modo, la forrlssima tensione fra quanti erano stati "là" e quelli rimasti a casa non poteva rimanere per sempre confinata alle camere da letto e tenuta sotto chiave. I responsabili dell'accaduto erano ancora vivi. Finalmente, al XXII congresso, nell'ottobre 1961, Hruscev, che cercava di conquistarsi un ruolo influente nel Partito, cominciò a fare i loro nomi: proclamò che Molotov, Kaganovic, Vorosilov e Malenkov si erano tutti resi "colpevoli di repressioni di massa illegali contro molti funzionari del Partito, dei soviet, delle forze armate e del Komsomol, ed erano in prima persona responsabili dell'eliminazione fisica di queste persone". Ancor più minacciosa l'allusione ai "documenti in nostro possesso" che avrebbero comprovato tali colpe.59

Alla fine, però, durante la battaglia che lo contrappose agli stalinisti, contrari alle sue riforme, Hruscev non pubblicò nessun documento del genere. Forse, in realtà, non aveva abbastanza potere per farlo, o forse la documentazione avrebbe messo in luce anche il ruolo che lui stesso aveva avuto nelle repressioni staliniane. Hruscev adottò invece una tattica nuova: allargò ancora la discussione sullo stalinismo, estendendola oltre il dibattito interno al Partito, fino a farla arrivare al mondo letterario. È probabile che nutrisse scarso interesse per i poeti e gli scrittori sovietici in quanto tali, ma fin dai primi anni Sessanta aveva capito che potevano essergli utili nell'a-

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scesa al potere. A poco a poco, nelle pubblicazioni ufficiali cominciarono a riaffacciarsi nomi che non si erano più visti, ma senza alcuna spiegazione sul perché fossero spariti e come mai si permettesse loro di tornare. Nei romanzi pubblicati cominciarono ad apparire personaggi fino ad allora inammissibili nella letteratura sovietica: i burocrati avidi, i reduci dai campi di lavoro.60

Hruscev capiva che simili pubblicazioni potevano servirgli come campagna propagandistica: gli scrittori e i poeti avrebbero potuto screditare i suoi nemici marchiandoli come responsabili dei delitti del passato. Sembra comunque che quando decise di lasciar pubblicare Una giornata di Ivan Denisovic di Aleksandr Solzenicyn, il più famoso dei romanzi sul Gulag, Hruscev avesse appunto ragionato in questo modo.

Aleksandr Solzenicyn meriterebbe sempre un posto speciale in una storia del sistema dei campi di lavoro sovietici, sia per la sua importanza nella letteratura sia per il ruolo da lui avuto nel rendere pubblica in Occidente l'esistenza del Gulag. Ma vale anche la pena di descrivere la sua breve carriera come autore sovietico "ufficiale", celebre e ampiamente pubblicato, perché segna un momento di passaggio importantissimo. Nel 1962, quando Ivan Denisovic fu pubblicato per la prima volta, il periodo del disgelo era al culmine: i detenuti per reati politici erano pochi, il Gulag sembrava una cosa del passato. Nell'estate del 1965, quando una rivista del Partito definì il romanzo "un'opera senza dubbio discutibile, sia sul piano ideologico sia sul piano artistico", Hruscev era già stato messo da parte, era cominciato il riflusso, e le cifre dei detenuti politici crescevano con rapidità minacciosa. Nel 1974, quando era già iniziata la pubblicazione in traduzione inglese dell' Arcipeìago Gulag - la monumentale storia in tre volumi del sistema dei campi - Solzenicyn venne espulso dall'URSS e fu privato della possibilità di far uscire i propri libri in patria. L'istituzione dei campi di prigionia sovietici era stata solidamente restaurata e il movimento dei dissidenti interni si trovava al culmine.61

La carriera di detenuto di Solzenicyn era cominciata nella maniera tipica degli zek della sua generazione. Nel 1941 era entrato alla scuola ufficiali e aveva combattuto sul fronte occidentale per tutto l'autunno e l'inverno del 1943; nel 1945, in una lettera a un amico, aveva espresso una critica a Stalin in termini appena dissimulati, e poco dopo era stato arrestato. Il giovane ufficiale, che fino ad allora aveva creduto abbastanza nella dottrina comunista, rimase sbalordito dal trattamento brutale e rozzo che gli fu riservato. In seguito lo

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avrebbe ancor più scandalizzato che i soldati dell'Armata rossa caduti prigionieri dei tedeschi fossero trattati con grande durezza: secondo lui, al loro ritorno quegli uomini avrebbero dovuto essere accolti come eroi.

Il resto della sua carriera nei campi fu forse un po' meno caratteri-stico, ma solo perché - grazie a una preparazione universitaria in matematica e fisica - Solzenicyn scontò una parte della pena in una saraska, esperienza poi raccontata nel romanzo II primo cerchio. A parte ciò, si può dire che Solzenicyn trascorse il suo periodo di reclusione in una serie di lagpunkt di tipo comunissimo, fra i quali uno a Mosca, e uno in un complesso di campi speciali, a Karaganda. Fu pure un prigioniero come tantissimi altri: cercò di ingraziarsi i dirigenti, prima di arrivare aU'illuminazione fece anche l'informatore e finì a lavorare come muratore. Questa fu la professione che in seguito avrebbe attribuito a Ivan Denisovic, l'"Ognuno" protagonista del suo primo romanzo. Una volta liberato, andò a insegnare in una scuola di Rjazan' e cominciò a scrivere le sue memorie. Anche questo non era un evento raro: le molte centinaia di memoriali del Gulag pubblicati dagli anni Ottanta in poi sono una cospicua testimonianza dell'eloquenza e del talento degli ex detenuti sovietici, molti dei quali avevano scritto per anni di nascosto. Quel che ha reso davvero unico Solzenicyn, in definitiva, è il semplice fatto che la sua opera sia stata data alle stampe in Unione Sovietica mentre Hruscev era ancora al potere.

Sulla pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovic sono sorte così tante leggende da far scrivere a Michael Scammell, il biografo dello scrittore: "Con il passare del tempo il racconto è stato infiorato di tanti e tali abbellimenti che a volte è difficile discernere la realtà dall'invenzione". Il libro giunse alla fama letteraria molto lentamente: prima di diventare famoso, il manoscritto era capitato nelle mani di Lev Kopelev, personaggio del mondo letterario moscovita e compagno di prigionia di Solzenicyn, e di una redattrice di "Novyj mir". Emozionata dalla lettura, la donna passò il testo ad Aleksandr Tvar-dovskij, il direttore della rivista.

Secondo la storia accreditata, Tvardovskij iniziò a leggerlo mentre era a letto. Ma dopo poche pagine rimase così colpito che dovette alzarsi, vestirsi e proseguire la lettura seduto ben diritto. Per finirlo impiegò tutta la notte, e all'alba si precipitò in ufficio, gridò alle dattilografe di farne altre copie per poter distribuire il libro ai suoi amici, e nel frattempo non faceva che esultare per la nascita di un nuovo genio della letteratura. Non si sa se le cose siano andate proprio così, ma è certo che così le ha raccontate lo stesso Tvardovskij. In seguito Solzenicyn

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gli scrisse per dirgli quanto fosse stato felice nell'apprendere che Tvardovskij avesse ritenuto che per Una giornata di Ivan Denisovic "valeva la pena di passare una notte in bianco".62

In sé il romanzo aveva una struttura piuttosto semplice: descriveva una giornata nella vita di un qualsiasi detenuto. In effetti, per un lettore di oggi, anche in Russia, può essere difficile capire come mai Una giornata di Ivan Denisovic avesse messo tanto a rumore il mondo letterario sovietico. Ma per chi lo leggeva nel 1962 era una rivelazione. Invece di tenersi nel vago, parlando di "reduci" e di "repressioni" come all'epoca facevano altri autori, il romanzo descriveva la vita vera e propria dei campi, un argomento mai affrontato in pubblico prima di allora.

Nello stesso tempo, Solzenicyn usava uno stile - in particolare, per l'uso del gergo del campo - e aveva un modo di descrivere gli aspetti tetri e sgradevoli della vita carceraria che erano in netto contrasto con la narrativa allora predominante, insulsa e artificiosa. Il credo letterario ufficiale dell'Unione Sovietica era allora il "realismo socialista", che non aveva nulla a che vedere con il realismo, ma era piuttosto la versione letteraria della dottrina politica di Stalin. La letteratura carceraria, per quanto potesse esistere, non era cambiata dai tempi di Gor'kij. Se in un romanzo sovietico compariva un ladro, tornava sulla retta via grazie alla conversione alla vera fede sovietica. Il protagonista poteva anche soffrire, ma alla fine il Partito lo riportava in carreggiata. L'eroina poteva versare qualche lacrima, ma quando imparava il valore del Lavoro riusciva a trovare il suo posto nella società.

Invece Una giornata di Ivan Denisovic era davvero un romanzo realista: privo di ottimismo e senza una morale conclusiva. I suoi protagonisti pativano sofferenze prive di qualsiasi senso. Facevano un lavoro che li consumava e li spossava, e cercavano di scansarlo. Alla fine non c'era il trionfo del Partito, e il comunismo non risultava vittorioso. Era proprio questa onestà, così rara per un autore sovietico, ciò che Tvardovskij ammirava: disse a Kopelev, l'amico di Solzenicyn, che quella storia "non [aveva] in sé neppure un briciolo di falsità". E proprio questo avrebbe sconvolto un gran numero di lettori, soprattutto i più inseriti nel sistema sovietico. Anche uno dei redattori di "Novyj mir" rimase turbato dalla franchezza di quella storia. Nella sua scheda di lettura scrisse che il romanzo mostrava "la vita in una prospettiva troppo unilaterale, involontariamente svisando e sconvolgendo le proporzioni". Per il lettore abituato alle conclusioni semplicistiche, il finale del romanzo appariva aperto e amorale al punto da far inorridire.

Tvardovskij voleva pubblicarlo, ma sapeva che se si fosse limitato

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a far comporre il testo e mandarlo ai censori, questi lo avrebbero subito vietato. Invece pensò di offrire Una giornata di Ivan Denisovic a Hruscev, per dargli la possibilità di usarlo come un'arma contro gli avversari. Secondo Michael Scammell, Tvardovskij scrisse una prefazione che individuava l'utilità della storia proprio in questi termini, e poi cominciò a distribuire le copie del romanzo fra persone che sperava potessero farlo arrivare allo stesso Hruscev.63

Dopo molti andirivieni, molte discussioni, e qualche ritocco al manoscritto - Solzenicyn fu convinto ad aggiungere almeno un "eroe positivo" e a inserire nel testo un'espressione di nominale condanna per il nazionalismo ucraino - il romanzo riuscì finalmente ad arrivare a Hruscev, che lo approvò, arrivando addirittura a elogiarlo perché era stato scritto "secondo lo spirito del XXII congresso del Partito": con ciò si può presumere intendesse dire che avrebbe irritato i suoi nemici. Finalmente, il romanzo fu pubblicato su "Novyj mir" nel novembre 1962. "L'uccello è libero! L'uccello è libero!" si dice che abbia gridato Tvardovskij quando ebbe fra le mani le prime bozze di stampa della rivista.

In un primo tempo gli elogi della critica si sprecarono, anche per un motivo tutt'altro che trascurabile: il racconto corrispondeva alla linea ufficiale del momento. Il critico letterario della "Pravda" e-spresse la speranza che da allora in poi la "battaglia contro il culto della personalità ... continuasse a rendere possibile la nascita di opere d'arte illustri e di valore artistico sempre maggiore". Il critico letterario di "Izvestija" affermò che Solzenicyn si era "dimostrato un autentico aiuto per il Partito in una causa sacra e di vitale importanza: la lotta contro il culto della personalità e le sue conseguenze".64

I lettori comuni, però, reagirono in modo ben diverso, come si vide dalla valanga di lettere inviate all'autore nei mesi che seguirono l'uscita del romanzo su "Novyj mir". Gli ex internati che gli scrivevano da ogni parte dell'URSS non erano affatto colpiti dalle forti affinità della vicenda con la nuova linea del Partito; erano invece esultanti perché finalmente leggevano un testo in cui si rispecchiavano i loro veri sentimenti e la loro esperienza vissuta. Persone che neppure agli amici più cari osavano dire una sola parola su quanto avevano passato provavano un improvviso senso di liberazione. Una donna descriveva così le proprie reazioni: "Avevo il viso inondato di lacrime e non le asciugavo perché tutto questo, racchiuso in quelle poche pagine della rivista, era cosa mia, intimamente mia, e lo era stato per ogni giorno dei quindici anni che avevo passato nei campi".

Un altro lettore si rivolgeva a Solzenicyn chiamandolo "caro ami-

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co, compagno e fratello" e proseguiva: "Leggendo il suo racconto mi sono ricordato di Sivaja Maska e di Vorkuta ... le gelate e le tormente, gli insulti e le umiliazioni... Leggendo, piangevo: erano tutti personaggi familiari, come quelli della mia brigata ... Ancora grazie! Per favore, continui con lo stesso spirito: scriva, scriva...".65

Coloro che erano ancora detenuti ebbero le reazioni più forti. Leo-nid Sitko, che scontava allora la sua seconda condanna, sentì parlare della pubblicazione nel remoto Dubravlag dove si trovava. Quando nella biblioteca del campo arrivò la copia di "Novyj mir", i comandanti la tennero per sé per due mesi interi. Finalmente, anche gli zek riuscirono a ottenere una copia della rivista e organizzarono una lettura di gruppo. Sitko ricorda come i detenuti ascoltavano "trattenendo il fiato":

Arrivati all'ultima parola, ci fu un silenzio di morte. Poi, dopo due o tre minuti, la stanza esplose. Ciascuno aveva vissuto la stessa vicenda a suo modo, con i suoi dolori ... in una nuvola di fumo di tabacco, i detenuti parlavano e parlavano del romanzo...

E spesso, sempre più spesso, domandavano: "Perché l'hanno pubblicato?".66

Già, perché? A quanto pare, gli stessi dirigenti del Partito cominciavano a chiederselo. Forse l'onesto ritratto della vita in prigionia tracciato da Solzenicyn per loro era troppo: una novità troppo radicale, comparsa in modo troppo subitaneo per la mentalità di quanti ancora temevano che la loro testa potesse essere la prossima a cadere. Oppure, forse erano già stanchi di Hruscev, avevano paura che si fosse spinto troppo avanti, e il romanzo di Solzenicyn serviva loro da scusa. In effetti poco dopo, nell'ottobre 1964, Hruscev fu deposto e sostituito da Leonid Breznev, il capo della corrente reazionaria, neostalinista, del Partito, contraria ai cambiamenti e al disgelo.

Comunque sia, è evidente che dopo la pubblicazione del romanzo i conservatori si riorganizzarono, e con stupefacente velocità. Una giornata di Ivan Denisovic era uscito in novembre; in dicembre, pochi giorni dopo che Hruscev aveva incontrato Solzenicyn e si era congratulato con lui di persona, Leonid Il'icev, presidente della nuova commissione ideologica del comitato centrale, tenne una conferenza a un gruppo di quattrocento scrittori e artisti riuniti nella sede dell'Unione degli scrittori. La società sovietica, disse l'oratore, non doveva essere "scossa e indebolita con il pretesto di lottare contro il culto della personalità...".67

Il fulmineo voltafaccia rispecchiava l'ambivalenza con cui l'Unione Sovietica guardava alla propria storia, un'ambivalenza tuttora ir-

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risolta. Se l'elite sovietica avesse accettato come autentico il ritratto di Ivan Denisovic, avrebbe dovuto altresì riconoscere che a degli innocenti erano state inflitte sofferenze insensate. Se davvero i campi erano stati un'iniziativa stupida, un tragico spreco, voleva dire che anche l'Unione Sovietica era una sciocchezza, uno spreco, una tragedia. Era difficile, e difficile sarebbe rimasto per qualunque cittadino sovietico, appartenente all'elite o semplice agricoltore, accettare l'idea che la propria vita era stata dominata da un cumulo di menzogne.

Dopo una fase di oscillazione - qualche opinione a favore, qualche opinione contraria - Solzenicyn cominciò a diventare il bersaglio di attacchi sempre più frequenti. Nei primi capitoli ho parlato delle reazioni irritate, sia dei detenuti sia delle guardie, di fronte agli sforzi compiuti da Ivan Denisovic per cercare di evitare la fatica. Ma vi furono anche critiche di carattere più elevato. Lidija Fomenko, critico di "Literaturnaja Rossija", accusò Solzenicyn di non essere riuscito a "rivelare per intero la dialettica di quel periodo". In altre parole, lo scrittore aveva condannato il "culto della personalità", ma non aveva saputo indicare il cammino verso l'ottimistico futuro, e non aveva rappresentato i personaggi dei "buoni" comunisti destinati alla fine a trionfare. Altri ripresero lo stesso genere di critica, e alcuni cercarono addirittura di correggere in forma letteraria gli errori commessi da Solzenicyn. Nel 1964 fu pubblicato un romanzo ambientato nei campi, ma "fedele alla linea": Una storia di sopravvivenza di Boris D'jakov, in cui si trovavano esplicite descrizioni di detenuti leali al potere sovietico e alacremente dediti al lavoro.68

Mentre la commissione del premio Lenin, il massimo riconoscimento letterario dell'Unione Sovietica, prendeva in esame la possibilità di conferirlo al romanzo di Solzenicyn, gli insulti si levavano sempre più forti. Alla fine, con una tattica che in seguito sarebbe stata usata spesso, il sistema ricorse alle ingiurie personali. Durante l'assemblea della commissione del premio Lenin, Sergej Pavlov, il capo del Komsomol, prese la parola accusando lo scrittore di essersi arreso ai tedeschi durante la guerra e, in seguito, di essere stato condannato per reati penali. Tvardovskij riuscì a ottenere che Solzenicyn presentasse il suo certificato di riabilitazione, ma era troppo tardi. Il premio Lenin fu assegnato a // sonaglio della pecora, di cui la cosa migliore che si possa dire è che per fortuna nessuno lo ricorda, e così ebbe fine la carriera di Solzenicyn nell'ambito della letteratura ufficiale.

Solzenicyn continuò a scrivere, ma nessuna delle opere successive fu mai pubblicata in Unione Sovietica - non con una pubblicazione legale, almeno - prima del 1989. Nel 1974 lo scrittore fu espulso dal-

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l'URSS e, dopo qualche tempo, si stabilì nel Vermont. Prima dell'era Gorbacev, L'arcipelago Gulag - la storia del sistema dei campi scritta da Solzenicyn - era stato letto da un numero esiguo di cittadini sovietici: i pochissimi che potevano aver accesso alle copie dattiloscritte clandestinamente e con mezzi illegali, oppure a quelle contrabbandate dall'estero.

Tuttavia, Solzenicyn non fu la sola vittima del riflusso conservatore. Infatti, proprio mentre la polemica su Ivan Denisovicsi faceva sempre più aspra, un nuovo dramma si apriva nella letteratura sovietica: il 18 febbraio 1964 il giovane poeta losif Brodskij veniva processato per "parassitismo". Stava per cominciare l'era dei dissidenti.

XXVI L'ERA DEI DISSIDENTI

Non rallegrarti troppo presto

e lascia che qualche oracolo proclami

che le ferite non si riapriranno

che le folle malvagie non si risolleveranno.

E che io rischio di apparire ritardato;

lasciali profetare. Io so solo con certezza

che Stalin non è morto.

Come se solo i morti fossero importanti e quanti son scomparsi senza nome al Nord. Il male che ha instillato nei nostri cuori non li avrà davvero avvelenati? Finché povertà e ricchezza son divise finché non cessiamo di mentire e non disimpariamo la paura Stalin non è morto.

BORIS CICIBABIN, Stalin non è morto1

La morte di Stalin segnò davvero la fine dell'era del lavoro coatto di massa in Unione Sovietica. Anche se nei quarant'anni successivi la politica repressiva dell'URSS assunse forme molto drastiche, nessuno propose più di riorganizzare campi di concentramento su larga scala. Nessuno cercò più di farne una parte essenziale dell'economia o di utilizzarli per rinchiudervi milioni di persone. La polizia segreta non ebbe più sotto il proprio controllo un settore così rilevante delle risorse produttive del paese, e i comandanti dei campi non poterono più comportarsi come dirigenti di mastodontiche imprese industriali. Persino l'edificio della Lubjanka, divenuta nel dopoguerra quartier generale del KGB, cessò di essere una prigione: Gary Powers, il pilota americano di un U2 il cui aereo spia venne abbattuto in Unione Sovietica nel 1960, fu l'ultimo a essere incarcerato nelle sue celle.2

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Tuttavia, i campi non scomparvero del tutto. Le prigioni sovietiche non entrarono a far parte di un sistema penale "ordinario", organizzato soltanto per i criminali: sarebbe meglio dire che si evolsero.

Per cominciare, mutò la natura dei prigionieri politici. Nell'epoca di Stalin il sistema repressivo era simile a una grande roulette dove chiunque poteva essere arrestato per qualsiasi ragione e in qualsiasi momento: contadini, operai e burocrati del Partito allo stesso modo. Dopo Hruscev, di tanto in tanto la polizia sovietica arrestava ancora la gente "per niente", come ha detto una volta Anna Ahmatova. Ma il più delle volte il KGB di Breznev arrestava le persone per "qualche motivo", se non per veri e propri atti criminali almeno per la loro opposizione letteraria, religiosa o politica al sistema sovietico. Questi nuovi oppositori politici, chiamati di solito "dissidenti" o talvolta "prigionieri di coscienza", sapevano perché erano stati arrestati; si consideravano prigionieri politici ed erano trattati come tali. Venivano tenuti separati dai criminali comuni, avevano uniformi diverse ed erano soggetti a un altro regime. Inoltre portavano il marchio di dissidenti per il resto della loro vita, venivano sottoposti a discriminazioni sul lavoro e perdevano la fiducia di parenti e amici.

Tra l'altro, il numero dei dissidenti politici era assai inferiore a quello dell'era staliniana. Secondo le valutazioni di Amnesty International, alla metà degli anni Settanta in Unione Sovietica su oltre un milione di detenuti almeno 10.000 avevano condanne di carattere politico. Per la maggior parte erano rinchiusi nei due complessi di campi "politici", uno in Mordovia, a sud di Mosca, e uno a Perm', sul lato occidentale degli Urali.3 Con ogni probabilità gli arresti dichiaratamente politici effettuati in un anno non erano più di alcune migliaia. In qualsiasi altro paese si sarebbe trattato di una cifra elevata, ma in confronto agli standard dell'Unione Sovietica di Stalin era senz'altro bassa.

Secondo i racconti di ex prigionieri, questo nuovo tipo di detenuti cominciò a comparire nei campi a partire dal 1957, in conseguenza della Rivoluzione ungherese dell'ottobre 1956, a causa degli arresti di soldati e cittadini sovietici che avevano fraternizzato con gli insorti.4 Più o meno nella stessa epoca, nelle prigioni sovietiche comparvero i primi esigui gruppi di ref/uznik, gii ebrei cui veniva rifiutata l'autorizzazione a emigrare in Israele. Nel 1958 a Bym Gindler, un ebreo polacco che dopo la guerra era rimasto dalla parte sovietica della frontiera, fu rifiutata l'autorizzazione a rientrare in Polonia, perché avrebbe colto l'opportunità per emigrare in Israele.5

Alla fine degli anni Cinquanta, inoltre, vennero arrestati i primi

Gulag

gruppi di battisti sovietici, destinati a diventare presto il gruppo più numeroso di dissidenti rinchiusi dietro il filo spinato, e membri di altre sette religiose. Nel I960, in una cella di punizione del lager politico di Pot'ma, il dissidente Avraham Sifrin incontrò persino un gruppo di vecchi credenti, seguaci degli antichi riti della chiesa ortodossa. La loro comunità si era trasferita nelle foreste vergini degli Urali settentrionali nel 1919 e aveva vissuto lì in totale isolamento, finché un elicottero del KGB li aveva scoperti cinquantanni dopo. Quando Sifrin li conobbe, erano ormai ospiti in pianta stabile delle celle di punizione del campo, perché rifiutavano in modo categorico di lavorare per l'Anticristo sovietico.6

Lo stesso Sifrin apparteneva a una nuova categoria di prigionieri: figli e figlie di "nemici del popolo" che, alla fine degli anni Cinquanta, avevano scoperto di non riuscire a adeguarsi con facilità alle abitudini della vita sovietica. Negli anni successivi risultò che un numero impressionante di appartenenti a questa generazione di dissidenti, soprattutto gli attivisti del movimento per i diritti umani, erano figli o parenti delle vittime di Stalin. Uno degli esempi più famosi è quello dei gemelli Medvedev, Zores e Roj. Roj, lo storico, divenne uno dei più famosi pubblicisti clandestini dell'Unione Sovietica, mentre Zores era uno scienziato dissidente, che venne quindi rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Il padre era stato un "nemico del popolo", arrestato quando loro erano piccoli.7

Ma ce n'erano altri. Nel 1967, 43 figli di comunisti perseguitati da Stalin inviarono una lettera aperta al comitato centrale per segnalare il pericolo rappresentato dal neostalinismo. La missiva, una delle prime di molte lettere aperte di protesta indirizzate alle autorità, era sottoscritta da numerosi attivisti impegnati nella stampa clandestina e dirigenti del movimento dissidente, buona parte dei quali fu arrestata di lì a poco: Petr Jakir, figlio del generale Jakir; Anton Antonov-Ovseenko, figlio del rivoluzionario bolscevico; e Larisa Bogoraz, il cui padre era stato arrestato per attività trockista nel 1936. L'esperienza dei campi di un membro della famiglia, a quanto pare, bastava a far assumere posizioni radicali ai suoi parenti più giovani.8

A essere cambiati, però, non erano soltanto i prigionieri, ma anche alcuni aspetti del sistema giuridico. Nel 1960, l'anno di solito ricordato come il culmine del disgelo, entrò in vigore il nuovo codice penale, senz'altro più liberale. Proibiva in modo specifico gli interrogatori notturni e limitava i poteri del KGB (che si occupava delle indagini politiche) e dell'MVD (che dirigeva il sistema carcerario), conferiva maggiore autonomia ai procuratori e, soprattutto, aboliva l'odiato articolo 58°

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Alcune di queste modifiche vennero considerate, a ragione, di puro carattere formale, cambiamenti di natura linguistica, non effettiva. Alcuni anni dopo, in una lettera inviata clandestinamente dalla prigione a un amico, il romanziere Julij Daniel' scriveva: "Ti sbagli se hai pensato che fossi in prigione. Mi tenevano "in isolamento perché sotto indagine", e quindi non mi hanno rinchiuso in gattabuia, ma "confinato in cella di punizione". E non l'hanno fatto dei secondini, ma dei "controllori", e non ti scrivo questa lettera da un campo di concentramento, ma da "un'istituzione"".10

Daniel' aveva ragione anche da un altro punto di vista: se le autorità statali volevano arrestare qualcuno perché sospettavano che la pensasse in modo diverso, potevano ancora farlo. Al posto dell'articolo 58 il codice aveva creato l'articolo 70, che puniva le attività definibili come "agitazione e propaganda antisovietiche", e l'articolo 72, relativo al-l'"attività organizzativa volta a commettere crimini particolarmente pericolosi contro lo Stato nonché partecipazione a organizzazioni antisovietiche". Inoltre le autorità avevano aggiunto l'articolo 142, relativo alla "violazione delle leggi sulla separazione della Chiesa dallo Stato e della Chiesa dalla scuola". In altre parole, se il KGB voleva arrestare qualcuno per le sue convinzioni religiose poteva ancora farlo.11

Non si può però nemmeno dire che tutto fosse rimasto identico. Nel periodo poststaliniano le autorità, ma anche i procuratori, i prigionieri, le guardie dei campi e i secondini, erano assai più sensibili riguardo alle apparenze e cercavano davvero di conservare una parvenza di legalità. Quando, per esempio, la formulazione dell'articolo 70 si dimostrò troppo vaga per consentire l'arresto di qualcuno se le autorità ritenevano necessario metterlo dietro le sbarre, venne aggiunto al codice penale l'articolo 190-1, che proibiva la "diffusione verbale di menzogne inventate in modo deliberato per screditare il sistema politico e sociale sovietico". Il sistema giudiziario doveva avere l'aspetto di un sistema giudiziario, anche se tutti sapevano che si trattava di una pura finzione.12

La nuova legge, per palese reazione contro il vecchio sistema delle trojke e delle commissioni speciali, stabiliva che gli arrestati dovevano essere processati in tribunale. In seguito risultò che questo provvedimento rappresentava un ostacolo assai più serio di quanto le autorità sovietiche avessero previsto.

Anche se losif Brodskij non fu condannato ai sensi di nessuna delle nuove leggi antidissidenti, il suo processo, sotto molti aspetti, rappresentò un'anticipazione dell'epoca che stava cominciando. Già il

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fatto che si svolgesse costituiva una novità: in passato le persone scomode per lo Stato non venivano processate in pubblico, a meno che non si trattasse di processi farsa con un copione già scritto, e a volte non venivano nemmeno processate. Ma la cosa più importante è che il comportamento di Brodskij al processo bastò a dimostrare che apparteneva a una nuova generazione rispetto a Solzenicyn e ai prigionieri politici del passato recente.

Una volta Brodskij ha scritto che alla sua generazione era stata "risparmiata" l'esperienza dell'indottrinamento subita da quanti erano solo di qualche anno più vecchi: "Noi uscivamo da sotto le macerie del dopoguerra, mentre lo Stato era troppo occupato a rappezzare la propria pelle e non aveva molto tempo per tenerci d'occhio. A scuola potevano insegnarci tutte le sublimi corbellerie che volevano, ma le sofferenze e la miseria erano ben visibili tutt'intorno. Non si può coprire una casa distrutta con una pagina della "Pravda"".13

Quelli della generazione di Brodskij, se erano russi, di solito arrivavano a criticare lo status quo sovietico a causa dei loro gusti lette-rari o artistici, che nell'Unione Sovietica di Breznev non potevano essere manifestati. Se provenivano dagli Stati baltici, oppure erano caucasici o ucraini, di solito vi arrivavano per i sentimenti nazionalistici ereditati dai loro genitori. Brodskij era un classico dissidente di Leningrado. Cominciò a rifiutare la propaganda sovietica già in giovane età, e a quindici anni lo espulsero dalla scuola. Fece svariati lavori temporanei e cominciò a scrivere poesie. A poco più di vent'anni era ben noto nel mondo letterario di Leningrado. L'anziana Ahmato-va ne fece il suo protetto. Le sue poesie venivano fatte circolare tra gli amici, e lette ad alta voce durante riunioni letterarie clandestine, altro fenomeno nuovo, tipico dell'epoca.

Com'era prevedibile, tutte queste attività poco ortodosse portarono Brodskij all'attenzione della polizia segreta. Prima lo perseguitarono, poi lo arrestarono. Fu accusato di "parassitismo": dato che non era un poeta riconosciuto dall'Unione degli scrittori lo accusarono di vagabondaggio. Al suo processo, nel febbraio 1964, lo Stato produsse prove e testimoni, per la maggior parte sconosciuti a Brodskij, i quali attestarono che era "moralmente depravato, un lazzarone, autore di poesie antisovietiche". In sua difesa furono presentati lettere e discorsi di poeti e scrittori famosi, tra cui la Ahmatova. A queste cose i testimoni dell'accusa risposero con ira:

Sono soltanto i suoi amichetti che gridano a gran voce chiedendo: "Salvate il giovanotto!". Bisognerebbe mandarlo ai lavori forzati e nessuno lo aiuterebbe, certo non i suoi amichetti. Non lo conosco di persona, ho senti-

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to parlare di lui dai giornali. E so bene come funzionano i certificati. Ho molti dubbi sui certificati che lo hanno esentato dal servizio militare. Non sono un medico, ma ne diffido.14

Era chiaro che il processo non voleva colpire soltanto Brodskij, ma anche quanto restava della classe intellettuale indipendente, con i suoi rapporti, la sua sospetta opposizione all'autorità sovietica, il suo disprezzo per il lavoro. E, in un certo senso, gli organizzatori del processo avevano colto nel segno: Brodskij si opponeva all'autorità sovietica; disprezzava il lavoro inutile, improduttivo; rappresentava una classe alienata, un gruppo di persone profondamente frustrate dal giro di vite seguito al disgelo. Brodskij, che ne era perfettamente consapevole, non fu stupito del suo arresto, e non rimase sconcertato nemmeno dal processo. Anzi, ebbe una schermaglia con il giudice:

Giudice: Qual è la sua occupazione?

Brodskij: Sono un poeta.

Giudice: Chi l'ha riconosciuta come poeta? Chi l'ha autorizzata a definirsi poeta?

Brodskij: Nessuno. Chi mi ha autorizzato a far parte della razza umana?

Giudice: Ha fatto degli studi a questo scopo?

Brodskij: A quale scopo?

Giudice: Allo scopo di diventare un poeta. Perché non ha proseguito la sua istruzione a scuola dove insegnano, dove si può imparare?

Brodskij: Non credo che la poesia sia una questione di apprendimento.

Giudice: E allora che cosa è?

Brodskij: Penso che sia... un dono di Dio.

In seguito, quando gli chiesero se aveva qualche richiesta da fare alla corte, Brodskij rispose: "Vorrei sapere perché sono stato arrestato". Il giudice replicò: "È una domanda, non una richiesta". Allora Brodskij disse: "In questo caso, non ho richieste".15

Dal punto di vista tecnico, Brodskij perse la causa: il giudice lo condannò a cinque anni di lavoro duro in una colonia penale nei dintorni di Arcangelo, in quanto aveva "mancato in modo sistematico di adempiere agli obblighi di un cittadino sovietico, mancato di produrre qualsiasi cosa di valore materiale, mancato di provvedere al proprio mantenimento, come risulta dai suoi frequenti cambiamenti di attività". Citando affermazioni della Commissione per il lavoro con i giovani poeti, il giudice dichiarò inoltre che Brodskij, il quale verrà poi insignito del premio Nobel per la letteratura, "non era un poeta".16

Eppure, da un altro punto di vista, Brodskij "vinse", come la generazione precedente di prigionieri russi non sarebbe riuscita a fare. Non solo sfidò in pubblico la logica del sistema giuridico sovietico, ina la sua sfida venne anche verbalizzata per i posteri. Al processo

Gulag

un giornalista prese appunti frettolosi, che in seguito furono inviati clandestinamente in Occidente. Grazie a ciò, Brodskij divenne subito famoso, in Russia e all'estero. Il suo comportamento al processo, oltre a diventare un modello per altri, ispirò a scrittori russi e stranieri l'idea di presentare una petizione al governo per il suo rilascio. Dopo due anni fu liberato ed espulso dall'URSS.

Quando Stalin era vivo, non succedeva mai niente del genere. "Come sempre, gettano la gente dietro le sbarre e come sempre la deportano a oriente" ha scritto poco dopo Valentin Moroz, uno storico ucraino dissidente. "Ma questa volta [i deportati] non piombano nell'ignoto".17 E in fondo è proprio questa la differenza più significativa tra i prigionieri di Stalin e quelli di Breznev e Andropov: il mondo esterno sapeva della loro esistenza, si preoccupava per loro e soprattutto influiva sul loro destino. Ciò nondimeno, il regime sovietico non stava diventando più liberale, e sull'onda del processo di Brodskij la situazione conobbe una rapida evoluzione.

Proprio come il 1937 rappresenta un anno speciale per le persecuzioni contro l'intellighenzia dell'epoca stalinista, il 1966 rappresenta un anno speciale per la generazione del disgelo. Nel 1966 era ormai chiaro che i neostalinisti avevano trionfato. Stalin era stato riabilitato, dichiarato un leader che, pur avendo commesso degli errori, era comunque ammirevole. losif Brodskij si trovava in un campo di lavoro. Solzenicyn era uno scrittore proibito. Avevano estromesso Hrusèev sostituendolo con Leonid Breznev, il quale faceva aperte dichiarazioni tese a riabilitare la reputazione di Stalin.18 Nel giro di un anno Jurij Andropov, che era stato appena nominato presidente del KGB, fece un discorso per celebrare il cinquantesimo anniversario della fondazione della Ceka. Elogiò la polizia segreta sovietica, tra l'altro, per la sua "implacabile lotta contro i nemici dello Stato".19

Nel febbraio 1966 finirono sotto processo anche Andrej Sinjavskij e Julij Daniel'. Erano entrambi letterati ben noti, avevano pubblicato le loro opere all'estero e furono condannati ambedue ai sensi dell'articolo 70 per "agitazione e propaganda antisovietiche". Sinjavskij fu condannato a sette anni di lavori duri, Daniel' a cinque.20 Era la prima volta che processavano qualcuno non sulla base di accuse speciose come il vagabondaggio, ma per i reali contenuti della sua opera letteraria. Un mese dopo, a Kiev, oltre due dozzine di intellettuali ucraini finirono davanti al giudice in un clima di maggior segretezza assai significativo. Uno di essi era accusato tra l'altro di possedere una copia del poema del poeta ucraino ottocentesco Taras éevcenko, cui sono

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intitolate delle strade a Mosca e a Kiev. Dato che il poema era stato pubblicato senza il nome dell'autore, gli esperti sovietici lo catalogarono come opera antisovietica di autore sconosciuto.21

Questi processi, impostati secondo un modello che ben presto sarebbe diventato consueto, ne produssero altri, poiché diversi intellettuali offesi cominciarono a utilizzare il linguaggio del diritto e della Costituzione sovietici per criticare il sistema giudiziario e la polizia. Il caso di Sinjavskij e Daniel', per esempio, esercitò una profonda influenza su un altro giovane moscovita, Aleksandr Ginzburg, già attivo negli ambienti culturali "non ufficiali", il quale compilò una trascrizione del processo Sinjavskij-Daniel', il "Libro bianco", e lo diffuse per tutta Mosca. Poco dopo, lui e tre suoi presunti collaboratori furono arrestati.22

Più a meno nella stessa epoca, i processi di Kiev fecero grande impressione su un giovane avvocato ucraino, Vjaceslav Cornovil, il quale stilò un dossier sul sistema giudiziario ucraino sottolineandone le contraddizioni interne e affermando l'illegalità e l'assurdità degli arresti.23 Fu arrestato quasi immediatamente.24 Così un movimento intellettuale e culturale avviato da scrittori e poeti divenne un movimento per i diritti umani.

Per contestualizzare il movimento per i diritti umani sovietici è importante osservare che i dissidenti sovietici non costituirono mai un'organizzazione di massa, come la loro controparte polacca, e non si può affermare che abbiano abbattuto da soli il regime sovietico: allo stesso fine hanno contribuito la corsa agli armamenti, la guerra in Afghanistan e il disastro economico provocato dalla pianificazione centrale sovietica. Ed essi non riuscirono mai a organizzare altro che qualche manifestazione pubblica. Una delle più famose, inscenata il 25 agosto 1968 per protestare contro l'invasione russa della Cecoslovacchia, coinvolse soltanto sette persone. Si riunirono a mezzogiorno di fronte alla cattedrale di San Basilio, sulla Piazza Rossa, e spiegarono bandiere ceche e striscioni con gli slogan: VIVA LA CECOSLOVACCHIA LIBERA E INDIPENDENTE, GIÙ LE MANI DALLA CECOSLOVACCHIA, PER LA VOSTRA E LA NOSTRA LIBERTÀ. Nel giro di pochi minuti si udì un fischio, e agenti del KGB in. abiti civili si buttarono sui dimostranti, che a quanto pare li aspettavano, gridando "sono tutti ebrei" e "addosso agli anta'sovietici". Strapparono le bandiere, picchiarono i dimostranti e li presero rutti, eccetto una donna che aveva con sé il figlioletto di tre mesi, per portarli diritti in prigione.25

Tuttavia, anche se erano in pochi, i loro sforzi procurarono un sacco di guai alla dirigenza sovietica, costantemente impegnata a

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diffondere la rivoluzione mondiale e quindi preoccupata in modo ossessivo per l'immagine internazionale dell'URSS. Nell'era di Stalin la repressione su larga scala poteva venir tenuta segreta anche a un vicepresidente americano in visita. Negli anni Sessanta e Settanta la notizia di un solo arresto poteva fare il giro del mondo dalla sera alla mattina.

Questo in parte era dovuto alla diffusione delle comunicazioni di massa, alla Voce dell'America, a Radio Liberty e alla televisione, e in parte al fatto che anche i cittadini sovietici avevano escogitato nuovi sistemi per trasmettere le notizie. Infatti, il 1966 fu una pietra miliare pure per un altro fenomeno: la nascita del termine samizdat. Samizdat, acronimo che riecheggia deliberatamente il termine Gosizdat, o Edizioni di Stato, alla lettera significa "autoedizioni" e si riferisce alla stampa clandestina. Il concetto non era nuovo. In Russia il samizdat era antico quasi quanto la parola scritta. Tra il 1820 e il 1830 lo stesso Puskin aveva distribuito in privato manoscritti delle sue poesie con maggiori implicazioni politiche. Persine all'epoca di Stalin la diffusione di racconti e poemi tra amici non era del tutto sconosciuta.

Tuttavia, dopo il 1966 il samizdat divenne un passatempo nazionale. Il disgelo aveva fatto nascere in molti cittadini sovietici il gusto per un genere più libero di letteratura e, all'inizio, il samizdat era un fenomeno soprattutto letterario.26 Ben presto acquisì una connotazione politica. Un rapporto del KGB, che circolava tra i membri del comitato centrale nel gennaio 1971, analizzava i mutamento avvenuti nei cinque anni precedenti e sottolineava di aver scoperto

oltre quattrocento studi e articoli su questioni economiche, politiche e fi-losofiche che criticano da varie angolature l'esperienza storica dell'edificazione socialista nell'Unione Sovietica, contestano la politica interna ed estera del Partito comunista e propongono svariati programmi di attività di opposizione.27

Il rapporto concludeva dicendo che il KGB avrebbe dovuto lavorare per "neutralizzare e denunciare le tendenze antisovietiche presentate dal samizdat". Ma era troppo tardi per rimettere il genio nella bottiglia, e il samizdat continuò a espandersi, assumendo molte forme: poesie scritte a macchina passate di mano in mano e ribattute a macchina appena possibile; informazioni scritte a mano e bollettini; trascrizioni delle trasmissioni della Voce dell'America e, assai più tardi, libri e giornali prodotti in modo professionale su macchine tipografiche clandestine, il più delle volte situate nella Polonia comunista. Si diffusero in fretta anche poesie e canzoni d'autore composte ed eseguite da "bardi" russi, Aleksandr Calie, Bulat Okudzava, Vladimir

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Vysockij, grazie all'impiego di quella che era allora una nuova tecnologia, il registratore a cassette.

Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta uno dei temi più importanti del samizdat era la storia dello stalinismo, in cui era inclusa la storia del Gulag. La rete del samizdat continuava a stampare e a distribuire copie delle opere di Solzenicyn, che nel frattempo erano state bandite dall'URSS. Cominciarono a circolare clandestinamente anche le poesie e i racconti di Varlam Salamov e le memorie di Evge-nija Ginzburg. Entrambi gli scrittori iniziarono ad attrarre grandi gruppi di ammiratori. La Ginzburg divenne animatrice di un circolo di sopravvissuti del Gulag e di personaggi letterari di Mosca.

L'altro tema importante del samizdat era la persecuzione dei dissidenti. Anzi, fu grazie alla stampa clandestina e alla sua diffusione all'estero se i promotori dei diritti umani, negli anni Settanta, conquistarono un pubblico internazionale assai più vasto. E, soprattutto, i dissidenti impararono a utilizzare il samizdat non solo per sottolineare le incongruenze tra il sistema giuridico sovietico e i metodi del KGB, ma anche per mettere in evidenza, ad alta voce e con continuità, lo scarto esistente fra i trattati dei diritti umani firmati dall'URSS e le procedure effettivamente adottate in Unione Sovietica. I loro testi preferiti erano la dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti umani e l'Atto finale di Helsinki. Il primo era stato firmato dall'URSS nel 1948 e tra le altre cose conteneva una clausola nota come articolo 19:

Chiunque ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione; questo diritto comporta la libertà di avere opinioni senza interferenze e di cercare, ricevere e distribuire informazioni e idee per il tramite di tutti i mezzi di comunicazione e senza tener conto delle frontiere.28

Il secondo era il risultato di lunghe trattative di tutti i paesi europei, grazie a cui si erano risolte svariate questioni politiche rimaste in sospeso alla fine della Seconda guerra mondiale. Il trattato di Helsinki conteneva inoltre alcuni accordi sui diritti umani, anche se all'epoca in cui fu firmato, nel 1975, passarono sotto silenzio: si tratta del cosiddetto "Terzo cesto" dei negoziati, sottoscritto da tutti i paesi partecipanti. Tra le altre cose, il trattato riconosceva la "libertà di pensiero, di coscienza, di fede":

Gli Stati partecipanti riconoscono il significato universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali ... rispetteranno sempre questi diritti e queste libertà nei loro rapporti reciproci e si adopereranno sempre, insieme e singolarmente, anche in collaborazione con le Nazioni Unite, per promuoverne il rispetto universale ed effettivo.

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All'interno dell'URSS e all'estero, le informazioni riguardo agli sforzi dei dissidenti per promuovere il linguaggio di tali trattati provenivano soprattutto dal giornale interno della rete del samizdat sovietico, la "Hronika tekuscih sobytij" (Cronaca dei fatti correnti). Questo foglio di informazione, in cui venivano registrate senza commenti notizie altrimenti non diffuse - sulla violazione dei diritti umani, gli arresti, i processi, le dimostrazioni, le nuove pubblicazioni del samizdat -, era stato fondato a Mosca da un gruppetto di amici, fra i quali Alek-sandr Ginzburg e due altri dissidenti che diventarono famosi in seguito, Pavel Litvinov e Vladimir Bukovskij. La storia di come nacque e si sviluppò la "Hronika" già da sola meriterebbe la stesura di un volume delle stesse dimensioni di questo. Negli anni Settanta la polizia condusse una vera e propria guerra contro la "Hronika", organizzando perquisizioni simultanee nelle case di tutti quelli che erano sospettati di avere rapporti con il giornale: c'è un aneddoto memorabile, secondo cui un redattore gettò un gruppo di documenti in una pentola di minestra che bolliva, mentre il KGB perquisiva il suo appartamento. Tuttavia, la "Hronika" sopravvisse all'arresto dei suoi editori e riuscì anche a diffondersi in Occidente, tanto che alla fine Amnesty International ne pubblicava con regolarità la traduzione.29

Questo periodico ebbe una sua specifica influenza sulla storia del sistema dei campi. Ben presto divenne la fonte principale di informazioni sulla vita dei campi sovietici poststaliniani. Pubblicava regolarmente una rubrica, "Dentro le prigioni e i campi" e in seguito un'altra, "Dentro le celle di punizione", registrava informazioni provenienti dai campi e pubblicava interviste con i detenuti. Questi rapporti, di straordinaria precisione, su quanto accadeva nei campi, sulle malattie di svariati dissidenti, sui cambiamenti di regime nei campi, sulle proteste organizzate, diedero molto filo da torcere alle autorità, che non riuscivano a comprendere come facessero i dissidenti a procurarsi le informazioni. Anni dopo, uno dei redattori lo spiegò:

Alcune [notizie] arrivano quando qualcuno è rilasciato dai campi. Anche dopo che se ne è andato in qualche modo mantiene i contatti. Oppure si possono corrompere le guardie, così che quando si incontrano i parenti sia possibile comunicare loro delle informazioni, in forma scritta e verbale. Poi i parenti possono fermarsi a Mosca e trasmettere quello che hai detto. Per esempio si possono corrompere i carcerieri in Mordovia. Quelli [i campi per politici della Mor-dovia] erano rutti campi nuovi, organizzati nel 1972, e anche i carcerieri erano tutti nuovi. Talvolta, quando simpatizzavano con la nostra posizione, trasmettevano degli appunti. Nel 1974 nei campi c'è stato uno sciopero della fame di massa, e quando i carcerieri vi hanno assistito si sono dimostrati partecipi.

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Le guardie si possono anche corrompere. Non guadagnano molto. Non hanno molto. Vengono da zone di provincia. Per esempio potresti ricevere qualcosa da Mosca, magari un accendino, e corrompere una guardia; oppure quella ti da un indirizzo. Dai una bustarella, costituita da oggetti o da denaro, perché in cambio vengano trasmesse delle informazioni.. .30

Esistevano anche dei sistemi per nascondere le cose. Un ex detenuto ne ha descritto uno:

Su una stretta (4 centimetri) strisciolina di carta per sigaretta scrivo in caratteri microscopici i miei ultimi versi. Questo è uno dei mezzi che usiamo per trasmettere informazioni al mondo libero: arrotoliamo queste striscioli-ne in un tubetto più piccolo di un mignolo, e alla prima occasione propizia passiamo a qualcuno questa cosetta minuscola, che un nostro procedimento tecnologico ha reso ermeticamente impermeabile all'umidità.31

Comunque riuscissero ad arrivare, perché nascoste o grazie alla corruzione o alle lusinghe, le informazioni che la "Hronika" riusciva a ottenere dai campi rimangono significative ancora oggi. Quando ho scritto questo libro, gli archivi dell'MVD poststaliniana e del KGB erano ancora in larga parte preclusi ai ricercatori. Grazie alla "Hronika", però, ad altre pubblicazioni del samizdat e sui diritti umani e ai moltissimi memoriali che descrivono i campi degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, si può comunque ricostruire un'immagine coerente della vita nei campi sovietici negli anni successivi alla morte di Stalin.

"Gli attuali campi per prigionieri politici sono spaventosi proprio come all'epoca di Stalin. Qualcosa è meglio, qualcosa è peggio..."

Comincia così il memoriale di Anatolij Marcenko sugli anni di prigionia, un documento che alla fine degli anni Sessanta, quando cominciò a circolare a Mosca, scioccò profondamente l'intellighenzia cittadina, convinta che i campi di lavoro sovietici avessero chiuso per sempre. Marcenko, figlio di analfabeti della classe operaia, fu incarcerato la prima volta per teppismo. La seconda volta lo condannarono per tradimento: aveva cercato di scappare dall'Unione Sovietica attraversando la frontiera con l'Iran. Lo destinarono a scontare la pena per reati politici nel Dubravlag, in Mordovia, uno dei due famigerati campi politici a regime duro.

Molti elementi dell'esperienza fatta in prigione da Marcenko sarebbero risultati familiari a persone abituate a sentire storie sui campi staliniani. Proprio come i suoi predecessori, Marcenko era arrivato in Mordovia su un vagone Stolypin. Proprio come i suoi predecessori ricevette una pagnotta, 50 grammi di zucchero e un'aringa salata, che dovevano durargli per tutto il viaggio. E, proprio come i suoi prede-

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cessori, scoprì che la possibilità di accedere all'acqua dipendeva da quali soldati erano in servizio sul treno: "Una volta al mattino e una alla sera versano acqua bollente nei boccali da un quarto; ricevi dell'acqua fredda secondo il soldato in cui t'imbatti. Se è bravo, te ne da una o due volte; se gli secca andare e venire con il ramino, devi rassegnarti a soffrire la sete".32

Arrivato nel campo, Marcenko trovò la stessa fame generalizzata, se non inedia, che c'era stata in passato. La sua alimentazione quotidiana prevedeva 2400 calorie: 700 grammi di pane, mezzo chilo di verdure, di solito marce, 85 grammi di merluzzo, di solito avariato, 60 grammi di carne (i cani da guardia del lager ne avevano a dispozione mezzo chilo). Come in passato, non tutta la razione prevista per Marcenko finiva nei suoi pasti, e c'erano pochi extra: "In sei anni di carcere e lager, soltanto due volte ho mangiato pane e burro; il burro l'avevo ricevuto durante il colloquio. Nello stesso periodo, di cetrioli ne ho mangiato soltanto due: uno nel 1964 e l'altro nel 1966. Non basta: trattandosi di cibi assolutamente proibiti, non ho mangiato nemmeno un pomodoro né una mela".33

In certa misura il lavoro contava ancora, anche se era di genere diverso. Marcenko fece lo scaricatore e il carpentiere. Leonid Sitko, pure detenuto nel Dubravlag nello stesso periodo, costruiva mobili.34 Le detenute del campo femminile della Mordovia lavoravano in fabbriche, spesso con le macchine da cucire.35 I prigionieri dell'altro complesso di campi politici, nei pressi di Perm', ai piedi degli Urali, erano anche loro addetti alla lavorazione del legno. Quelli confinati nelle celle di isolamento, e negli anni Ottanta ce n'erano ancora molti, cucivano guanti o uniformi.36

Nel corso del tempo, inoltre, Marcenko si rese conto che le condizioni, a poco a poco, peggioravano. Alla metà degli anni Sessanta c'erano almeno tre categorie di prigionieri: quelli privilegiati, quelli ordinari e quelli a regime duro. Ben presto i prigionieri a regime duro, categoria che comprendeva tutti i dissidenti politici più "seri", indossavano di nuovo uniformi di cotone nero, invece dei propri abiti. Anche se potevano ricevere lettere senza restrizioni e materiale a stampa, purché di origine sovietica, avevano diritto a scrivere solo due lettere al mese. Se erano a regime duro, non potevano ricevere né pacchi né sigarette.

Marcenko era stato incarcerato sia come criminale comune sia come prigioniero politico, e le sue descrizioni del mondo criminale suonano familiari. La cultura criminale, se possibile, era diventata ancora più abietta e degradata di quanto fosse prima della morte di Stalin. Dopo la guerra dei ladri della fine degli anni Quaranta, i criminali di

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professione si erano scissi in diverse fazioni. Zenja Fedorov, un ex prigioniero arrestato nel 1967 per furto, parla di diversi gruppi, non solo "cagne" e "ladri", ma anche svojak, che, come spiega, erano ladri "apprendisti", e "berretti rossi", ladri che seguivano una legge propria, probabilmente i discendenti intellettuali dei "berretti rossi" comparsi nei campi dopo la guerra. Anche altri prigionieri si riunivano in "famiglie", per proteggersi e per altri motivi. "Quando bisognava ammazzare qualcuno, erano le famiglie a decidere chi lo avrebbe fatto" afferma Fedorov.37

Inoltre, la cultura violenta dello stupro omosessuale e del predominio, evidente in precedenza in alcune descrizioni relative alle condizioni dei carceri minorili, era adesso molto più presente nella vita criminale. I criminali comuni erano divisi in due gruppi, in base a una norma non scritta: quelli che svolgevano il ruolo "femminile" e quelli che svolgevano il ruolo "maschile". "I primi erano disprezzati da tutti; gli altri, dandosi arie da eroi, si vantavano della propria virilità e delle proprie "vittorie" non solo tra loro ma anche in presenza del personale dirigente" ha scritto Marcenko.38 Secondo Fedorov, le autorità favorivano il gioco tenendo i prigionieri "impuri" in celle separate. Chiunque poteva entrarci: "Se perdevi alle carte, potevi essere costretto a "fare" la donna".39 Anche nei campi femminili il lesbismo era diffuso, e talvolta in forme non meno violente. In seguito una prigioniera politica scrisse di una sua compagna che aveva rifiutato una visita del marito e del figlioletto perché "lei ormai aveva un altro amore nel lager!".40

Gli anni Sessanta segnarono la comparsa nelle prigioni russe del flagello della tubercolosi, una piaga presente ancora oggi. Fedorov ha descritto così la situazione: "Se in una baracca c'erano 80 persone, 15 avevano la tubercolosi. Nessuno cercava di curarle, c'era solo un genere di compresse per il mal di testa, per qualsiasi cosa. I medici erano una specie di SS, non ti parlavano mai, non ti guardavano mai, non eri nessuno".41

A peggiorare la situazione c'era il fatto che molti ladri erano ormai dipendenti dal ci/ir, un tipo di té molto forte che produceva un effetto narcotico. Altri facevano qualsiasi cosa per procurarsi dell'al-col. Quelli che lavoravano fuori dai campi, come ad alcuni capitava, elaborarono un metodo speciale per introdurvelo clandestinamente, superando il controllo delle guardie:

Sigillano ermeticamente con un preservativo l'estremità di un lungo pezzo di tubo di plastica, poi lo zek lo ingoia tenendo l'estremità libera in bocca; per evitare di ingoiarla accidentalmente, la fissa a una fessura tra due denti: prò-

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babilmente non esiste un solo zek vivo con l'arcata completa di trentadue denti. Poi, con l'aiuto di una siringa, pompano nel tubo fino a tre litri di spirito e lo zek torna nella sua zona. Se il collegamento è malfatto, o se per caso il preservativo scoppia nel ventre dello zek, ne segue una morte certa e dolorosa. Ciononostante corrono il rischio: tre litri di spirito fanno sette litri di vodka. Quando l'eroe torna alla zona ... lo appendono a testa in giù a un gancio fissato al soffitto della baracca e l'estremità del tubo viene tenuta su un contenitore finché non è colata anche l'ultima goccia di spirito. Poi gli sfilano il tubo...

Altrettanto diffusa era la pratica dell'automutilazione, che però ora assumeva forme ancora più estreme. Una volta, in cella Mar-cenko vide due ladri che, dopo aver spezzato i loro cucchiai, ne inghiottirono prima il manico e poi la paletta. Dopodiché ruppero un vetro e cominciarono a inghiottirne dei minuti frammenti prima che le guardie riuscissero a trascinarli via.42 Eduard Kuznecov, condannato per aver partecipato a un famoso tentativo di sequestro di un velivolo all'aeroporto Smol'nyj di Leningrado, descrive dozzine di metodi di automutilazione:

Sono stato decine di volte testimone delle più fantastiche autolesioni. In-ghiottono a chili chiodi e fil di ferro, termometri, scodelle di stagno (dopo averle preventivamente rotte in pezzi "commestibili"), scacchi, domino, aghi, vetro pestato, cucchiai, coltelli e... qualunque cosa; spingono fili elettrici nell'uretra; si cuciono con filo di ferro o filo comune gli occhi e la bocca; attaccano con l'ago al corpo file di bottoni; s'inchiodano i testicoli al pancaccio;... si fanno tagli sulla pelle delle braccia e delle gambe e se la tolgono come una calza; si tagliano pezzi di carne (sul ventre o la gamba) e poi l'arrostiscono e se la mangiano; si aprono una vena e si fanno colare il sangue in una scodella, ci sbriciolano dentro il pane e si mangiano questa "pappa"; si avvolgono di carta e si danno fuoco; si tagliano le dita delle mani, il naso, le orecchie, il pene...

Secondo Kuznecov, "l'autolesione non è affatto una forma di protesta ... ma, di regola, un modo di "strappare un boccone" alla vita: andare a finire in ospedale, dove le infermiere dimenano gagliardamente le anche, dove si riceve la razione dei malati e non si è costretti a lavorare; e anche un mezzo per ottenere narcotici, una dieta, pacchi, un colloquio con qualche amica per corrispondenza". Molti di quelli che si mutilavano "assomigliavano assai a masochisti, in stato di depressione da un salasso all'altro".43

Senza dubbio, dall'epoca di Stalin erano molto cambiati anche i rapporti tra i comuni e i politici. A volte i comuni tormentavano o picchiavano i politici: il dissidente ucraino Valentin Moroz fu rinchiuso in una cella con dei comuni che la notte non lo lasciavano dormire e alla fine lo aggredirono e lo ferirono al ventre con un cucchiaio appuntito.44 Ma c'erano anche dei comuni che rispettavano i politici, non

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foss'altro perché resistevano alle autorità, come racconta Vladimir Bukovskij: "Volevano sapere per che cosa eravamo dentro, cosa cercavamo di ottenere ... solo a una cosa non potevano credere, che tutto ciò lo facessimo gratuitamente, non per denaro".45

C'erano addirittura dei comuni che volevano unirsi a loro. Alcuni criminali di professione cercavano di farsi condannare a titolo politico perché erano convinti che le prigioni politiche fossero più "facili". Scrivevano a Hruscev o al Partito una denuncia costellata di oscenità, o confezionavano con stracci delle "bandiere americane" e le sventolavano dalle finestre. Alla fine degli anni Settanta capitava molto spesso di vedere detenuti comuni con tatuati sulla fronte slogan di questo tipo: I COMUNISTI BEVONO IL SANGUE DEL POPOLO, SCHIAVO DEL PCUS; BOLSCEVICHI, DATEMI IL PANE.4*1

Ancora più profondo fu il mutamento del rapporto tra la nuova generazione di politici e le autorità. In epoca poststaliniana i politici erano prigionieri che sapevano perché si trovavano in carcere, che avevano previsto di finirci e avevano già deciso come si sarebbero comportati una volta dentro, cioè con un atteggiamento di sfida organizzata. Già nel febbraio 1968 un gruppo di detenuti di Pot'ma, fra cui Julij Daniel', intraprese uno sciopero della fame. Chiedevano un'attenuazione del regime carcerario, la fine del lavoro coatto, l'eliminazione delle restrizioni sulla corrispondenza e, quasi rievocando i primi anni Venti, il riconoscimento del loro status speciale di detenuti politici.47

Le autorità fecero dapprima delle concessioni, che poi però, a poco a poco, ritirarono. Tuttavia, alla fine, la richiesta dei politici di essere tenuti separati dai comuni venne accolta, soprattutto perché gli amministratori dei campi volevano tenere il più possibile lontana questa generazione di politici, con le loro continue richieste e la loro inclinazione agli scioperi della fame, dai criminali comuni.

Gli scioperi erano frequenti e diffusi, al punto che, dal 1969 in poi, la "Hronika" ne registra in continuazione. Quell'anno, per esempio, i prigionieri scesero in sciopero per chiedere il ripristino delle concessioni fatte un anno prima; per protestare contro la mancata autorizzazione delle visite dei parenti; per protestare perché uno di loro era stato messo in cella di punizione; per protestare perché a un altro era stato proibito di ricevere un pacco dai parenti; per protestare contro il trasferimento di altri ancora dal campo alla prigione; e persino per celebrare il 10 dicembre, giornata internazionale dei diritti umani.48 E il 1969 non fu un anno eccezionale. Nel corso del decennio successivo gli scioperi della fame, le astensioni dal lavoro e altre forme di protesta divennero un fenomeno consueto, sia in Mordovia sia a Perm'.

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Scioperi della fame, proteste brevi della durata di un giorno, oppure scontri logoranti e prolungati con le autorità, cominciarono a seguire un modello di routine, come racconta Marcenko:

Nei primi giorni nessuno prende in considerazione il suo digiuno; qualche giorno dopo (talvolta dopo dieci-dodici giorni) lo trasferiscono in una cella speciale, in cui si trovano altri per lo stesso motivo, e cominciano a nutrirlo artificialmente attraverso un tubo flessibile. Se si oppone, viene legato e ammanettato. Nel lager questa procedura viene osservata in modo grossolano: può capitare che la seconda o terza volta uno resti senza denti.49

Alla metà degli anni Settanta, ormai alcuni dei politici "peggiori" erano stati trasferiti dalla Mordovia e da Perm' ed erano stati rinchiusi in carceri speciali di massima sicurezza, soprattutto a Vladimir, una prigione della Russia centrale di origine zarista, dove si occupavano quasi esclusivamente della loro lotta contro le autorità. Si trattava di un gioco pericoloso, nell'ambito del quale si svilupparono regole oltremodo complesse. L'obiettivo dei prigionieri era quello di migliorare le proprie condizioni e di conquistare nuove posizioni, e nel contempo farne giungere notizia in Occidente tramite la rete del samizdat. L'obiettivo delle autorità era di piegare i detenuti: di indurii a diventare informatori, a collaborare e soprattutto a ritrattare pubblicamente le proprie opinioni, così da poter pubblicizzare la notizia sulla stampa sovietica e all'estero. Anche se i loro metodi avevano qualche analogia con la tortura praticata nelle celle per gli interrogatori di staliniana memoria, di solito più che sul dolore fisico si basavano sulla pressione psicologica. Natan Saranskij, che tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta fu uno dei detenuti più impegnati nell'organizzare proteste in carcere, e che attualmente è un uomo politico israeliano, ha descritto la procedura:

Ti invitavano a un colloquio. Pensi che nulla dipenda da te? Al contrario: ti spiegheranno che tutto dipende da te. Ti piacciono il caffè, il té, la carne? Ti piacerebbe venire con me al ristorante? E perché no? Ti faremo indossare abiti civili e ci andremo. Se vedremo che sei sulla strada della riabilitazione, siamo disposti ad aiutarti. Ma come, non vuoi fare la spia ai tuoi amici? E che cosa vuoi dire fare la spia? Il russo (o l'ebreo, o l'ucraino, a seconda delle circostanze) che sconta la pena con te, ma non ti rendi conto di che tipo di nazionalista sia? Non ti rendi conto di quanto odi voi ucraini (o russi, o ebrei)?50

Come nel passato, le autorità potevano concedere privilegi o ritirarli, e applicare sanzioni, di solito un periodo da scontare in cella di punizione. Potevano determinare le condizioni di vita di un prigioniero con dei cambiamenti minimi ma fondamentali nella sua vita quotidiana, passandolo dal regime ordinario a quello duro, sempre ovviamente in

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rigorosa conformità ai regolamenti. Marcenko spiega: "La differenza tra questi regimi può sembrare una cosa da nulla, a una persona che non li abbia sperimentati; per il detenuto invece è enorme. Nel regime generale v'è la radio, alla finestra manca la museruola, il passeggio, compresa la domenica, è di un'ora al giorno, anziché di mezz'ora, e una volta all'anno si ha diritto a un colloquio di trenta minuti" .51

Alla fine degli anni Settanta le diverse razioni alimentari previste da pochissime erano diventate diciotto, ciascuna con un determinato numero di calorie (da 2200 a 900) e alimenti specifici. Ai detenuti venivano assegnate sulla base di minime modificazioni comportamentali. Il contenuto della razione più povera, assegnata ai detenuti in cella di punizione, era costituita da un pezzetta di pane, un cucchiaio di pappa e una zuppa che, in teoria, conteneva 200 grammi di patate e 200 grammi di cavoli, sebbene spesso non fosse così.52

I prigionieri potevano anche essere sbattuti nelle celle di punizione, le "gattabuie", una forma di sanzione ideale dal punto di vista delle autorità. Era del tutto legale e, tecnicamente, non poteva essere considerata tortura; gli effetti sui detenuti erano lenti e progressivi, ma poiché a nessuno premeva ottenere risultati immediati, le autorità carcerarie non se ne preoccupavano. Queste celle sembravano una creazione dell'NKVD di Stalin. Un documento del 1976, pubblicato dal gruppo di Helsinki moscovita, descriveva con grande precisione le celle di punizione della prigione di Vladimir, che erano una cinquantina. I muri erano rivestiti di cemento "a spruzzo", irti di bozze e rilievi. I pavimenti erano sporchi e bagnati. In una cella le finestre al posto dei vetri avevano dei giornali, in un'altra erano murate. L'unica cosa su cui sedersi era un cilindro di cemento di circa 25 centimetri di diametro, bordato di ferro. Di notte veniva portato dentro un tavolaccio di legno, senza lenzuola né guanciali. All'interno c'era un freddo tale che per i reclusi risultava difficile dormire, persino sdraiarsi. In alcune, la "ventilazione" faceva entrare aria dalle fogne.53

La cosa peggiore, per gente abituata alla vita attiva, era la noia, come sappiamo da Julij Daniel':

Le settimane, una dopo l'altra, svaniscono nel fumo delle sigarette. In questa strana istituzione tutto è sogno, o delirio...

Qui di notte la luce non si spegna, qui di giorno la luce non è forte, qui è silenzio; e il direttore mi tiene d'occhio.

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Puoi soffocare di noia o picchiare la testa contro il muro. Le settimane, una dopo l'altra, svaniscono nel fumo azzurro .. .^

Le condanne alla cella di rigore potevano durare all'infinito. Il regolamento prescriveva che vi si potevano rinchiudere i detenuti solo per periodi di quindici giorni, ma le autorità aggiravano questa norma facendoli uscire per un giorno e rientrare l'indomani. Una volta Marcenko vi fu trattenuto per quarantotto giorni.55 Ogni volta che arrivava alla scadenza quindicinale, i secondini io facevano uscire per alcuni minuti, il tempo sufficiente per leggergli una direttiva che lo confinava di nuovo in cella di punizione. Nel campo 35 di Perm' un detenuto vi rimase chiuso per quasi due mesi prima di essere portato in ospedale, e un altro vi fu rinchiuso per 45 giorni per aver rifiutato di svolgere qualsiasi altro lavoro che non fosse quello in cui era esperto, cioè la siderurgia.56

Molti di coloro che venivano rinchiusi nelle celle di punizione erano stati condannati per reati ancora meno gravi: quando le autorità volevano davvero piegare qualcuno, lo condannavano voluta-mente a punizioni severe per le infrazioni più lievi. Nel 1973-74, nei campi di Perm' due prigionieri furono privati del diritto a ricevere visite dei parenti perché "si erano seduti sul letto di giorno". Un altro fu punito perché aveva ricevuto in un pacco della marmellata cotta con alcol. Altri venivano puniti o censurati perché camminavano troppo lentamente, o non portavano i calzini.57

Talvolta queste pressioni prolungate sortivano degli effetti. Alek-sej Dobrovol'skij, uno dei coimputati nel processo di Aleksandr Ginzburg, "cedette" molto presto, e chiese per iscritto di essere autorizzato a dare una testimonianza per radio, raccontando tutta la storia della sua attività "criminale" di dissidente, in quanto era il modo migliore per impedire che i giovani seguissero il suo pericoloso percorso.58 Anche Petr Jakir cedette durante l'interrogatorio e "confessò" di aver inventato le cose che aveva scritto.59

Altri morirono. Jurij Galanskov, un altro dei coimputati di Ginzburg, morì nel 1972. Un'ulcera duodenale operata troppo tardi ne provocò la morte.60 Anche Marcenko morì nel 1986, probabilmente per i medicinali somministratigli mentre faceva lo sciopero della fame.61 Molti altri detenuti perirono - uno si suicidò - durante uno sciopero della fame di un mese condotto nel 1974 nel campo Perm'- 35.62 In seguito, nel 1985, a Perm' morì Vasil' Stus, un poeta ucraino impegnato nel movimento per i diritti umani.63

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Tuttavia, i detenuti reagivano anche lottando. Nel 1977 i politici del campo 35 di Perm' hanno raccontato in che modo sfidavano le autorità:

Indicevamo spesso scioperi della fame. Nelle celle di punizione, nei vagoni per i trasferimenti. In giornate normali, insignificanti, nei giorni in cui erano morti i nostri compagni. Nei giorni di attività straordinarie nella zona, Y8 marzo e il 10 dicembre, il 1° agosto e l'8 maggio, il 5 settembre. Facevamo scioperi della fame troppo spesso. I diplomatici, i funzionari pubblici firmano nuovi accordi sui diritti umani, sulla libertà di informazione, sul bando della tortura, e noi scendiamo in sciopero della fame, perché in Unione Sovietica queste cose non vengono rispettate.64

Grazie ai loro sforzi, le notizie sul movimento dei dissidenti erano sempre più diffuse in Occidente, e le proteste acquisivano vigore. Di conseguenza, anche il modo di trattare i detenuti assunse una nuova forma.

Anche se, come ho osservato, sono stati pubblicati pochi documenti d'archivio degli anni Settanta e Ottanta, occorre dire che ci sono alcune eccezioni. Nel 1991 Vladimir Bukovskij, che viveva in Inghilterra da quindici anni, cioè da quando era stato espulso dal paese (in uno scambio con un comunista cileno incarcerato), fu invitato in Russia. Era stato convocato come "perito del tribunale" nel "processo" contro il Partito comunista, istruito dopo che quest'ultimo si era opposto al tentativo del presidente El'cin di metterlo fuorilegge. Bukovskij arrivò nella sede della Corte costituzionale di Mosca con un computer portatile e uno scanner manuale. Sicuro che in Russia nessuno avesse mai visto quelle apparecchiature, si sedette e cominciò a copiare con calma tutti i documenti presentati come prove. Solo quando stava per finire, quelli che si trovavano accanto a lui si resero conto tutt'a un tratto di quel che stava facendo. Qualcuno disse ad alta voce: "Li pubblicherà laggiùl". Nell'aula cadde il silenzio. In quel momento, come ha raccontato in seguito, Bukovskij - "come in un film" - chiuse il computer, si avviò verso l'uscita, raggiunse l'aeroporto e lasciò la Russia.65

Grazie alla sua impresa, sappiamo tra l'altro che cosa accadde alla riunione del Politbjuro del 1967 tenutasi appena prima del suo arresto. Bukovskij rimase colpito soprattutto perché moltissimi dei presenti erano convinti che metterlo in stato d'accusa avrebbe suscitato "una certa reazione all'interno del paese e all'estero".66 Conclusero quindi che sarebbe stato un errore limitarsi ad arrestarlo e decisero di rinchiuderlo in un ospedale psichiatrico. Era cominciata l'epoca della psihuska, gli "ospedali psichiatrici speciali".

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II sistema di internare i dissidenti negli ospedali psichiatrici aveva dei precedenti. Nel 1836, tornato a San Pietroburgo dopo un viaggio nell'Europa occidentale, il filosofo russo Petr Caadaev scrisse un saggio in cui criticava il regime dello zar Nicola I. "In contrasto con tutte le leggi della comunità umana" dichiarò al culmine del regime imperiale russo "la Russia si muove soltanto nella direzione del proprio as-servimento e dell'asservimento di tutte le popolazioni confinanti." Lo zar reagì ordinando "personalmente che Caadaev fosse considerato pazzo, e venisse visitato regolarmente da un medico",67 nella convinzione che i russi avrebbero perdonato il loro compatriota nell'appren-dere che soffriva di turbe psichiche.

Dopo il disgelo, le autorità tornarono a servirsi degli ospedali psichiatrici per internare i dissidenti, un sistema che presentava molti vantaggi per il KGB. Contribuiva soprattutto a screditarli, tanto in Occidente quanto in URSS, e a distogliere l'attenzione da loro. Se non erano avversar! politici credibili del regime, ma soltanto dei folli, chi poteva opporsi al loro ricovero in ospedale?

L'istituzione psichiatrica sovietica partecipò con grande entusiasmo alla farsa. Per spiegare il fenomeno della dissidenza, si coniò la definizione di "schizofrenia a decorso lento", o "schizofrenia latente". Come spiegarono gli esperti, si trattava di una forma di schizofrenia che non presentava sintomi esteriori nelle condizioni mentali e nel comportamento, ma riguardava quasi tutti i comportamenti considerati asociali o abnormi. "Nella maggior parte dei casi, le personalità con una struttura paranoide elaborano idee riguardo alla "lotta per la verità o la giustizia"" scrissero due professoroni sovietici, entrambi dell'istituto Serbskij:

Tratto caratteristico delle idee privilegiate è la convinzione della propria ragione, il darsi alla difesa dei diritti "calpestati", l'importanza delle emozioni per la personalità del malato. Essi approfittano dei processi per pronunciare discorsi e lanciare appelli.68

In base a questa premessa, quasi tutti i dissidenti potevano essere considerati pazzi. Allo scrittore e scienziato Zores Medvedev fu diagnosticata una "schizofrenia latente" associata a "illusioni paranoidi di riforma della società". Tra i suoi sintomi c'era una "personalità dissociata", il che spiegava perché, oltre che scienziato, era anche scrittore. A Natal'ja Gorbanevskaja, prima curatrice della "Hronika", fu diagnosticata una schizofrenia latente senza "sintomi evidenti", ma che provocava "sbalzi anomali nelle emozioni, nei desideri e negli schemi mentali". Al generale dell'Armata rossa e dissidente Petr Grigorenko

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fu diagnosticata un disturbo psichiatrico "caratterizzato dalla presenza di idee riformiste, relative soprattutto alla riforma dell'apparato statale, con associate idee di sopravvalutazione della propria personalità che raggiungevano livelli messianici".69 In un rapporto inviato al comitato centrale un comandante del KGB locale si lamentava di avere a che fare con un gruppo di cittadini affetti da una forma molto particolare di malattia mentale: "Cercano di fondare nuovi partiti, organizzazioni e consigli, preparano e distribuiscono progetti per nuove leggi e programmi".70

A seconda delle circostanze in cui venivano - o non venivano -arrestati, i detenuti ai quali era stata diagnosticata una malattia mentale potevano essere inviati in istituzioni di diversi tipi. Alcuni venivano esaminati dai medici delle carceri, altri negli ospedali. L'istituto Serbskij rappresentava un caso a parte, perché la sua sezione diagnostica speciale, diretta negli anni Sessanta e Settanta dal dottor Daniil Lune, era incaricata di formulare diagnosi sui detenuti politici. Il dottor Lune, che visitò personalmente, tra gli altri, Sinjavskìj, Bukovskij, la Gorbanevskaja, Grigorenko e Viktor Nekipelov, godeva evidententemente di grande autorità.71 Nekipelov racconta che indossava una divisa blu con due stelle, "i gradi di un generale dell'MVD".72 Secondo alcuni psichiatri sovietici emigrati, Lune e gli altri medici dell'istituto credevano davvero che i loro pazienti fossero affetti da malattie mentali, mentre la stragrande maggioranza dei detenuti politici che lo hanno conosciuto lo descrivono come un opportunista, che eseguiva gli ordini dei suoi capi dell'MVD, "non migliore dei medici criminali che eseguivano esperimenti disumani sui prigionieri nei campi di concentramento nazisti".73

Se ai pazienti veniva diagnosticata una malattia mentale, erano condannati a scontare un periodo di pena in ospedale, a volte di alcuni mesi, a volte di molti anni. I più fortunati venivano inviati nelle molte centinaia di normali ospedali psichiatrici sovietici. Erano sporchi e sovraffollati, e spesso il personale era costituito da ubriaconi e sadici, ma questi ultimi erano dei civili e gli ospedali comuni, in generale, erano meno segreti delle prigioni o dei campi. Ai pazienti veniva consentito di scrivere lettere con maggiore libertà e di ricevere visite anche da persone che non avevano con loro legami di parentela.

Invece, quelli dichiarati "particolarmente pericolosi" venivano ricoverati negli "ospedali psichiatrici speciali", che erano pochissimi e gestiti direttamente dall'MVD (dal ministero dell'Interno dipendevano anche i medici militari, come Lune, che si occupavano dei pazienti). Tali ospedali avevano tutto l'aspetto di prigioni, ed erano circon-

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dati da torrette di guardia, filo spinato, sentinelle e cani. Una fotografia dell'ospedale psichiatrico speciale di Orel, scattata negli anni Settanta, mostra i pazienti che passeggiano in un giardino interno, non molto diverso dal cortile per l'ora d'aria di una prigione.74

Tanto negli ospedali comuni quanto in quelli speciali i medici avevano come obiettivo di far ritrattare i pazienti.75 Quelli che accettavano di sconfessare le proprie convinzioni, che ammettevano di aver criticato il sistema sovietico solo a causa della propria malattia mentale, potevano essere dichiarati sani e rimessi in libertà; quelli che non ritrattavano erano considerati ancora malati e potevano essere sottoposti al "trattamento".76 Dato che gli psichiatri sovietici non credevano nella psicoanalisi, il trattamento consisteva soprattutto in medicinali, elettroshock e diverse altre forme di costrizione. Venivano somministrati regolarmente psicofarmaci che in Occidente erano usciti di produzione negli anni Trenta, e che facevano salire la temperatura corporea dei pazienti oltre i 40 gradi e provocavano dolori e disagio. I medici del carcere prescrivevano anche tranquillanti i cui effetti collaterali erano rigidità corporea, rallentamento dei movimenti, tic e contrazioni involontarie, oltre che apatia e abulia.

Altri trattamenti prevedevano vere e proprie violenze fisiche: iniezioni di insulina, che nelle persone non diabetiche provocano uno shock ipoglicemico, e una punizione chiamata "fasciatura", descritta da Bukovskij in un'intervista del 1976: "Comportava l'uso di lunghe strisce di tessuto bagnato in cui il paziente veniva avvolto dalla testa ai piedi così strettamente che faceva fatica a respirare. Quando la tela cominciava ad asciugare, si restringeva ulteriormente e il paziente stava sempre peggio".77 Un altro trattamento a cui Nekipelov assistette all'istituto Serbskij era 1'"iniezione lombare", cioè una puntura nella colonna vertebrale del paziente. Coloro ai quali veniva praticata stavano poi sdraiati su un fianco e immobili per diversi giorni, con la schiena imbrattata di tintura di iodio.78

Rimasero coinvolte molte persone. Nel 1977, l'anno in cui Peter Reddaway e Sidney Bloch pubblicarono il loro vasto studio sulle violenze psichiatriche sovietiche, si sapeva che almeno 365 persone sane avevano subito delle cure per quella che politicamente veniva definita follia, e sicuramente ve ne furono altre centinaia.79

Eppure si può dire, in ultima analisi, che la reclusione dei dissidenti negli ospedali psichiatrici non produsse tutti gli effetti che il regime sovietico aveva sperato. Soprattutto non deviò l'attenzione dell'Occidente. In primo luogo gli orrori delle violenze psichiatriche probabilmente stimolarono l'immaginazione degli occidentali assai

L'era dei dissidenti  573

più di quanto non avessero fatto le ormai usuali storie di campi di lavoro e prigioni. Chiunque avesse visto il film Qualcuno volò sul nido del cuculo riusciva a immaginarsi benissimo un ospedale psichiatrico sovietico. Ma la cosa più importante è che il problema delle violenze psichiatriche attirava l'attenzione di un ben preciso e articolato gruppo con interessi professionali per l'argomento: gli psichiatri occidentali. Dal 1971, l'anno in cui Bukovskij riuscì a diffondere oltre centocinquanta pagine di documentazione sugli abusi di questo genere in Unione Sovietica, il problema divenne importante per istituzioni come la World Psychiatric Association, il Rovai College of Psychiatrists in Gran Bretagna e altre associazioni di categoria nazionali e internazionali. I gruppi più coraggiosi fecero delle dichiarazioni. Altri no, ma vennero criticati per la loro codardia, e questo produsse una pubblicità ancora più deleteria per l'URSS.80

Alla fine, del problema si interessarono anche gli scienziati sovietici. Quando Zores Medvedev fu condannato alla detenzione in un ospedale psichiatrico, molti di essi scrissero lettere di protesta all'Accademia delle scienze sovietica. Andre) Saharov, il fisico nucleare che negli anni Sessanta stava emergendo come leader morale del movimento dissidente, fece una dichiarazione pubblica in favore di Medvedev durante un simposio internazionale. Solzenicyn scrisse una lettera aperta alle autorità sovietiche per protestare contro l'incarcerazione di Medvedev: "È ora di guardarle in faccia, le cose: il ricovero in manicomio di persone sane e di spirito indipendente è un assassinio spirituale".8''1

Probabilmente la pressione internazionale contribuì a convincere le autorità a rilasciare un certo numero di prigionieri, tra cui Medve- ' dev, che fu poi espulso dal paese. Ma alcuni personaggi ai massimi livelli della dirigenza sovietica la giudicarono una decisione sbagliata. Nel 1967 Jurij Andropov, all'epoca capo del KGB, scrisse un promemoria segreto in cui descriveva con una certa precisione (se si trascura il tono artificioso e l'antisemitismo) le origini internazionali della "campagna antisovietica":

Dati recenti dimostrano che la campagna ha il carattere di un'azione antisovietica pianificata con cura ... in questo momento coloro che l'hanno avviata stanno cercando di coinvolgervi organizzazioni psichiatriche internazionali e nazionali e specialisti di chiara fama per creare una "commissione" incaricata di controllare le attività degli psichiatri in vari paesi e soprattutto nell'URSS ... il Royal College of Psychiatrists, in Gran Bretagna, sotto l'influsso di elementi sionisti, si adopera attivamente per fomentare questi sentimenti antisovietici.82

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Andropov descriveva con cura gli sforzi compiuti per indurre la World Psychiatric Association a denunciare l'URSS, e rivelava di sapere bene in quali seminari internazionali era stata condannata la psichiatria sovietica. In risposta al suo promemoria, il ministero della Sanità sovietico propose di lanciare una massiccia campagna di propaganda in previsione dell'imminente congresso della World Psychiatric Association. Propose anche di preparare documenti scientifici in cui si confutavano le accuse e di individuare in Occidente degli psichiatri "progressisti" disposti a sostenerli. In cambio, tali "progressisti" sarebbero stati premiati con inviti in URSS, dove sarebbero stati condotti a visitare ospedali psichiatrici prestabiliti. Si facevano persino i nomi di alcuni psichiatri che avrebbero potuto accettare.83

Insomma, invece di rinunciare agli abusi compiuti per motivi politici in ambito psichiatrico, Andropov proponeva di difenderli a spada tratta. Non era da lui ammettere che qualche aspetto della politica sovietica potesse essere sbagliato.

T

XXVII GLI ANNI OTTANTA: I MONUMENTI ABBATTUTI

Stanno abbattendo il piedistallo rotto della statua, dall'acciaio dei martelli pneumatici sale uno strido. La mescola di cemento speciale, durissimo, era calcolata per durare millenni...

Tutti i manufatti, nel mondo in cui viviamo, possono diventare rottami, sotto la mano dell'uomo. Ma il punto vero è questo: in sostanza la pietra non può mai essere né cattiva né buona.

ALEKSANDR TVARDOVSKIJ,

// piedistallo rotto della statua1

Nel 1982, quando Jurij Andropov assunse le mansioni di segretario generale del Partito comunista sovietico, in Unione Sovietica era già in corso da tempo il suo "giro di vite" sugli "elementi asociali". Contrariamente ad alcuni suoi predecessori, Andropov era sempre stato convinto che i dissidenti, pur essendo un gruppetto sparuto, andavano considerati una seria minaccia per il potere sovietico. Nel 1956, quando si trovava a Budapest in veste di ambasciatore, aveva visto con che velocità un movimento di intellettuali poteva trasformarsi in una rivoluzione popolare. Ed era anche sempre stato convinto che tutti i problemi politici, economici, sociali dell'Unione Sovietica si potessero risolvere con l'applicazione di una disciplina ancor più severa: campi e prigioni a regime più duro, una sorveglianza più stretta e maggiori intimidazioni.2

Erano queste le misure invocate da Andropov sin dal 1979, quando fu chiamato a dirigere il KGB, e da lui adottate durante il breve periodo in cui fu alla guida dell'Unione Sovietica. Grazie ad Andropov, la prima metà degli anni Ottanta è ricordata come l'epoca della

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storia sovietica, dopo la morte di Stalin, in cui venne esercitata la massima repressione. Era come se la pressione all'interno del sistema dovesse raggiungere il punto di ebollizione appena prima che tutto andasse in pezzi.

Quello che è certo è che, dalla fine degli anni Settanta, il KGB di Andropov aveva arrestato e riarrestato un ingente numero di persone: sotto la sua direzione, gli attivisti recalcitranti ricevevano spesso nuove condanne proprio mentre stavano finendo di scontare quelle vecchie, come accadeva ai tempi di Stalin. L'appartenenza a uno dei gruppi sovietici di monitoraggio degli accordi di Helsinki, organizzazioni dissidenti che cercavano di vigilare sull'osservanza del trattato da parte dell'Unione Sovietica, divenne un motivo sufficiente per essere sicuri di finire in prigione. Tra il 1977 e il 1979 vennero arrestati 23 membri del gruppo di Mosca e 7 espulsi all'estero. Jurij Orlov, dirigente del gruppo di Helsinki moscovita, rimase in carcere per tutta la prima metà degli anni Ottanta.3

Ma l'arresto non era l'unica arma di Andropov. Dato che il suo obiettivo primario era quello di seminare il panico tra la gente per dissuaderla dall'aderire ai movimenti dissidenti, la portata della repressione fu assai più vasta. Chi era anche solo sospettato di simpatizzare per i movimenti dei diritti umani, religiosi o nazionalistici, rischiava di perdere tutto. Gli indagati e i loro coniugi potevano essere privati non solo del lavoro, ma anche del proprio status e dei titoli professionali. Ai loro figli poteva essere negato il diritto di frequentare l'università, ed era consentito tagliare loro il telefono, revocare il permesso di residenza, ridurre la possibilità di spostarsi all'interno del paese.4

Alla fine degli anni Settanta le multiformi "misure disciplinari" adottate da Andropov erano riuscite a dividere sia il movimento dissidente sia i suoi sostenitori stranieri in piccoli gruppi di interesse, chiusi in se stessi e talvolta diffidenti uno verso l'altro. C'erano gli attivisti per i diritti umani, le cui sorti erano strettamente legate a gruppi come Amnesty International. C'erano i dissidenti battisti, la cui causa era sostenuta dalla Chiesa evangelica internazionale. C'erano i dissidenti nazionalisti ucraini, lituani, lettoni, georgiani, sostenuti dai compatrioti in esilio. C'erano i meskheti e i tatari di Crimea deportati all'epoca di Stalin, che chiedevano di poter tornare nei paesi d'origine.

Il gruppo più noto in Occidente era probabilmente quello dei dissidenti chiamati refjuznik, ebrei sovietici cui era stato negato il diritto di emigrare in Israele. I refjuznik, portati agli onori della cronaca dall'emendamento Jackson-Vanik approvato dal Congresso statunitense nel 1975, che legava gli scambi commerciali fra USA e URSS al proble-

Gli anni Ottanta: i monumenti abbattuti

ma dell'emigrazione, hanno rappresentato una seria preoccupazione per Washington fino al crollo dell'Unione Sovietica. Nell'autunno del 1986, durante un incontro con Mihail Gorbacev a Reykjavik, il presidente americano Ronald Reagan consegnò di sua mano al dirigente sovietico un elenco di 1200 ebrei sovietici che desideravano emigrare.5 Tutti questi gruppi, tenuti ormai rigorosamente separati dai criminali comuni, erano ben rappresentati nei campi e nelle prigioni sovietiche, dove si organizzavano, come i politici del passato, in base alle cause comuni.6 A quell'epoca si potrebbe quasi dire che i campi costituivano una sorta di scuola del dissenso, dove i detenuti politici potevano incontrare altre persone con idee simili alle loro. A volte, lituani e lettoni, georgiani e armeni festeggiavano insieme le rispettive ricorrenze nazionali, e discutevano amabilmente su quale sarebbe stato il primo paese a liberarsi dall'Unione Sovietica.71 contatti avvenivano anche tra diverse generazioni: baltici e ucraini ave-

j vano la possibilità di conoscere la precedente generazione di nazio-

I nalisti, i partigiani antisovietici condannati a pene di venticinque anni e mai rilasciati. Poiché la vita di questi ultimi, come ha scritto Bukovskij, "si era fermata a quando avevano vent'anni", i campi, in

i un certo senso, li avevano preservati. "Le domeniche d'estate uscivano al sole con le fisarmoniche, suonavano melodie, canzoni che a casa loro non ricordavano più. Uno spettacolo raccapricciante. Co-

I me se ti fossi calato nel regno dell'oltretomba".8

La generazione più anziana faceva spesso fatica a comprendere i compatrioti più giovani. Uomini e donne che avevano combattuto con i fucili nella foresta non riuscivano a capire i dissidenti che si battevano con pezzi di carta.9 Ma i vecchi riuscivano ancora a ispirare i giovani con il loro esempio. Tali incontri servirono a formare le persone che negli anni successivi avrebbero organizzato i movimenti nazionalisti, i quali hanno dato un contributo decisivo al dissolvimento dell'Unione Sovietica. Ripensando a quell'esperienza, l'attivista georgiano David Berdzenisvili mi ha confidato che era contento di aver trascorso negli anni Ottanta ventiquattro mesi in un campo di lavoro anziché nell'esercito sovietico.

I rapporti personali si erano consolidati, come quelli con il mondo esterno. Un numero della "Hronika" pubblicato nel 1979 descrive perfettamente questo fenomeno, anche perché riporta un resoconto quotidiano della vita nelle celle di punizione del campo Perm'-36:

13 settembre. Zukauskas ha trovato un verme bianco nella zuppa. 26 settembre. Oggi ha trovato nella tazza un insetto nero lungo un centime-tro e mezzo. La scoperta è stata immediatamente riferita al capitano Nelipovic.

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27 settembre. Nella cella di punizione numero 6 è stata rilevata ufficialmente la temperatura di 12 gradi centigradi.

28 settembre. Nelle celle, la mattina, la temperatura era di 12 gradi. Sono stati distribuiti una seconda coperta e pantaloni imbottiti. Nelle stanze delle guardie in servizio sono state collocate delle stufe. Di sera la temperatura nelle celle era di 11 gradi.

1° ottobre. 11 gradi e mezzo.

2 ottobre. Nella cella numero 6 (Zukauskas, Gluzman, Marmus) è stata collocata una stufetta da 500 watt. Sia la mattina sia la sera la temperatura era di 12 gradi. A Zukauskas è stato richiesto di firmare un documento in cui si dichiarava che la sua produzione era dieci volte inferiore alla realtà. Lui ha rifiutato ...

10 ottobre. Balhanov ha rifiutato di partecipare volontariamente a una riunione della commissione educativa del campo. C'è stato portato a forza su ordine di Nikomarov.

E così via.

Le autorità non sembravano in condizione di impedire che le informazioni di questo tipo trapelassero all'estero e venissero trasmesse immediatamente in Unione Sovietica dalle stazioni radio occidentali. Nel 1983 la BBC diede notizia dell'arresto di Berdzenisvili appena due ore dopo che era avvenuto.10 Quando Ronald Reagan vinse per la seconda volta le elezioni negli Stati Uniti, la Ratusinskaja e le sue compagne di baracca del campo femminile della Mordovia gli inviarono un messaggio di congratulazioni, che ricevette due giorni dopo. Quelli del KGB, racconta la Ratusinskaja divertita, erano "infuriati".11

Trovate del genere lasciavano un po' perplessi gli osservatori esterni più dotati di buonsenso, che guardavano attraverso lo specchio lo strano mondo dell'Unione Sovietica. Di fatto, Andropov sembrava aver vinto la partita su tutti i fronti. Dopo dieci anni di intimidazioni, incarcerazioni e deportazioni, il movimento dei dissidenti era ormai circoscritto e debole.12 Quasi tutti i dissidenti più famosi erano stati messi a tacere: alla metà degli anni Ottanta Solzenicyn era in esilio all'estero e Saharov confinato nella città di Gor'kij. Fuori della porta dell'abitazione di Roj Medvedev stazionavano stabilmente dei poliziotti, che ne sorvegliavano ogni movimento. Insomma, nessuno in URSS sembrava accorgersi della loro lotta. Peter Reddaway, che all'epoca godeva della fama di massimo esperto occidentale del dissenso sovietico, nel 1983 scrisse che il movimento di opposizione al regime aveva avuto "un impatto minimo o nullo sulle masse della gente comune nel cuore della Russia".13

I sicari e i secondini, i medici corrotti e gli agenti della polizia segreta sembravano tutti ben protetti, al sicuro nell'ambito delle professioni che si erano scelti, ma il terreno tremava sotto i loro piedi.

Gli anni Ottanta: i monumenti abbattuti 579

Ben presto fu chiaro che il netto rifiuto di Andropov di tollerare il dissenso non poteva durare. Quando morì, nel 1984, con lui morì anche la sua politica.

Nel marzo 1985, allorché Mihail Gorbacev fu nominato segretario generale del Partito comunista sovietico, in un primo momento il suo carattere parve misterioso sia agli stranieri sia ai suoi compatrioti. Sembrava scaltro e mellifluo, come altri burocrati sovietici, eppure c'erano indizi che lasciavano pensare che fosse diverso. Nell'estate successiva alla sua nomina incontrai un gruppo di refjuznik di Leningrado che risero della nostra ingenuità di occidentali: come potevamo pensare che la presunta preferenza di Gorbacev per il whisky rispetto alla vodka e l'ammirazione di sua moglie per gli abiti occidentali implicassero una maggiore tolleranza rispetto ai suoi predecessori?

E invece si sbagliavano, lui era diverso. All'epoca erano in pochi a sapere che Gorbacev proveniva da una famiglia di "nemici". Uno dei suoi nonni, un contadino, era stato arrestato nel 1933 e mandato in un campo di lavoro. L'altro era stato arrestato nel 1938 e torturato in prigione da un inquirente che gli ruppe entrambe le braccia. Questi fatti avevano avuto un impatto enorme sul giovane Mihail, come ha raccontato poi nelle sue memorie: "I nostri vicini cominciarono a evitare la nostra casa come se fossimo appestati. Qualche parente stretto si avventurava a passare soltanto di notte. Persine i bambini del vicinato mi schivavano ... per me fu un grosso trauma, e da allora mi è rimasto impresso nella memoria".14

Tuttavia, lo scetticismo dei refjuznik non era completamente infondato, perché i primi mesi dell'epoca Gorbacev furono deludenti. Si lanciò in una campagna contro l'alcol che irritò la gente, mandò in rovina le antiche vigne della Geòrgia e della Moldavia, e forse provocò l'irreversibile crisi economica che si sarebbe registrata qualche anno dopo (alcuni ritengono che sia stato proprio il crollo delle vendite di vodka a distruggere per sempre il delicato equilibrio finanziario del paese). Solo nell'aprile 1986, dopo l'esplosione del complesso nucleare di Cernobyl, in Ucraina, Gorbacev mise mano ad autentici cambiamenti. Convinto che l'Unione Sovietica avesse bisogno di parlare apertamente dei propri problemi, avanzò una proposta di riforma: la glasnost', o "trasparenza".

All'inizio la glasnost', come la campagna antialcolici, fu sostanzialmente una strategia economica. Gorbacev sperava che parlare apertamente delle concretissime crisi economiche, ecologiche e sociali

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dell'Unione Sovietica avrebbe portato a soluzioni rapide, a quella ristrutturazione (perestrojka) di cui aveva iniziato a parlare nei suoi discorsi. In un tempo straordinariamente breve, però, la glasnost' cominciò a riguardare anche la storia sovietica.

Anzi, per descrivere ciò che è accaduto nel dibattito pubblico in Unione Sovietica alla fine degli anni Ottanta si è sempre tentati di usare metafore di "inondazione"; il crollo di una diga, la rottura di un argine, lo straripamento di un fiume. Nel gennaio 1987 Gorbacev spiegò a un gruppo di giornalisti perplessi che bisognava riempire le "pagine bianche" nella storia dell'Unione Sovietica. In novembre erano ormai cambiate così tante cose che Gorbacev diventò il secondo dirigente del Partito nella storia sovietica a citare apertamente in un discorso tali "pagine bianche":

È stata proprio la mancanza di un'adeguata democratizzazione della società sovietica a rendere possibili il culto della personalità e le violazioni della legge, gli arbitri e le repressioni degli anni Trenta, per dirla a chiare lettere i crimini basati sull'abuso di potere. Molte migliaia di iscritti al Partito e di non iscritti furono assoggettati alla repressione di massa. È questa, compagni, l'amara verità.15

In realtà, Gorbacev fu meno eloquente di quanto fosse stato Hruscev, ma probabilmente ebbe un impatto maggiore sul pubblico sovietico. Dopotutto, Hruscev aveva pronunciato il suo discorso in una riunione ristretta, mentre Gorbacev parlò alla televisione nazionale.

Inoltre, dopo il suo discorso Gorbacev proseguì con molto più entusiasmo di quanto ne avesse mai dimostrato Hruscev, sicché ogni settimana comparvero sulla stampa sovietica nuove "rivelazioni". Finalmente il pubblico sovietico poteva leggere Osip Mandel'stam e losif Brodskij, Requiem di Anna Ahmatova, il Dottar Zivago di Boris Pasternak e persino Lolita di Vladimir Nabokov. "Novyj mir", sotto una nuova direzione, pretese e ottenne di pubblicare dei brani di Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn.16 Una giornata di Ivan Deniso-vic vendette milioni di copie e anche autori le cui opere erano circolate - se erano circolate - soltanto nel samizdat pubblicarono le loro memorie sul Gulag in centinaia di migliaia di copie. I nomi di alcuni sono diventati ormai familiari: Evgenija Ginzburg, Lev Razgon, Anatolij Zigulin, Varlam Salamov, Dmitrij Lihacev e Anna Larina.

Ripresero anche le riabilitazioni. Tra il 1964 e il 1987 erano state riabilitate solo 24 persone. Invece, anche per reazione alle rivelazioni spontanee della stampa, il processo ricominciò, e questa volta riguardò anche coloro che fino a quel momento erano stati trascurati: i primi fu-

Gli anni Ottanta: i monumenti abbattuti 581

rono Buharin e altri 19 dirigenti bolscevichi incarcerati durante le epurazioni del 1938. "I fatti erano stati falsificati" annunciò in forma solenne un portavoce del governo.17 Ora si sarebbe detta la verità.

La pubblicazione di nuovi testi fu accompagnata da nuove rivelazioni, dovute all'apertura degli archivi sovietici. A farle furono alcuni storici sovietici, che - a loro dire - avevano "visto la luce", e l'Associazione Memorial, fondata da un gruppo di giovani ricercatori impegnati da molti anni nella raccolta di racconti orali dei sopravvissuti dei campi. Uno di questi era Arsenij Roginskij, già fondatore della rivista "Pamiat'" (Memoria), inizialmente pubblicata nel samizdat e poi, dagli anni Settanta, all'estero. Il gruppo di Roginskij aveva già cominciato a raccogliere un archivio di dati sulle vittime della repressione, poi l'Associazione Memorial si battè perché venissero identificati i cadaveri sepolti nelle fosse comuni fuori Mosca e Leningrado, e perché si costruissero monumenti e memoriali relativi all'epoca staliniana. Dopo un breve e infruttuoso tentativo di trasformarsi in un movimento politico, negli anni Novanta l'Associazione Memorial è diventata il più importante centro per lo studio della storia sovietica e la difesa dei diritti umani nella Federazione russa. Il direttore, Roginskij, è anche uno dei suoi esponenti di maggior spicco. Ben presto gli studi di storia dell'Associazione Memorial hanno acquisito autorevolezza tra gli specialisti di tutto il mondo per l'accuratezza, la fedeltà ai fatti e la scrupolosa scelta della documentazione.18

Tuttavia, anche se la qualità del dibattito pubblico si modificò con straordinaria rapidità, la situazione non era ancora così limpida come poteva apparire dall'esterno. Gorbacev, per quanto stesse introducen-do quei cambiamenti che di lì a poco avrebbero provocato il crollo dell'Unione Sovietica, e per quanto in Germania e negli Stati Uniti si fosse diffusa la "gorbymania", nel suo intimo è rimasto pur sempre, come Hruscev, un convinto e fedele sostenitore del regime sovietico. Non ha mai voluto mettere in discussione i princìpi fondamentali del marxismo sovietico o i risultati ottenuti da Lenin, e ha sempre voluto riformare e modernizzare l'Unione Sovietica, non smantellarla. Era arrivato a convincersi, forse grazie alla propria esperienza familiare, che fosse importante dire la verità sul passato. Eppure, almeno all'inizio, non sembrava vedere un nesso tra il passato e il presente.

È per questo che la pubblicazione di una marea di articoli sui campi staliniani, le prigioni, le stragi del passato non è stata subito accompagnata dalla scarcerazione in massa dei dissidenti ancora reclusi. Alla fine del 1986, sebbene Gorbacev stesse per cominciare a parlare delle "pagine bianche", sebbene l'Associazione Memorial avesse in-

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trapreso un'intensa campagna di propaganda per la costruzione di un monumento alle vittime della repressione, e sebbene il resto del mondo parlasse ormai con entusiasmo della nuova dirigenza sovietica, Amnesty International conosceva i nomi di 600 detenuti per motivi di coscienza ancora rinchiusi nei campi sovietici, e sospettava che ce ne fossero molti altri.19

Uno di questi era Anatolij Marcenko, morto durante uno sciopero della fame nella prigione di Cistopol' nel dicembre di quell'anno.20 Sua moglie, Larisa Bogoraz, arrivò in carcere e trovò tre soldati che piantonavano il suo cadavere, al quale era stata praticata l'autopsia. Non le consentirono di incontrare nessuno della prigione, né medici né prigionieri, e nemmeno amministratori, ma solo un funzionario politico, Curbanov, che la trattò in modo sgarbato. Non volle dirle come era morto Marcenko e non le rilasciò né un certificato di morte o di sepoltura, né una cartella cllnica, e non le diede nemmeno le lettere e i diari. Lei accompagnò la salma del marito nel cimitero cittadino insieme a un gruppo di amici e ai tre uomini della scorta carceraria:

C'era un'aria d'abbandono, soffiava un forte vento e non c'era nessun altro intorno, a parte noi e la scorta di Tolja. Avevano a portata di mano tutto il necessario, ma hanno capito che non li avremmo lasciati avvicinare alla tomba e sono rimasti in disparte "fino alla fine dell'operazione", per usare il modo in cui si è espresso uno dei tre. Gli amici di Tolja hanno detto qualche parola di commiato sulla tomba. Poi abbiamo cominciato a riempire la fossa di terra, prima con le mani e poi con le pale ...

Abbiamo piantato una croce di abete bianca, che mi auguro fosse stata costruita dagli altri prigionieri. Ci ho scritto sopra con una biro: "Anatolij Marcenko, 23.1.1938 - 8.12.1986".2!

Secondo quanto ha raccontato in seguito la Bogoraz, sebbene le autorità avessero circondato di mistero la morte del marito, non sono riuscite a nascondere che "Anatolij Marcenko è morto lottando ... La sua lotta era durata venticinque anni e lui non aveva mai alzato la bandiera bianca".22

Tuttavia, la tragica morte di Marcenko non fu vana. Forse spintovi dall'ondata di cattiva pubblicità provocata dalla sua scomparsa - le dichiarazioni della Bogoraz furono trasmesse in tutto il mondo -, alla fine del 1986 Gorbacev decise di concedere la grazia a tutti i prigionieri politici sovietici.

L'amnistia che chiuse per sempre le prigioni politiche dell'Unione Sovietica ebbe molti aspetti strani, ma quello più strano fu sicuramente lo scarso interesse che suscitò. In fondo si trattava della fine del

Gli anni Ottanta: i monumenti abbattuti 583

sistema del Gulag, la fine del complesso di campi di detenzione che un tempo avevano ospitato milioni di persone. Fu il trionfo del movimento dei diritti umani, su cui negli ultimi vent'anni si sono incentrate tante attenzioni di carattere diplomatico. Fu un momento epocale, di vera e propria svolta storica. Eppure, quasi nessuno se ne accorse.

I corrispondenti da Mosca buttavano giù qualche sporadico articolo ma, salvo un paio di eccezioni, pochissimi di coloro che hanno scritto dei libri sull'epoca di Gorbacev e El'cin hanno parlato degli ultimi giorni dei campi di concentramento. Anche gli scrittori e i giornalisti più bravi e più dotati, tra i molti che alla fine degli anni Ottanta vivevano a Mosca, erano troppo occupati da altri avvenimenti: i maldestri tentativi di riforma economica, le prime elezioni libere, i cambiamenti in politica estera, la fine dell'impero sovietico nell'Europa orientale, la fine dell'Unione Sovietica stessa.23

E nemmeno i russi, distratti dagli stessi problemi, se ne accorsero. I dissidenti, divenuti famosi quando si trovavano in clandestinità, al proprio ritorno scoprirono di non esserlo più. Quasi tutti erano invecchiati e ormai non più in sintonia con i tempi. Per usare le parole di un giornalista occidentale che in quei tempi si trovava in Russia, avevano "vissuto in privato, battendo petizioni su vecchie macchine da scrivere nelle loro dacie, sfidando le autorità in vestaglia, mentre sorbivano té assurdamente dolce. Non erano fatti per le battaglie in Parlamento o in televisione, e sembravano profondamente disorientati dai drastici cambiamenti avvenuti nel paese durante la loro lontananza".24

La maggior parte di quegli ex dissidenti che rimasero sulla scena pubblica non si preoccupavano più in modo esclusivo delle sorti degli ultimi campi di concentramento sovietici. Andre] Saharov, liberato dall'obbligo di residenza coatta nel dicembre 1986 ed eletto al congresso dei deputati del popolo nel 1989, si mise ben presto in attività per promuovere la riforma della legge sulla proprietà privata.25 Due anni dopo essere stato rilasciato, il detenuto armeno Levon Ter-Petrossian fu eletto presidente del suo paese. Una schiera di ucraini e cittadini dei paesi baltici passò direttamente dai campi di Perm' e della Mordovia ai manicomi politici dei rispettivi paesi, perorando a gran voce l'indipendenza.26

Certo, i membri del KGB si accorsero che le prigioni politiche stavano chiudendo, ma nemmeno loro sembravano comprendere appieno la portata dell'evento. Leggendo i pochi documenti ufficiali disponibili della seconda metà degli anni Ottanta è sorprendente constatare quanto il linguaggio della polizia segreta fosse rimasto sostanzialmente lo stesso, anche in quella fase in cui la partita stava

Gulag

volgendo alla fine. Nel febbraio 1986 Viktor Cebrikov, allora capo del KGB, spiegò con orgoglio a un congresso di Partito un'importante operazione di controspionaggio effettuata dalla sua organizzazione per ben precisi motivi: "L'Occidente diffonde menzogne sulle violazioni dei diritti umani per fomentare aspirazioni antisovietiche tra quei rinnegati".27

Quello stesso anno Cebrikov inviò un rapporto al comitato centrale in cui descriveva la lotta condotta costantemente dalla sua organizzazione contro "le attività delle agenzie di spionaggio imperialiste e gli elementi sovietici nemici a esse legati". Si vantò anche del fatto che il KGB era riuscito a "paralizzare" le attività di svariati gruppi, tra cui i comitati di monitoraggio di Helsinki, e addirittura di aver costretto, tra il 1982 e il 1986, "oltre cento persone a cessare attività illegali e a tornare sulla via della giustizia". Alcuni di essi, ne nominava nove, avevano persino "rilasciato dichiarazioni pubbliche alla televisione e sui giornali, smascherando le spie occidentali e quelli che la pensano come loro".

Tuttavia, poche righe dopo, Cebrikov ammetteva che forse le cose erano cambiate. Bisogna leggere con attenzione per capire quanto fosse profondo tale cambiamento: "Le attuali condizioni di democratizzazione della società sotto tutti gli aspetti e il consolidamento dell'unità del Partito e della società rendono possibile un riesame del problema dell'amnistia".28

In realtà, voleva dire che i dissidenti erano così deboli da non poter più fare alcun danno, e che comunque sarebbero stati sorvegliati, come aveva affermato alla riunione del Politbjuro precedente, "per assicurarsi che non perseverino nella loro attività ostile".29 In un'altra dichiarazione aggiunse, quasi come se ci avesse ripensato, che, secondo i calcoli del KGB, negli ospedali psichiatrici speciali erano detenute senza necessità 96 persone e propose di rilasciare quelli che non rappresentavano un "pericolo per la società".30 Il comitato centrale accettò e, nel febbraio 1987, amnistiò 2000 prigionieri incarcerati ai sensi dell'articolo 70 o dell'articolo 190-1. Alcuni mesi dopo, in occasione del millenario del cristianesimo in Russia, ne furono rilasciati altri dai campi. Nei due anni successivi furono dimessi dagli ospedali psichiatrici oltre 2000 detenuti (molti più di 96!).31

Eppure, anche allora - forse per abitudine, o forse perché insieme alla popolazione carceraria vedeva svanire il suo potere - il KGB sembrava stranamente riluttante a liberare i politici. A quelli rilasciati nel 1986 e nel 1987, dato che dal punto di vista formale erano stati graziati e non amnistiati, all'inizio fu chiesto di firmare un do-

Gli anni Ottanta: i monumenti abbattuti 585

cumento in cui si dissociavano dall'attività antisovietica. A molti, però, venne consentito di inventarsi formule proprie per evitare un'ammissione di colpevolezza: "Per motivi di salute non mi impegnerò più in attività antisovietiche", oppure "Non sono mai stato antisovietico, ero anticomunista, e non esistono leggi che proibiscano di essere anticomunisti". Un dissidente, Lev Timofeev, scrisse: "Chiedo di essere rilasciato, non intendo nuocere allo Stato sovietico né ho mai avuto tale intenzione in precedenza".32

Ad altri, invece, chiesero ancora di rinunciare alle proprie convinzioni, oppure li costrinsero a emigrare.33 Un detenuto ucraino, al momento del rilascio, fu inviato direttamente in esilio, dove doveva rispettare il coprifuoco e presentarsi alla stazione della milizia una volta alla settimana.34 Un dissidente georgiano rimase altri sei mesi nel campo di lavoro semplicemente perché rifiutava di sottoscrivere qualsiasi cosa potesse inventarsi il KGB.35 Un altro rifiutò di chiedere ufficialmente la grazia in quanto "non aveva commesso alcun reato".36

Tipica di quel periodo è la vicenda di Bohdan Klymcak, un tecnico ucraino arrestato per aver tentato di lasciare l'Unione Sovietica. Nel 1978, temendo di essere arrestato con l'accusa di nazionalismo ucraino, aveva varcato la frontiera sovietica con l'Iran e chiesto asilo politico, ma gli iraniani lo avevano rimandato indietro. Nell'aprile 1990 era ancora detenuto nella prigione politica di Perm'. Un gruppo di congressisti americani riuscì a fargli visita e scoprì che, in pratica, a Perm' la situazione rimaneva immutata. I prigionieri si lamentavano ancora per il freddo che dovevano patire, e venivano ancora rinchiusi nelle celle di punizione per reati come il rifiuto di abbottonarsi l'ultimo bottone dell'uniforme.37

Ciononostante, tra cigolii e sbandate, brontolii e gemiti, il regime repressivo stava finalmente estinguendosi, come l'intero sistema. Anzi, quando nel febbraio 1992 i campi politici di Perm' chiusero finalmente i battenti, la stessa Unione Sovietica aveva cessato di esistere. Tutte le ex repubbliche sovietiche erano diventate paesi indipendenti. Alcune, come l'Armenia, l'Ucraina e la Lituania, erano guidate da ex detenuti, altre da ex comunisti le cui convinzioni si erano sgretolate nel corso degli anni Ottanta, quando per la prima volta avevano a-vuto le prove del passato terrore.38 Il KGB e l'MVD, pur se non completamente smantellati, vennero sostituiti da altre organizzazioni. Gli agenti della polizia segreta cominciarono a cercarsi un nuovo lavoro nel settore privato. I carcerieri, resisi conto della situazione, si trasferirono con discrezione negli organi di governo locali. Nel novembre 1991 il nuovo Parlamento russo approvò una "Dichiarazione dei di-

Gii lag

ritti e delle libertà dell'individuo" in cui si garantisce, tra l'altro, la libertà di spostarsi, la libertà di professare qualsiasi fede religiosa e la libertà di essere in disaccordo con il governo.39 Purtroppo, la nuova Russia non era destinata a diventare un esempio di tolleranza etnica, religiosa e politica, ma questa è un'altra storia, una storia a parte.

I cambiamenti avvennero con una rapidità sconvolgente, e nessuno ne parve più disorientato dell'uomo che aveva dato inizio alla disintegrazione dell'Unione Sovietica. Perché è stato questo, in fin dei conti, la "lacuna" più grande di Gorbacev: Hruscev lo sapeva, Breznev lo sapeva, ma Gorbacev, nipote di "nemici" e creatore della glasnost', non si rese conto che una discussione esauriente e onesta sul passato avrebbe alla fine minato la legittimità stessa del governo sovietico. "Ora vediamo con maggior chiarezza il nostro fine" disse alla vigilia di Capodanno del 1989. "È un socialismo umano e democratico, una società di libertà e di giustizia sociale."40 Persino in quel momento non riusciva a capire che il socialismo, nella sua accezione sovietica, stava per estinguersi.

E, anni dopo, non riuscì nemmeno a capire lo stretto rapporto tra le rivelazioni della stampa all'epoca della glasnost' e il collasso del comunismo sovietico. Gorbacev, in fin dei conti, non si è reso conto che, una volta detta la verità sul passato staliniano, sarebbe stato impossibile mantenere inalterato il mito della grandezza sovietica. Entrambi erano intrisi di troppa crudeltà, troppi spargimenti di sangue e troppe menzogne.

Tuttavia, se Mihail Gorbacev non comprese il suo paese, moltissimi altri invece sì. Vent'anni prima l'editore di Solzenicyn, Aleksandr Tvardovskij, avvertì la potenza del passato non detto, intuì quale impatto avrebbe potuto avere sul sistema sovietico resuscitare i ricordi. Ha descritto le sue sensazioni in una poesia:

Sbagliano se pensano che la memoria

non abbia un valore crescente

o che le erbacce del tempo ricoprano  i-

tutti gli eventi e i dolori passati.  r.

Perché il pianeta gira, gira,

scandendo i giorni e gli anni...

No. Oggi il dovere ci impone che quanto

non è stato detto sia detto fino in fondo.. .41

il

Epilogo MEMORIA

E gli assassini? Gli assassini sono tra noi. LEV RAZGON, La nuda verità1

All'inizio dell'autunno del 1998 ho preso un traghetto in servizio sul mar Bianco per recarmi dalla città di Arcangelo alle isole Soloveckie. Era l'ultima traversata dell'estate: dopo la metà di settembre, quando le notti artiche cominciano ad allungarsi, le imbarcazioni cessano di percorrere quella rotta. Il mare diventa troppo grosso, l'acqua troppo ghiacciata, per una gita turistica di due giorni.

Forse la consapevolezza che era la fine della stagione conferiva al viaggio un tocco di allegria in più. O forse i passeggeri erano eccitati soltanto dal mare aperto. Comunque sia, nella sala ristorante regnava un allegro brusio. Ci sono stati molti brindisi, molte battute, e un applauso di cuore per il capitano. I compagni di tavola che mi erano stati assegnati, due coppie di mezza età residenti in una base navale lungo la costa, sembravano decisi a divertirsi.

All'inizio, la mia presenza accentuava soltanto l'allegria generale. Non capita tutti i giorni di incontrare un'americana autentica a bordo di un traghetto traballante in mezzo al mar Bianco, e la stranezza li divertiva. Hanno voluto sapere perché parlavo russo, che cosa pensavo della Russia, in che cosa si differenzia dagli Stati Uniti. Quando ho raccontato che cosa stavo facendo lì, la loro allegria è un po' scemata. Un'americana in viaggio di piacere, che visita le Soloveckie per ammirare il paesaggio e il magnifico monastero antico è una cosa, ma un'americana che visita le Soloveckie per vedere ciò che rimane del vecchio campo di concentramento è tutta un'altra faccenda.

Uno dei due uomini seduti al mio tavolo ha assunto un atteggiamento ostile. "Perché voi stranieri vi occupate solo delle cose brutte

Gulag

della nostra storia?" ha chiesto. "Perché scrivete del Gulag? Perché non parlate dei nostri successi? Noi siamo stati il primo paese a mandare un uomo nello spazio!" Quel "noi" significava "noi sovietici". L'Unione Sovietica aveva cessato di esistere sette anni prima, ma lui continuava a considerarsi un cittadino sovietico, non un russo.

Anche la moglie mi ha aggredito. "Il Gulag non ha più importanza" mi ha detto. "Qui abbiamo i nostri problemi. La disoccupazione, la criminalità. Perché non parla dei nostri veri problemi, invece di cose accadute tanto tempo fa?"

Mentre questa spiacevole conversazione proseguiva, l'altra coppia restava in silenzio, e l'uomo non ha mai espresso la sua opinione riguardo al passato sovietico. A un certo punto, però, la moglie mi ha manifestato il suo sostegno. "Capisco perché vuole sapere dei campi" mi ha detto con gentilezza. "È interessante comprendere che cosa è accaduto. Vorrei saperne di più."

Nei miei successivi viaggi in tutta la Russia ho riscontrato moltissime volte questi quattro atteggiamenti nei confronti del mio progetto. Spesso la gente replicava con un "Non sono affari suoi" o "Non è importante". La reazione più comune forse era il silenzio, o un'assenza di opinioni espressa scrollando le spalle. Ma alcuni capivano perché è importante conoscere il passato e si auguravano che diventasse più facile saperne di più.

In effetti, se ci si impegna, nella Russia di oggi si può apprendere molto sul passato. Non tutti gli archivi russi sono chiusi, e non tutti gli storici russi sono assorbiti da altre cose: questo libro è la testimonianza di quante informazioni siano diventate disponibili negli ultimi tempi. Inoltre, in alcune ex repubbliche sovietiche e in alcuni ex paesi satelliti la storia del Gulag è diventata un argomento di pubblica discussione. Anzi, certe popolazioni, di solito quelle che ritengono di aver subito il terrore, e non di averlo perpetrato, attribuiscono grande importanza alla memorialistica e al dibattito. I lituani hanno convertito l'ex quartier generale del KGB a Vilnius in un museo delle vittime del genocidio. I lettoni hanno trasformato un vecchio museo sovietico, un tempo dedicato ai "fucilieri rossi" di Lettonia, in un museo dell'occupazione russa del loro paese.

Nel febbraio 2002 ho partecipato all'inaugurazione di un nuovo museo ungherese, situato in un edificio che era stato il quartier generale del movimento fascista tra il 1940 e il 1945 e il quartier generale della polizia segreta comunista ungherese tra il 1945 e il 1956. Nella prima sala c'era una parete ricoperta di schermi televisivi che trasmettevano propaganda fascista, mentre sui monitor appesi alla

Epilogo  589

parete opposta andava in onda propaganda comunista. L'effetto era immediato e inquietante, come voluto dai creatori, e l'impostazione era analoga in tutto il museo. Gli organizzatori della mostra si erano serviti di fotografie, suoni, video e pochissime parole per far conoscere il significato delle cose esposte - senza alcuna intenzione giu-stificatoria - a persone troppo giovani per ricordare i due regimi.

In Bielorussia, invece, la mancanza di un monumento si è trasformata in un importante problema politico: ancora nell'estate del 2002 il presidente-dittatore Aleksandr Lukasenko ha dichiarato apertamente di voler costruire una superstrada nella località nei dintorni di Minsk, la capitale del paese, in cui nel 1937 è stata perpetrata una strage di massa. I suoi discorsi hanno spronato l'opposizione e fomentato una discussione più approfondita sul passato.

Inoltre, in tutta la Russia sono disseminati alcuni monumenti ufficiosi, semiufficiali e privati, eretti da persone e organizzazioni diver-sissime tra loro. Il quartier generale dell'Associazione Memorial di Mosca ospita un archivio di testimonianze orali e scritte, e un piccolo museo che contiene, fra l'altro, una straordinaria collezione di opere artistiche dei detenuti. Il museo Andrej Saharov, sempre a Mosca, ospita esposizioni e mostre sull'epoca staliniana. Nei dintorni di molte città - Mosca, Pietroburgo, Tomsk, Kiev, Petrozavodsk - le sedi locali dell'Associazione Memorial e altre istituzioni hanno eretto monumenti per commemorare i siti delle stragi di massa del 1937 e del 1938.

Ci sono anche opere più imponenti. La cintura di miniere carbonifere intorno a Vorkuta, in ciascuna delle quali un tempo c'era un lagpunkt, è tempestata di croci, statue e altri monumenti commemorativi, eretti da vittime dei campi, di nazionalità lituana, polacca e tedesca. Nel museo di storia locale della città di Magadan, molte sale sono dedicate alla storia del Gulag (c'è persino una torretta di guardia). Su una collina che guarda la città, un noto scultore russo ha eretto un monumento ai morti della Kolyma, che rappresenta i simboli delle molte religioni professate. In una sala ricavata all'interno dei muri del monastero di Soloveckij, anch'esso trasformato in museo,, sono esposte lettere e fotografie dei detenuti e documenti d'archivio; fuori è stato creato un viale alberato per commemorare i morti delle Soloveckie. Al centro di Syktyvkar, la capitale della repubblica dei Komi, i dirigenti locali e la sede dell'Associazione Memorial hanno edificato una piccola cappella. All'interno sono elencati alcuni nomi di detenuti, scelti allo scopo di testimoniare le molte nazionalità del Gulag: lituani, coreani, ebrei, cinesi, georgiani, spagnoli.

Gulag

Talvolta, in località fuori mano, si possono trovare monumenti strani, sorprendenti. Su una brulla collina nei dintorni della città di Uhta, il vecchio quartier generale dell'Uhtpeclag, è stata eretta una croce di ferro nel punto in cui ebbe luogo una strage di prigionieri. Per vederla ho dovuto percorrere una strada fangosa, pressoché impraticabile, superare a piedi un cantiere edilizio e arrampicarmi sulla massicciata di un binario. Anche così ero troppo lontana per leggere l'iscrizione. Eppure, gli attivisti locali che avevano eretto la croce ne andavano orgogliosi.

Ad alcune ore di viaggio da Petrozavodsk verso nord, nei dintorni del villaggio di Sandormoh, è stato innalzato un altro monumento, anche se forse, in questo caso, "monumento" non è la parola giusta. Benché vi sia una targa commemorativa, e polacchi, tedeschi e altri abbiano piantato svariate croci di pietra, Sandormoh - dove nel 1937 furono fucilati i prigionieri delle Soloveckie, tra cui padre Pavel Florenskij - è caratteristica per le croci fatte a mano e i monumenti individuali, che sono particolarmente toccanti. Poiché non si sa chi vi sia sepolto né dove, ogni famiglia ha scelto a caso un mucchietto d'ossa da commemorare. I parenti delle vittime hanno incollato fotografie dei loro cari, morti da tempo, su aste di legno, e alcuni vi hanno inciso degli epitaffi. Il bosco di abeti cresciuto sul luogo dell'eccidio è tempestato di nastri, fiori di plastica e altri oggetti funera-ri. Nell'assolata giornata d'agosto in cui l'ho visitato - era il giorno dell'anniversario dello sterminio, ed era giunta una delegazione da San Pietroburgo - una donna anziana si è alzata per parlare dei suoi genitori, entrambi sepolti lì ed entrambi fucilati quando lei aveva sette anni. Era passata una vita intera prima che potesse visitarne le tombe.

Un progetto più vasto è stato realizzato nei dintorni di Perm'. In località Perm'-36, un lagpunkt di epoca staliniana, poi diventato uno dei campi politici più terribili degli anni Settanta e Ottanta, un gruppo di storici ha allestito un museo unico nel suo genere: la ricostruzione di un campo, di cui hanno restaurato interamente a loro spese baracche, muri, recinti di filo spinato e tutto il resto. Al punto che, per finanziare il progetto, hanno promosso una piccola attività di taglio e trasporto del legname rimettendo in funzione i vecchi e rugginosi macchinari del campo. Anche se non possono contare sul pieno appoggio del governo locale, ricevono finanziamenti dall'Europa occidentale e dall'America. Ora coltivano l'ambiziosa speranza di restaurare venticinque edifici, utilizzandone quattro per ospitare un museo più grande sulla repressione.

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Eppure in Russia, un paese abituato a grandiosi monumenti commemorativi bellici e a imponenti, solenni funerali di Stato, questi progetti locali e queste iniziative private sembrano ancora più modeste, sporadiche, incomplete. La maggior parte dei russi probabilmente non ne è nemmeno a conoscenza. E la cosa non deve stupire: dieci anni dopo il crollo dell'URSS, la Russia, il paese che ha ereditato il ruolo diplomatico e politico un tempo svolto nel mondo dall'Unione Sovietica, le sue ambasciate, i suoi debiti e il suo seggio alle Nazioni Unite, continua a comportarsi come se non ne avesse ereditato la storia. La Russia non ha un museo dedicato alla repressione. E nemmeno un luogo di lutto nazionale, un monumento che riconosca ufficialmente le sofferenze delle vittime e delle loro famiglie. Negli anni Ottanta sono stati banditi concorsi per il progetto di un simile monumento, ma non sono approdati a nulla. L'unico risultato in questo senso è stata l'estrazione di un masso delle isole Soloveckie, dove ha avuto origine il Gulag, e la sua collocazione in piazza Dzerzinskij, davanti alla Lubjanka.2

Più significativa dell'assenza di monumenti è però la mancanza di consapevolezza della gente. Talvolta sembra che le profondissime emozioni, le passioni suscitate dal pubblico dibattito nel periodo di Gorbacev siano svanite nel nulla, insieme all'Unione Sovietica. In modo altrettanto repentino si sono spente le accese discussioni di un tempo riguardo alla giustizia per le vittime. Anche se alla fine degli anni Ottanta se ne parlava molto, il governo russo non ha mai interrogato o processato gli aguzzini e gli autori delle stragi, nemmeno quelli che era ancora possibile identificare. Per esempio, all'inizio degli anni Novanta uno degli autori materiali dell'eccidio di ufficiali polacchi a Katyn' era ancora vivo. Prima che morisse, il KGB lo ha interrogato, chiedendogli di spiegare, da un punto di vista tecnico, come erano state assassinate le vittime. Un nastro dell'interrogatorio è stato consegnato come segno di buona volontà all'addetto alla cultura dell'ambasciata polacca a Mosca. Nessuno ha mai proposto di mettere quell'uomo sotto processo, né a Mosca né a Varsavia né in qualsiasi altro posto.

Ora, è vero che i processi non sono sempre il modo migliore per affrontare il passato. Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, in Germania Ovest sono stati processati 85.000 nazisti e ne sono stati condannati meno di 7000.1 tribunali erano notoriamente corrotti e spesso si lasciavano condizionare da gelosie e dissapori personali. Lo stesso processo di Norimberga è stato un esempio di "giustizia dei vincitori", inficiata da una legalità dubbia e da stranezze, non ultima

Gulag

la presenza di giudici sovietici perfettamente consapevoli di tutte le stragi di cui si era reso responsabile il loro paese.

Tuttavia, oltre ai processi esistono altri sistemi per fare pubblica giustizia dei crimini del passato. Per esempio si possono istituire commissioni d'inchiesta con il compito di accertare la verità, come è avvenuto in Sudafrica, permettendo alle vittime di raccontare la propria storia in un luogo pubblico, ufficiale, e sottoponendo i crimini del passato a una discussione libera e aperta a tutti. Si possono promuovere indagini ufficiali, come l'inchiesta indetta nel 2002 dal Parlamento britannico sul massacro di nordirlandesi avvenuto trent'an-ni prima nella cosiddetta "domenica di sangue". Esistono le indagini e le commissioni governative, le scuse ufficiali, tutte possibilità che il governo russo non ha mai preso in considerazione. A parte il breve e inconcludente "processo" al Partito comunista, in realtà non ci sono mai stati momenti di accertamento pubblico della verità, udienze parlamentari, indagini ufficiali di alcun genere sugli omicidi o i massacri o i campi dell'URSS.

Il risultato? A oltre cinquant'anni dalla fine della guerra, i tedeschi discutono ancora regolarmente sui risarcimenti per le vittime, sui monumenti, sulle nuove interpretazioni della storia nazista, per-sino sul motivo per cui le nuove generazioni dovrebbero continuare ad assumersi la responsabilità dei crimini perpetrati dai nazisti. Cinquant'anni dopo la morte di Stalin, in Russia non c'è stata alcuna discussione del genere, perché il ricordo del passato non è mai stato una parte integrante del dibattito pubblico.

Nel frattempo il processo di riabilitazione è continuato, sia pure molto in sordina, per tutti gli anni Novanta. Alla fine del 2001 in Russia erano stati riabilitati circa 4,5 milioni di prigionieri politici e la commissione nazionale per la riabilitazione calcolava di dover esaminare circa altri 500.000 casi. Le centinaia di migliaia, se non milioni, di vittime che non furono mai condannate non potranno ovviamente beneficiare di alcuna riabilitazione.3 Ma per quanto la suddetta commissione, costituita da sopravvissuti dei campi e da burocrati, sia seria e piena di buone intenzioni, nessuno dei suoi membri crede davvero che l'obiettivo dei politici che l'hanno istituita sia ottenere "verità e riconciliazione", per usare le parole della storica britannica Catherine Merridale. Il loro obiettivo è piuttosto quello di far cessare le discussioni sul passato, di tacitare le vittime, offrendo loro una manciata di rubli e qualche biglietto gratuito per l'autobus, e di evitare che le radici dello stalinismo o del suo retaggio siano sottoposte a un esame approfondito.

Epilogo  593

Esistono alcune ragioni valide, o almeno comprensibili, di questo silenzio pubblico. La maggior parte dei russi è completamente assorbita dallo sforzo di adeguarsi alla radicale trasformazione economico-sociale in corso nel paese. È trascorso molto tempo dall'epoca staliniana e da allora sono successe tante cose. La Russia postcomunista non è la Germania del dopoguerra, dove i ricordi delle peggiori atrocità erano ancora freschi nella mente delle persone. All'inizio del ventunesimo secolo, per buona parte della popolazione russa gli avvenimenti della metà del ventesimo sembrano storia antica.

Ma forse ancora più decisivo è il fatto che molti russi ritengono di avere già analizzato il passato e di non aver ottenuto grandi risultati. Quando si chiede perché oggi si parli così poco del Gulag, le persone - almeno quelle di una certa età - liquidano la questione con indifferenza: "Negli anni Novanta non riuscivamo a parlare d'altro, adesso non ne abbiamo più bisogno". A complicare ulteriormente le cose, per molti i discorsi sul Gulag e la repressione staliniana sono associati alle figure dei "riformatori democratici", che sono stati i primi ad aprire il dibattito sul passato sovietico. Poiché oggi si ritiene che quella generazione di leader politici abbia fallito - il loro governo è ricordato per la corruzione e il caos in cui precipitò il paese -, tale associazione finisce in un certo senso per contaminare qualsiasi discorso sul Gulag.

Come ho sottolineato nell'Introduzione, il problema di ricordare o commemorare le vittime della repressione politica è complicato dal fatto che ci sono state anche innumerevoli vittime di moltissime altre tragedie sovietiche. "La situazione è ancora più complessa" ha scritto Catherine Merridale "perché moltissime persone sono state vittime di diverse situazioni; possono definirsi senza difficoltà reduci di guerra, vittime della repressione, figli di vittime della repressione e persino sopravvissuti alla carestia."4 Poiché i monumenti dedicati ai caduti della Seconda guerra mondiale sono numerosissimi, alcuni russi probabilmente si chiedono: non sono sufficienti?

Questo profondo silenzio, però, ha anche altre ragioni, meno giustificabili. Per molti russi, il crollo dell'Unione Sovietica ha rappresentato un duro colpo all'orgoglio personale. Oggi pensano: forse il vecchio regime non andava bene, ma almeno eravamo una potenza mondiale. E ora che non lo siamo più, non vogliamo sentirci dire che era sbagliato. Fa troppo male, è come parlare male dei morti.

Altri hanno paura di quello che potrebbero scoprire se scavassero troppo a fondo nel passato. Nel 1998 la giornalista russo-americana Masha Gessen ha raccontato come si era sentita quando aveva sco-

Gulag

perto che una delle sue nonne, una gradevole anziana signora ebrea, aveva lavorato per la censura: era incaricata di manipolare gli articoli dei corrispondenti stranieri a Mosca. Ha scoperto inoltre che l'altra sua nonna, un'ugualmente gradevole anziana signora ebrea, aveva chiesto di essere arruolata nella polizia segreta. Le scelte di entrambe erano state dettate dalla disperazione, non da un'intima convinzione. La Gessen afferma di aver capito perché la sua generazione è riluttante a giudicare con troppa severità quella dei nonni: "Non li abbiamo svergognati, non li abbiamo processati, non li abbiamo giudicati... Il fatto stesso di porsi questo tipo di domande comporta il rischio di tradire qualcuno che amiamo".5

Aleksandr Jakovlev, presidente della commissione nazionale per la riabilitazione, ha posto il problema in modo ancor più netto: "II motivo per cui la società è indifferente ai crimini del passato" mi ha detto "è che vi hanno partecipato in troppi".6 Il sistema sovietico ha trascinato milioni e milioni di persone in varie forme di collaborazione e compromesso. Molti lo hanno scelto, altri sono stati costretti a fare cose terribili. E oggi non sempre hanno voglia di ricordarsene, e nemmeno i loro figli e nipoti.

In ogni caso, la spiegazione più importante della mancanza di un dibattito pubblico non riguarda i timori della generazione più giovane, o i complessi e i sensi di colpa dei loro genitori. La questione fondamentale è piuttosto il potere e il prestigio di chi oggi governa: non soltanto in Russia, ma anche nella maggior parte degli altri Stati ex sovietici e degli Stati ex satelliti. Nel dicembre 2001, nel decimo anniversario del crollo dell'Unione Sovietica, tredici ex repubbliche sovie-tiche su quindici erano guidate da ex comunisti, come molti ex Stati satelliti, compresa la Polonia, il paese che ha fornito centinaia di migliaia di prigionieri ai campi sovietici e di confinati. Persine nei paesi che non hanno come leader discendenti diretti dal punto di vista ideologico del Partito comunista, gli ex comunisti, i loro figli e i loro compagni di strada sono ancora ampiamente rappresentati ai massimi livelli dell'ambiente culturale, dei mass media e nel mondo degli affari. Il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, ex agente del KGB, si definisce con orgoglio un "cekista". Tempo fa, quando ricopriva la carica di primo ministro del governo, nell'anniversario della fondazione della Ceka si è recato in visita alla Lubjanka, un tempo quartier generale del KGB, e ha scoperto una lapide alla memoria di Jurij Andropov.7

Non è un caso se nel mondo postcomunista, dove gli ex comunisti sono al potere, non si è svolto un dibattito esauriente sul passato. Det-

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to chiaramente, gli ex comunisti hanno tutto l'interesse a nascondere il passato: danneggia la loro immagine, li indebolisce, fa sorgere dubbi sulla loro effettiva volontà "riformista", anche nel caso in cui sul piano personale non abbiano niente a che vedere con i crimini del passato. In Ungheria l'ex Partito comunista, ribattezzato Partito socialista, si è battuto con tutte le sue forze per impedire che venisse aperto un museo delle vittime del terrore. Nel 2001, quando in Polonia è andato al potere l'ex Partito comunista, ribattezzato Partito socialdemocratico, uno dei suoi primi interventi è consistito nel tagliare i finanziamenti all'Istituto polacco della memoria nazionale, fondato dal precedente governo di centrodestra. Sono state fornite moltissime giustificazioni per spiegare perché la Russia non aveva eretto un monumento nazionale ai suoi milioni di vittime, ma Aleksandr Jakovlev, sempre lui, mi ha dato la spiegazione più concisa e tagliente: "II monumento sarà eretto quando noi della vecchia generazione saremo tutti morti".

È questo che conta: il mancato riconoscimento o pentimento, il rifiuto di discutere la storia del passato comunista grava come un macigno su molti paesi dell'Europa postcomunista. Ancora oggi circolano voci sommesse sul contenuto di vecchi "fascicoli segreti", che continuano a destabilizzare le scelte politiche odierne e hanno minato la posizione di almeno un primo ministro polacco e uno ungherese. Gli affari conclusi nel passato dai Partiti comunisti fratelli continuano a influire sul presente. In molti casi l'apparato dei servizi segreti - quadri, struttura, uffici - è rimasto sostanzialmente lo stesso. La scoperta casuale di nuove fosse comuni può scatenare polemiche e rabbia.8

Il passato pesa soprattutto sulla Russia, che ha ereditato la grande struttura e gli orpelli del potere, nonché l'assetto militare e gli obiettivi imperialistici, dell'ex Unione Sovietica. È per questo che in Russia le conseguenze politiche della mancanza di memoria sono state assai più dannose di quanto si siano dimostrate in altri paesi ex comunisti. In nome della patria sovietica, Stalin ha deportato la popolazione ce-cena nei territori desertici del Kazakistan, dove la metà sono morti e gli altri avrebbero dovuto estinguersi, insieme alla loro lingua e alla loro cultura. Cinquantanni dopo, in una replica dell'operazione, la Federazione russa ha raso al suolo la capitale cecena Groznyj e trucidato decine di migliaia di civili nel corso di due guerre. Se l'elite e il popolo russo ricordassero - ricordassero emotivamente, visceralmente - che cosa ha fatto Stalin ai ceceni, non sarebbero riusciti a invadere la Cecenia negli anni Novanta, né una volta né due. Moralmente, tali

Gulag

operazioni hanno avuto lo stesso significato di un'ipotetica invasione della Polonia da parte della Germania dopo la Seconda guerra mondiale. E invece pochissimi in Russia hanno interpretato la situazione in questo modo, un fatto che già di per sé dimostra quanto poco si sa della storia nazionale.

Questo stato di cose ha influito anche sulla società civile e sull'instaurazione dì un regime legale. In altre parole, siccome le canaglie del vecchio regime sono rimaste impunite, non si può credere che le buone intenzioni abbiano la meglio sul male. Può sembrare una visione apocalittica, ma dal punto di vista politico non è irrilevante. È vero che per convincere la maggioranza ad accettare l'ordine pubblico la polizia non deve catturare tutti i criminali, ma deve comunque arrestarne la maggior parte. Nulla infatti incoraggia l'illegalità più della consapevolezza che molti malfattori eludono la giustizia, si godono il bottino accumulato e se ne infischiano dell'opinione pubblica. Gli agenti della polizia segreta hanno ancora i loro appartamenti, le loro case di campagna e le loro generose pensioni. Le vittime sono rimaste povere ed emarginate. Attualmente la maggior parte dei russi pensa che in passato più si è stati disposti a collaborare, più si è dimostrato di essere saggi. Dunque, per analogia, anche oggi più si imbroglia e si mente, più si dimostra di essere saggi.

Se si analizzano le cose a fondo, si scopre che per certi versi l'ideologia del Gulag è ancora presente negli atteggiamenti e nella visione del mondo dell'elite dei nuovi russi. Una volta mi è capitato, in casa di amici moscoviti, di assistere a una classica conversazione russa, a tarda notte, intorno al tavolo della cucina. A un certo punto, due dei presenti, imprenditori di successo, hanno cominciato a discutere sulla stupidità, sulla dabbenaggine dei russi. E sulla propria furbizia. La vecchia divisione staliniana degli esseri umani in due categorie, l'elite onnipotente e i "nemici" senza valore, si manifesta ancora nel disprezzo arrogante dell'elite dei nuovi russi per i loro compatrioti. A meno che l'elite non arrivi in fretta a riconoscere il valore e l'importanza di tutti i cittadini, a onorarne i diritti umani e civili, la Russia è destinata a diventare come quegli Stati africani popolati da contadini impoveriti e politici miliardari che tengono i loro capitali nelle banche svizzere e i jet privati sulla pista di rullaggio, con i motori accesi.

La mancanza di interesse per il passato ha tragicamente privato i russi di eroi e di martiri. I nomi di coloro che si sono opposti in segreto, ancorché invano, a Stalin - studiosi come Susanna Pecora, Viktor Bulgakov e Anatolij Zigulin; i capi delle rivolte del Gulag e delle insurrezioni; i dissidenti, da Saharov a Bukovskij, a Orlov - dovrebbero

Epilogo  597

essere famosi in Russia come lo sono in Germania i partecipanti al complotto per assassinare Hitler. La ricchissima letteratura dei sopravvissuti russi, storie di persone la cui umanità ha trionfato sulle spaventose condizioni dei campi di concentramento sovietici, dovrebbe essere maggiormente letta, diffusa e citata. Se gli alunni delle scuole conoscessero meglio questi eroi e le loro storie, troverebbero persino nel passato sovietico qualcosa di cui essere orgogliosi, a parte i trionfi imperialistici e militari.

Ma l'incapacità di ricordare ha anche conseguenze più concrete, più pratiche. Si può sostenere, per esempio, che il fatto che la Russia non indaghi in modo adeguato sul proprio passato spiega la sua insensibilità a certi tipi di censura e alla presenza costante, opprimente della polizia segreta, oggi ribattezzata Federal'naja sluzba bezopasnosti, o FSB. Il fatto che l'FSB possa aprire la posta, intercettare le telefonate ed entrare nelle abitazioni private senza mandato non pare costituire un problema per la maggioranza dei russi, che del resto non mostrano grande interesse neppure per la lunga persecuzione perpetrata dall'FSB ai danni di Aleksandr Nikitin, un ecologista che ha denunciato i danni prodotti nel mar Baltico dalla Flotta russa settentrionale.9

L'insensibilità verso il passato contribuisce anche a spiegare l'assenza di riforme giudiziarie e carcerarie. Nel 1998 ho visitato la prigione della città di Arcangelo, un tempo uno dei principali centri del Gulag, sulla strada per le Soloveckie, Kotlas, il Kargopol'lag e altri complessi di-campi settentrionali. La prigione cittadina, costruita ancor prima dell'epoca di Stalin, non sembrava affatto cambiata da allora. Vi sono entrata in compagnia di Galina Dudina, una donna che costituisce un'autentica rarità nella Russia postsovietica, perché difende i diritti dei carcerati. Mentre percorrevamo gli ampi locali dell'edificio in pietra, accompagnate da un secondino silenzioso, sembrava che fossimo tornate nel passato.

I corridoi erano bassi e bui, le pareti trasudavano umidità. Quando il secondino ha aperto la porta di una cella maschile, ho intravisto dei corpi nudi sdraiati sulle brande, coperti di tatuaggi. Rendendosi conto che gli uomini erano svestiti, la guardia ha chiuso in fretta la porta per dare loro il tempo di mettersi in ordine. Quando l'ha riaperta, sono entrata e ho visto venti uomini in fila, non tutti contenti di quella visita inattesa. Hanno risposto alle domande di Galina con monosillabi borbottati, in genere fissando il pavimento di cemento. A quanto pare, stavano giocando a carte. Poco dopo il secondino ci ha fatto uscire.

Ci siamo fermate più a lungo in una cella femminile. In un angolo

Gulag

c'era il gabinetto. A parte questo, la scena poteva essere tratta direttamente dalle pagine di un libro di memorie degli anni Trenta. Su un filo che attraversava la cella era stesa della biancheria intima. L'aria era viziata, faceva molto caldo e c'era un insopportabile odore di sudore, cibo scadente ed escrementi. Le donne, anch'esse seminude e sedute sulle brande, hanno coperto di insulti il secondino, strillandogli richieste e lamentele. Era come se mi trovassi nella cella in cui era entrata Ol'ga Adamova-Sliozberg nel 1938. Non mi resta che ripetere la sua descrizione:

La cella era enorme, con il soffitto a volte e i muri macchiati. Addossate alle pareti, con un passaggio stretto nel mezzo, c'erano due file fitte di brande stipate di gente e con i panni stesi ad asciugare sui fili. Il tutto avvolto da fumo di tabacco a poco prezzo. Chi piangeva, chi strillava, chi litigava a voce alta.10

Alla porta accanto, nella cella riservata ai minori, c'erano meno detenuti ma facce più tristi. Galina ha offerto un fazzoletto a una quindicenne in lacrime che era stata accusata di aver rubato l'equivalente in rubli di dieci dollari. "Dai, stai tranquilla," le ha detto Galina "continuerai a studiare la tua algebra, e tra poco sarai fuori di qui." O, almeno, così sperava: Galina aveva conosciuto persone incarcerate per mesi senza processo, e la ragazzina era dentro soltanto da una settimana.

In seguito abbiamo parlato con il direttore della prigione, che ha scrollato le spalle alle nostre domande sulla ragazzina nella cella dei minori, sul detenuto che da anni attendeva di essere giustiziato e ancora sosteneva la propria innocenza, sull'aria nauseabonda all'interno delle celle, sulla mancanza di servizi igienici. Tutto dipendeva dai soldi, ha spiegato, o meglio dalla loro mancanza. Le guardie erano malpagate, i costi dell'elettricità aumentavano (il che spiegava i corridoi bui), non c'erano fondi per le riparazioni, né per procuratori, giudici o processi. I detenuti dovevano soltanto aspettare il proprio turno, fino a quando fosse arrivato il denaro.

Il suo discorso non mi convinceva. I soldi sono un problema, ma non spiegano tutto. Se le prigioni russe assomigliano a una scena delle memorie di Ol'ga Adamova-Sliozberg, se i tribunali e le indagini penali sono in condizioni disastrose, dipende anche dal fatto che chi dirige il sistema giudiziario in Russia non sente sulle spalle il peso della cattiva coscienza del retaggio sovietico. Il passato non rimorde la coscienza della polizia segreta russa, dei giudici russi, degli uomini politici russi, dell'elite imprenditoriale russa.

In Russia, oggi sono pochissimi a sentire il passato come un peso,

Epilogo

0 come un dovere. Il passato è un brutto sogno da dimenticare, o una voce sommessa da ignorare. Come un grande vaso di Pandora ancora chiuso, giace in attesa della prossima generazione.

Certo, il fatto che in Occidente non abbiamo capito la portata di quanto è successo in Unione Sovietica e in Europa centrale non influisce sul nostro stile di vita in modo così determinante come sul loro. La tolleranza che dimostriamo verso i "negatori del Gulag", che ogni tanto alzano la testa nelle nostre università, non distruggerà il tessuto morale della società in cui viviamo. In fondo, la guerra fredda è finita e i Partiti comunisti occidentali non hanno più una vera e propria forza intellettuale o politica.

Tuttavia, se non cominciamo a profondere maggiore impegno nello sforzo di ricordare, anche noi ne subiremo le conseguenze. In primo luogo, la nostra interpretazione di quanto sta accadendo oggi nell'ex Unione Sovietica continuerà a essere distorta dal modo in cui ne valutiamo la storia. Ripeto, se davvero sapessimo che cosa ha fatto Stalin ai ceceni, se ci rendessimo conto che si è trattato di un crimine terribile contro la popolazione cecena, oggi Vladimir Putin non potrebbe fare loro quello che sta facendo, e noi non riusciremmo a starcene seduti tranquilli a guardare. Inoltre, il crollo dell'Unione Sovietica non ha suscitato in Occidente la stessa mobilitazione di forze che c'è stata al termine della Seconda guerra mondiale. Dopo la fine del regime nazista,

1 paesi occidentali istituirono la NATO e la CEE, anche per impedire che la Germania potesse oltrepassare di nuovo i "normali" confini della civiltà. D'altra parte, fino all'll settembre 2001 questi stessi paesi non hanno neppure cominciato a ripensare seriamente la loro politica per la sicurezza del dopo guerra fredda, e prima c'erano cose più impellenti della necessità di far rientrare la Russia nell'ambito della civiltà occidentale.

A ben guardare, però, le conseguenze sul piano della politica estera non sono l'aspetto più importante. Infatti, se ci dimentichiamo del Gulag, prima o poi incontreremo difficoltà anche a capire la nostra storia. In fondo, perché abbiamo combattuto la guerra fredda? Forse perché dei folli politici di destra, in combutta con il complesso militare-industriale e la CIA, si sono inventati tutto e hanno costretto due generazioni di americani ed europei occidentali a farla? O stava succedendo qualcosa di più importante? Esiste già una gran confusione in proposito. Nel 2002, in un articolo apparso sulla rivista britannica conservatrice "Spectator", si osservava che la guerra fredda era stata "uno dei conflitti più inutili di tutti i tempi".11 Anche lo

Gulag

scrittore americano Gore Vidal ha definito le battaglie della guerra fredda come "quarantanni di lotte insensate che hanno creato un debito di 5000 miliardi di dollari".12

Stiamo già dimenticando che cosa è stato a farci muovere, a ispirarci, a tenere unita per tanto tempo la civiltà dell'"Occidente": stiamo dimenticando contro che cosa dovevamo combattere. Se non mettiamo maggiore impegno nel ricordare la storia dell'altra metà del continente europeo, la storia dell'altro regime totalitario del Novecento, alla fine saremo noi occidentali a non comprendere il nostro passato, a non comprendere perché il nostro mondo è diventato quello che è.

E non parlo soltanto del passato che riguarda noi. Infatti, se continuiamo a dimenticare metà della storia europea, avremo un'idea distorta del genere umano nel suo complesso. Tutte le tragedie di massa del ventesimo secolo sono state uniche: il Gulag, l'Olocausto, il genocidio degli armeni, il massacro di Nanchino, la Rivoluzione culturale cinese, la Rivoluzione cambogiana, le guerre in Bosnia, per citarne solo alcune. Ciascuno di questi eventi ha avuto origini storiche, filosofi-che e culturali diverse, ciascuno è nato in circostanze locali particolari, che non si ripeteranno mai. A ripetersi sempre è soltanto la nostra capacità di umiliare, annientare e disumanizzare i nostri fratelli, come continuerà a ripetersi la nostra capacità di considerare i nostri vicini "nemici", i nostri avversar! "pidocchi", "parassiti", "erbacce velenose", di immaginare che le nostre vittime siano esseri inferiori, spregevoli o malvagi, meritevoli solo di essere incarcerati, espulsi o uccisi.

Più riusciremo a capire come le diverse società hanno degradato i loro vicini e i loro cittadini da persone a oggetti, più conosceremo le specifiche circostanze che hanno prodotto ogni episodio di tortura di massa e sterminio, più comprenderemo il lato oscuro della natura umana. Questo libro non è stato scritto "perché non accada mai più", secondo il cliché più diffuso. È stato scritto perché, quasi sicuramente, accadrà di nuovo. Le filosofie totalitarie hanno esercitato e continueranno a esercitare una profonda attrazione su milioni e milioni di persone. La distruzione del "nemico oggettivo", come l'ha definito Hannah Arendt, rimane un aspetto fondamentale di molte dittature. Dobbiamo sapere perché, e ogni vicenda, ogni memoriale, ogni documento della storia del Gulag è un pezzo del puzzle, un elemento della spiegazione. Senza di essi, un giorno rischiamo di svegliarci e di renderci conto di non sapere più chi siamo.

Appendice QUANTI?

Anche se in Unione Sovietica i campi di concentramento si contavano a migliaia, e se vi passarono milioni di persone, per molti decenni il numero esatto delle vittime del sistema del Gulag è rimasto un segreto per tutti, a parte una ristretta cerchia di burocrati. Pertanto, prima del crollo dell'Unione Sovietica il calcolo del numero dei morti poteva basarsi solo su congetture, e anche oggi la situazione non è molto diversa.

A partire dagli anni Cinquanta, quando si potevano fare soltanto delle ipotesi, in Occidente il dibattito sui dati quantitativi della repressione, e più in generale sulla storia dell'Unione Sovietica, era condizionato dalla politica della guerra fredda. Non potendo accedere ai documenti d'archivio, gli storici avevano a disposizione solo le memorie degli ex detenuti, le testimonianze dei disertori, le statistiche demografiche ufficiali, i dati economici e, talora, le sporadiche informazioni che in qualche modo filtravano dai confini sovietici, come per esempio il numero di giornali distribuiti ai detenuti nel corso del 1931.1 Coloro che non avevano simpatia per l'Unione Sovietica tendevano in genere a sovrastimare il numero delle vittime, che veniva invece sottostimato da quanti non avevano simpatia per gli Stati Uniti e per il ruolo svolto dall'Occidente nella guerra fredda. Così le cifre oscillavano in modo incontrollato: nel 1968 lo storico Robert Conquest, nel suo innovativo studio sulle epurazioni sovietiche, // Grande Terrore, calcolava che tra il 1937 e il 1938 l'NKVD avesse arrestato 7 milioni di persone,2 mentre per gli stessi due anni un altro storico, J. Arch Getty, nel suo saggio "revisionista" del 1985, Origins ofthe Purges, sosteneva che il numero degli arresti andasse calcolato nell'ordine delle "migliaia".3

A quanto risulta dai dati disponibili dopo l'apertura degli archivi sovietici, nessuna delle due scuole di pensiero aveva pienamente ragione: all'inizio, la prima serie di cifre relative al numero di detenuti nei campi sembrava attestarsi su un valore intermedio tra quelli forniti dalle stime più catastrofiche e da quelle più ottimistiche. Secondo i documenti del-l'NKVD, ormai ampiamente diffusi, il numero di prigionieri nei campi e nelle colonie tra il 1930 e il 1953 (rilevato al 1° gennaio di ogni anno) era il seguente:

Gulag

1.777.043 1.484.182 1.179.819 1.460.677 1.703.095 1.721.543 2.199.535 2.356.685 2.561.351 2.525.146 2.504.514 2.468.S244

Queste cifre confermano alcuni dati provenienti da molte altre fonti assolutamente sicure: il numero di prigionieri aumenta alla fine degli anni Trenta con l'inasprirsi della repressione, cala leggermente nel corso della guerra grazie a varie amnistie e risale nel 1948 quando Stalin torna a stringere i freni. Inoltre, la maggior parte degli studiosi che hanno effettuato ricerche d'archivio concorda sul fatto che tali cifre sono basate su quelle effettivamente fornite all'NKVD dall'amministrazione dei campi. Esse corrispondono altresì ai dati provenienti da altri settori della burocrazia sovietica, per esempio il commissariato del popolo alle Finanze.5 Ciononostante, non è detto che siano assolutamente veritieri.

Innanzitutto, le cifre relative a ogni singolo anno sono ingannevoli, perché dissimulano il fatto che nei dodici mesi i flussi in entrata e in uscita dai campi erano molto consistenti: nel corso del 1943, per esempio, secondo gli archivi il numero dei prigionieri che passarono nel Gulag fu 2.421.000, mentre il confronto tra le cifre totali rilevate all'inizio e alla fine dell'anno indica che il numero dei detenuti calò complessivamente da circa 1.500.000 a circa 1.200.000. Pertanto queste ultime cifre, benché comprendano anche i flussi all'interno del sistema dei campi, non ci dicono nulla dei molti movimenti di prigionieri che pure vi furono.6 Durante la guerra, poi, circa un milione di detenuti uscì dai campi per arruolarsi nell'Armata rossa, eppure tale fenomeno non incide in sostanza nelle statistiche complessive, perché proprio negli anni del conflitto affluirono in abbondanza nuovi prigionieri. Un altro esempio: nel 1947 furono internate nei campi 1.490.959 persone e ne furono rilasciate 1.012.967, un avvicendamento assai significativo di cui non c'è traccia nella tabella sopra riportata.7

I detenuti uscivano dal Gulag perché morivano, perché fuggivano, perché finivano di scontare brevi condanne, perché si arruolavano nell'Armata rossa, o perché erano stati promossi a mansioni amministrative. Come ho detto, agli anziani, agli invalidi e alle donne incinte venivano spesso concesse delle amnistie, sempre seguite peraltro da nuove ondate di arresti. Dato l'ingente e costante flusso di detenuti, le cifre complessive erano in realtà assai più alte di quanto potessero apparire a prima vista: già nel 1940, nel sistema dei campi erano passati 8 milioni di persone.8 Secondo l'unica stima complessiva da me reperita, fatta sulla base delle statistiche relative ai detenuti in entrata e in uscita, e confrontando una serie di fonti diverse, i cittadini sovietici che passarono nel Gulag tra il 1929 e il 1953 furono 18 milioni. Questa cifra corri-

Appendice  603

sponde, fra l'altro, ai dati forniti da alti funzionari della sicurezza russa negli anni Novanta. Secondo una fonte, lo stesso Hruscev parlò di "17 milioni" di persone internate nei campi di lavoro tra il 1937 e il 1953.9

Eppure, analizzando le cose un po' più a fondo, anche questa cifra è fuorviante. Come il lettore a questo punto ormai saprà, non tutti coloro che venivano condannati ai lavori forzati trascorrevano il periodo di detenzione nei campi gestiti dall'amministrazione del Gulag. Innanzitutto, dalle cifre sopra citate sono escluse le molte centinaia di migliaia di persone condannate ai "lavori forzati senza detenzione" per avere commesso infrazioni sul posto di lavoro. In secondo luogo esistevano almeno altre tre importanti categorie di detenuti condannati ai lavori forzati: i prigionieri di guerra, coloro che alla fine della guerra erano internati nei campi di smistamento e, soprattutto, i "confinati speciali", cioè i kulaki deportati durante la collettivizzazione, i polacchi, i baltici e altri deportati dopo il 1939, oltre a caucasici, tatari, tedeschi del Volga e altri deportati durante la guerra.

Calcolare a quanto ammontassero i primi due gruppi è relativamente facile: da molte fonti attendibili sappiamo che il numero dei prigionieri di guerra superava i 4 milioni;10 sappiamo inoltre che, tra il 27 dicembre 1941 e il 1° ottobre 1944, l'NKVD internò per accertamenti nei campi di smistamento 421.199 persone, e che il 10 maggio 1945 ne rimanevano oltre 160.000, assegnate al lavoro coatto. Nel gennaio 1946 l'NKVD smantellò questo tipo di campi e trasferì in Unione Sovietica altri 228.000 detenuti per ulteriori indagini.11 Sicché sembra ragionevole ipotizzare una cifra complessiva di 700.000 prigionieri.

Risulta più difficile quantificare i "confinati speciali", anche perché vi furono moltissimi gruppi di esuli confinati in epoche diverse, in luoghi diversi e per ragioni diverse. Negli anni Venti, molti dei primi oppositori dei bol-scevichi, tra cui menscevichi, socialisti rivoluzionari e altri, venivano confinati con decreto amministrativo, ragion per cui, pur non facendo parte del sistema del Gulag, subivano comunque una condanna. All'inizio degli anni Trenta furono esiliati 2.100.000 kulaki, ma molti di loro, una cifra nell'ordine delle centinaia di migliaia, non vennero deportati in Siberia o in Kazakistan, ma in altre località della regione d'origine o in terreni incolti ai confini della loro azienda agricola collettiva, e poiché, a quanto pare, molti di loro si diedero alla fuga, occorre stabilire se debbano essere conteggiati nel totale oppure no. Assai più chiara, invece, è la situazione dei diversi gruppi nazionali che, durante e dopo la guerra, vennero confinati in villaggi "a destinazione speciale", e quella, troppo spesso dimenticati, di gruppi particolari come i 17.000 "elementi estranei", espulsi da Leningrado in seguito all'assassinio di Kirov. C'erano poi i tedeschi di nazionalità sovietica, che non furono deportati fisicamente, ma i cui villaggi in Siberia e in Asia centrale vennero trasformati in "insediamenti speciali" (in pratica fu il Gulag ad andare da loro), e tra gli esuli vanno considerati anche i bambini nati ai confinati durante la condanna.

Di conseguenza, chi ha provato a sommare le cifre di ognuno dei gruppi indicati risultanti dalle molte statistiche pubblicate ha ottenuto risultati diversi, ma sostanzialmente simili. Lo storico Pavel Poljan, nel suo Ne pò svoej vale, pubblicato dall'Associazione Memorial nel 2001, ha sommato le cifre relative ai confinati speciali e ha ottenuto un totale di 6.015.000.12 Invece Ot-

Gulag

to Pohl, in un compendio di pubblicazioni d'archivio, calcola che tra il 1930 e il 1948 vi furono 7 milioni di confinati speciali.13 Per quanto riguarda il periodo successivo alla guerra, ecco le cifre relative agli abitanti degli "insediamenti speciali":

Ottobre 1945  2.230.500

Ottobre 1946  2.463.940

Ottobre 1948  2.104.571

1° gennaio 1949  2.300.223

1° gennaio 1953  2.753.35614

Sempre uniformandomi al principio secondo il quale le stime più contenute consentono di mettere a tacere anche le obiezioni più ricorrenti, ho scelto di basarmi sulla valutazione di Poljan, cioè 6 milioni di confinati. Ebbene, facendo la somma dei totali, il numero complessivo dei condannati ai lavori forzati in Unione Sovietica risulta pari a 28.700.000.

So perfettamente che questa cifra non verrà universalmente accettata. Qualcuno obietterà che non tutti gli arrestati e i deportati vanno considerati delle "vittime", perché una parte di essi erano criminali e, in qualche caso, addirittura criminali di guerra. Eppure, sebbene milioni di quei prigionieri fossero stati effettivamente condannati come criminali, ritengo che i veri "criminali" non fossero nemmeno lontanamente la maggioranza. Una donna che raccoglie qualche spiga di grano in un campo già mietuto non è una criminale, come non lo è un uomo che arriva tre volte in ritardo sul posto di lavoro, il motivo per cui il padre del generale russo Aleksandr Lebed' venne inviato nei campi a scontare la pena. E, se è per questo, non si può dire nemmeno che sia legittimo tenere recluso un prigioniero di guerra in un campo di lavoro per molti anni dopo la fine del conflitto. In ogni caso, il numero di criminali di professione detenuti nei campi era così esiguo che non ritengo opportuno modificare le cifre calcolate.

Ci sarà chi contesterà queste cifre per altri morivi. Mentre scrivevo questo libro, spesso mi sono sentita porre la seguente domanda: quanti di questi 28.700.000 detenuti sono morti?

La risposta non è semplice: fino a oggi non sono state pubblicate statistiche del tutto convincenti sui tassi di mortalità nel Gulag o tra i confinati.15 Dati più attendibili emergeranno forse nei prossimi anni. Un ex ufficiale dell'MVD ha cominciato a setacciare in modo metodico gli archivi, campo per campo e anno per anno, allo scopo di estrapolare le cifre reali. Per ragioni probabilmente diverse, anche l'Associazione Memorial, che ha già pubblicato il primo repertorio affidabile sulle cifre relative ai campi, si è posta l'obiettivo di calcolare le vittime della repressione.

Tuttavia, fino a quando l'esito di queste ricerche non verrà reso noto, dobbiamo basarci sui dati attualmente disponibili, ovvero le cifre relative al numero dei decessi e al tasso di mortalità all'interno del Gulag estrapolate dai registri dell'amministrazione penitenziaria. In queste cifre, desunte dai rapporti complessivi dell'NKVD e non dalla documentazione di ogni singolo campo, non sono compresi i decessi avvenuti in prigione e durante i trasferimenti, né quelli dei confinati speciali. In ogni caso, pur con una certa riluttanza, riporto questi dati:

Appendice  605

7.980 (4,2%)

7.283 (2,9%)

13.197 (4,81%)

67.297 (15,3%)

25.187 (4,28%)

31.636 (2,75%)

24.993 (2,11%)

31.056 (2,42%)

108.654 (5,35%)

44.750 (3,1%)

41.275 (2,72%)

115.484 (6,1%)

352.560 (24,9%)

267.826 (22,4%)

114.481 (9,2%)

81.917 (5,95%)

30.715 (2,2%)

66.830 (3,59%)

50.659 (2,28%)

29.350 (1,21%)

24.511 (0,95%)

22.466 (0,92%)

20.643 (0,84%)

9.628 (0,67%)16

Come nella tabella relativa alle statistiche ufficiali sui prigionieri, anche in questa si nota un andamento confermato da altre fonti: per esempio, il picco relativo al 1933 è certamente dovuto all'impatto della carestia, che costò la vita anche a 6-7 milioni di "liberi" cittadini sovietici. L'aumento più limitato del 1938 riflette probabilmente le esecuzioni di massa che si verificarono quell'anno in alcuni campi. L'aumento significativo dei tassi di mortalità durante la guerra, che nel 1942 sfiorò il 25 per cento, trova conferma nelle ricostruzioni e nei ricordi di persone recluse nei campi in quel periodo, e riflette la penuria di cibo da cui fu afflitta quell'anno tutta l'URSS.

In ogni caso, anche qualora dovessero emergere dati più precisi, rimarrà sempre difficile rispondere alla fatidica domanda: "Quanti sono morti?". Infatti, le cifre relative alla mortalità registrate dall'amministrazione penitenziaria non potranno mai essere considerate del tutto attendibili. La cultura delle ispezioni e delle conseguenti censure comportava tra l'altro che i comandanti dei campi avessero tutto l'interesse a mentire riguardo al numero dei prigionieri deceduti: tanto i documenti d'archivio quanto i libri di memorie confermano che in molti campi era pratica comune rilasciare i prigionieri in punto di morte, in modo da far calare le statistiche sulla mortalità.17 Non possono essere considerati del tutto attendibili nemmeno i dati relativi alla mortalità tra i confinati, che pure non venivano trasferiti così spesso né rilasciati quando stavano per morire, ma che vivevano in villaggi remoti, molto distanti dalla sede dalle autorità regionali.

Ma c'è qualcosa di ancor più importante: la domanda "Quanti sono morti?" va posta con una certa attenzione. Nel caso dell'Unione Sovietica, per e-sempio, è impropria, e chi la fa dovrebbe chiedersi innanzitutto che cosa vuole sapere veramente. Vuole sapere quanti sono morti nei campi del Gulag e nei villaggi degli esiliati nell'epoca staliniana, tra il 1929 e il 1953? In questo caso è disponibile una cifra basata su fonti d'archivio, sebbene lo stesso storico che ha raccolto i dati avverta che sono incompleti e non riguardano tutte le categorie di prigionieri in tutti gli anni. Anche in questo caso la cito con riluttanza: 2.749.163.18

Quand'anche tale cifra fosse precisa, non rispecchierebbe comunque il numero totale delle vittime del sistema giudiziario staliniano. Come ho detto nell'introduzione, in genere la polizia segreta sovietica non si serviva dei campi per sterminare la gente. Quando voleva eliminare qualcuno, effettua-

Gulag

va esecuzioni di massa nelle foreste, e coloro che vennero uccisi in questo modo - e sono tanti - devono essere considerati a pieno titolo vittime del sistema giudiziario sovietico. Per il periodo 1934-53 un gruppo di studiosi, basandosi su dati d'archivio, ha calcolato che le vittime di esecuzioni per motivi politici siano state in totale 786.098.19 La maggior parte degli storici ritiene questa valutazione più o meno plausibile, ma considerando la fretta e il caos che caratterizzavano le esecuzioni di massa, forse non conosceremo mai le cifre effettive. E comunque in questo numero, che a mio parere è troppo preciso per essere attendibile, non sono inclusi coloro che persero la vita durante il trasferimento nei campi o durante gli interrogatori, o che vennero giustiziati non per motivi "politici" in senso stretto, ma per le ragioni più assurde; non sono inclusi gli oltre 20.000 ufficiali polacchi sterminati a Katyn', né tantomeno i moltissimi detenuti morti pochi giorni dopo essere stati scarcerati. Se la cifra che vogliamo conoscere è questa, allora sarà più alta, probabilmente molto più alta, anche se continueranno a esistere notevoli discordanze tra le varie stime.

Ho capito, comunque, che anche questa ipotetica cifra non fornisce sempre la risposta adeguata a quello che la gente vuole veramente sapere. Il più delle volte, infatti, chi mi chiede "Quanti sono morti?" vuole sapere quante persone sono morte inutilmente a causa della Rivoluzione bolscevica. Ovvero quanti sono morti durante il terrore rosso e la guerra civile, per le carestie provocate dalla brutale politica di collettivizzazione, le deportazioni e le esecuzioni di massa, nei campi di prigionia degli anni Venti, nei campi dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, nei campi e per le esecuzioni di massa nell'epoca staliniana. In questo caso le cifre, oltre a essere assai più elevate, sono frutto di mera congettura. Gli autori del Libro nero del comunismo calcolano che ci siano stati 20 milioni di morti, mentre altri ritengono che il totale sia di 10-12 milioni.20

Sarebbe comodo trovare una cifra tonda, perché ci permetterebbe un raffronto diretto tra Stalin e Hitler, o tra Stalin e Mao Tse-tung. Ma anche se la stabilissimo, sono convinta che non potrebbe dirci tutto sulle sofferenze patite dalle vittime. Per esempio, nessuna cifra ufficiale può indicare quanti figli, mogli, anziani genitori abbandonati morirono, dato che tali decessi non venivano registrati. Durante la guerra, gli anziani senza la tessera annonaria morivano di fame: se il loro figlio non fosse stato deportato a Vorkuta a estrarre carbone, forse si sarebbero salvati. Negli orfanotrofi non riscaldati e privi di attrezzature adeguate i bambini piccoli soccombevano con estrema facilità alle epidemie di tifo e di morbillo: se le loro madri non fossero state a Kengir a cucire uniformi, anche loro forse si sarebbero salvati.

E nessuna statistica potrà mai rispecchiare l'impatto complessivo delle repressioni staliniane sulla vita e sulla salute di intere famiglie. Un uomo veniva processato e giustiziato in quanto "nemico del popolo"; sua moglie veniva internata in un campo perché "parente di un nemico del popolo"; i suoi figli crescevano negli orfanotrofi e poi entravano nel giro della malavita; sua madre moriva per l'angoscia e il dolore; i cugini, le zie e gli zii troncavano ogni rapporto, per evitare di essere coinvolti. Le famiglie andavano a pezzi, le amicizie finivano, e chi restava, se non moriva, era paralizzato dalla paura.

In ultima analisi, le statistiche non potranno mai rispecchiare fedelmente ciò che è veramente accaduto, e nemmeno i documenti d'archivio, sui quali in larga parte è basato questo libro. Gli scrittori che hanno raccontato me-

Appendice  607

glio il mondo del Gulag lo sanno. È per questo che vorrei lasciare a uno di loro l'ultima parola sull'argomento "statistiche", "archivi" e "incartamenti".

Nel 1990 Lev Razgon è stato autorizzato a consultare il proprio incartamento, uno scarno fascicolo contenente i documenti relativi al suo arresto e a quello della sua prima moglie, Oksana, e di svariati parenti di quest'ultima. Dopo averli letti attentamente, ha scritto un saggio sul loro contenuto, in cui riporta le sue riflessioni sui documenti conservati nel fascicolo, sulla scarsità degli elementi probatori, sulla risibilità delle accuse, sulla tragedia che si era abbattuta sulla madre di sua moglie, sulle torbide motivazioni di suo suocero, il cekista Gleb Bokij, e sulla strana mancanza di pentimento in quanti erano responsabili della loro rovina. Riguardo all'esperienza del lavoro d'archivio da lui compiuta, mi ha colpito soprattutto il modo in cui descrive l'ambivalenza dei suoi sentimenti dopo aver ultimato la lettura:

"Ho smesso da un po' di voltare le pagine del fascicolo che giace accanto a me da più di un paio d'ore, e stanno raffreddandosi con le loro stesse idee. Il mio guardiano [l'archivista del KGB] sta già cominciando a tossicchiare in modo significativo e a guardare l'orologio. È ora di andare. Non ho più niente da fare qui. Consegno i fascicoli, che vengono di nuovo infilati con noncuranza nel sacchetto della spesa. Scendo di sotto, percorro i corridoi deserti, supero i soldati di guardia che non mi chiedono nemmeno i documenti, ed esco sulla piazza della Lubjanka.

"Sono soltanto le cinque, ma è già quasi buio e una pioggerellina silenziosa, sottile, cade ininterrotta. L'edificio rimane accanto a me e io sto fermo sul marciapiede, chiedendomi che cosa posso fare. È terribile che io non creda in Dio e non possa entrare in qualche chiesetta tranquilla, fermarmi al tepore delle candele, scrutare negli occhi il crocifisso, dire e fare le cose che rendono la vita più facile da sopportare ai credenti...

"Mi tolgo il berretto di pelliccia, e le gocce di pioggia, o le lacrime, mi scorrono sul viso. Ho ottantadue anni ed eccomi qui, a rivivere tutto di nuovo... Sento le voci di Oksana e di sua madre... Riesco a ricordarle e a rievocarle, tutte, una per una... E se sono rimasto in vita, allora è mio dovere farlo... "21

NOTE

Per le indicazioni bibliografiche complete di memoriali, opere letterarie, testi di riferimento, archivi e interviste citati nelle note in forma abbreviata si rinvia alle specifiche sezioni della Bibliografia.

Introduzione

1 Cit. in Cohen, 1982, p. 39.

2 Leggett, 1981, pp. 102-20.

3 Ohotin e Roginskij, 1998.

4 Per una discussione approfondita su queste statistiche, cfr. Appendice.

5 Rigoulot, 1991, pp. 1-10.

6 Cit. in Johnson, 1990, p. 343.

7 Cit. in Revel, 1976, p. 67.

8 J. Amis, 2002; Id., s.d.

9 Thurston, 1996; Robert Conquest, Small Terror, Few Dead, in "The Times Lite-rary Supplement", 31 maggio 1996.

1° È accaduto a chi scrive nel 1994. L'articolo doveva essere pubblicato sulla "London Review of Books" e le parole "troppo antisovietica" sono una citazione testuale della lettera che ricevetti. Alla fine comparve sul "Times Literary Supplement", sia pur in una versione molto più breve.

Neither Here Nor There (recensione di Between East and West, New York 1994), in "The New York Times Book Review", 18 dicembre 1994.

12 Per una discussione esauriente sulla questione, cfr. Malia, 2002.

13 Webb, 1950, p. 107.

14 Cit. in Conquest, 1968, p. 690.

15 Cfr. Klehr, Haynes e Firsov, 1995; per la storia d'archivio del Partito comunista americano cfr. Klehr, Haynes e Anderson, 1998.

16 Cit. in Nikolaj Tolstoj, 1981, p. 289.

17 Cfr. Thomas, 1998, pp. 489-95, e per i particolari Scammell, 1984. Il tentativo di far passare Solzenicyn per etilista (Scammell, 1984, pp. 664-65) fu particolarmente goffo, perché era noto il disgusto dello scrittore per l'alcol.

18 Pipes, 1995, voi. II, p. 924.

19 Overy, 2003, pp. 119-20,125,237-38; Moskoff, 1990.

20 L. Ginzburg, 1995, p. 36.

21 Kozina, 2002, p. 32.

Wf

Gulag

22 Kaczynska, 1991, p. 15.

23 Kennan, 1891, pp. 74-83.

24 Cehov, 1990, pp. 6-7.

25 Kaczynska, 1991, pp. 16-27.

26 Popov, 1993, pp. 31-38.

27 Kennan, 1891, p. 242.

28 Kaczynska, 1991, pp. 65-85.

29 Anisimov, 1993, p. 177.

30 GARF 9414/1/76.

31 Kaczynska, 1991, pp. 44-64.

32 Ivi, p. 161.

33 Cehov, 1990, p. 39.

34 Kaczynska, 1991, pp. 161-74.

35 Sutherland, 1985, pp. 271-302. 36Adams, 1996, pp. 4-11.

37 Volkogonov, 1991, p. 24.

38 Questa fotografia è riprodotta, tra gli altri, da Figes, 1998.

39 Questa fotografia compare in Volkogonov, 1996.

40 Bullock, 1995, p. 49.

41 Volkogonov, 1991, p. 24.

42 Kotek e Rigoulot, 2001, pp. 97-107; Ohotin e Roginskij, 1998, pp. 11-12.

43 Ho esaminato questa definizione in Applebaum, 2001.

44 Geller, 1977, pp. 40-41.

45 Cit. in Kotek e Rigoulot, 2001, p. 61.

46 Questa tesi sulla preistoria dei campi di concentramento è tratta da Kotek e Rigoulot, 2001, pp. 1-90.

47 Kaczynska, 1991, pp. 270-85.

48 Lev Tolstoj, 1981, voi. I, pp. 488-93.

49 Per una discussione esauriente sull'atteggiamento di Stalin verso i gruppi etnici "nemici", cfr. Martin, 2001a.

50 Arendt, 1999, p. 99.

51 Hitler, 1970, p. 78.

52 Weiner, 1999.

53 Bullock, 1995, p. 593.

54 Sereny, 1975, p. 135.

55 Sono grata a Terry Martin per avermi aiutato a chiarire questo punto.

56 Shreider, 1995, p. 5.

57 Come puntualizza Lynne Viola (2000) a proposito dei kulak confinati.

58 Per ulteriori dettagli, cfr. Applebaum, 2001.

I. Gli esordi bolscevichi

1 O. Mandel'stam, 1976, pp. 45-47.

2 Lihacev, 1999, p. 97.

3 Pipes, 1995, voi. I, p. 367.

4 Cfr., per esempio, Service, 2001.

5 Pipes, 1995, voi. II, pp. 517-83; Figes, 1998, pp. 707-79.

6 Geller, 1977, pp. 37-38.

7 Jakobson, 1993, pp. 18-26.

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Note  611

8 Dekrety, voi. II, pp. 241-42; voi. Ili, p. 80. Cfr. anche Geller, 1977, p. 23; Pipes, 1995, voi. II, pp. 890-99.

9 Jakobson, 1993, pp. 18-26; Decreto "Sui tribunali rivoluzionari", 19 dicembre 1917, in Sbornik, 1993, pp. 9-10.

10 Hoover, Fondo Melgunov, busta 1, fascicolo 63.

11 Ohotin e Roginskij, 1998, p. 13.

12 RGASPI 76/3/1 e 13.

13 Jakobson, 1993, pp. 10-17; Ohotin e Roginskij, 1998, pp. 10-24.

14 Dekrety, 1997, voi. I, p. 401.

15 Hoover, Fondo Melgunov, busta 1, fascicolo 4.

16 Vo vlasti Gubceka, pp. 3-11.

17 Hoover, Fondo Melgunov, busta 1, fascicolo 4.

18 Lockhart, 1932, pp. 326-45.

19 Eliseev, S.G., Tjuremnyj dnevnik, in Uroki, 1993, pp. 17-19.

20 Ohotin e Roginskij, 1998, p. 11.

21 Geller, 1977, p. 40.

22 M, p. 41; Leggett, 1981, p. 103.

In un primo momento, la Ceka fu incaricata di assumere la gestione dei campi in congiunzione con il Collegio centrale per i prigionieri di guerra e i rifugiati (Centroplenbez). Ohotin e Roginskij, 1998, p. 11.

24 Leggett, 1981, p. 108.

25 Decreto "Sul terrore rosso", 5 settembre 1918, in Sbornik, 1993, pp. 171-19.

26 Ivanova, 2000, p. 13.

27 "Istoriceskij Arhiv", 1,1958, pp. 6-11; Geller, 1977, pp. 48-49.

28 Secondo lo storico Richard Pipes, Lenin non voleva che il suo nome venisse associato a questi primi campi, e per questo motivo i decreti non vennero emanati dal Sovnarkom, organismo da lui diretto, ma dal Comitato esecutivo centrale dei soviet (Pipes, 1995, voi. II, p. 935).

29 Dekrety, 1997, voi. V, pp. 69-70,174-81.

30 RGASPI 76/3/65.

31 Hoover, Fondo Melgunov, busta 11, fascicolo 63.

32 Vo vlasti Gubceka, pp. 47-53.

33 Izgoev, 1923, p. 36.

34 Bunyan, 1967, pp. 54-65.

35 Geller, 1977, pp. 52-62; Bunyan, 1967, pp. 54-114.

36 Ohotin e Roginskij, 1998, pp. 11-12; per una trattazione completa dei cambiamenti istituzionali avvenuti negli anni Venti, cfr. anche Jakobson, 1993, e Lin, 1997.

37 RGASPI 17/84/585.

38 Per esempi relativi a questa discussione, cfr. Hoover, Fondo 89,73/25-27.

39 Volkogonov, 1994, p. 179.

40 Service, 2001, p. 176.

41 Hoover, Fondo Nikolaevskij, busta 9, fascicolo 1.

42 Ivi, busta 99; RGASPI, Fondo 76/3/87; Genrih Jagoda, 1997, p. 265.

43 Razgon, 1997, p. 266.

44 Hoover, Fondo Nikolaevskij, busta 99.

45 Md.

46 Lettersfrom Russian Prisons, 1925, pp. 1-15.

47 Ivi, pp. 20-28.

48 Ivi, pp. 162-65.

Gulag

49 lina.; Mel'nik e Sogina, 1991.

50 Lettere from Russian Prisons, 1925, pp. 162-65.

51 Melnik e Sosina, 1991.

52 RGASPI17/84/395.

53 Doloj, 1993.

54 Guberman, 1994, pp. 72-74.

55 Berta Babina Nevskaja, My First Prison February in 1922, in Vìlenskij, 1999, pp. 97-109.

56 RGASPI 76/3/149.

57 RGASPI 76/3/227; Hoover, Fondo 89,73/25-27

i^yn^ji

II. "Il primo campo del Gulag"

1 "Ekran", 12, 27 marzo 1926.

2 Per una descrizione della geografia delle Soloveckie, le varie isole e il loro sviluppo, cfr. Melnik, SoSina, Reznikova e Reznikov, 1991.

Soloveckaja monastyrskaja tjur'ma, 1927, Soloveckoe Obscesrvo Kraevedenija, fascicolo VII (SKM).

4 Bogov, 1920; cit. anche in J. Brodskij, 1998, p. 13.

5 GARF 5446/1/2. Cfr. anche il riferimento di Nasedkin a Dzerzinskìj in GARF 9414/1/77.

6 Cfr., per esempio, Solzenicyn, 2001, voi. I, pp. 762-814.

7 Per una descrizione del sistema carcerario negli anni Venti, cfr. Jakobson, 1993.

8 GARF 9414/1/77.

9 J. Brodskij, 1998, pp. 35-36; Olickaja, 1971, pp. 134-36; Malsagov, 1926, pp. 117-31.

10 Olickaja, 1971, pp. 125,134-36.

11 Hoover, Fondo Nikolaevskij, busta 99; Hoover, Fondo 89, 73/34.

12 Lettere from Russian Prisons, 1925, pp. 165-71.

13 J. Brodskij, 1998, p. 195.

14 èirjaev, 1991, pp. 30-37.

15 Volkov, 1990, p. 53.

16 J. Brodskij, 1998, p. 65.

17 Lihacev, 1999, p. 187.

18 ). Brodskij, 1998, pp. 190-91.

19 Ivi, pp. 195-97.

20 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 784.

21 Cuhin, 1990, pp. 40-44; e anche Id., 1991. L'autore spiega che questi documenti, ristampati in versione integrale, facevano parte dell'"indagine penale n. 885". Si sa che provengono dall'archivio FSB di Petrozavodsk, dove lavorava Cuhin.

22 Klinger, 1929, p. 210; ripubblicato anche in "Sever", IX, settembre 1990, pp. 108-12. La tortura delle zanzare è citata anche in documenti d'archivio (Zvenja, voi. 1, p. 383) e in memoriali. Cfr. Letters from Russian Prisons, 1925, pp. 165-71; Volkov, 1990, p. 55.

23 Cuhin, 1991, p. 359; Lihacev, 1991, pp. 196-98.

24 J. Brodskij, 1998, p. 129.

25 Le guide turistiche delle isole Soloveckie riferiscono la storia. La si ritrova anche in Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 775.

Note

26 Cigankov, 1992, pp. 196-97.

27 Lihacev, 1991, p. 212.

28 Archivio dei quotidiani e delle riviste del GARF: "SLON", III, maggio 1924.

29 Sirjaev, 1991, pp. 115-32; Lihacev, 1991, pp. 201-05. Cfr. anche libri e giornali in SKM.

30 "SLON", III, maggio 1924 (GARF).

"Soloveckie ostrova", XII, dicembre 1925 (SKM).

32 Conversazione con la direttrice dell'SKM Tat'jana Fokina, 12 settembre 1998. Cfr. anche, per esempio, "Soloveckie ostrova", 1-7,1925, oppure i bollettini dell'SKM, nella collezione del museo e la collezione di AKB. Cfr. anche Drjahlicyn, 1990.

33 "Soloveckie ostrova", IX, settembre 1925, pp. 7-8 (SKM).

34 Reznikova, 1994, pp. 46-47.

35 "Soloveckoj Lagerjam", III, maggio 1924 (SKM).

36 Reznikova, 1994, pp. 7-36; Hoover, Fondo Melgunov, busta 7, fascicolo 44.

37 Nikolaj Anciferov, s.d., Triglavy iz vospominanij, in Pamjat', voi. IV, pp. 75-76.

38 Klinger, 1929, pp. 170-77.

Ivi, pp. 200-01; Malsagov, 1926, pp. 139-45; Rozanov, 1979, p. 55; Hoover, Fondo Melgunov, busta 7.

40 Cigankov, 1992, pp. 96-127; Hoover, Fondo Melgunov, busta 7.

41 Istorija otecestvo v dokumentah, voi. li, 1921-1939,1994, pp. 51-52.

42 Jakobson, 1993, pp. 70-102.

43 Krasil'nikov, 1997, pp. 142-43. È una raccolta di documenti ripubblicati sulla fondazione del Gulag, tutti provenienti dagli archivi del presidente della Federazione russa, di solito preclusi ai ricercatori.

44 NARK 689/17(44/465).

45 NARK 690/67(2/9).

46 RGASPI17/3/65.

47 Ohotin e Roginskij, 1998, p. 18.

48 Ivanova, 2000, pp. 70-71.

49 GAOPDFRK 1051/1/1.

50 Jakobson, 1993, p. 121, conversazioni del 1998 e 1999 con Nikita Petrov, Oleg Hlevnjuk e Jurij Brodskij. In Solovki, l'edizione italiana del libro di Brodskij, Frenkel' non è menzionato.

51 Per esempio Klement'ev, 1998; G.S. Eliseev, Tjuremnyj dnevnik, in Uroki, 1993, pp. 30-32.

52 Sirjaev, 1991, p. 138.

53 Cuhin, 1990, pp. 30-31.

54 Gor'kij, 1935, pp. 226-28.

55 GAOPDFRK 1033/1/35.

56 Duguet, 1927, p. 75.

57 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 822.

58 Malsagov, 1926, pp. 61-73.

Sirjaev, 1991, pp. 137-38; Rozanov, 1979, pp. 174-91; Narinskij, 1993, pp. 128-49.

60 Rozanov, 1979, pp. 174-91; Sirjaev, 1991, pp. 137-48.

Cartellino di registrazione come detenuto di Frenkel', Hoover, Collezione del San Pietroburgo Memorial.

62 Cuhin, 1990, pp. 30-31; Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 823.

63 Cfr. Posetiteli, p. 180.

Gulag

64 Hoover, Collezione del San Pietroburgo Memorial.

65 NARK 690/67(1/3).

66 Baron, 2001, pp. 615-21.

67 NARK 690/37(17/148).

68 Ibid.

69 Kulikov, 1997, p. 99.

70 GAOPDFRK 1033/1/15.

71 Nogtev, 1930, pp. 55-60; Nogtev, 1926, pp. 4-5.

72 J. Brodskij, 1998, p. 75.

73 II deficit delle Soloveckie è citato in Hlevnjuk, 1992; cfr. anche GAOPDFRK 1051/1/1.

74 Baron, 2001, p. 624.

75 GAOPDFRK 1033/1/35.

76 J. Brodskij, 1998, p. 75.

77 Ivi, p. 114.

78 Ivi, p. 195. 79NARK690/6/(l/3).

80 Cuhin, 1991.

81 J. Brodskij, 1998, pp. 115-16.

82 Lettersfrom Russian Prisma, 1925, pp. 183-88.

83 Hoover, Fondo 89, 73/34-36.

84 Ivi, 73/34.

85 Lettersfrom Russian Prisons, 1925, p. 218-20.

86 Krasikov, 1924, p. 2.

87 Lettersfrom Russian Prisons, 1925, p. 215.

88 Hoover, Fondo 89, 73/34-36.

89 Hoover, Fondo Nikolaevskij, busta 782; Fondo Melgunov, busta 8.

90 Hoover, Fondo Nikolaevskij, busta 782, fascicolo 6.

Ivi, fascicolo 1.

92 Lettersfrom Russian Prisons, 1925, p. 160.

III. 1929, la grande svolta

1 Stalin intervistato da Emil Ludwig nel 1934, in Silvester, 1993, pp. 311-22.

2 Lihacev, 1999, p. 160.

3 Figes, 1998, pp. 982-83.

4 J. Brodskij, 1998, pp. 188-89.

5 Lihacev, 1991, pp. 183-89.

6 Volkov, 1990, p. 168.

7 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 803; Heco, 1997, p. 245.

8 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 804; Heco, 1997, pp. 243-54; J. Brodskij, 1998, pp. 187-88.

9 Cuhin, 1990, p. 36.

10 Gor'kij, 1962, voi. XI, pp. 291-316. Tutte le citazioni da Gor'kij sulle Soloveckie provengono da questa fonte.

11 Heco, 1997, pp. 244-45.

12 Cfr. Tolczyk, 1999, pp. 94-97.

13 Tucker, 1990, pp. 125-27.

14 Payne, 2001, pp. 270-71.

Note

15 Tucker, 1990, p. 96.

16 Sbornik, 1993, pp. 22-26.

17 Cfr. Tucker, 1990; Conquest, 2002; Getry e Naumov, 1999.

38 Cfr. Conquest, 1988, che è ancora lo studio in lingua inglese più completo sulla collettivizzazione e la carestia, mentre il resoconto di Ivnitskij, 1996, utilizza in modo corretto i documenti d'archivio. In ogni caso, i confinati e i kulak attendono ancora il loro storico.

19 Ivnickij, 1996, p. 115; Zemskov, 1990, p. 4.

20 Getty e Naumov, 1999, pp. 110-12; Solomon, 1996, pp. 111-129.

21 Jakobson, 1993, p. 120.

22 Krasil'nikov, 1997, pp. 143-44.

23 M, pp. 145-46.

24 Ivi, p. 145.

25 Nordlander, 1997.

26 Krasil'nikov, 1997; Jakobson, 1993, pp. 1-9.

27 Jakobson, 1993, p. 120.

28 Hlevnjuk, 1992; Krasil'nikov, 1992, p. 6.

29 GARF 5446/1/54; 9401/la/l; Jakobson, 1993, pp. 124-25.

30 Harris, 1997.

31 Jakobson, 1993, p. 143.

32 Per una descrizione dell'esito disastroso di un altro progetto staliniano, le acciaierie di Magnitogorsk, cfr. Kotkin, 1995.

33 A Evgenija Ginzburg, per esempio, ancora nel 1936 fu comminata una pena detentiva senza lavoro. Cfr. E. Ginzburg, 1967.

34 Cuhin, 1990, p. 25.

35 Tucker, 1990, p. 64.

36 Cit. in Bullock, 1995, pp. 456-57.

37 Volkogonov, 1991, pp. 127,148.

38 per esempio, le fotografie in Moynahan, 1994, pp. 156-57.

39 Tucker, 1990, p. 273.

40 Jakobson, 1993, p. 121.

Lih, Naumov e Hlevnjuk, 1995, p. 211; cfr. anche Krasil'nikov, 1997, pp. 152-54; Hlevnjuk, 1992.

42 Hlevnjuk, 1992, p. 74. 43Jakobson, 1993, p. 121.

Hlevnjuk, 1992, pp. 74-76; Jakobson, 1993, p. 121; Hoover, Collezione del San Pietroburgo Memoria 1.

45 ve ne sono molti esempi nella osobaja papka (archivio personale) di Stalin conservata in GARF 9401/2. Il fascicolo 64, per esempio, contiene un lungo rapporto sul Dal'stroj.

46 Nordlander, 1998, pp. 798-800.

47 Genrih Jagoda, 1997, p. 434.

48 Verbali del Politbjuro, RGASPI17/3.

49 Volkogonov, 1991, pp. 294,304.

50 GARF 9401/2/199 (archivio personale di Stalin).

51 RGASPI 17/3/746; Nordlander, 1997.

52 Nordlander, 1997. 53Kaneva, 1991, p. 331.

54 Ohotin e Roginskij, 1998, p. 34.

Gulag

55 Genrih Jagoda, 1997, pp. 375-76.

Me lo ha suggerito Terry Martin in uno scambio di e-mail avvenuto nel giugno 2002.

IV. // canale del mar Bianco

1 Cit. in Baron, 2001, p. 638.

2 Dallin e Nikolaevskij, 1948, pp. 218-19.

3 Bateson e Pim, 1931.

4 Dallin e Nikolaevskij, 1948, p. 219.

5 Ivi, p. 221.

6 Ivi, p. 220.

7 Ibid.; Jakobson, 1993, p. 126.

8 Dallin e Nikolaevskij, 1948, p. 220.

9 GARF 5446/1/54; 9401/la/1.

10 GARF 9414/1/2920. "Jakobson, 1993, p. 127.

12 Kitchin, 1935, pp. 267-70.

13 Jakobson, 1993, pp. 127-28.

14 GAOPDFRK 26/1/41.

15 Gor'kij, 1935, pp. 17-19.

16 Ivi, p. 40.

17 Lih, Naumov e Hlevnjuk, 1995, pp. 225,212.

18 Makurov, 1992, p. 76; Si tratta di una collezione di documenti scelti prove-menti dagli archivi della Carelia.

19 Ohotin e Roginskij, 1998, p. 163.

20 Baron, 2001, pp. 640-41; cfr. anche Cuhin, 1990.

Makurov, 1992, p. 86.

22 Gor'kij, 1935, p. 173.

23 Makurov, 1992, pp. 96,19-20.

24 Baron, 2001, p. 643.

25 Makurov, 1992, pp. 37,197.

26 Ivi, pp. 43-44.

27 M, p. 197.

28 Cuhin, 1990, p. 121.

29 Makurov, 1992, pp. 19-20.

30 Cuhin, 1990, p. 12.

Makurov, 1992, pp. 72-73.

32 Cuhin, 1990, pp. 127-31.

33 Tolczyk, 1999, p. 152.

34 Baranov, 1996, pp. 165-68.

35 Gor'kij, 1935, pp. 46-47.

36 Ivi, pp. 158,165.

37 Pogodin, 1954, pp. 109-83; Geller, 1977, pp. 136-41.

38 Gliksman, 1948, p. 165.

39 Ivi, pp. 173-78.

40 GARF 9414/4/1; "Perekovka", 18 gennaio 1933.

GARF 9414/4/1; "Perekovka", 20 dicembre 1932 - 30 giugno 1934.

42 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 849.

V. L'espansione dei campi

1 "Kuznica", marzo-settembre 1936 (collezione di periodici del GARF).

2 Hlevnjuk, 1992, pp. 75-76.

3 Nicolas Werth, Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica, in Courtois et al., 1998, pp. 143-44. Un racconto dell'incidente, fatto da un prigioniero anonimo che incontrò alcuni sopravvissuti nella prigione di Tomsk, è riportato anche in Pamjat', voi. I, pp. 342-43. Cfr. anche Krasil'nikov, 1997, pp. 76-119.

4 Elanceva, 1992. L'articolo si basa su dati rinvenuti nell'Archivio centrale di Stato della Federazione russa di Tomsk, nell'Estremo Oriente.

5 Ibid.; Ohotin e Roginskij, 1998, p. 153.

6 Morozov, 1997, p. 104.

7 Kaneva, 1991. Il mio racconto si basa su quello della Kaneva, che a sua volta si fonda su documenti d'archivio della repubblica dei Komi e su memorie contenute nella collezione di Memorial.

8 Ivi, pp. 331, 334-35.

9 GARF 9414/1/8.

10 Mitin, 1992, pp. 22-26.

1' Mostra svoltasi al museo Kraevdeceskij di Vorkuta; cfr, anche "Vorkutin-stroj NKVD" (documento MVD del gennaio 1941), nella collezione Komi Memorial; Ohotin e Roginskij, 1998, p. 192.

12 Kaneva, 1991, p. 339.

13 Nadezda Ignatova, Specselency v respublike Komi v 1930-1940 gg., in Komy travi, pp. 23-25.

14 Ivi, pp. 25, 29.

15 Morozov, 1995, pp. 13-14.

16 Kaneva, 1991, pp. 337-38.

17 Nadezda Ignatova, Specselency v respublike Komi v 1930-1940 gg., in Komy travi, pp. 23-25.

18 Kaneva, 1991, p. 342.

20 Stephan, 1994, p. 225.

21 Nordlander, 1997. Per quanto racconto in queste pagine e altrove sulla storia della Koyma ho un debito nei confronti dell'opera di David Nordlander, per ora l'unico studio occidentale esaustivo basato su fonti archivistiche.

22 Ibid.

23 Viktor émirov, dell'Associazione Memorial di Perm', conversazione con l'autrice, 31 marzo 1998.

24 Smirov, 1999.

25 Stephan, 1994, p. 225.

26 Nordlander, 1997.

27 Ibid.

28 Stephan, 1994, p. 226.

29 Nordlander, 1997.

30 Stephan, 1994, p. 227.

31 Koziov, 2000.

32 Stephan, 1994, p. 226.

33 Conquest, 1978, p. 42.

34 Sgovio, 1979, p. 153.

Gulag

35 Salamov, 1999, p. 670.

36 Kozlov, 2000, p. 81; Nordlander, 1997.

37 M. loffe, 1978, pp. 66-71.

38 Kozlov, 2000, p. 82.

39 E. Ginzburg, 1979, p. 198.

40 Ibid.

GARF 9414/1/OURZ, nella collezione di A. Kokurin.

42 Hlevnjuk, 1992, p. 78.

43 Ibid.; Ohotin e Roginskij, 1998, pp. 376, 399, 285.

44 Ohotin e Roginskij, 1998, p. 38.

VI. Il Grande terrore e le sue conseguenze

Anna Ahmatova, Requiem, in Poema senza eroe e altre poesie, trad. it. Torino, Einaudi, 1966, p. 31.

2 Bacon, 1994, pp. 30,122. Bacon ha effettuato le sue valutazioni sulla base di molte fonti, sommando tutte le diverse categorie di lavoratori coatti. Per un'analisi approfondita delle statistiche, cfr. Appendice.

3 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 36.

4 Salvo diversa indicazione, questa descrizione del grande terrore è tratta da Conquest, 1968; Hlevnjuk, 1997; Getty e Naumov, 1999; Binner, Junge e Martin, 2001.

5 Getty e Naumov, 1999, p. 472.

"Trud", 88, 4 giugno 1992; riportato in Getty e Naumov, 1999, pp. 472-77: molti documenti del genere si possono trovare in Sabbo, 1996, pp. 297-304.

7 Sabbo, 1996, pp. 297-304.

8 Kokurin e Petrov, 1997, p. 15.

9 Veronica Znamenskaya, To This Day, in Vilensky, 1999, pp. 141-49.

10 Jurasova, s.d.

11 GARF, archivio del personale. Cfr. anche Kokurin e Petrov, 1997, pp. 797-857.

12 GARF 8131/37/99.

13 II racconto dell'arresto di Berzin è tratto da Nordlander, 1997.

14 Conquest, 1968, pp. 305-20.

15 Elena Sidorkina, Years Under Guarà, in Vilenskij, 1999, p. 194.

16 GARF 9401/12/94.

17 Conquest, 1968, p. 461.

18 Geller, 1977, p. 136.

19 Ivanova, 2000, p. 96.

20 Kokurin e Petrov, 1997, pp. 863-89.

21 Ivanova, 2000, pp. 95-96; Makurov 1992, pp. 183-84.

22 Rossi, 1989, p. 180.

23 Ivi, p. 60; Volkogonov, 1991, p. 284.

24 Rossi, 1989, pp. 36, 497; Sbornik, 1993, pp. 86-93.

25 Larina, 1989, p. 197.

26 Levinson, 1996, pp. 39-42. 27Gor'kij, 1935, p. 341.

28 Weiner, 1999.

29 Herling, 1994, p. 26.

30 Ivanova, 2000, p. 95.

Note

31 Rossi, 1989, p. 449.

32 Leipman, 1987, p. 38.

33 Nordlander, 1997.

34 Makurov, 1992, p. 160.

35 tuhin, 1990, p. 120.

36 Smirov, 1999.

37 Cit. in Smirov, 1999.

"Trud", 88, 4 giugno 1992; riportato in Getry e Naumov, 1999, pp. 479-80: N.A. Morozov, conversazione con l'autrice, luglio 2001.

39 Papkov, s.d.

40 GARF 9414/1/OURZ, nella collezione di A. Kokurin.

Si tratta del Prikaz 00447, analizzato da N. Petrov e A. Roginskij, Pol'skaja operacija NKVD, 1937-1938 gg., in Gurjanov, 1997, pp. 22-43.

42 Memorial'noe kladbisce Sandormoh, pp. 3,160-67 (raccolta di documenti sulle esecuzioni di Sandormoh). Un'altra fonte (Binner, Junge e Martin, 2001) cita la data dell'ordine dell'NKVD di sopprimere i prigionieri come 16 agosto 1937.

43 Florenskij, 1998, pp. 777-80, da Cirkov, 1991.

44 Memorial'noe kladbisce Sandormoh, pp. 167-69.

Hoover, Fondo Nikolaevskij, busta 233, fascicolo 23; cfr. anche Morozov, 1998, p. 28.

46 Conquest, 1968, pp. 439-40.

Archivio FBS, Petrozavodsk, Fondo 42, pp. 55-140: Akt zasedanija trojki NKVD KSSR, n. 13,20 settembre 1937, nella raccolta di Jurij Dmitriev, Petrozavodsk Memorial.

48 Conquest, 1968, p. 656.

49 Getty e Naumov, 1999, pp. 532-37.

50 Ivi, p. 562.

E. Ginzburg, 1967, pp. 359-60.

52 Morozov, 1998, pp. 28-29.

53 Nordlander, 1997, pp. 253-57.

54 Makurov, 1992, p. 163.

55 Hlevnjuk, 1992, p. 79.

56 Ivanova, 2000, pp. 105-07.

57 Nordlander, 1997.

58 Hlevnjuk, 1992, p. 73.

59 Nordlander, 1997.

60 GARF 9401/1/4240.

61 Solzenicyn, 1968b, p. 30.

62 Golovanov, 1990; Rajzman, 1999, pp. 21-23.

63 Kokurin, 1999.

64 Hlevnjuk, 1997, p. 92.

65 GARF 7523/67/1.

66 GARF 9414/1/24-25.

67 GARF 7523/67/1.

68 GARF 8131/37/356; 7523/67/2; 9401/la/71.

69 Knight, 1997, pp. 125-26.

70 Hlevnjuk, 1997, p. 92.

71 Zemskov, 1997, p. 63; Bacon, 1994, p. 30.

72 Zemskov, 1989, pp. 6-7; Bacon, 1994, p. 30.

Gulag

73 Ohotin e Roginskij, 1998, p. 308.

74 Ivi, pp. 338-39.

75 Ivi, pp. 200-01,191-92, 303.

76 Vasileevna, intervista con l'autrice.

77 L'espressione "complesso industriale dei campi" è utilizzata da M.B. Smir-nov, S.P. Sigacev e D.V. Skapov, coautori dell'introduzione storica a Ohotin e Roginskij, 1998.

VII. L'onesto

1 N. Mandel'stam, 1971, pp. 12-13.

2 Robinson, 1988, p. 13.

3 Agnew e McDermott, 1997, pp. 145,143-49.

4 Gelb, 1993.

5 Martin, 2001a, pp. 328-43.

6 Lipper, 1951, p. 35; Stephan, 1994, p. 229.

7 Conquest, 1968, pp. 418-19.

8 Stajner, 1985, pp. 31-33.

9 Martin, 2001b.

10 Di questa poesia esistono in russo svariate versioni. La traduzione italiana è tratta da O. Mandel'stam, 1971, p. 236.

11 Okunevskaja, 1998, p. 227.

12 Starostin, 1992; GARF 7523/60/4105.

13 Razgon, 1997, p. 93.

14 GARF 9401/12/253.

15 Wessberg, 1952, pp. 16-87.

16 Serebrjakova, 1967, pp. 34-50.

17 Lipper, 1951, p. 3.

18 Starostin, 1992, pp. 62-69.

19 Wat, 1988, pp. 308-12.

20 Dolgun, 1975, pp. 8-9.

21 Okunevskaja, 1998, pp. 227-28.

22 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 19.

23 Gagen-Torn, 1994, p. 58.

24 Hoover, Fondo 89,18/12, bobina 1.994.

25 V. Petrov, 1951, p. 17.

26 N. Mandel'stam, 1971, pp. 10-11.

27 Naimark, 1995, pp. 69-140.

28 RGVA 40/71/323.

29 Glowacki, 1998, p. 329.

30 E. Ginzburg, 1967, p. 69.

31 Elena Sidorkina, Years under Guarà, in Vilenskij, 1999, pp. 194-95.

32 Razgon, 2000, p. 33.

33 Èenov, 1997, p. 44.

34 Siheeeva-Gajster, 1998, pp. 99-104.

35 GARF 9410/12/3.

36 Joffe, 1995, pp. 90-91.

37 Solzenicyn, 1968b, p. 687.

38 Hoover, Fondo del ministero dell'Informazione polacco, busta 114, fascicolo 2.

Note 621

39 Miljutina, 1997, pp. 150-51.

40 Solzenicyn, 1968b, p. 704.

Gnedin, 1991, pp. 19-24. 42Dolgun, 1975, p. 11.

43 Vogelfanger, 1996, pp. 4-5.

44 Bersadskaja, 1975, pp. 37-39.

45 Adamova-Sliozberg, 2003, p. 34.

Walter Warwick, memoriale inedito. Ringrazio Reuben Rajala per avermi procurato il testo.

47 Kuusinen, 1974, p. 135.

48 Miranda v. Ahzona, 384 US 436 (1966)

49 Nicolas Werth, Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica, in Courtois et al, 1998, pp. 180-81.

50 Gorbatov, 1964, p. 118.

51 Hoover, Fondo Sgovio, busta 3.

52 Sgovio, 1979, p. 69.

53 Hoover, Fondo Sgovio, busta 3.

54 Finkel'Stejn, intervista con l'autrice.

55 Durasova, 1999, p. 77.

Petrov e Roginskij, Pol'skaja operatila NKVD, 1937-1938, in Gurjanov, 1997, pp. 37-38; V. Petrov, 1951.

Petrov e Roginskij, Pol'skaja operatila NKVD, 1937-1938, in Gurjanov, 1997, pp. 24-25.

58 Iwanow, 1991, p. 370.

59 V. Petrov, 1951, pp. 27-29.

60 Ivi, pp. 24-43, 32.

Hoover, Fondo 89,18/12, bobina 1.994; Getty e Naumov 1999, pp. 530-37.

62 Conquest, 1968, pp. 212,214.

63 T. Cernavin, 1934, pp. 156-63.

64 Narinskij, 1997, p. 60.

65 Discorso segreto di HruScev, ristampato in N. HruScev, 1970, p. 585.

66 Jansen e Petrov, 2000.

67 Gnedin, 1991, pp. 17-21.

68 Conquest, 1968, p. 199.

69 Sentalinskij, 1993, p. 26.

70 Hava Volovic, My Past, in Vilenskij, 1999, p. 251.

E. Ginzburg, 1967, p. 94.

72 Hoover, Fondo del ministero dell'Informazione, busta 114, fascicolo 2.

73 T. Cernavin, 1934, p. 162.

74 Dolgun, 1975, pp. 37-38,193,202.

75 Gorbatov, 1964, pp. 109-10.

76 Razgon, 2000, p. 52.

77 Pecora, intervista con l'autrice.

Vili. La prigione

1GARF9401/la/14. 2GARF9401/la/128. 3 Sobolev, 1999, p. 66.

Gulag

4 Garaseva, 1997, pp. 96-101; per la storia dell'edificio della Lubjanka, cfr. So-bolev, 1999, pp. 11-79.

5 Panin, 1973, p. 24.

6 Sergeev, 1998, pp. 232-38.

7 Gnedin, 1991, p. 17.

8 Butyrskij e Karysev, 1998, pp. 20-21.

9 Garaseva, 1997, pp. 96-101.

10 Cetverikov, 1991, p. 35.

Dolgun, 1975, p. 62. Molti anni dopo, il dirigente nazista Albert Speer fece una "passeggiata" assai simile nella sua cella, nel carcere di Spandau.

12 E. Ginzburg, 1967, pp. 27, 365.

13 Finkel'stejn, intervista con l'autrice.

14 GARF 9413/1/17; 9412/1/25; 9413/1/6.

15 GARF 8131/37/360.

16 GARF 8131/37/796,1250,1251.

17 Zabolotskij, 1981, pp. 310-31.

18 Buber-Neumann, 1994, p. 30. !9GARF9401/la/14.

20 Buber-Neumann, 1994, p. 27.

21 A. Trubeckoj, 1997, p. 261.

22 Nadezda Grankina, Notes by Your Contempomry, in Vilenskij, 1999, p. 119.

23 Jasnyj, 1997, pp. 1-50.

24 Dolgun, 1975, p. 15.

25 Cfr., per esempio, Gorbatov, 1964, p. Ili; oppure Zarod, 1990, p. 45. Jakov Efrussi ha intitolato il suo libro di memorie Kto na E? (Chi comincia per E?).

26 Veselaja, 1990, pp. 30-33.

27 Bersadskaja, 1975, pp. 37-39.

28 Veselaja, 1990, pp. 30-33.

29 Buber-Neumann, 1994, p. 32.

30 Adamova-Sliozberg, 2003, pp. 35, 20.

31 Salamov, 1999, p. 338.

32 Siheeva-Gajster, 1998, pp. 99-104.

33 Bystroletov, 1996, p. 115.

34 Pecora, intervista con l'autrice.

35 GARF 9489/2/31.

36 Weissberg, 1952, p. 278.

37 Lipper, 1951, pp. 7-10.

38 Zarod, 1990, p. 39.

39 Finkel'stejn, intervista con l'autrice.

40 Razgon, 2000, pp. 179-80.

41 Hoover, Fondo del ministero dell'Informazione, busta 116, fascicolo 2.

42 Salamov, 1999, p. 338.

43 Olickaja, 1971, pp. 105-06.

44 E. Ginzburg, 1967, p. 104.

45 Dolgun, 1975, p. 95.

46 yeselaja, 1990, p. 312.

47 Zigulin, 1996, p. 53.

48 Salamov, 1999, pp. 336-338.

49 Ibid.

I

IX. Trasferimento, arrivo, selezione

1 Sutherland, 1985, p. 136.

2 E. Ginzburg, 1967, p. 287.

3 Sgovio, 1979, pp. 129-35.

4 Hacatrjan, intervista con l'autrice.

5 E. Ginzburg, 1967, p. 146.

6 GARF 8446/1/23.

7 Anonimo, conversazione con l'autrice, Vilnius, settembre 1991; Fidel'golc, 1997.

8 Glowacki, 1998, pp. 320-405.

9 Bardach, 2001, p. 177.

10 Dostoevskij, 1995, p. 110.

11 Finkel'stejn, intervista con l'autrice.

12 Buca, 1976, p. 26.

13 Finkel'stejn, intervista con l'autrice.

14 Larina, 1989, p. 156.

15 Gliksman, 1948, pp. 230-31.

16 Panin, 1973, p. 36.

17 Ptasnik, 2002, pp. 846-54. 18Noble, 1960, p. 71.

19 Tiif, 1992.

20 Buca, 1976, p. 29.

21 Znamenskaja, 1997, pp. 20-22.

22 Karta, Fondo Kazimierz Zamorski, busta 1, fascicoli 1253, 6294.

23 Zabolotskij, 1986, p. XX.

24 Bersadskaja, 1975, pp. 47-49.

25 E. Ginzburg, 1967, p. 424.

26 Jakovenko, 1997, pp. 176-79.

27 Gagen-Torn, 1994, pp. 69-72.

28 Hoover, Fondo del ministero dell'Informazione, busta 114, fascicolo 2.

29 Ivi, busta 110, fascicolo 2.

30 Ptasnik, 2002, p. 853.

31 Armonas, 1961, pp. 40-44.

32 Sandrackaja, memoriale inedito.

33 Kaufman, 1973, pp. 228-33.

34 Karta, Fondo Kazimierz Zamorski, busta 1, fascicolo 1253.

35 Stephan, 1994, pp. 225-32.

36 Tvardovskij, 1996, pp. 249-51.

37 Sgovio, 1979, pp. 135-44.

38 Conquest, 1978, p. 20.

39 Karta, Fondo Kazimierz Zamorski, busta 1, fascicolo 1253.

40 Nerler, 1992, pp. 360-79.

41 Karta, Fondo Kazimierz Zamorski, busta 1, fascicolo 15876.

42 Hoover, Fondo del ministero dell'Informazione, busta 113, fascicolo 9.

43 Sgovio, 1979, p. 140.

44 Conquest, 1978, p. 24; E. Ginzburg, 1967, p. 494.

45 Conquest, 1978, p. 25.

46 Ivi, pp. 25-27; Golovanov, 1990.

47 Nordlander, 1997, pp. 290-91; Conquest, 1978, p. 25.

Gulag

48 Olickaja, 1971, p. 318.

49 E. Ginzburg, 1967, pp. 496-97.

50 Karta, Fondo Kazimierz Zamorski, busta 1, fascicoli 6294,15882,15876.

51 Sgovio, 1979, p. 143.

52 Kuusinen, 1974, p. 150.

53 Lipper, 1951, pp. 92-95.

54 Karta, Fondo Kazimierz Zamorski, busta 1, fascicolo 1722.

55 Elena Glink, Kolyma Tram, in Vilenskij, 1996, pp. 10-16.

56 Bardach, 2001, p. 213.

57 Karta, Fondo Kazimierz Zamorski, busta 1, fascicolo 1253.

58 GARF 9401/1/614. 59GARF9401/la/61. 60GARF9401/la/64.

61 GARF 9401/2/171,199.

62 GARF 8131/37/2063.

63 GARF 8131/37/2041.

64 Gagen-Torn, 1994, pp. 69-72.

65 Ekart, 1954, p. 44.

66 Jakovenko, 1997, pp. 176-79.

67 Solzenicyn, 2001, voi. I, pp. 603-04.

68 Zenov, 1997, p. 74.

69 Armonas, 1961, p. 137.

70 Gurskij, memoriale inedito.

71 Cirkov, 1991, p. 22.

72 Colonna-Czosnowski, 1998, p. 53.

73 GARF 9414/1/2743.

74 Olickaja, 1971, p. 320.

75 Adamova-Sliozberg, 2003, p. 86.

76 Smirnova, intervista con l'autrice.

77 Andreevna, intervista con l'autrice.

78 Bardach, 2001, p. 251.

79 Hoover, Fondo del ministero dell'Informazione polacco, busta 114, fascicolo 2.

80 Ul'janovskaja, 1982, pp. 356-65.

81 Salamov, 1999, p. 638.

82 Sirjaev, 1991, pp. 31-37.

83 Per esempio GARF. 9489/2/25.

84 Weissberg, 1952, p. 92.

85 Gliksman, 1948, p. 240.

86 Jakir, 1973, p. 117.

87 E. Ginzburg, 1967, p. 513.

88 GARF 5446/1/54.

89 GARF 9401/12/316.

90 Bien, memoriale inedito.

91 Gliksman, 1948, pp. 218-21.

92 Gagen-Torn, 1994, p. 149,

93 Herling, 1994, p. 43.

94 Gliksman, 1948, pp. 246-48.

X. La vita quotidiana

1 Ripubblicato in Cohen, 1982, p. 91.

2 Ohotin e Roginskij, 1998, pp. 137-525.

3 Okunevskaja, 1998, p. 391.

4 GARF 5446/1/54; 9401/12/316.

5 GARF 9489/2/20.

6 GARF 9401/12/316.

7 GARF 9414/6/24.

8 Rossi, 1989, p. 137.

9 Buber-Neumann, 1994, p. 69.

10 GARF 9401/12/316.

11 Rossi, 1989, p. 130.

12 Sofsky, 2002, pp. 83-84.

13 GARF 9489, archivio del Dmitlag (9489/2/31, per esempio).

14 GARF 9401/12/316.

15 GARF 9401, nella collezione dell'autrice.

16 GARF 8131/37/361.

17 GARF 8131/37/542.

18 GARF 9401/la/136; 9401/1/4240.

19 Guberman, 1994, p. 33.

20 Adamova-Sliozberg, 2003, p. 88.

Finkel'Stejn, intervista con l'autrice.

22 Zarod, 1990, p. 103.

23 Kuc, 1999, p. 165.

24 Lvov, memoriale inedito.

25 Herling, 1994, p. 45.

26 Sofsky, in L'ordine del terrore, parla anche del tempo e dello spazio dei prigionieri. Ho tratto l'idea da lui.

27Frid,1996,p. 136.

28 GARF 9401/12/316.

29 Zarod, 1990, pp. 99-100.

30 Frid, 1996, p. 136.

Zarod, 1990, p. 102.

32 GARF 9401/12/316; Zarod, 1990, p. 102.

33 Rossi, 1989, p. 370.

34 Nordlander, 1997, p. 158; Mitin, 1992.

35 Olickaja, 1971, p. 327; Nordlander, 1997, p. 159.

36 Olickaja, 1971, p. 327.

37 GARF, nella collezione dell'autrice. 38GARF9401/la/127.

39 GARF 9401 /la/128; Berdinskih, 1998, pp. 24-43.

40 N.A. Morozov, 1995, pp. 72-75.

Bondarevskij, 1995, p. 44.

42 Pavel Galickij, Etogo zabyt' nel'zja, in Uroki, 1993, pp. 83-85.

43 MacQueen, 1998.

Hoover, Fondo del ministero dell'Informazione polacco, busta 114, fascicolo 2.

45 GARF 9414/1/2741.

Gulag

46 Zarod, 1990, p. 104.

47 Mirek, 1989, p. 116.

48 Herling, 1994, p. 130.

49 Lipper, 1951, p. 214; Zarod, 1990, pp. 104-05.

50 GARF 9489/2/11

51 Cit. in Zigulin, 1996, p. 121.

52 Sulimov, 1997, pp. 45-55.

53 Sieminski, 1995, p. 45.

54 GARF 8131/37/543.

55 GARF 9414/1/2887.

56 GARF 9414/1/496, ordine del giugno 1951 di creazione di un campo "in conformità al piano del Gulag".

57 GARF 9414/6/24.

58 Evstonicev, 1990, p. 88.

59 Sulimov, 1997, p. 53.

60 GARF 8131/37/4547.

61 Buber-Neumann, 1994, pp. 68-69.

62 GARF 9401/la/274.

63 Andreevna, intervista con l'autrice. 64GARF9401/la/141.

65 Lipper, 1951, p. 131.

66 Fil'stinskrj, intervista con l'autrice.

67 Arginskaja, intervista con l'autrice; GARF 9401/la/274.

Hoover, Fondo del ministero dell'Informazione polacco, busta 114, fascicolo 2.

69 Petrus, 1996, pp. 58-65.

70 Pecora, intervista con l'autrice.

71 Ibid.; Bulgakov, intervista con l'autrice.

72 Arginskaja, intervista con l'autrice.

73 Pecora, intervista con l'autrice; Petrus, 1996, pp. 58-65.

74 Rozina, 1992, pp. 67-75.

75 Smirnova, intervista con l'autrice.  ; 3

76 Ibid.

77 Sgovio, 1979, p. 186.

78 Vardi, 1971, pp. 93-150.

79 GARF 9414/6/24-25.

80 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 1040.

Rozina, 1992, pp. 67-75.

82 Vogelfanger, 1996, p. 67.

83 Okunevskaja, 1998, p. 391.

84 Golovanov, 1990, pp. 110-15,122.

85 Petrus, 1996, pp. 58-65.

86 Colonna-Czosnowski, 1998, p. 113.

87 GARF 9414/4/1 ("Perekovka", 30 giugno 1934).

88 Karta, Archiwium Wschodnia, V/AC/183.

89 GARF 5446/1/54; Rossi, 1989, p. 14.

90 GARF 9401/1/713.

91 Waydenfeld, 1999, p. 132.  f.o

92 Salamov, 1999, p. 638.

Note 627

93 GARF 9489/2/20.

94 GARF 8131/37/357.

95 GARF 8131/37. 96GARF9401/la/16.

97 GARF 9489/2/20/64.

98 Arginskaja, intervista con l'autrice.

99 Sitko, intervista con l'autrice.

100 Fil'stinskij, intervista con l'autrice.

Éigulin, 1996, pp. 174-78.

102 pecora, intervista con l'autrice.

103 GARF 9414/3/9.

104 Salamov, 1999, pp. 634-35.

105 Sgovio, 1979, p. 175.

106 Salamov, 1999, p. 636.

107 Rozina, 1992, pp. 67-75.

108 Salamov, 1999, p. 633.

109 Levinson, 1996, pp. 39-40. n°Armonas, 1961, p. 123.

111 Sitko, intervista con l'autrice.

112 Sulimov, 1997, p. 43. "3 GARF 9489/2/15.

114 GARF 9401/1/713.

115 GARF 9401/la/128.

116 GARF 9401/la/140.

117 GARF 9401/la/189; 9401/1/713; 9401/la/141,119.

118 GARF 9489/2/20/109-113.

119 Kedrovyj Sor, nella collezione dell'autrice.

120 Narinskij, 1997, p. 138. 123 Ivi, pp. 136-37.

122 Kedrovyj Sor, nella collezione dell'autrice; GARF 9489/2/5.

123 GARF 9489/2/19.

124 Gliksman, 1948, p. 301. 125GARF9401/la/189.

126 V. Gorhova, Raport vraca, in Uroki, 1993, pp. 103-05. 127Alin, 1997, pp. 185-91.

128 v Petrov, 1951, pp. 216,178.

129 Jakovenko, 1997, pp. 180-81.

130 Samsonov, 1990, pp. 70-71.

131 GARF 9414/1/25.

132 GARF 9489/2/10.

133 GARF 8131/37/809, 797,1251.

134 Kedrovyj Sor, nella collezione dell'autrice.

135 GARF 8131/37/361.

136 E. Ginzburg, 1967, pp. 543-47.

137 E. Ginzburg, 1979, p. 66.

138 Kedrovyj Sor, nella collezione dell'autrice.

139 GARF 8131/37/4544.

140 Veselovskij, 1996, p. 131.

141 Alin, 1997, pp. 185-91.

Gulag

142 Zarod, 1990, p. 100.

143 Ivi, p. 140.

144 Salamov, 1999, p. 79.

145 V. Petrov, 1951, p. 99.

146 Sgovio, 1979, p. 161.

147 Zarod, 1990, p. 100.

148 Panin, 1973, pp. 74,162.

149 Pecora, intervista con l'autrice.

XI. Il lavoro

1 Ripubblicato in Cohen, 1982, pp. 96-97.

2 GARF 9414/6 (album fotografici).

3 Ohorin e Roginskij, 1998, pp. 137-476.

4 GARF 9414/6/8.

5 E. Ginzburg, 1967 e 1979.

6 Sitko, intervista con l'autrice.

7 Fil'stinskij, 1997, p. 37.

8 GARF 9489/2/9.

9 Prjadilov, 1999, pp. 113-14.

10 Weissberg, 1952, p. 96.

11 Solzenicyn, 1963, p. 59.

12 Kress, Novyj pionier, ili Kolymskaja selekcija, in Vilenskij, 1996, pp. 62-70.

13 Zorin, intervista con l'autrice. -  14 Mindlin, 1999, pp. 52-57.

15 Sofsky, 2002, p. 46.

16 Pecora, intervista con l'autrice.

17 Cfr. per esempio le fotografie nel MA.

18 Rossi, 1989, p. 255.

19 E. Ginzburg, 1967, pp. 570-73.

20 Ul'janovskaja, 1982, pp. 356-65.

V. Petrov, 1951, pp. 208,178.

22 Zarod, 1990, p. 114.

23 Bardach, 2001, p. 258.

24 Sulimov, 1997, p. 57.

25 Fil'stinskij, 1997, p. 38.

26 Bystroletov, 1996, p. 162.

27 Bardach, 2001, pp. 256-57. 28GARF9401/la/141.

29 GARF 8131/37/4547.

30 Cfr. per esempio Zenov, 1997, p. 69.

Lipper, 1951, p. 135.

32 George Victor Zgornicki, da un nastro inviato all'autrice, aprile 1998.

33 V. Petrov, 1951, p. 178.

34 Fil'Stinskij, 1997, p. 39.

35 GARF 9401/1/713.

36 V. Petrov, 1951, p. 208.

37 Zarod, 1990, p. 114.

38 Bardach, 2001, p. 257.

Note  629

39 Olickaja, 1971, p. 327.

40 Weissberg, 1952, p. 63.

41 Ekart, 1954, p. 83.

42 Usakova, intervista con l'autrice.

43 Dolgun, 1975, p. 185.

44 GARF, documento in possesso dell'autrice senza riferimenti.

45 Razgon, 1997, p. 155. Esempi di seghe rudimentali sono in mostra nel Museo di storia locale di Medvezegorsk.

Hoover, Fondo del ministero polacco dell'Informazione, busta 114, fascicolo 2.

48 Nordlander, 1997, p. 170.

49 GARF 9414/4/3.

50 Nordlander, 1997, p. 182.

51 Dagor, 1939, p. 10.

52 Maksimovic, 1982, pp. 91-100.

53 A. Dobrovolskij, 1994; Ohotin e Roginskij, 1998, pp. 220-21, 341-43.

54 GARF 9414/6/23.

55 "SLON", 1, 1924 (dalla raccolta GARF). 56Cuhin, 1990, pp. 127-31.

57 Sgovio, 1979, p. 184.

58 GARF 9401/1/567. 59GARF9401/la/68.

60 Fel'dgun, memoriale inedito.

61 GARF 9401/1/567.

62 Herling, 1994, pp. 178-79.

63 Wigmans, 1964, p. 127; Korallov, intervista con l'autrice.

64 GARF 9401/1/2443.

65 CARF 9401/1/567.

66 GARF 9414/1/1442.

67 Fil'srinskij, 1997, pp. 163-69.

68 GARF 9414/1/1441.

69 Ekart, 1954, p. 82.

70 GARF 9414/1/1440.

71 GARF 9414/4/145.

72 Kotkin, 1995, p. 232.

73 Andreevna, intervista con l'autrice.

74 Trus, intervista con l'autrice.

75 Ekart, 1954, p. 82.

76 Hoover, Fondo del ministero polacco dell'Informazione, busta 114, fascicolo 2.

77 Herling, 1994, p. 177.

78 GARF 9414/1/1460.

79 GARF 9414/1/1461; Ohotin e Roginskij 1998, p. 195.

80 GARF 9414/1/1461.

Bukovskij, colloquio con l'autrice, marzo 2002.

XII. Punizione e premio

I Ripubblicato in Rossi, 1989, p. 460. 2Kaufman,1973,p.249.

3 Herling, 1994, p. 221.

4 GARF 9401/12/316.

5 Kuusinen, 1974, pp. 201-02.

6 Razgon, 1997, pp. 139-40.

7 GARF 9401/1/713; 9401/12/316.

8 Bardach, 2001, pp. 237.

9 Herling, 1994, pp. 222-23.

10 Ul'janovskaja, 1982, p. 358.

II Herling, 1994, p. 222.

12 GARF 9489/2/5.

13 Nordlander, 1997, pp. 230-31.

14 Adamova-Sliozberg, My Journey, in Vilenskij, 1999, p. 66.

15 Svetlana-Dojnisena, direttrice del Museo di storia locale di Iskitim, colloquio con l'autrice, 1° marzo 1999.

16 I. Samahova, Lagernaja pyl, in Vozvrasccenie k pamjati, 1992-1997, voi. I, pp. 38-42.

17 GARF 5446/1/54.

18 GARF 9401/12/316. W Ibid.

20 GARF 9401/1/3463.

21 Cfr., per esempio, Cirkov, 1991, pp. 54-55; Maksimovic, 1982, pp. 82-90.

22 GARF 8131/37/542.

23 GARF 9489/2/20.

24 Bystroletov, 1996, pp. 377-78.

25 Rozina, 1992, p. 65.

26 Armonas, 1961, pp. 123-26.

27 Gorbatov, 1964, p. 121.

28 Bystroletov, 1996, pp. 385-86.

29 A. Morozov, 1991, pp. 101-03.

30 Un esempio è contenuto nella raccolta di documenti provenienti da Ke-drovyj Sor, in possesso dell'autrice.

31 GARF 9401/12/316.

32 A. Morozov, 1991, pp. 171-75.

33 Bystroletov, 1996, p. 169.

34 Ul'janovskaja, 1982, p. 403.

35 Zenov, 1997, pp. 104-06.

36 GARF 9489/2/5.

37 Herling, 1994, p. 110.

38 Golovanov, 1990, p. 128.

39 Koroleva, intervista con l'autrice.

40 Jasnyj, 1997, pp. 52-53.

41 Bystroletov, 1996, p. 391.

42 Herling, 1994, pp. 108-09.

43 Gogua, memoriale inedito.

44 Herling, 1994, p. 112.

J

Note  631

45 Solzenicyn, 1968b, p. 290; Thomas, 1998, pp. 175-77.

46 Mazus, 1992, pp. 34-37.

47 Herling, 1994, pp. 112-13.

XIII. Le guardie

1 II manoscritto della poesia è conservato nel dossier personale in cui si parla della sua espulsione dal Partito e dall'NKVD. RGASPI 119/7/96.

2 Smirov, colloquio con l'autrice, 31 marzo 1998. Viktor Smirov è direttore del Museo del Gulag di Perm'.

3 Per un elenco degli amministratori del canale del mar Bianco espulsi dal Partito, tra l'altro perché avevano avuto rapporti sessuali con i prigionieri cfr GARF 9414/4/29.

4NARK865/l/(10/52)

5 Kuperman, memoriale inedito.

6 Ivanova, 2000, p. 154.

7 Cfr., per esempio, GARF 9414/4/1Q.

8 GARF 9401/W61; 9401/1/743.

9 Kuzmina, 2001, pp. 93-99.

10 GARF 9401/2/319.

11 GARF 9414/3/40.

12 Razgon, 2000, pp. 163-66.

13 N. Petrov, 1998 (l'autrice ha letto il manoscritto in russo).

14 Ma. C'erano delle eccezioni, come dimostra la storia di Viktor Abakumov, il quale cominciò la sua carriera nel Gulag ma ascese nella scala gerarchica fino a diventare capo dello SMERè (il controspionaggio sovietico). Cfr. Ivanova, 2000 pp. 141-42.

15 Ivanova, 2000, p. 145.

16 Sono grata a Terry Martin per avermelo fatto notare.

17 Melgunov, 1926, p. 241. Cfr. anche N. Petrov, 1998

18 Ivanova, 2000, p. 140.

19 Ivi, p. 150.

20 GARF 9401/1/743.

N. Petrov, 1998.

22 Smirnova, intervista con l'autrice.

23 Kokurin e Petrov, 2000, pp. 798-857.

24 RGASPI 119/3/1, 6,12,206; 119/4/66.

25 N. Petrov, 1998.

26 GARF 9414/4/3.

27 GARF 9401/1/4240.

28 Ivanova, 2000, p. 163.

29 Cfr., per esempio, GARF 9414/3/40; 9401/1/743.

30 Ivanova, 2000, pp. 143,161.

31 GARF 9489/2/16.

32 GARF 9414/3/40.

33 GARF 8131/37/357.

34 GARF 8131/37/2063.

35 Vasileevna, intervista con l'autrice. 36GARF9401/la/l.

Gulag

37 GARF 9401/la/10; 9489/2/5; 9401/la/5. 38GARF9401/la/6.

39 Nordlander, 1997, p. 183.

40 pefora, intervista con l'autrice.

41 Roeder, 1958, pp. 128-30.

42 Kucin, 1999, pp. 10-16.

43 Ivanova, 2000, pp. 159-60.

44 Ivi, p. 160.

45 ètajner, 1985, p. 218.

46 Ivanova, 2000, p. 160.

47 MacQueen, 1998.

48 GARF 8131/37/2063; 9401/12/316.

49 Kuusinen, 1974, p. 173.

50 E. Ginzburg, 1967, p. 531.

51 Sgovio, 1979, pp. 247-48.

52 Nordlander, 1997.

53 Rotfort, 1991, pp. 78-80.

54 Razgon, 2000, p. 170.

55 Vogel'fanger, pp. 147,178.

56 Kopelev, 1977, pp. 372-75.

57 Nordlander, 1997, p. 277.

58 Razgon, 2000, pp. 185-86.

59 Starostin, 1992, pp. 83-88.

60 GARF, documento in possesso dell'autrice senza riferimenti.

Ibid.

62 Cfr. Goldhagen, 1997.

63 Smirnova, intervista con l'autrice.

64 Andreevna, intervista con l'autrice.

65 Arginskaja, intervista con l'autrice.

66 GARF 8131/37/100.

67 R.A. Medvedev, 1977, voi. I, p. 362.

68 Razgon, 2000, p. 178.

69 Gorcakov, 1997, pp. 156-57.

70 Prjadilov, 1999, pp. 81-95.

71 GARF 8131/37/1253.

72 Levinson, 1996, p. 40.

73 Éigulin, 1996, p. 154; Sandratskaja, memoriale inedito, p. 51.

74 Gnedin, 1991, p. 96.

75 Berdinskih, 1998, p. 22.

76 GARF 9489/2/20; 9401/la/61.

77 Bulgakov, intervista con l'autrice.

78 GARF 8131/37/809.

79 Èigulin, 1996, p. 157.

80 Berdinskih, 1998, p. 22.

81 D'jakov, 1964, p. 65.

82 Lipper, 1951, pp. 241-43.

83 Ivanova, 2000, p. 149.

84 Ul'janovskaja, 1982, p. 316.

85 Kozlov, 2000, p. 89.

Note  633

86 Weiner, 1999.

87 Zigulin, 1996, p. 157.

88 Stajner. 1985, p. 95.

89 Buber-Neumann, 1949, p. 116.

90 èrejder, 1995, p. 193.

91 MacQueen, 1998.

92 Amia Zaharova, The Defense afa Prison Camp Officiai, in Cohen, 1982, p. 143.

93 Anonimo, intervista con l'autrice.

94 Hochschild, 1994, p. 65.

95 MacQueen, 1998.

96 Razgon, 2000, pp. 169-70.

97 CARF 8131 /37/809.

98 Berdinskih, 1998, p. 28. "Zarod, 1990, p. 94. "WCARF 8131/37.

XIV. I prigionieri

1 Dostoevskij, 1995, p. 11.

2 E. Ginzburg, 1967, pp. 496-97.

3 Gorbatov, 1964, p. 125.

4 Ekart, 1954, pp. 71-74.

5 M. loffe, 1978, pp. 8-9.

6 Razgon, 2000, p. 139.

7 Colonna-Czosnowski, 1998, p. 109.

8 Varese, 2000, pp. 162-64.

9 Abramkin e Cenokova, 1993, pp. 7-22.

10 Ibid.

11 Dostoevskij, 1995, p. 39.

12 Abramkin e Cenokova, 1993, p. 10.

13 Razgon, 2000, p. 140.

14 Dolgun, 1975, pp. 139-60.

15 Korallov, intervista con l'autrice.

16 Abramkin e Cenokova, 1993, p. 9.

17 Korallov, intervista con l'autrice.

18 Varese, 2000, pp. 146-50.

19 N. Medvedev, 1991, pp. 14-16. 2° Ibid.

Salamov, 1999, p. 180.

22 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 1246.

23 Zigulin, 1996, p. 136.

24 Berdinskih, 1998, pp. 291-315.

Hoover, Fondo del ministero polacco dell'Informazione, busta 114, fascicolo 2.

26 Akarevic, 1925.

27 Guberman, 1994, pp. 72-73.

28 GARF 9489/2/15.

29 Salamov, 1999, pp. 9-10.

30 Fel'dgun, memoriale inedito.

Gulag

Berdinskih, 1998, p. 132.

32 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 1240.

33 Sgovio, 1979, pp. 165-69.

34 GARF 8131/37/1261.

35 Lihacev, 1930, pp. 32-35.

36 Finkel'stejn, intervista con l'autrice.

37 Herling, 1994, p. 34.

Hoover, Fondo del ministero polacco dell'Informazione, busta 113, fascicolo 2.

39Gorbatov, 1964, pp. 140-41.

40 Colonna-Czosnowski, 1998, pp. 126-31.

41 Antonov-Ovseenko, 1996, p. 316.

42 Varese, 2000, p. 159.

43 Finkel'stejn, intervista con l'autrice.

44 Zemskov, 1997, p. 68.

45 Dugin, 1990; Zemskov, 1997, p. 65.

46 Ol'ga Adamova-Sliozberg, My ]ourney, in Vilenskij, 1999, p. 2.

47 Elletson, 1998, p. 2.

48 Kucin, 1999, pp. 37-38.

49 Ekart, 1954, p. 69.

50 E. Ginzburg, 1967, pp. 153-54; Razgon, 1997, p. 93.

Razgon, 1997, p. 93.

52 Salamov, 1999, p. 415.

53 Warwick, memoriale inedito.

54 Frid, 1996, p. 235.

55 Federol'f, 1996, p. 123.

56 Purizinskaja, intervista con l'autrice.

57 Trus, intervista con l'autrice.

58 Gagen-Torn, 1994, p. 77.

59 Razgon, 1997, p. 138.

60 Ekart, 1954, p. 192. 61Leipman,1987,p.69.

62 Ekart, 1954, pp. 67-68.

63 Noble, 1960, p. 121.

64 Lejpman, 1987, p. 89.

65 Ekart, 1954, p. 191.

66 Dostoevskij, 1995, pp. 33-34.

67 Cuhin, 1990, pp. 164-67.

68 GARF 9489/2/5.

69 Herling, 1994, p. 41.

70 S.I. Kuznecov, 1973.

71 Polonskij, 1996.

72 MacQueen, 1998.

73 Panin, 1973, p. 187.

74 Stajner, 1985, p. 188.

75 Solzenicyn, 2001, voi. II, p. 518.

76 Hoover, Collezione Adam Galinski.

77 Wat, 1988, p. 147.

78 Hacatrjan, intervista con l'autrice.

r

Note 635

79 Buca, 1976, p. 122.

80 Negretov, intervista con l'autrice.

Korallov, intervista con l'autrice.

82 Sitko, intervista con l'autrice.

83 Purizinskaja, intervista con l'autrice.

84 GARF 9414/1/206 (statistica sulle nazionalità per il 1954).

85 V. Petrov, 1951, pp. 119-37.

86 Trus, intervista con l'autrice.

87 Federol'f, 1996, p. 234.

88 Gagen-Torn, 1994, p. 205.

89 Andreevna, intervista con l'autrice.

90 Pecora, intervista con l'autrice.

91 Larina, 1989, p. 168.

92 Solzenicyn, 2001, voi. I, pp. 1112-13.

93 D'jakov, 1964, pp. 60-67.

94 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 1138.

95 èentalinskij, 1993, pp. 163-65.

96 Andreevna, intervista con l'autrice.

97 Gagen-Torn, 1994, p. 208.

98 Kuusinen, 1974, p. 202.

99 Solzenicyn, 2001, voi. I, pp. 807-08.

100 Ul'janovskaja, 1982, p. 300.

101 Arginskaja, intervista con l'autrice.

102 Gagen-Torn, 1994, p. 208.

XV. Donne e bambini

1 Adamova-Slìozberg, 2003, pp. 109-10.

2 Per esempio Vilenskij, intervista con l'autrice.

3 Buber-Neumann, 1994, pp. 31-32.

4 Herling, 1994, p. 156.

5 Ivi, pp. 154-55.

6 Levinson, 1996, pp. 72-75. 7GARF9401/la/107.

8 Cfr., per esempio, Alin, 1997, pp. 157-60; Evstonicev, 1990, pp. 19-20.

9 Statistiche compilate da varie fonti (GARF) per le quali sono grata ad Alek-sandr Kokurin.

10 Not Part ofMy Sentence: Violations ofthe Human Rights ofWomen in Custody, 1999.

11 Salamov, 1999, pp. 783-84.

12 Sgovio, 1979, pp. 173-74.

13 Abramkin e Cesnokova, p. 18; Bukovskij, 1978, pp. 318-19.

14 Jakir, 1973, pp. 46-47.

15 Ul'janovskaja, 1982, pp. 388-91; Lvov, memoriale inedito.

16 Ul'janovskaja, 1982, pp. 388-91.

17 Hoover, Collezione del ministero polacco dell'Informazione, busta 114, fascicolo 2.

18 Frid, 1996, pp. 186-87.

19 Lvov, memoriale inedito.

Gulag

20 Hoover, Collezione del ministero polacco dell'Informazione, busta 114, fascicolo 2.

21 Pecora, intervista con l'autrice.

22 Andreevna, intervista con l'autrice.

23 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 998.

24 Fil'stinskij, intervista con l'autrice.

25 Hava Volovic, My Posi, in Vilenskij, 1999, p. 260.

26 Lvov, memoriale inedito.

27 Buca, 1976, pp. 134-35.

28 Razgon, 1997, pp. 163-64.

29 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 999.

30 Herling, 1994, p. 155.

31 Frid, 1996, p. 187.

32 Ivi, pp. 187-88.

33 Éigulin, 1996, pp. 128-33.

34 Vogel'fanger, 1996.

35 Sitko e Pecora, interviste con l'autrice.

36 Kaufman, 1973, p. 223.

37 Sitko, intervista con l'autrice.

38 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 1015.

39 Ivi, p. 1016.

40 NKVD, ordine operativo del 15 agosto 1937, ripubblicato in Sbornik, 1993, pp. 86-93.

41GARF9401/la/66.

42 Kaufman, 1973, pp. 188-89.

43 Natal'ja Zaporozec, in Vilenskij, 1999, pp. 532-39.

44 Vilenskij, 2002, p. 428.

45 Ivi, pp. 41-42.

46 Hoover, Collezione del ministero polacco dell'Informazione, busta 114, fascicolo 2.

47 Vilenskij, 2002, p. 117.

48 per esempio, l'amnistia del 1945 per le donne con figli escludeva in modo esplicito le prigioniere politiche, e lo stesso una del 1948. GARF 8131/37/4554; 9401/la/191;9401/l/ 743.

49 Hacatrjan, intervista con l'autrice.

50 Lahti, memoriale inedito. Sono grata a Reuben Rajala per il manoscritto.

51 Joffe, 1995, p. 124.

52 Frid, 1996, p. 184; GARF 9414/1/2741.

53 Andreevna, intervista con l'autrice.

54 Jakovenko, 1997, p. 196.

55 Hava Volovich, My Pasf, in Vilenskij, 1999, pp. 260-64.

56 GARF 9414/6/44, 45.

57 E. Ginzburg, 1979, p. 5.

58 GARF 9401/2/234.

59 GARF 8313/37/4554 e 1261.

60 Vilenskij, 2002, p. 150.

61 Joffe, 1995, pp. 127-35.

62 GARF 8313/37/4554.

63 Anonimo, intervista con l'autrice.

Note

64 GARF 8313/37/4554.

65 E. Ginzburg, 1979, pp. 6-8.

66 Anche se l'anonimo amministratore d'asilo con cui ho parlato ha negato che fosse accaduto, moltissimi autori di memorie parlano di madri separate dai figli. Susanna Pecora dice che nei campi speciali era un fatto comune.

67 Vilenskij, 2002, pp. 241-42.

68 Armonas, 1961, pp. 156-61. 6" Vilenskij, 2002, p. 320.

70 Bazarov, 1988, p. 362.

Ivi, pp. 370-76.

72 Vilenskij, 2002, p. 144.

73 GARF 9401/la/20.

74 Vilenskij, 2002, p. 248.

75 Ivi, p. 247.

76 GARF 9401/la/20. ^Jakir, 1973, p. 31.

78 Anonimo, Eho iz nebytija, pp. 289-92.

79 Jurganova, intervista con l'autrice.

80 Hochschild, 1994, p. 87.

Pecora, intervista con l'autrice.

82 Lahti, memoriale inedito.

83 GARF 9414/1/27.

84 Serge, 1996, p. 28.

S5 Bazarov, 1988, p. 383.

86 GARF 9414/1/42 e 9401/la/7; Solzenicyn, 2001, voi. I, pp. 1247-71.

87 Vilenskij, 2002, p. 11.

8" GARF 9414/1/42; Bazarov, 1988, pp. 385-93. 89 Razgon, 1997, p. 162. W GARF 9412/1/58.

GARF 9401/la/62 e 7.

92 GARF 8131/37/4553. 93GARF9401/la/57.

94 Jakir, 1973, pp. 32-62.

95 Kmiecic, 1983, pp. 70-74. 9" Vilenskij, 2002, pp. 283-93.

97 Conquest, 1968, p. 433.

98 GARF 8131/37/2063.

99 GARF 9414/1/27.

100 Kmiecic, 1983, pp. 93-94. 10'GARF9401/la/81.

!°2 GARF 8131/37/2063.

103 Kmiecic, 1983, pp. 114-17.

104 GARF, nella collezione dell'autrice.

105 GARF 9414/4/1; dal giornale "Perekovka", 1° giugno 1934.

106 GARF 9412/1C/47.

107 GARF 9401/la/107. 1°8 GARF 9401 /la/7/84. 509 GARF 8131/37/4547.

(tm) Razgon, 2000, pp. 116-17.

Gulag

111 Ivi, p. 116.

112 Solzenicyn, 2001, voi. II, p. 1258.

113 Wigmans, 1964, p. 90.

114 Klejn, 1997, pp. 20-25.

115 per estratti di questi memoriali, cfr. Vilenskij, 2002.

XVI. / moribondi

1 Gagen-Torn, 1994, p. 244.

2 Rossi, 1989, pp. 107-08, 476.

3 GARF 9414/3/40.

4 Herling, 1994, pp. 67-68.

5 Sgovio, 1979, p. 177.

6 Tamara Petkevic, fust One Fate, in Vilenskij, 1999, pp. 223-24.

7 Salamov, pubblicato nel samizdat. Chi scrive ha buone ragioni di ritenere che sia opera di Salamov, anche se in Unione Sovietica circolano sotto il suo nome cose non sue.

8 Sgovio, 1979, pp. 162,160-61.

9 Bardach, 2001, p. 260.

10 Efrussi, Dohodjagi, in Vilenskij, 1996, p. 59.

11 Herling, 1994, p. 157.

12 Gilboa, 1968, pp. 53-54.

13 Bardach, 2001, pp. 259-60.

14 GARF 8131/37/797.

15 N. Mandel'stam, 1971, p. 318.

16 Gnedin, 1991, p. 59.

17 Merridale, 2000, p. 261.

18 Todorov, 1992, p. 39.

19 Rotford, 1991, pp. 40-41.

20 Ejzenberger, 1994, pp. 38-39.

21 Mindlin, 1999, p. 60.

22 E. Ginzburg, 1979, pp. 92-93.

23 Todorov, 1992, pp. 64-65.

24 GARF 8131/37/809.

25 Buca, 1976, p. 150; Berdinskih, 1998, p. 28.

26 Vogel'fanger, 1996, p. 80.

27 GARF 8131/37/809.

28 GARF 8131/37/542.

29 Merridale, 2000, p. 265.

30 Buca, 1976, p. 152.

Salamov, 1999, pp. 435-36.

32 GARF 9414/1/2809.

33 GARF 9414/1/2771.

34 Herling, 1994, pp. 170-71.

XVII. Strategie di sopravvivenza

Èalamov, 1996, p. 391. 2 Vogel'fanger, 1996, p. 206.

Note

3 Zorin, intervista con l'autrice.

4 Cit. in Todorov, 1992, p. 35.

5 Buca, 1976, p. 79.

6 Olickaja, 1971, p. 323.

7 Usakova, intervista con l'autrice.

8 Herling, 1994, pp. 85-86.

9 Levi, 1997, p. 87.

10 Bettelheim, 1983, p. 196.

11 Colonna-Czosnowski, 1998, p. 118.

12 Salamov, 1999, pp. 765-66.

13 Todorov, 1992, p. 37.

14 È stato scritto molto riguardo alla tuffa in VRSS. Cfr. Fitzpatrick, 1999; Berli-ner, 1957; Ledeneva, 1998; Andreev-Homjakov, 1997.

15 Frid, 1996, pp. 134-36.

16 D'jakov, 1964, p. 54.

17 Anonimo, intervista con l'autrice.

18 Cohen, 1982, pp. 140-47. 19Jasnyj, 1997, p. 51.

20 Ul'janovskaja, 1982, pp. 360-61.

21 Borin, 2000, pp. 234-36.

22 èister, intervista con l'autrice. 23V. Petrov, 1951, p. 179.

24 Herling, 1994, p. 53.

25 Razgon, 1997, p. 155.

26 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 982.

27 Usova, memoriale inedito.

Karta, collezione Kazimierz Zamorski, busta 1, fascicolo 6107 (Halina Stozurok).

29 Frid, 1996, pp. 134-36.

30 E. Ginzburg, 1967, pp. 577-78.

31 Sgovio, 1979, pp. 167-75.

32 S. Fomcenko, Pervye desjat', in Uroki, 1993, p. 225.

33 P. Galitskij, Etogo zabyt'nel'zja, in Uroki, 1993, pp. 83-88.

34 Samsonov, 1990, pp. 70-71.

35 Maksimovic, 1982, pp. 91-100.

36 Zorin, intervista con l'autrice.

37 Finkel'stejn, intervista con l'autrice.

38 Adamova-Sliozberg, 2003, p. 92.

39 Rossi, 1989, pp. 247,255.

40 Maksimovic, 1982, pp. 91-100.

41 Klejn, 1997, pp. 60-61, 73.

42 GARF 8131/37/1261, 797,1265.

43 GARF 9414/1/28.

44 Fil'stinskij, 1997, pp. 15-22.

45 Sofsky, 1997, p. 144.

46 Solzenicyn, 2001, voi. I, pp. 1020-22.

47 Bien, memoriale inedito.

48 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 1021.

49 V. Petrov, 1951, pp. 48-96.

Gulag

50 GARF 9849/2/19.

51 Razgon, 1997, p. 154.

52 GARF 9401/12/316.

53 GARF 8131/37/356.

54 Razgon, 1997, pp. 222-31; Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 1024.

55 Fil'stinskij, 1997, pp. 120-21.

56 Jasnyj, 1997, pp. 50-51.

57 Berdinskih, 1998, p. 113.

58 Ivi, pp. 113-14.

59 Solzenicyn, 2001, voi. I, p. 1155.

60 Ivi, p. 2032.

61 Muhina-Petrinskaja, 1990.

62 Panin, 1973, p. 176.

63 Razgon, 1997, p. 153.

64 Ivi, p. 156.

65 Salamov, 1999, p. 175.

66 Kopelev, 1977, pp. 142-44.

67 E. Ginzburg, 1979, p. 116.

68 Sgovio, 1979, p. 206.

69 Ejzemberger, 1994, pp. 67-68.

70 Okunevskaja, 1998, p. 280.

71 Aleksandrovic, 1996, p. 11.

Rozsas, 1994, p. 282; ringrazio Janos Rozsas per avermi fatto avere questo materiale.

73 Solzenicyn, 2001, voi. Il, pp. 153-56; Resetovskaja, 1975, pp. 121-22.

74 GARF 9414/1/2736.

75 GARF 9489/2/25.

76 Gliksman, 1948, p. 300.

77 Herling, 1994, p. 119.

78 Bien, memoriale inedito.

79 GARF 8131/37/356, 809,356.

80 Papkov, p. 57.

81 GARF 9489/2/25.

82 Aleksandrovic, 1996, pp. 11,22.

83 GARF 8131/37/4547.

84 GARF 9489/2/25.

85 Salamov, 1999, p. 179.

86 Colonna-Czosnowski, 1998, pp. 102-07.

87 Dolgun, 1975, p. 240.

88 Finkel'stejn, intervista con l'autrice.

89 Okunevskaja, 1998, p. 336.

90 Aleksandrovic, 1996, p. 12.

91 GARF 8131/37/4547, 542.

92 Vogel'fanger, 1996, pp. 71-72.

93 Gliksman, 1948, pp. 211-12.

94 Buca, 1976, p. 150.

95 GARF 8131/37/356. 96Lipper, 1951, p. 251. 97 GARF 8131/37/809.

Note

98 Trus, intervista con l'autrice.

99 GARF 9414/1/2739.

100 Per esempio GARF 9489/2/18.

101 E. Ginzburg, 1979, p. 9.

102 Dolgun, 1975, p. 239.

103 Bardach, 2001, p. 285.

104 Vogel'fanger, 1996, pp. 68,162.

105 GARF 9414/1/2771.

106 GARF 9489/2/5/474. 107Zigulin, 1996, p. 153.

108 Kudrjavcev, 1990, p. 288.

Lipper, 1951, pp. 257-58; Herling, 1994, p. 119; Aleksandrovic, 1996, pp. 24-25; Marcenko, 1989, pp. 140-42.

110Frid, 1996, p. 137.

111 Dolgun, 1975, p. 273; Lipper, 1951, pp. 257-58.

"2 Aleksandrovic, 1996, p. 24.

113 Herling, 1994, pp. 98-100.

114 Zigulin, 1996, p. 151.

115 Bardach, 2001, p. 350. "6 Lipper, 1951, p. 258.

117 Bystroletov, 1996, p. 407.

118 Dolgun, 1975, pp. 176-79.

119 Todorov, 1992, pp. 47-120.

120 Federol'f, 1996, p. 224.

Z. Marcenko, memoriale inedito. Sono grata a Zoja Marcenko per avermi dato la sua opera.

122 Kekusev, 1991, pp. 84-85.

123 Panin, 1973, p. 79.

124 Bardach, 2001, p. 231.

125 Adamova-Sliozberg, 2003, p. 21.

126 S.l. Kuznecov, 1973, p. 613.

127 Cetverikov, 1991, p. 35.

128 Bardach, 2001, pp. 149-50.

129 E. Ginzburg, 1979.

130 Gagen-Torn, 1994, p. 161.

131 Salamov, da edizioni del samizdat. Chi scrive ha buone ragioni per credere che sia opera di Salamov, anche se in Unione Sovietica circolano sotto il suo nome anche cose non sue.

132 Scammei, 1984, p. 284.

133 Pasnin, 1988, pp. 103-17.

134 Cerhanov, memoriale inedito; Ul'janovskaja, 1982, p. 300.

135 Zorin, intervista con l'autrice.

136 Kopelev, 1977, p. 154. 137Zarod, 1990, p. 118.

138 K. Golicyn, 1997, pp. 267-68.

139 Dolgun, 1975, pp. 206-07.

140 Andreevna, intervista con l'autrice.

Tvardovskij, 1996, pp. 272-75.

142 Klejn, 1997, pp. 70-71.

Gulag

143 Fel'dgun, memoriale inedito.

144 GARF 9489/2/20.

145 Sgovio, 1979, pp. 168-69.

146 Fel'dgun, memoriale inedito.

147 E. Sudakova, Otryvok iz vospominanij, in Uroki, 1993, pp. 132-37.

148 Panin, 1973, p. 79.

149 Cirkov, 1991, pp. 96-97.

150 Herling, 1994, pp. 177-78.

151 Okunevskaja, 1998, p. 352.

152 Starostin, 1992, pp. 88-92.

153 Joffe, 1995, p. 139.

154 Glowacki, 1998, pp. 317-18.

155 Finkel'stejn, intervista con l'autrice.

156 E. Ginzburg, 1967, p. 411.

157 Wat, 1988, p. 142.

158 Dolgun, 1975, pp. 141-47.

159 Bardach, 2001, p. 212.

160 Colonna-Czosnowski, 1998, pp. 120-21.

Gagen-Torn, Rukopis', in Pamjat'Kolymy, 1990, pp. 23-25.

162 Smirnov, colloquio con l'autrice, febbraio 2001.

163 Herling, 1994, pp. 159-61.

164 Arginskaja, intervista con l'autrice.

165 Ul'janovskaja, 1982, pp. 356-65.

XVIII. Ribellione e fuga

Rawicz, 1957, pp. 133-34.

2 Solzenicyn, 2001, voi. II, p. 129.

3 Zigulin, 1996, p. 192.

4 Salamov, 1999, pp. 648-93, 650.

5 MacQueen, 1998.

6 Herling, 1994, p. 146.

7 V. Petrov, 1951, pp. 104-07.

8 Rossi, 1989, p. 204.

9 Solzenicyn, 2001, voi. II, pp. 255-56.

10 A. Morozov, 1991, p. 187.

11 Solzenicyn, 2001, voi. II, pp. 255-56.

12 Kusurgasev, 1995, pp. 34-36; Rossi, 1989, pp. 204-05. 13GARF9401/la/552,64.

14Stajner, 1985, p. 72.

15 Zigulin, 1996, pp. 191-212.

16 Rossi, 1989, p. 406. 17GARF9401/la/185. 18GARF9401/la/7.

19 Malsagov, 1926.

20 V.V. loffe, Bol'soj pobeg 1928-ogo goda, in "Soloveckie Ostrova", 2, pp. 215-16 (GARF).

21 GARF 9414/1/8.

22 V. Cernavin, 1935, p. 357; T. Cernavin, 1934.

Note

23 "Gulag", documentario della BBC prodotto da Angus MacQueen, 1998.

24 Cuhin, 1990, pp. 188-92.

25 GARF 9401/la/5.

26 Makurov, 1992, p. 6. 27GARF 9401/la/5, 6.

28 Makurov, 1992, pp. 38-39.

29 Rossi, 1989, pp. 310-11.

30 Kozlov, 2000, p. 81.

31 GARF 9401/la/20.

32 GARF 9401/la/128; Kucin, 1999, p. 148.

33 Polescikov, 1995, p. 39.

34 GARF 9414/1/2632; Kucin, 1999, p. 148.

35 Salamov, 1999, p. 649; Rossi, 1989, p. 342.

36 Rossi, 1989, p. 310.

37 Lvov, memoriale inedito.

38 V. Cernavin, 1935, p. 319.

39 Buber-Neumann, 1994, pp. 104-05.

40 Solzenicyn, 2001, voi. II, pp. 185-86.

41 GARF 9401/1/2244.

42 Buca, 1976, p. 33.

43 GARF 9401/la/64.

44 Bardach, 2001, pp. 125-41.

45 Solzenicyn, 2001, voi. Il, p. 263.

46 Ibid.; Jurij Morakov (ex ufficiale dell'MVD), colloquio con l'autrice, novembre 1999.

47 Morakov, colloquio con l'autrice, novembre 1999.

48 GARF 9414/4/10.

49 GARF 9401/12/319.

50 Salamov, 1999, pp. 661-64. 51GARF9401/la/552.

52 GARF 9401 /la/64; 9401/12/319 tra gli altri.

53 Buca, 1976, pp. 123-27.

54 Vilenskij, intervista con l'autrice.

55 Sgovio, 1979, p. 177.

56 Dvorzetskij, 1994, p. 48. 57Dolgun, 1975, p. 338.

58 C.A. Smith, 1996.

59 Uno dei più eminenti studiosi russi del Gulag, Venjamin loffe, direttore del del San Pietroburgo Memoria!, ha cercato senza successo i fascicoli di Rawicz. I suoi dubbi si sono accentuati durante la corrispondenza epistolare che intrattenne con l'autore, secondo lui poco convincente.

60 Herling, 1994, pp. 162.

61 Ivi, pp. 216-17.

62 Ivanova, 2000, p. 45. 63Petrus, 1996, p. 61.

64 Ratusinskaja, 1989, p. 22.

65 Petrus, 1996, p. 63.

66 Osipova, 1993, pp. 87-109; Serge, 1996, p. 71.

67 V.M. Polescikov, monografia inedita, nella collezione dell'autrice; M. loffe, 1978, pp. 122-30; Rossi, 1989, p. 120.

Gulag

b8 Osipova, 1993, pp. 109-34; M. Bajtalskij, Trockisty na Kolyme, in Minuvsee, II, 1990, pp. 346-57.

69 Vilenskìj, 1992, p. 158.

70 Kravcenko, 1948, p. 341.

71 Per il seguente resoconto ho attinto soprattutto da Mihail Rogacev, Bunt nad Usa, in "Karta", 17,1995, pp. 97-105, e dai colloqui con Rogacev nel luglio 2001. Alcuni particolari provengono anche da Poleàcikov, 1990, pp. 37-65; Ivanova, 2000, pp. 54-55; Osipova, 1993, pp. 167-82.

72 Ivanova, 2000, p. 45.

XIX. La guerra

I Sitko, poesia senza titolo, da Tjazest' sveta, 1996, p. 11. 2Stajner, 1985, p. 91.

3Razgon, 1997, p. 210.

4 E. Ginzburg, 1979, pp. 29-30.

5 Warwick, memoriale inedito.

6 GARF 9414/1/68; Imet' silu pomnit', 1991, p. 166.

7 E. Ginzburg, 1979, p. 29.

8 Gogua, memoriale inedito.

9 Hoover, Collezione del ministero polacco dell'Informazione, busta 114, fascicolo 2.

10 Adamova-Sliozberg, My Journet/, in Vilenskij, 1999, p. 63.

II GARF 9401/Ia/107.

12 Herling, 1994, p. 220.

13 Kokurin e Mokurov, 1997-2002; Kokurin e Petrov, 2000, p. 441.

14 Bacon, 1994, p. 149.

15 Ivi, p. 148.

16 Ivanova, 2000, p. 94.

17 GARF 7523/4/37, 39, 38.

18 L. Ginzburg, 1995, p. 14.

19 GARF 9401/2/95, 94,168.

20 Qvery, 2003, p. 92.

21J. Brodskij, 1998, p. 285.

22 È quanto mi è stato detto sulle isole da almeno tre persone, compreso il direttore del museo delle Soloveckie.

23 Makurov, 1992, p. 195.

24 Gurjanow, Kokurin e Popinski, 1995, pp. 8-10. Questo libro, pubblicato dalla Fondazione Karta, è costituito da una raccolta di documenti provenienti dagli archivi sovietici, oltre a memoriali perlopiù inediti dell'Archiwum Wschodnie (Archivio orientale) di Karta, riguardante il destino dei prigionieri nella Polonia orientale nei primi tempi della guerra.

25 Bacon, 1994, p. 91; Gurjanow, Kokurin e Popinski, 1995, pp. 10-26.

26 Gurjanow, Kokurin e Popinski, 1995, pp. 10-26.

27 GARF 9414/1/68.

28 Gurjanow, Kokurin e Popinski, 1995, p. 40. 29M, pp. 90-91.

30 Sabbo, 1996, pp. 1128-32.

Bacon, 1994, pp. 88-89.

Note 645

32 M. Stejnberg, Etap vo vremja vojny, in Pamjat', 1978, p. 167.

33 Gurjanow, Kokurin e Popinski, 1995, p. 90.

34 GARF 9414/1/68.

35 ètejnberg, Etap vo vremja vojny, in Pamjat', 1978, pp. 167-71.

36 GARF 9414/1/68.

37 Bacon, 1994, p. 91.

XX. "Forestieri"

1 Taylor-Terlecka, 2001, pp. 56-57.

2 Razgon, 1997, p. 138.

3 Ibid.

4 Glowacki, 1998, p. 273.

5 Sabbo, 1996, p. 754.

6 Sword, 1994, p. 13.

7 Gurjanow, 1997, pp. 4-9.

8 T. Martin, 2001b, pp. 305-39.

9 Lieven, 1993, p. 82. 10Gfowacki, 1998, p. 331.

Hoover, Collezione del ministero polacco dell'Informazione, busta 123; Glowacki 1998, p. 331.

12 GARF 5446/57/65.

13 RGVA 40/1/71/323.

14 Ptasnic, 2002.

15 Sabbo, 1996, pp. 804-09.

16 Cross e Grudzinska-Gross, 1981, p. 77.

17 Ivi, p. 68.

18 Ivi, p. 146.

19 M, pp. 80-81.

20 Ivi, p. XVI.

21 Conquest, 1960, pp. 49-50.

22 Martin, 2001b.

23 Conquest, 1960, pp. 3-5.

24 Lieven, 1993, pp. 318-19.

25 Naimark, 2002, p. 113.

26 Pohl, s.d.; Naimark, 2002, pp. 120-27.

27 Naimark, 2002, pp. 118-20.

28 Martin, 2001b.

29 Pohl, s.d., pp. 11-17.

30 Lieven, 1998, p. 319; Naimark, 2002, pp. 115-16.

Lieven, 1998, p. 320.

32 Pohl, s.d., pp. 17-19; Lieven, 1998, pp. 319-21.

33 Lieven, 1998, pp. 318-30; Naimark, 2002, pp. 97-127,132-35.

34 Zagorulko, 2000 (un'ampia collezione di documenti provenienti da svariati archivi, pubblicati sotto gli auspici degli archivi federali, GARF e TsKhIDK, e Università di Volgograd, con i finanziamenti della Soros Foundation).

35 Overy, 2003, p. 68.

36 Sword, 1994, p. 5.

37 Pihoja, 1999, p. 36.

Gulag

38 Cfr. Czapski, 1987, che descrive gli sforzi compiuti dal governo polacco per trovare gli ufficiali.

39 Sword, 1994, pp. 2-5.

40 Beevor, 1998, pp. 446,447-48.

41 Ivi, p. 449.

42 Zagorulko, 2000, pp. 31, 333.

43 Ivi, pp. 25-33.

44 S.I. Kuznecov, 1973, pp. 618-19.

45 Le cifre sono tratte da Overy, 2003, p. 304, e provengono da un documento sovietico del 1956. Un altro documento sovietico del 1949, riportato in Zagorulko, 2000, pp. 331-33, contiene cifre analoghe (2.079.000 tedeschi, 1.220.0000 non tedeschi, 590.000 giapponesi e 570.000 morti).

Gustav Menczer, capo dell'Associazione ungherese sopravvissuti del Gulag, colloquio con l'autrice, febbraio 2002.

47 Bien, memoriale inedito.

48 Knight, 2001.

Andrzej Paczkowski, Polonia, la "nazione nemica", in Courtois et al., 1998, pp. 348-50.

50 Kuzina Citlera, 1998, in "Novaya Izvestija", 3 aprile, p. 7.

51 Noble, 1960.

52 Zagorulko, 2000, p. 131.

53 Ivi, p. 333. Nel Gulag c'erano circa 20.000 prigionieri di guerra.

54 Ivi, pp. 1042, 604-09.

55 Ivi, pp. 667-68.

56 Ivi, p. 38.

57 Naimark, 1995, p. 43.

58 Zagorulko, 2000, pp. 40,54-58.

59 Vostocnaja Evropa, 1997, p. 270.

60 Ivi, pp. 370,419-22.

61 GARF 9401/2/497.

62 Zagorulko, 2000, pp. 40, 54-58. La maggior parte dei prigionieri di guerra fu rilasciata entro l'inizio degli anni Cinquanta, ma all'epoca della morte di Sta-lin in URSS ce n'erano ancora 20.000.

63 Sitko, 1996b, p. 10.

64 Bethell, 1974, p. 17.

65 Ibid.

66 Ivi, pp. 166-69.

67 Ivi, pp. 103-65.

68 Ivanova, 2000, p. 43. 69Pohl, 1997, p. 51.

70 Ivi, pp. 50-52.

71 GARF 7523/4/164.

72 GARF 9401/la/135.

73 GARF 9414/1/76.

74 GARF 9401/la/135; 9401/1/76; 9401/la/136.

75 Ivanova, 2000, p. 43.

76 Kruglov, 1995, p. 66,256, 265.

77 Vilenskij, intervista con l'autrice.

78 Ivanova, 2000, p. 43.

Note 647

79 GARF 9414/1/76.

80 Descritto in Joffe, 1995, pp. 199-200.

81 Klejn, 1997, pp. 396-403.

82 Mava Volovic, My Past, in Vilenskij, 1999, p. 259.

83 Wallace, 1946, p. 137.

84 Ivi, p. 117.

85 GARF 9401/2/65; Sgovio, 1979, p 251; Wallace, 1946, pp. 33-41.

86 Wallace, 1946, pp. 33-41; Sgovio, 1979, p. 251.

87 Vera Ustieva, Podarok dlja vìce-prezidenta, in Vilenskij, 1996, pp. 98-106.

88 Wallace, 1946, pp. 127-28.

89 Sgovio, 1979, p. 245.

90 Wallace, 1946, pp. 33-41.

91 Sgovio, 1979, p. 252.

92 Wallace, 1946, p. 205.

XXI. L'amnistia, e il dopo

1 In Taylor-Terlecka, 2001, p. 144.

2 GARF 9414/1/68; Zemskov, 1994, pp. 129-42; Martin, 2001b.

3 GARF 9401/1/743.

4 Bacon, 1994, p. 112.

5 II numero dei prigionieri nei campi forestali, da 338.850 del 1941 calò ai 122.960 del 1944. Ohotin e Roginskij, 1998, p. 112.

6 Sgovio, 1979, p. 242.

7 Gorbatov, 1964, pp. 150-51.

8 Comitato sull'ordinamento giudiziario (testimonianza di Avraham Sifrin).

9 Gorbatov, 1964, pp. 169,174-75,194.

10 GARF 7253/64/687 e 8-15.

11 Cfr., per esempio, Overy, 2003, p. 95.

12 E. Ginzburg, 1979, pp. 31-32.

13 GARF 9414/1/1146. 14Mindlin, 1999, p. 61.

15 GARF 9414/4/145.

16 Bacon, 1994, pp. 135-37,140-41,144.

17 GARF 9414/1/68.

18 Sword, 1994, pp. 30-36.

19 Ivi, p. 48.

20 Herling, 1994, p. 212.

21 Karta, Collezione Esercito di Anders, V/AC/127.

22 Karta, Collezione Zamorski, 1/15885,1/15882.

23 Herling, 1994, p. 252.

24 Waydenfeld, 1999, pp. 195-334.

25 Zarod, 1990, p. 234.

26 Janusz Wedów, Powitanie Wodza, in Taylor-Terlecka, 2001, p. 145. 27Czapski, 1987, p. 243.

28 Sword, 1994, pp. 60-87.

29 Slave Labor in Russia, 1947, p. 31.

30 Gilas, 1962, p. 121.

31 Kotek e Rigoulot, 2002, pp. 527.

Gulag

32 Ivi, pp. 396,391.

33 Ioi,pp. 396-401.

34 Ivi, pp. 384-92.

35 Ivi, pp. 393-96; vedi anche Andrzej Paczkowski, Polonia, la "nazione nemica", in Courtois, 1999, pp. 367-98.

36 Kotek e Rigoulot, 2001, pp. 412-13.

37 Todorov, 1999, p. 124.

38 Ivi, pp. 123-28.

39 Kotek e Rigoulot, 2001, p. 403. 4° Naimark, 1995, pp. 376-97.

41 Todorov, 1999, pp. 39-40.

42 Saunders, 1966, pp. 1-11; Kotek e Rigoulot 2002, pp. 449-69.

43 Ogawa e Yoon, 1998, p. 15.

44 Ivi, p. 3.

45 Alla Starceva e Valerija Korcagina, 2001, Pyongyang Pays Russia witìi Free Labor, in "Moscow Times", 6 agosto 2001, p. 1.

XXII. L'apogeo del complesso industriale dei campi

1 Da Sred drugih imen, 1991, p. 64.

2 E. Ginzburg, 1979, p. 271.

3 Cfr. Zubkova, 2003.

4 Service, 1999, p. 299.

5 GARF 9401 /1 / 743; 9401 /2 /104.

6 Kokurin e Petrov, 2000, p. 540.

7 Ivanova, 2000, pp. 95-96.

8 Service, 1999, p. 321; Ivanova, 1998.

9 Andrew e Gordievsky, 1991, p. 364.

10 Ivanova, 1998, p. 256.

11 Ivanova, 2000, pp. 48-53.

12 Operazione WRINGER, HQ USAF, cartella 341, busta 1044, Air intelligence report 59B-B-5865-B. I documenti relativi a queste ricerche sono conservati nei National Archives. Ringrazio il maggiore Tim Falkowski per aver attirato la mia attenzione sull'episodio. L'aeronautica militare americana considera plausibile la storia, ma non l'ha ancora confermata come certa.

13 Questa storia mi è stata raccontata da Nikolaj Morozov. I ricercatori del Ko-mi Memorial hanno intervistato gli abitanti di Sedvoz, cercando testimonianze orali, ma hanno trovato soltanto una persona che aveva sentito raccontare la vicenda da altri. Ljuba Vinogradova ha trovato riferimenti agli scozzesi all'RGVA, ma il documento era mancante. L'RGVA non è stato disponibile a fornire ulteriori informazioni.

14 Bacon, 1994, p. 24.

15 Nicolas Werth, Apogeo e crisi del gulag, in Courtois et al., 1998, pp. 223-27.

16 Ivanova, 2000, pp. 55-56.

17 E. Ginzburg, 1979, p. 273.

18 Ivi, p. 282.

19 Ivi, pp. 282-83.

20 Adamova-Sliozberg, My Joumey, in Vilenskij, 1999, p. 71.

Razgon, 1997, p. 220.

Note  649

22 Ivanova, 2000, pp. 55-56.

23 Ivi, p. 56.

24 Kokurin e Morukov, 1997-2002 (2000).

25 Kuc, 1999, p. 195.

26 Bulgakov, intervista con l'autrice.

27 Kuc, 1999, p. 165.

28 Pecora, intervista con l'autrice.

29 Ivanova, 2000, p. 61.

30 Kokurin e Petrov, 2000, pp. 555-57; Kokurin, 1994.

31 Kokurin, 1994; Ivanova, 2000, p. 55.

32 Abramkin e tesnokova, 1993, p. 10. 33GARF9401/la/270.

34 E. Ginzburg, 1979, pp. 104-05.

35 Abramkin e Cesnokova, 1993, pp. 10-11.

36 Zigulin, 1996, pp. 135-37.

37 Buca, 1976, pp. 59-61.

38 Georgi) Fel'dgun, memoriale inedito.

39 Sitko, intervista con l'autrice.

40 Èigulin, 1996, pp. 135-37.

41 GARF 9401/1/4240.

42 Cfr., per esempio, Il'ja Gol'c, Vorkuta, in Minuvsee, VE, 1992, pp. 317-55.

43 Craveri e Hlevnjuk, 1955.

44 Ivanova, 1998.

45 Kokurin e Morukov, 2001.

46 Craveri e Hlevnjuk, 1955, p. 186.

47 Ivanova, 2000, p. 125.

48 Ivanova, 1998, p. 272.

49 Craveri e Hlevnjuk, 1955, p. 183.

50 Craveri, 1995.

51 Nicolas Werth, Apogeo e crisi del gulag, in Courtois et al., 1999, p. 225.

52 Craveri e Hlevnjuk, 1955, p. 183.

53 Ivanova, 2000, p. 125.

54 Cfr., per esempio, Klejn, 1997, p. 61.

55 Berdinskih, 1998, p. 56.

56 Craveri e Hlevnjuk, 1955, p. 185.

57 Ivi, p. 186.

58 Knight, 1997, pp. 190-95,197.

59 Naumov e Rubinstejn, 2001, pp. 61-62.

60 Ivi, p. 62.

61 Adamova-Sliozberg, 2003, p. 205.

62 Fil'stinskij, 1997, p. 114.

XXIII. La morte di Stalin

1 Citato in Conquest, 2002, p. 347.

2 Aleksandroviè, 1996, p. 57.

3 Ul'janovskaja, 1982, p. 280.

4 Andreevna, intervista con l'autrice.

5 E. Ginzburg, 1979, p. 346.

Gulag

6 Negretov, intervista con l'autrice.

7 Stajner, 1985, pp. 315-16.

8 Berdinskih, 1998, p. 204.

9 E. Ginzburg, 1979, p. 346.

10 Aleksandrovic, 1996, p. 57.

11 Adamova-Sliozberg, 2003, p. 208.

12 Roeder, 1958, p. 95.

13 Vasileevna, intervista con l'autrice.

14 Hruscev, 1970, voi. I, p. 345.

15 E. Ginzburg, 1979, p. 347.

16 Knight, 1997, pp. 217,221-22.

17 Ivanova, 2000, p. 124.

18 Naumov e Sigacev, 1999, pp. 19-21 (APRF 3/52/100).

19 Knight, 1997, p. 222.

20 Ibid.

21 Naumov e Sigacev, 1999, pp. 28-29 (GARF 9401/1/1299).

22 Knight, 1997, pp. 224, 227-28, 230-32.

23 Ivanova, 2000, p. 124.

24 Per un'analisi dei motivi di Berija, cfr. Hlevnjuk, 1996; Piova, 2000, p. XXX; Knight, 1997, pp. 211-241.

25 Knight, 1997, pp. 263-68.

26 Dolgun, 1975, p. 261.

27 Aleksandrovic, 1996, p. 57.

28 Zorin, intervista con l'autrice.

29 Fil'stinskij, intervista con l'autrice.

30 Armonas, 1961, pp. 153-60.

Pecora, intervista con l'autrice.

32 Trus, intervista con l'autrice.

33 Usakova, intervista con l'autrice.

34 Zorin, intervista con l'autrice.

35 Hacatrjan, intervista con l'autrice.

36 Documento del GARF ordine del 3 settembre 1955, nella collezione dell'autrice.

37 Bulgakov, intervista con l'autrice; Il'ja Gol'c, Vorkuta, in Minuvsee, VII, 1992, p. 334.

XXIV. La rivoluzione degli "zek"

1 Anna Barkova, In thè Prison Camp Barracks, citato in Vilenskij, 1999, p. 216.

2 Cfr., per esempio, E. Ginzburg, 1979, p. 348; Dolgun, 1975, pp. 261-62; Hoo-ver, Collezione Adam Galinski.

3 Panin, 1973, p. 306.

4 Il'ja Gol'c, Vorkuta, in Minuvsee, VÌI, 1992, p. 334.

5 Per una descrizione degli atteggiamenti degli ucraini verso gli informatori, cfr. Burds, 1997.

6 Panin, 1973, pp. 308-10.

7 Sitko, 1996a, pp. 181-90.

8 Craveri, 1995, p. 323.

9 Kosyk, 1962, p. 56.

r

Note 651

10 GARF 9413/1/159.

11 N.A. Morozov, 1998, pp. 23-24.

12 Ivi, pp. 24-25; Noble, I960, p. 143.

13 Noble, 1960, p. 143.

14 GARF 9413/1/160.

15 GARF 9413/1/160; N.A. Morozov, 1998, p. 27.

16 Noble, 1960, p. 144.

17 GARF 9413/1/160.

18 Buca, 1976. È evidente che Buca c'era. Alcuni particolari del suo racconto coincidono con i rapporti ufficiali. Dubito, invece, che abbia svolto un ruolo di primo piano.

19 Kosik, 1962, pp. 61, 56-65.

20 Vilenskij, intervista con l'autrice.

21 Bulgakov, intervista con l'autrice.

22 Kuc, 1999, p. 198.

23 GARF 9413/1/160.

24 Ibid.

25 Hoover, Collezione Adam Galinski.

26 Buca, 1976, pp. 271, 272.

27 Noble, 1960, p. 162.

28 Berdinskih, 1998, pp. 239-40.

29 "Materialy sovescanija rukovodjascih rabotnikov ITL i kolonii MVD SSSR, 27 Sent-lOkt 1954" nella collezione di Memorial.

30 Morozov e Rogacev, 1995.

31 GARF 9401/1/4240.

32 GARF 9413/1/160,159.

Per il racconto sull'insurrezione del Kengir ho confrontato diverse fonti facendo una sintesi. Aleksandr Kokurin ha compilato e annotato una raccolta di documenti d'archivio riguardanti l'insurrezione (Vosstanie v Steplage). La storica italiana Marta Craveri ha scritto il resoconto a oggi più attendibile sull'insurrezione, utilizzando quei documenti e altri, oltre a interviste con i partecipanti (Craveri, 1955, p. 324). Un resoconto più discontinuo è anche stato messo insieme utilizzando fonti dell'opposizione ucraina in Volomymyr Kosyk, 1962. Anch'io mi sono servita di numerosi resoconti scritti sull'insurrezione, soprattutto di Ljubov' Bersadskaja, 1975, pp. 86-97 e di Kekusev, 1991, pp. 130-43, oltre che di documenti e memoriali pubblicati nel periodico "Volja", 2-3, 1994, pp. 307-70. Ho intervistato Irena Arginskaja, che era nello Steplag durante l'insurrezione. Anche la narrazione di Solzenicyn (2001, voi. II, pp. 365-427) è fondata su interviste ai partecipanti. Se non indicato altrimenti in nota, tutte le descrizioni degli avvenimenti si basano su queste fonti. Ho adottato la cronologia della Craveri.

34 Questa è un'osservazione della Craveri.

35 Solzenicyn, 2001, voi. II, p. 372.

36 "Volja", 2-3,1994, p. 309.

37 Bersadskaja, 1995, p. 87.

38 Ivi, pp. 95-97.

XXV. Disgelo... e libertà

1 Andre] Voznenskij, Children of thè Cult, ripubblicato in Cohen, 1982, p. 184.

2 Craveri e Hlevnjuk, 1955, p. 187.

3 Negretov, intervista con l'autrice.

4 "Materialy sovesCanija rukovodjaSclh rabotnikov ITL i kolonii MVD SSSR, 27 sent.-l okt. 1954" nella collezione di Memorial. Ivanova, 2000, p. 66; Ohotin e Roginskij, 1998, pp. 58-59: Kovalcuk-Koval, 1996, p. 299; Fil'stinskij, intervista con l'autrice.

5 Smirnova, intervista con l'autrice.

6 GARF 9401/2/450.

7 Ibid.

8 Hruscev, 1970, p. 577.

9 Ivi, pp. 577-631.

10 M, p. 374.

11 K. Smith, 1996, pp. 131-74.

12 GARF 9401/2/479.

13 GARF 9401/2/479; Craveri, 1995, p. 337; Ivanova, 2000, p. 67.

14 Ivanova, 2000, pp. 67-68; Craveri e Hlevnjuk, 1955, p. 189.

15 Ivanova, 2000 pp. 67-68; Craveri e Hlevnjuk, 1955, pp. 188-89.

16 Andreev-Homajkov, 1997, pp. 3-4.

17 Kusurgasev, 1995, p. 70.

18 Vera Korneeva, citata in Solzenicyn, 2001, voi. II, p. 586.

19 Zorin, intervista con l'autrice.

20 E. Ginzburg, 1979, p. 207.

21 Korol, 1999, p. 189.

22 GARF 9489/2/20.

23 Efron, 1996, pp. 127-28.

24 Usakova, intervista con l'autrice.

25 S.S. Torbin, "Vospominanija", Memorial 2/2/91; Korol, 1999, p. 190.

26 GARF 9414/3/40.

27 Il'ja Gol'c, Vorkuta, in Minuvsee, VII, 1992, pp. 352-55.

28 Sgovio, 1979, p. 283.

29 A. Morozov, 1991, pp. 381-82.

30 Hoover, Fondo 89,18/38.

31 Bulgakov, intervista con l'autrice.

32 Antonov-Ovseenko, 1980, p. 336.

33 K. Smith, 1996, p. 133.

34 Cohen, 1982, p. 36.

35 K. Smith, 1996, p. 135; Hochschild, 1994, pp. 222-23.

36 K. Smith, 1996, p. 138.

37 Adamova-Sliozberg, 2003, p. 216.

38 Rotfort, 1991, p. 92.

39 Herling, 1994, pp. 261-62.

40 Andreevna, intervista con l'autrice.

41 Solzenicyn, 1968a, pp. 260-61.

42 Cohen, 1982, p. 115.

43 Antonov-Ovseenko, 1980, pp. 332-36.

44 Cohen, 1982, p. 26.

45 Antonov-Ovseenko, 1980, pp. 332-36. ,

Note

46 Cohen, 1982, p. 135.

47 Razgon, 1997, p. 50.

48 Jurij Dombrovskij, 1997, p. 77.

49 Solzenicyn, 2001, voi. E, p. 587.

50 Korolev, intervista con l'autrice.

51 Pecora, intervista con l'autrice. 52Aksenov, 1995, p. 382.

53 Citato in Adler, 2002, p. 141.

54 Vilenskij, 2002, p. 460.

55 Adler, 2002, p. 145.

56 Adamova-Sliozberg, My Journet/, in Vilenskij, 1999, p. 70.

57 Adler, 2002, p. XX.

58 Merridale, 2000, p. 418.

59 Cohen, 1982,p. 38.

60 Rothberg, 1972, pp. 12-40.

61 II resoconto più completo della biografia di Solzenicyn è quello di Michael Scammell, 1984. Salvo diversa indicazione, tutte le notizie biografiche su di lui sono tratte da lì.

62 Scartimeli, 1984, p. 415.

63 Ivi, pp. 423-24.

64 M, pp. 448-49.

65 ivi, p. 485.

66 Sitko, 1996a, p. 318.

67 Rothberg, 1972, p. 62.

68 D'jakov, 1964, pp. 60-67.

XXVI. L'era dei dissidenti

1 Ripubblicato in Cohen, 1982, p. 183.

2 Sobolev, 1999, p. 68.

3 Amnesry International, 1976, pp. 76-77.

4 Comitato sull'ordinamento giudiziario (testimonianza di Avraham èifrin).

5 GARF 9410/2/497.

6 Comitato sull'ordinamento giudiziario (testimonianza di Avraham èifrin).

7 R.A. Medvedev, 1977, pp. XXV-XXVI.

8 Sobranie socinenij samizdata, AS 143 (si tratta di una collezione di documenti del samizdat raccolti dal RFE-RL a partire dagli anni Sessanta. I documenti non sono stati "pubblicati", quanto piuttosto fotocopiati, rilegati, numerati e collocati in qualche importante biblioteca).

9 Amnesty International, 1976, p. 32.

10 Sobranie socinenij samizdata, AS 127.

11 Amnesty International, 1976, pp. 32-33, 36-37.

12 Reddaway, 1972, p. 11. 131. Brodskij, 1987, p. 37.

14 Rothberg, 1972, pp. 127-33.

15 Hoover, Collezione losif Brodskij, protocollo verbale del processo Brodskij.

16 Ibid.

17 Browne, 1971, p. 3.

18 Cohen, 1982, p. 42; Reddaway, 1972, p. 19.

Gulag

"1

19 Hopkins, 1983, pp. 1-14.

20 Amnesty International, 1976, pp. 32-33.

21 Browne, 1971, p. 9.

22 Litvinov, 1972, pp. 5-11.

23 Browne, 1971, p. 13.

24 Trent'anni dopo Cornovil, allora personaggio di spicco del movimento per l'indipendenza ucraino, divenne il primo ambasciatore in Canada dell'Ucraina indipendente. Prima che partisse, l'ho intervistato a Leopoli nel 1990.

25 Reddaway, 1972, pp. 95-111.

26 Ivi, p. 19.

27 Info-Russ, #0044 (cfr. la sezione archivi nella bibliografia). È l'indirizzo cui Vladimir Bukovskij ha spedito i documenti che trovava mentre eseguiva ricerche per il processo al Partito comunista, descritto nelle pagine successive. In seguito tali documenti sono diventati argomento del suo libro Moskovskij process (1996), pubblicato in francese e in russo. Altri sono conservati anche in Hoover, Fondo 89.

28 Reddaway, 1972, p. 24.

29 Ivi, pp. 1-47; cfr. anche "Hronika tekuscih sobytii".

30 Hopkins, 1983, p. 122.

31 Ratusinskaja, 1989, p. 76.

32 Marcenko, 1970, p. 28.

33 Ivi, pp. 242, 352.

34 Sitko, intervista con l'autrice.

35 Ratusinskaja, 1989, pp. 67-70.

36 Viktor Smirov, colloquio con l'autrice, 31 marzo 1998.

37 Fedorov, intervista con l'autrice.

38 Marcenko, 1970, p. 371.

39 Fedorov, intervista con l'autrice.

40 Ratusinskaja, 1989, pp. 209-10.

Fedorov, intervista con l'autrice.

42 Marcenko, 1970, p. 84.

43 E. Kuznecov, 1973, p. 146.

44 "Hronika tekuscih sobytii", 32,17 luglio 1974.

45 Bukovskij, 1978, p. 45.

46 Marcenko, 1970, pp. 105-06; E. Kuznecov, 1973, pp. 140-41,144.

47 "Hronika tekuscih sobytii", 6, febbraio 1969, citato in Reddaway, 1972, p. 207.

48 Ivi, 1972, pp. 20-216.

49 Marcenko, 1970, p. 85.

50 Saranskij, 1988, p. 236.

51 Marcenko, 1970, p. 130; Tokes, 1975, p. 84.

52 Saranskij, 1988, p. 235; Ratusinskaja, 1989, pp. 200-02.

53 Sobranie dokumentov samizdata, AS 2598.

54 Daniel', 1971, p. 35.

55 Marcenko, 1969, pp. 65-69.

56 Sobranie dokumentov samizdata, AS 2598.

57 "Hronika tekuscih sobytii", 32, luglio 1974.

58 Litvinov, 1972, p. 17.

59 Reddaway e Bloch, 1977, p. 305; Jakir, 1973.

60 "Hronika tekuscih sobytii", 28, dicembre 1972.

Commissione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (testimonianza di Aleksandr Satravka e del dottor Anatolij Korjagin).

Note 655

62 "Hronika tekuscih sobytii", 33, dicembre 1974.

63 Smirov, colloquio con l'autrice, 31 marzo 1998.

64 Sobranie dokumentov samizdata, AS 3115.

65 Bukovskij ha fatto un resoconto della sua esperienza durante una conferenza stampa a Varsavia nel 1998. Il testo è riportato al sito Web dell'Info-Russ (cfr. la sezione archivi della bibliografia).

66 Bukovskij, 1999, p. 228.

67 Reddaway e Bloch, 1977, pp. 48-49; Seton-Watson, 1971, pp. 236-37.

68 Bukovskij, 1978, pp. 334-35.

69 Reddaway e Bloch, 1977, pp. 176,140,107.

70 Info-Russ, #0202.

71 Reddaway e Bloch, 1977, p. 226. 72Nekipelov, 1980, p. 132.

73 Reddaway e Bloch, 1977, pp. 220-21; Nekipelov, 1980, p. 132.

74 Amnesty International, 1976, inserto fotografico.

75 Reddaway e Bloch, 1977, p. 214.

76 Amnesty International, 1976, pp. 195-96.

77 Three Voices of Disserti, in "Survey", 77, autunno 1970.

78 Nekipelov, 1980, p. 115.

79 Reddaway e Bloch, 1977, p. 348.

80 Ivi, pp. 79-96.

81 Artemova, Rar e Slavinskij, 1972, p. 280.

82 Info-Russ, #0204.

83 Ibid.

XXVII. Gli anni Ottanta: i monumenti abbattuti

1 Ripubblicato in Reavey, 1981, pp. 8-9.

2 Beichman e Bernstam, 1983, pp. 145-89.

3 The Recent Release ofPrisoners in thè USSR, Amnesty International Press Re-lease, aprile 1987 (ML), pp. 20,119; Alekseeva, s.d.

4 Beichman e Bernstam, 1983, p. 182.

5 Reagan, 1990, pp. 675-79.

6 Berdzenisvili, intervista con l'autrice.

7 Ibid.

8 Bukovskij, 1978, p. 378.

9 Ibid.

10 Berdzenisvili, intervista con l'autrice.

11 Ratusinskaja, 1989, p. 285.

12 Walker, 1986, p. 142.

13 Reddaway, 1983.

14 Gorbacev, 1996, p. 24.

15 Remnick, 1994, p. 50.

16 Ivi, pp. 264-68.

17 K. Smith, 1996, pp. 131-74; Remnick, 1994, p. 68.

18 Remnick, 1994, pp. 101-19; K. Smith, 1996, pp. 131-74.

19 USSR: Human Rights in a Time ofChange, 1989.

20 Lata dissidentow, in "Karta", 16,1995.

"On thè Death of Prisoner of Conscience Anatoly Marchenko", Amnesty International Press Release, maggio 1987 (ML).

Gulag

22 Ibid.

23 Della chiusura dei campi non si parla, per esempio, in The Waking Giani di Walker; Autopsy on an Empire di Marlock; The Gorbachev Factor di Brown o Why Gorbachev Happened di Kaiser. L'importante eccezione è rappresentata da Leniris Tomb di Remnick, un capitolo del quale è dedicato agli ultimi prigionieri di Perm'-35.

24 Paul Hofheinz, ex corrispondente da Mosca, colloquio con l'autrice, 13 febbraio 2002.

25 Matlock, 1995, p. 275.

26 Remnick, 1994, p. 270.

27 Walker, 1986, p. 147.

28 Info-Russ, #0128.

29 Ivi, #1404.

30 Ivi, #0130.

31 USSR, Human Rights in a Time ofChange, 1989.

32 The Recent Release ofPrisoners in thè USSR, cit.

33 Ibid.

34 Amnesty International Weekly Update Service, 8 aprile 1987 (ML).

35 Brdzenisvili, intervista con l'autrice.

36 Amnesty International Newsletter, giugno 1988, XVIII, 6 (ML).

Four Long-Term Prisoners Stili Awaiting a Review, Amnesty International Press Release, aprile 1990; anche Amnesty International Newsletter, ottobre 1990, XX, 10 (ML); Klumcak è stato rilasciato alla fine dell'anno.

38 Matlock, 1995, p. 287.

39 Russian Federation Overview of Recent Legai Changes, Amnesty International Press Release, settembre 1993 (ML).

4° Matlock, 1995, p. 295.

41 Citato in Cohen, 1982, p. 186.

Epilogo. Memoria

1 Razgon, 2000, p. 260.

2 K. Smith, 1996, pp. 153-59.

3 Aleksandr Jakovlev, presidente della commissione presidenziale russa per la riabilitazione delle vittime della repressione politica, colloquio con l'autrice, 25 febbraio 2002.

4 Merridale, 2000, pp. 407-08.

5 Gessen, 1998.

6 Aleksandr Jakovlev, colloquio con l'autrice, 25 febbraio 2002.

7 Ho descritto questo evento in Secret Agent Man, in "The Weekly Standard", 10 aprile 2000.

8 Per esempio nel luglio 2002 nelle cantine di un monastero dell'Ucraina occidentale sono stati rinvenuti tredici scheletri: "Moscow Time", 18 luglio 2002.

9 Anne Applebaum,Secret Agent Man, in "The Weekly Standard", 10 aprile 2000.

10 Adamova-Sliozberg, 2003, p. 34.

11 Andrew Alexander, The Soviet Threat Was Bogus, in "The Spectator", 20 aprile 2002.

12 Vidal, 2002.

Appendice. Quanti?

1 Bacon, 1994, pp. 8-9.

2 Conquest, 1968, pp. 470, 724-726.

3 Getty, 1985, p. 8.

4 Zemskov, 1989, pp. 6-7; Getty, Rittersporn e Zemskov, 1993, appendici A e B, pp. 1048-49.

5 Getty, Rittersporn e Zemskov, 1993, p. 1047.

6 Bacon, 1994, p. 112. 7Pohl, 1997,p. 17.

8 Ivi, p. 15; Zemskov, 1991, p. 17.

9 La presentazione a oggi migliore del dibattito sulle statistiche rese pubbliche dopo il 1991 è quella fatta da Bacon, 1944, pp. 6-41,101-22; la cifra di 18 milioni è ricavata tenendo conto dei ritmi di avvicendamento e delle statistiche disponibili. Per la cronaca, Dugin afferma che tra il 1930 e il 1953 furono arrestate 11.800.000 persone, ma mi pare difficile riconciliare questa valutazione con gli 8 milioni di persone notoriamente arrestate e rilasciate durante la Seconda guerra mondiale.

10 Overy, 2003, pp. 303-04; Zagorulko, 2000, pp. 331-33. n Pohl, 1997, pp. 50-52; Zemskov, 1991, pp. 4-6.

12 Poljan, 2001, p. 239.

13 Pohl, 1997, p. 5.

14 M, p. 133.

15 Alcuni però sono stati pubblicati. Cfr. Getty, Rittersporn e Zemskov, 1993, pp. 1048-49.

16 GARF 9414/1 /OURZ; queste cifre sono state compilate da Aleksandr Kokurin.

17 Berdinskih, 1998, p. 28.

18 Pohl, 1997, p. 131.

19 Getty, Rittersporn e Zemskov, 1993, p. 1024.

20 Courtois et al, 1998, p. 6.

21 Razgon, 1997, pp. 290-91.

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Zagorulko, M.M. (a cura di), 2000, Voennoplennye v SSSR: 1939-1956, Moskva. Zaron, Piotr, 1990, Ludnos'c: Polska w zwiazku radzieckim w czasie II Wojny

Swiatowej, Warszawa. Zemskov, V.N., 1989, Arhipelag Gulag: glazami pisatelja i statistika, in "Argu-

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issledovanija", 11, pp. 3-17.

-, 1991, Gulag (istoriko-sociologiceskij aspekt), in "Sociologiceskie issledovanija", 6, p. 1. -, 1994, Sud'ba Kulackoj ssylki (1934-1954 gg.), in "Otecestvannaja istorija", 1,

pp. 118-47. -, 1997, Zakljucennye v 1930-e gody: social'no-demograficeskie problemy, in

"Otecestvannaja istorija", 4, luglio-agosto. Zubkova, Elena, 2003, Quando c'era Stalin: i russi dalla guerra al disgelo, trad.

it. Bologna, il Mulino. Zvenija (antologia storica), 1991, voi. I, Moskva.

Interviste

Anonimo ex direttore dell'orfanatrofio di un campo (Mosca, 24 luglio 2001)

Anna Andreevna (Mosca, 28 maggio 1999).

Anton Antonov-Ovseenko (Mosca, 14 novembre 1998)

Irena Arginskaja (Mosca, 24 maggio 1998)

Ol'ga Astaf'èva (Mosca, 14 novembre 1998)

David Berdzenisvili (Mosca, 2 marzo 1999)

Viktor Bulgakov (Mosca, 25 maggio 1998)

Zenja Fedorov (Elektrostal, 29 maggio 1999)

Isaak Fil'stinskij (Peredelkino, 30 maggio 1998)

Lev Finkel'stejn (Londra, 28 giugno 1997)

Ljudmila Hacatrjan (Mosca, 23 maggio 1998)

Valentina Jurganova (Iskitim, 1° marzo 1999)

Marlen Korallov (Mosca, 13 novembre 1998)

Natasa Koroleva (Mosca, 25 luglio 2001)

Pavlina Mjasnikova (Mosca, 29 maggio 1998)

Pavel Negretov (Vorkuta, 15 luglio 2001)

Susanna Pecora (Mosca, 24 maggio 1998)

Ada Purizinskaja (Mosca, 31 maggio 1998)

Alla Sister (Mosca, 14 novembre 1998)

Leonid Sitko (Mosca, 31 maggio 1998)

Galina Smirnova (Mosca, 30 maggio 1998)

Leonid Trus (Novosibirsk, 28 febbraio 1999)

Galina Usakova (Mosca, 23 maggio 1998)

Ol'ga Vasileevna (Mosca, 17 novembre 1998)

Semen Vilenskij (Mosca, 6 marzo 1999)

Canuta Waydenfeld (Londra, 22 gennaio 1998)

Stefan Waydenfeld (Londra, 22 gennaio 1998)

Maria Wyganowska (Londra, 22 gennaio 1998)

Jurij Zorin (Arcangelo, 13 settembre 1998)

GLOSSARIO

Baiando Brodaglia, sbobba.

Banja Bagno a vapore.

Beskonvojnyj Detenuto autorizzato a spostarsi all'interno del campo senza scorta armata.

Besprizornyj Bambini abbandonati. Nella maggior parte dei casi si trattava di orfani, che avevano perso i genitori durante la guerra civile o la collettivizzazione.

Blatnoe slavo  Gergo dei malavitosi (vedi urka e vor).

Bolscevichi Ala radicale del Partito operaio socialdemocratico russo, che nel 1918, sotto la guida di Lenin, prese il nome di Partito comunista russo.

Buslat Giacca dei prigionieri e degli operai, imbottita di ovatta di cotone.

Óeka Abbreviazione di Crezvycajnaja Komissija (Commissione straordinaria). La polizia segreta sovietica all'epoca della guerra civile.

Òifir Té molto forte, che ha effetti analoghi a quelli dei narcotici.

Collettivizzazione Politica perseguita dal governo sovietico, in particolare dal 1929 al 1932, in base alla quale i contadini dovevano abbandonare la coltivazione individuale e mettere a disposizione del collettivo le loro terre e tutte le altre risorse. La collettivizzazione forzata creò le condizioni per le gravi carestie scoppiate nelle campagne dell'URSS tra il 1932 e il 1934, e indebolì in modo irreversibile l'agricoltura sovietica.

Commissario del popolo  Capo di un ministero governativo.

Comitato centrale Principale organo decisionale del Partito comunista dell'Unione Sovietica. Negli intervalli tra i vari congressi si riuniva due o tre volte all'anno. Quando non era in seduta, le decisioni venivano prese dal Politbjuro, che dal punto di vista tecnico era un organo eletto dal comitato centrale.

Comintern Terza internazionale comunista. Organizzazione mondiale dei Partiti comunisti, costituita nel 1919 sotto la guida del Partito comunista sovietico. Fu smantellata da Stalin nel 1943.

Dezurnaja/dneval'nyj Nel linguaggio comune, "custode". Nei campi, l'uomo o la donna che rimaneva rutto il giorno nelle baracche per sorvegliarle e fare le pulizie.

Gulag

Disgelo Breve periodo di riforme che ebbe inizio dopo la morte di Stalin. Inaugurato con il discorso pronunciato al XX congresso del Partito comunista sovietico da Nikita Hruscev nel 1956, fu di fatto bloccato dal suo successore, Leonid Breznev, nel 1964.

Dohodjaga Letteralmente, "arrivato", "andato". Persona moribonda.

Dom svidanij Letteralmente, "casa degli incontri". Luogo dove si svolgevano gli incontri fra i prigionieri e i parenti.

Etap Convoglio di prigionieri.

Fel'dser Assistente medico, non sempre qualificato.

Glasnost' Tradotto in genere con "trasparenza". Indirizzo politico orientato al dibattito e alla libertà di parola, lanciato da Mihail Gorbacev nel 1980.

GPU Acronimo di Gosudarstvennoe politiceskoe upravlenie (Amministrazione politica di Stato). La polizia segreta sovietica all'inizio degli anni Venti, che succedette alla Ceka.

Gulag Acronimo di Glavnoe Upravlenie Lagerej (Amministrazione generale dei campi). La divisione della polizia segreta sovietica che gestiva il sistema dei campi.

"Izvestija"  Organo di stampa del governo sovietico.

Katorga Vocabolo zarista per definire il lavoro coatto. Durante la Seconda guerra mondiale, anche il regime sovietico adottò questo termine per designare i campi a regime duro per i criminali di guerra.

Kolhoz Azienda agricola collettiva in cui i contadini furono costretti a lavorare da quando, nel 1929-31, fu messa in atto la politica di collettivizzazione.

Kolhoznik Abitante di un kolhoz.

Kolyma Vallata del fiume Kolyma all'estremità nordorientale della Russia, sulla costa del Pacifico, nella quale furono allestiti i campi di lavoro più duri; è diventata il simbolo stesso del Gulag.

Komi Repubblica dei Komi, settore nordorientale della Russia europea, a ovest degli Urali, sede di un vasto complesso concentrazionario.

Komsomol Organizzazione giovanile del Partito comunista sovietico per ragazzi dai quattordici ai ventotto anni. I ragazzini più piccoli facevano parte dei Pionieri.

Konclager' Termine russo per indicare i campi di concentramento.

Kronstadt, insurrezione di Importante rivolta antibolscevica del 1921, guidata dai marinai della base navale di Kronstadt.

Kulak In passato, termine spregiativo per indicare un contadino o altri avido e profittatore. In epoca sovietica il termine fu elevato a designare una presunta "classe sociale", in realtà qualsiasi contadino accusato di oppor-si alla politica di collettivizzazione (vedi). Fra il 1930 e il 1933 ne vennero arrestati e deportati oltre 2 milioni.

Kum Amministratore del campo, responsabile della gestione della rete degli informatori.

KVC Acronimo di Kul'turno-Vospitatelnaja Cast (Sezione educativo-cultura-le). Nei campi, gruppo responsabile dell'istruzione politica dei detenuti e delle produzioni teatrali e musicali.

Glossario  683

Lagpunkt Unità minima di un campo.

Laogai Campo di concentramento cinese.

Mahorka Tabacco scadente, fumato da operai e detenuti.

Maloletok Detenuto minorenne.

Mamka Detenuta madre di un bambino nato durante il periodo di reclusione.

Memorial Associazione fondata negli anni Ottanta per registrare, descrivere e assistere le vittime di Stalin, attualmente è uno dei più importanti gruppi di difesa dei diritti umani in Russia e l'istituto di ricerca storico più importante nel settore.

Menscevichi Ala non leninista del Partito operaio socialdemocratico russo. Dopo la Rivoluzione d'ottobre i menscevichi cercarono di diventare un partito di opposizione legale, ma nel 1922 i dirigenti vennero mandati in esilio. In seguito, molti di loro furono giustiziati o inviati nel Gulag.

MGB/KGB Acronimo di Ministerstvo /Komitet gosudarstvennoj bezopasnosti (Ministero / Comitato per la sicurezza dello Stato). La polizia segreta sovietica incaricata della sicurezza interna ed esterna durante il periodo postbellico.

Monaska Letteralmente, "monaca". Religiosa di varie confessioni.

MVD Acronimo di Ministerstvo vnutrennih del (Ministero degli Affari interni). La polizia segreta sovietica responsabile degli istituti carcerari e dei campi durante il periodo postbellico.

Nadziratel'  Guardia carceraria o dei campi di concentramento.

Narjadcik Nei campi, impiegato responsabile dell'assegnazione del lavoro ai detenuti.

NEP Acronimo di Novaja ekonomiceskaja polityka (Nuova politica economica). Politica economica sovietica inaugurata nel 1921, che reintrodusse per un breve periodo il "piccolo capitalismo" (negozi e commercianti privati). Considerata da Lenin una "ritirata strategica" dopo la fase del "comunismo di guerra", fu abolita da Stalin.

NKVD Acronimo di Narodnyj Komissariat vnutrennih del (Commissariato del popolo per gli Affari interni). La polizia segreta sovietica negli anni Trenta e durante la Seconda guerra mondiale, che succedette all'OGPU.

Norma Quantità di lavoro che un detenuto era tenuto a svolgere in un singolo turno.

Normirovscik  Nei campi, l'addetto che stabiliva la norma (vedi).

"Novyj mir" Rivista letteraria dell'Unione Sovietica di orientamento liberale, fu la prima a pubblicare gli scritti di Aleksandr Solzenicyn.

NTS Acronimo di Narodno-trudovoj sojuz (Partito operaio del lavoro). Gruppo politico clandestino antistalinista, con diramazioni in URSS e all'estero.

Obscaja rubata Letteralmente, "lavoro generale". Nei campi, lavoro manuale non specializzato, come abbattere alberi o scavare trincee.

OGPU Acronimo di Obedinennoe gosudarstvennoe politiceskoe upravlenie (Amministrazione politica unificata di Stato). Dal 1923, organo di collegamento tra le GPU (vedi) delle varie repubbliche sovietiche.

Gulag

Ohrana La polizia segreta zarista.

Osoboe sovescanie Letteralmente, "commissione speciale". Dalla fine degli anni Trenta, le commissioni che condannavano i detenuti durante il periodo degli arresti di massa.

Osobyj lager' Letteralmente, "campo speciale". Campi allestiti nel 1948 per prigionieri politici particolarmente pericolosi.

Otkazcik Chi rifiuta di lavorare.

Otlicnik Termine con cui venivano designati i cosiddetti "lavoratori d'assalto".

OUN Acronimo di Organizacija ukrainskih nacionalistov (Organizzazione dei nazionalisti ucraini). Partigiani dell'Ucraina occidentale che, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, combatterono contro l'Armata rossa.

Parasa Bugliolo.

Perestrojka Programma (fallito) di riforma dell'economia sovietica, lanciato da Mihail Gorbacev negli anni Ottanta.

Politbjuro Ufficio politico del comitato centrale del Partito comunista. In pratica, l'organo decisionale più importante dell'URSS, i cui ordini dovevano essere eseguiti dal Sovnarkom (vedi).

"Pravda"  Quotidiano del Partito comunista sovietico.

Pridurok Nel gergo del Gulag, "imboscato". Detenuto non addetto ai "lavori generali", ma a un lavoro più leggero o specializzato.

Psihuska Ospedale psichiatrico per dissidenti politici.

Refjuznik Ebreo sovietico la cui richiesta di emigrare in Israele è stata respinta.

Rezim Regime carcerario.

Samizdat Editoria illegale e clandestina. Calco ironico di "Gosizdat", il nome della casa editrice di Stato.

Saraska Prigione speciale, inventata da Lavrentij Berija nel 1938, dove gli scienziati e i tecnici detenuti eseguivano ricerche segrete.

SIZO Acronimo di Strafiwi izoljator (cella di isolamento). Cella di punizione all'interno del campo.

SLON Acronimo di Severnye lagerja osobogo naznacenija (campi di concentramento settentrionali a destinazione speciale). I primi campi allestiti dalla polizia politica sovietica negli anni Venti.

Socialisti rivoluzionari Partito rivoluzionario russo fondato nel 1902, che in seguito si scisse in due gruppi ("destra" e "sinistra"). Per un breve periodo i socialisti rivoluzionari di sinistra fecero parte di un governo di coalizione con i bolscevichi, dal quale poi si ritirarono. Molti dirigenti furono giustiziati o inviati nel Gulag.

Sovnarkom Acronimo di Sovetskij narodnyj komitet (Consiglio dei commissa-ri del popolo). In teoria, l'organo dirigente del governo, equivalente al Consiglio dei ministri, ma in pratica subordinato al Politbjuro.

Spedager' In URSS, dal 1948, campo di concentramento per "controrivolu-zionari" a regime di lavoro e detenzione particolarmente severo; in parti-

Glossano  685

colare, campo allestito dall'Amministrazione militare sovietica nella Germania occupata dopo il 1945.

Splosnye nary Lungo tavolaccio di legno sul quale dormivano diversi detenuti.

Stacanovista Operaio o contadino che ha superato la norma di lavoro prevista. Dal nome di Aleksej Stahanov, un minatore che nell'agosto 1935, in un unico turno, estrasse 102 tonnellate di carbone invece della norma prevista di 7.

Starosta Letteralmente, "anziano". Nelle celle della prigione, nelle baracche dei campi e nei vagoni ferroviari, il responsabile del mantenimento dell'ordine.

Suka Letteralmente, "cagna". Nel gergo del Gulag, i criminali detenuti che collaboravano con le autorità.

Tovarisc Termine russo per "compagno", che in Unione Sovietica era un appellativo di rispetto.

Trojka Commissione composta da tre funzionari sovietici che, a partire dal 1937, nel periodo degli arresti di massa, faceva le veci del tribunale.

Trudosposobnost'  Capacità lavorativa.

Tufta Nel Gulag, sistema per truffare sulle norme lavorative allo scopo di ricevere una razione alimentare maggiore.

Udarnik Operaio o contadino che ha superato la norma lavorativa prevista. Dopo il 1935, fu in genere sostituito dal termine "stacanovista" (vedi).

Urka Criminale di professione; sinonimo di vor (vedi).

Vagone Stolypin/Stolypinka Soprannome di un vagone ferroviario passeggeri opportunamente modificato per il trasporto dei detenuti. Deve il suo nome a Petr Stolypin, primo ministro della Russia zarista dal 1906 al 1911, anno in cui rimase vittima di un attentato.

Vagonki Nelle baracche dei campi, letto a castello per quattro persone.

Vanta Posto di guardia e di controllo situato all'ingresso del campo.

Valenki Stivali di feltro.

Vlasoviani Seguaci del generale russo Andrej Vlasov che, dopo essere stato catturato dai tedeschi, si battè ai loro ordini contro l'Armata rossa.

VOHR Acronimo di Voennizirovannaja ohrana, la guardia militarizzata nei luoghi di detenzione.

Vor Malavitoso; sinonimo di urka (vedi).

Zek Da z/k, abbreviazione di zakljucennyj, "detenuto".

Zemljanka Casa o baracca seminterrata.

Zona Letteralmente, l'area delimitata dal filo spinato. Campo di concentramento.

RINGRAZIAMENTI

Nessun libro è mai davvero opera di una persona sola, ma questo non avrebbe potuto realmente essere scritto senza il contributo pratico, intellettuale e filosofico di molte persone, tra cui alcuni dei miei amici più cari e altri che non ho mai conosciuto. Per quanto sia inconsueto che gli autori, nei ringraziamenti, citino scrittori morti da tempo, vorrei esprimere la mia particolare riconoscenza a un gruppetto sparuto ma straordinario di sopravvissuti dei campi, le cui memorie ho letto e riletto tantissime volte mentre scrivevo questo libro. Anche se molti sopravvissuti hanno raccontato le loro esperienze in modo profondo e letterariamente apprezzabile, non è certo un caso se in questo libro predominano le citazioni delle opere di Varlam Sala-mov, Isaak Fil'stinskij, Gustaw Herling, Evgenija Ginzburg, Lev Razgon, Ja-nusz Bardach, Ol'ga Adamova-Sliozberg, Anatolij Zigulin, Alexander Dol-gun e, ovviamente, Aleksandr Solzenicyn. Alcuni di questi sono annoverati tra i più famosi sopravvissuti del Gulag, altri no, ma tutti hanno un tratto in comune. Le loro memorie spiccano tra le molte centinaia che ho letto non soltanto per la potenza della loro prosa, ma anche per la capacità di penetrare sotto la superficie dell'orrore quotidiano e di scoprire verità più profonde sulla condizione umana.

Sono molto grata per il loro aiuto anche a molti moscoviti che mi hanno guidato negli archivi, presentato i sopravvissuti e fornito la propria personale interpretazione del loro passato. Primo tra tutti l'archivista e storico Aleksandr Kokurin, che spero un giorno sarà ricordato come un pioniere della nuova storia russa, e Gal'ja Vinogradova e Alla Boryna, che si sono dedicate con pari zelo a questo progetto. Di grande aiuto mi sono stati i colloqui, in epoche diverse, con Anna Grisina, Boris Belikin, Nikita Petrov, Su-sanna Pecora, Aleksandr Gurjanov, Arsenij Roginskij e Natasa Malykina dell'Associazione Memorial di Mosca, Semen Vilenskij della casa editrice Vozvrascenie, nonché Oleg Hlevnjuk, Zoja Erosok, la professoressa Natal'ja Lebedeva, Ljuba Vinogradova e Stanislaw Gregorowicz, ex dipendente dell'ambasciata polacca a Mosca. Sono anche molto riconoscente alle numerose persone che mi hanno concesso lunghe interviste ufficiali, i cui nomi sono elencati nell'ultimo paragrafo della bibliografia.

Fuori Mosca, ho un grosso debito di riconoscenza nei confronti delle tan-

Gulag

te persone che, di punto in bianco, hanno accettato di interrompere quello che stavano facendo per dedicare un sacco di tempo a una straniera piovuta dal cielo che faceva loro domande ingenue su argomenti che stavano studiando da anni. Tra tutte le altre, voglio ricordare: a Syktyvkar, Nikolaj Mo-rozov e Mihail Rogacev; a Vorkuta, Zenja Hajdarova e Ljuba Petrovna; alle Soloveckie, Trina Sabulina e Tat'jana Fokina; ad Arcangelo, Galina Dudin; a Petrozavodsk, Vasilij Makurov, Anatolij Cigankov e Jurij Dmitriev; a Perm', Viktor èmirov; a Novosibirsk, Leonid Trus; Svetlana Dojnisena, direttrice del museo di storia locale di Iskitim; Venjamin loffe e Irina Reznikova dell'Associazione Memorial di San Pietroburgo. Un grazie particolare agli addetti della Kraevedeceskaja Biblioteka di Arcangelo, molti dei quali hanno dedicato intere giornate a me e ai miei tentativi di capire la storia della loro regione, semplicemente perché ritenevano importante farlo.

A Varsavia ho ricevuto un grande aiuto dalla biblioteca e dagli archivi diretti dalal Fondazione Karta, nonché dai colloqui con Anna Dzienkiewicz e Dorata Pazio. Alla biblioteca del Congresso di Washington DC ho potuto contare sulla collaborazione di David Nordlander e Harry Leich. Un grazie speciale a Elena Danielson, Thomas Henrikson, Lora Soroka e, soprattutto, Ro-bert Conquest della Hoover Institutìon. Illuminanti per la comprensione del fenomeno delle rivolte nei campi sono stati i colloqui con la storica italiana Marta Craveri, mentre per una conoscenza più approfondita dell'epoca post-staliniana lo sono stati quelli con Vladimir Bukovskij e Aleksandr Jakovlev.

Desidero esprimere un riconoscimento particolare e la mia gratitudine alla Lynde and Harry Bradley Foundation, alla John M. Olin Foundation, alla Hoover Institution, alla Màrit e Hans Rausing Foundation e a John Blundell dell'Insti tu te of Economie Affairs per il sostegno finanziario e morale che hanno voluto darmi.

Vorrei ringraziare anche tutti gli amici e i colleghi che mi hanno dato consigli di carattere storico e pratico durante la stesura del libro: fra gli altri, Anthony Beevor, Colin Thubron, Stefan e Damila Waydenfeld, Jurij Morakov, Paul Hofheinz, Amity Shlaes, Simon Heffer, Chris Joyce, Alessandro Missir, Terry Martin, Alexander Gribanov, Piotr Paszkowski e Orlando Figes, come pure Radek Sikorski, le cui cartelle ministeriali si sono dimostrate davvero molto utili. Un grazie particolare a Georges Borchardt, Kristine Puopolo, Gerry Howard e Stuart Proffitt, che hanno seguito la lavorazione del libro.

Infine, per l'amicizia, i saggi consigli, l'ospitalità e l'ottimo cibo, vorrei ringraziare le persone meravigliose che mi hanno accolto a Mosca: Christian e Natasha Caryl, Edward Lucas, Jurij Senokossov e Lena Nemirovskaja.

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INDICE DEI NOMI

Abakumov, Viktor, 153-155,166-167,169,

405,408,495 Adamova-Sliozberg, Ol'ga, 161,180,203,

498,537,541,598 Adler, Nanci, 541 Ahmatova, Anna, 121,149,152,539, 551,

Aksenov, Vasilij, 540 Alessandro II, imperatore di Russia, 19 Amis, Martin, 7 Anders, Wladyslaw, 471-474 Andreev, Daniil, 55, 203 Andreev, Leonid, 55 Andreev-Homjakov, Gennadij, 533 Andreevic, Andre], 341 Andropov, Jurij, 556, 573-574, 575-576,

578-579, 594 Anna Andreevna, 203, 222,262,293,325,

327, 341,403,538 Antonov-Ovseenko, Anton, 312,536,539,

Arendt, Hannah, 24, 600 Arginskaja, Irena, 223, 228-229, 293, 326,

Armonas, Barbara, 192,202,231,273 Averbach, Leopol'd, 129 Avruckij, funzionario del Gulag, 300

Babina, Berta, 45 Baculis, comandante, 44 Balhanov, dissidente, 578 Barabanov, V.A., 128

Bardach, Janusz, 156, 188, 198, 203, 249, 251, 269, 358-359, 364, 366, 396, 398-400,406,415

Barkova, Anna, 505

Berdinskih, Viktor, 384-385

Berdzerùsvili, David, 577-578

Berija, Lavrentij, 131, 139-141, 144, 153, 169, 174-175, 206, 209-210, 213, 226, 256, 258, 292, 352, 383, 391, 455, 459-460, 462, 471, 495, 499-501, 504, 505, 509,515,522

Berman, Matvej, 97, 111, 125-126,283

Bernhardt, Sarah, 55

Bersadskaja, Ljubov', 161, 179, 523, 525-526

Berzin, Eduard, 114,116-118,127-128,250, 290,297

Besonov, Jurij, 411

Betteìheim, Bruno, 367,445

Bien, George, 206,391,452

Bljumkin, Jakov, 74

Bloch, Sidney, 572

Bockov, V.M., 519

Bogoraz, Larisa, 552,582

Bokij, Gleb, 70,158,607

Bondarevskij, Sergej, 219

Borin, Aleksandr, 372

Bosch, Hieronymus, 161

Botyj, Lev, 67

Brackman, Roman, 167

Brecht, Bertolt, 8

Breznev, Leonid, 6, 8, 547, 551, 554, 556, 586

Gulag

Brodskij, losif, 549,553-556,580 Buber-Neumann, Margarete, 177, 179-

180,213,222,298,329,414 Buca, Edward, 189-190,323,335,361,366,

416-417,511 Buharin, Nikolaj, 123, 131, 189, 270, 326,

535, 581 Bukovskij, Vladimir, 265, 560, 565, 569,

Bulgakov, Viktor, 295,486,505-507, 596 Bystroletov, Dmitrij, 181, 248, 272-274,

Caadaev, Petr, 570

Camus, Albert, 7

Carlyle, Thomas, 36

Caterina II la Grande, imperatrice di Russia, 446-447

Cebrikov, Viktor, 584

teburkin, Andrej, 289

Cehov, Anton, 18, 20, 54, 258

ternavin, Andrej, 412

Cernavin, Vladimir, 168,170,412,414-415

ternyj, Grisa, 304

Cernysev, Vasilij, 283, 434

Cetverikov, Boris, 175, 400

Churchill, Winston, 10, 350,456-457,464

Cicibabin, Boris, 550

Cirkov, Jurij, 202

Colonna-Czosnowskì, Karol, 202, 226-227, 304,312, 368, 393,406

Conquest, Robert, 152,167, 351,601

Cornovil, Vjaceslav, 557

tuhin, Ivan, 81

Curbanov, funzionario del Gulag, 582

Cvetaeva, Marina, 318, 399

Daniel', Julij, 553,556-557,560,565,567

Daniljuk, 288

Darwin, Charles, 366

Davidenko, I.S., 133

Dezemija, malavitoso, 308

Dimitrov, Georgi, 150

D'jakov, Boris, 296,326-327,370-371,548

Dobrovol'skij, Aleksej, 568

Dolgih, Ivan, 493, 523-524

Dolgun, Alexander, 150, 154, 161, 171,

Dombrovskij, Jurij, 539

Dostoevskij, Fedor, 19, 21, 188, 303, 305,

Dudina, Galina, 597-598 Dudorov, N.P., 531 Duguet, Raymond, 87 Dukanovic, detenuto, 97 Durant, giornalista, 90 Durasova, S.G., 165 Dvorzeckij, Vàclav, 417 Dzerzinskij, Feliks, 34, 37-38, 43, 45, 49,

Eden, Anthony, 10

Efron, Arjadna, 318,325, 399,534

Efrussi, Jakov, 358

Egorov, Sergej, 523-525

Eisenstein, detenuto, 357

Ejhmans, Fedor, 63,126

Ekart, Antoni, 201, 251, 259, 262, 304,

315,319-320 El'cin, Boris, 583 Engels, Friedrich, 9 Epstejn, Lev, 128 Eremenko, Zoja, 287 Evstonicev, A.P., 221 Ezov, Nikolaj, 125,134,136-137,139,165-

Fadeev, Aleksandr, 538

Faludy, Gyòrgy, 476

Federol'f, Ada, 318,399

Fedodeev, Aleksandr, 420

Fedorov, Zenja, 563

Fedorovic, Nadja, 433

Fel'dgun, Georgi], 310,404

Figes, Orlando, 71

Figner, Vera, 42,183

Filaretov, Gleb, 283

Filippov, I.G., 127

Fil'stinskij, Isaak, 223, 229, 242, 248, 250,

258,335,364,379-381,383-384,496 Finkerstejn, Lev, 165, 176, 182, 189, 215,

313, 376, 393, 406 Fischer, Eugen, 23 Florenskij, Pavel, 590 Fomenko, Lidija, 548 Frenkel', Naftalij, 60-62, 64-66, 83, 88, 93,

Indice dei nomi

Frid, Valerij, 217,335-337,374,397 Frolovskij, Mihail, 480 Fuster, Julian, 526

Gagen, Evgenij, 541

Gagen-Torn, Nina, 155,191,201,207,319,

325,327-328,355,400,407 Galanskov, Jurij, 568 Calie, Aleksandr, 558 Galinski, Adam, 323 Gamarnik, Jan, 131 Garaseva, A.M., 175 Gessen, Masha, 593-594 Getty, J. Arch, 601 Gilas, Milovan, 475 Gilboa, Yehoshua, 358-359 Gindler, Bym, 551 Ginzburg, Aleksandr, 557, 560, 568 Ginzburg, Evgenjia, 119, 137, 158, 170,

Ginzburg, Isaak, 126 Ginzburg, Lidija, 16 Glebov, Vladimir, 347 Gliksman, Jerzy, 98-99, 205-208, 394 Glink, Elena, 198 Glusko, Valentin, 140 Gluzman, dissidente, 578 Gnedin, Evgenij, 161,169,295,360 Gogol', Nikolaj, 55,263,302 Gol'dstejn, Samuel, 260 Golicyn, Kirill, 402 Gorbacev, Mihail, 5, 11, 314, 449, 577,

579, 580-583, 586, 591 Gorbanevskaja, Natal'ja, 570-571 Gorbatov, Aleksandr, 163, 171-172, 273,

303, 312, 365, 466-467,471 Gorcakov, Genrih, 294 Gòring, Heinrich, 23 Gòring, Herman n, 23 Gor'kij, Maksim, Aleksej Peskov detto,

Goskin, Mihail, 126 Gridasova, comandante del Gulag, 290,

Grigorenko, Petr, 570-571 Gubin, dirigente del Gulag, 518 Gurjanow, Aleksandr, 442

Hacatrjan, Ljudmila, 153,323, 340

Harenczyk, Karol, 194

Harris, James, 80

Heidegger, Martin, 7

Herling, Gustaw, 207, 216, 220, 257, 263, 269, 276-278, 311, 321, 330-332, 336, 356, 358, 363, 365, 367, 373, 391, 397, 405, 407, 408, 418-419, 434, 471-472, 538

Hitler, Adolf, 7-10, 22, 25, 82, 151, 260, 297-298, 431, 453, 456-457, 496, 597, 606

Hochschild, Adam, 299, 347

Hook, Sidney, 8

Hruscev, Nikita, 18, 168, 297, 499, 501, 505, 511, 513, 516, 529-530, 532-534, 536-539, 542-544, 546-547, 550-551, 556,565,580-581,586, 603

Ibsen, Henrik, 21 Ihnatowicz, detenuto, 515 Il'icev, Leonid, 547 loffe, Marjia, 118, 304 loffe, Nadezda, 160, 340, 405 Ivanova, Galina, 460 Ivanova, Mar'ja, 287 Izgoev, Aleksandr, 39 Izrailev, Aleksandr, 125

Jagoda, Genrih, 62,78,84-85,94,112,124-125,127-129,137,144,173-174,353,501

Jakirjon, 128,131,552

Jakir, Petr, 205, 334, 347, 350, 354, 552, 568

Jakobson, Michael, 80, 91

Jakovlev, Aleksandr, 594-595

James, William, 21

Janson, Nikolaj, 77-79

Jaruzelski, Wojciech, 8

Jasenko, comandante del Gulag, 64

Jaskin, Afanasij, 423,426

Jasnyj, V.K., 178, 371, 384

Jurganova, Valentina, 345

Jurilkin, malavitoso, 312

Juznev, dirigente politico locale, 63

Gulag

Kaganovic, Lazar, 62, 542

Kamenev, Lev, 123,347,535

Kanen, V.E., 72

Kang Chol-Hwan, 479

Kapralova, Nadezda, 541

Kazackov, V.A., 56

Kazahov, detenuto, 313

Keller, Gers (Pendrak), 521,526-527

Kendzerski, Feliks, 511

Kennan, George, 18

Kerenskij, Aleksandr, 31

Kersnovskaja, Efrosinija, 338

Kipling, Rudyard, 418

Kirov, Sergej, 122,153, 603

Kiselev, detenuto, 52

Kitchin, George, 90

Klejn, Aleksandr, 354,378,404,461

Klinger, detenuto, 53

Klymeak, Bohdan, 585

Kmiecik, Jerzy, 350-352,354

Knopmus, Jurij, 521,526

Koestler, Arthur, 162

Kogan, Lazar', 100,126, 220, 232, 300

Kogteva, Svetlana, 347

Kolesnicenko, detenuto, 468

Kondratas, detenuto, 527

Koopensteiner, Maria, 453

Kopelev, Lev, 291, 388-389, 402, 540, 544-

Korallov, Marlen, 306,323,324 Korolev, Sergej, 140,276,365,540 Kotkin, Stephen, 261 Kozina, Elena, 16-17 Krasikov, N., 67-68 Kress, Vernon, 244 Kruglov, generale, 538 Kruglov, S.N., 286,494-495,516,518,524-

Krutigolova, Jaroslava, 460 Kulevskij, detenuto, 109 Kundus, VA., 294 Kuperman, Jakov, 280 Kuusinen, Alno, 162,197,267-268,327 Kuusinen, Oleg, 162 Kuznecov, Kapiton, 505, 520-522, 525-

Larina, Anna, 131,189, 270, 326, 580 Lebed', Aleksandr, 315,604

Lejpman, Flora, 132, 319-320

Lenin, Vladimir Ul'janov detto, 4, 6, 16,

130,310,358,581 Levcuk, Andrej, 460 Levi, Primo, 9,367 Levin, detenuto, 293 Levinson, Galina, 131, 231,294 Lieberman, detenuto, 318 Lihafev, Dmitrij, 31,52,54-55,70-71,310-

311,580 Lipper, Elinor, 154,182,197,222,249,296,

Litvinov, Pavel, 560 Livingstone, Ken, 8 Lockhart, Robert Bruce, 35,114 Loginov, Aleksej, 260-261,298-299,470 Losev, A.F., 94 Lu Fa, 423

Lukasenko, Aleksandr, 589 Lunacarskij, Anatolij, 55 Lune, Daniil, 571 Lysenko, Trofim, 538

Majskij, Ivan, 471 Makeev, Aleksej, 520-521 Malenkov, Georgi), 281,542 Malsagov, S.A., 88,411 Mandel'stam, Nadezda, 149,152,360 Mandel'stam, Osip, 31,152,155,195,238,

Mao Tse-tung, 606 Marfenko, Anatolij, 397, 561-564, 566-

Marcenko, Zoja, 399 Marmus, dissidente, 578 Martin, Terry, 85 Marx, Karl, 9,55 Maslennikov, I.I., 513-514 Maslov, detenuto, 98 Mazus, Izrail, 278 McCarthy, Joseph, 9 Medvedev, Nikolaj, 307 Medvedev, Roj, 294, 552, 578 Medvedev, Zores, 552,570,573 Medvedkov, detenuto, 87 Mejerhol'd, Vsevolod, 169 Mel'nikova, Polina, 360 Mengele, Joseph, 23

Indice dei nomi

Merekoy, Aleksej, 339

Merridale, Catherine, 360,542,592-593

Mikojan, Anastas, 536

Miljutina, T.P., 160-161

Mindlin, M.B., 245

Misakova, Ol'ga, 539

Miskina, Galìna, 507

Mkrtqan, Benjamin, 243, 425

Mollison, Theodor, 23

Molotov, Vjaceslav, 83, 90, 92, 124, 383,

Moroz, Valentìn, 556, 564 Moroz, Vladimir, 351 MoruSko, detenuto, 516 Motilova, Tamara, 389 Mussolini, Benito, 82

Nabokov, Vladimir, 580

Nagy, Imre, 478

Narinskij,A.S., 233-234

Nasedkin, Viktor, 49, 261, 283, 437-438,

459,468,470 Negretov, Pavel, 323,498 Nekipelov, Viktor, 571,572 Nelipoviè, capitano, 577 Nicola I, imperatore di Russia, 19, 570 Nicola II, imperatore di Russia, 31 Nikisov, Ivan, 290-292,462-464 Nikitin, Aleksandr, 597 Nikomarov, dirigente del Gulag, 578 Noble, John, 320,453,509,515 Nogtev, A.P., 51, 63, 66 Nordlander, David, 116

Okudzava, Bulat, 541,558 Okunevskaja, Tat'jana, 153-154, 209, 226,

Ol'ga Vasil'evna, 145,285-286,499 Olickaja, Ekaterina, 50,183,196,202, 218,

Ordzonikidze, Grigorij, 21 Orlov, Jurij, 576,596 Orwell, George, 459 Ovidio Nasone, Publio, 17

Pancenko, Mihail, 279

Panin, Dmitrij, 175,238,239,322,387,399,

404,506-507 Pasternak, Boris, 580

Pavli&n, detenuto, 516

Pavlov, dirigente del Gulag, 127,133

Pavlov, Sergej, 548

Pecora, Susanna, 172, 181, 223, 239, 245,

287,326, 335,502,540,596 Peskova, Ekaterina, 42-43,51 Petfcevic, Tamara, 356 Petrov, Vladimir, 235, 238, 250-251, 324,

372-373 Pietro I il Grande, imperatore di Russia,

19-20,81-82 Pipes, Richard, 16 Pjatakov, G.F., 59 Plehanov, Georgij, 21 Pliner, Izrail, 126,282-283 Pogodin, Nikolaj, 98-99,129, 305 Pohl, Otto, 603-604 Pokrovskij, dirigente del Gulag, 469 Polisonov, Aleksandr, 126 Poljan, Pavel, 603-604 Potapov, Van'ka, 52 Powers, Gary, 550 Prjadilov, Aleksej, 294 Puchinski, Janusz, 437 Purizinskaja, Ada, 318,364-365 Puskin, Aleksandr, 18,558 Putin, Vladimir, 594,599

Radek, Karl, 131

Ratusinskaja, Irina, 420,578

Rawicz, Slawomir, 408, 417

Razgon, Lev, 43, 153, 158, 172, 182, 268, 281, 290-291, 294, 300, 304, 306, 316, 319, 336, 353, 364, 373, 383-384, 386-388,440-441,484, 539, 580,587,607

Razgon, Rika, 294

Reagan, Ronald, 5,577-578

Reddaway, Peter, 572,578

Rejhenberg, Sergej, 243,425

Retjunin, Mart, 422-424,426

Ricardo, David, 21

Rigoulot, Pierre, 6

Robinson, Robert, 150

Roeder, Bernhard, 498

Roginskij, Arsenij, 581

Rokossovskij, Konstantin, 289

Rolland, Romain, 43

Romanova, Ol'ga, 44

Roosevelt, Franklin D., 10, 263,456,464

Gulag

Rossi, Jacques, 132,212,218,246,355,455

Rotfort, M.S., 538

Rozina, Anna, 225, 272

Rózsas, Jànos, 389-390

Ruznevic, Tamara, 331-332, 336

Ryckov, N.M., 144

Rykov, Aleksej, 92

Sadovnikov, V.N., 281

Sadovskij, ingegnere, 358

Saharov, Andrej, 573, 578, 583, 589, 596

Salamov, Varlam, 12, 118, 133, 180, 183-184, 204, 228-231, 238, 302, 308-309, 317, 333, 356, 362, 364, 366, 368, 373, 386, 388, 392, 401, 408, 416, 419, 559, 580

Sandratskaja, Marija, 193, 295

èaranskij, Natan, 566

Sartre, Jean-Paul, 7

Savel'eva, Leonidovna, 347

Scammell, Michael, 401, 544, 546

Serebrjakova, Galina, 154

Seregin, detenuto, 153

Sereny, Citta, 25

Serge, Victor, 349

Serov, LA., 532

Sevcenko, Taras, 556

Seveleva, Liza, 205

Sgovio, Thomas, 118, 157, 163-165, 168, 172, 187, 195, 197, 224, 230, 238, 256, 290, 310, 333, 356-357, 375, 389, 404, 417,463,535

Shakespeare, William, 416

Sidorkina, Elena, 128,158

Sidorov, S.F., 108

Sieminski, Janusz, 221

Sifrin, Avraham, 467, 552

Sìheeva-Gajster, Inna, 159,181

Sikorski, Vladislav, 471

Sinjavskij, Andrej, 556-557, 571

éirjaev, Boris, 51, 61

éister, Alla, 372

Sitko, Leonid, 229, 231, 242, 324, 337, 431, 456, 490, 507, 547, 562

Skaja, E.P., 108

èklovskij, detenuto, 311

Slucenkov, Gleb, 521, 526

Smirnov, Aleksej, 407

Smirnova, Galina, 203, 224, 293

Smith, Adam, 21

Soboleev, I.M., 281

Socrate, 17

Sof'ja Aleksandrovna, 158

Sofsky, Wolfgang, 25

Sokolovskaja, detenuta, 439

Solzenicyn, Aleksandr, 7, 10, 48, 53, 60-62, 71,101,121,139,154,160-161,171, 175, 201, 225, 238, 244, 266, 277, 302, 308, 310, 322, 326-327, 335-336, 338, 353, 365, 370-371, 373, 381-383, 385-387, 389-390, 401, 408, 415, 417, 419, 516-518, 523, 538, 543-549, 554, 556, 559,573, 578, 580,586

Solzenicyn, Natasa, 277

Sooster, Jula-Imar, 339

Sorokin, capitano, 164

Spielberg, Steven, 6

Spragovskij, Anatolij, 536

Srejder, Mihail, 298

Stahanov, Aleksej, 95

Stajner, Karlo, 152, 288, 298, 322,431, 432

Stajner, Sonja, 152

Stalin, losif Dzugasvili detto, 4, 5, 7-11, 13-14, 17, 20-22, 24-27, 31, 60, 62, 70, 73-74, 78, 80-86, 87, 91-92, 95-96, 102, 104,113-114,116-117,122-124,126-132, 136-139, 141, 146, 150-153, 155, 165-169, 172, 209-211, 254, 255, 257-259, 262, 264, 273, 281, 283, 285-287, 293, 298, 310, 314-316, 318, 325, 334, 337, 352, 354, 360, 383, 391, 408, 410, 421, 422, 431, 446-447, 449-450, 454-457, 461, 464, 467, 475, 477-478, 481, 485, 492-496, 497-499, 502-504, 505, 509, 513, 517, 530, 533, 536-538, 541, 543, 545, 550-552, 556, 558, 561-562, 564, 567,576,592,595-597, 602, 606

Stalin, Svetlana Alliluieva, 497

Stangl, Franz, 25

Starostin, fratelli, 153

Starostin, Mkolaj, 154, 292, 405

ètejnberg, M., 438

Stendhal, Henri Beyle detto, 406

Stepanjuk, German, 511, 516

Stus, Vasil', 568

Sulimov, Ivan, 221

Sunicuk, E., 527

Surovoy, medico, 392-393

Indice dei nomi

Suvorov, V.D., 281 Syhanov, Ivan, 157

Tarasjuk, colonnello, 290, 300

Taylor, Frederick W., 21

Termo, Georgi, 417

Ter-Petrossian, Levon, 583

Tihonovic, N., 108

Timofeev, Lev, 284, 585

Tito, Josip Broz detto, 475,477

Todorov, Tzvetan, 360,399

Tolmacev, Nikolaj, 77

Tolstoj, Lev, 24

Trockij, Lev, Lejba Bronstein detto, 21,

421 Trus, Leonid, 262, 318, 325, 376, 385,395,

Tucidide, 35 Tucker, Robert, 81 Tuhacevskij, Mihail, 128,131 Tupolev, Andre), 140 Tvardovskij, Aleksandr, 3, 544-546, 548,

Uborevic, leronim, 128,131

Ul'janovskaja, Nadezda, 269,371,407,497

Usakova, Galina, 367, 534

Usova, Zinaida, 373-374

Uspenskìj, dirigente politico locale, 60

Ustieva, Vera, 463

Vadim Aleksandrovic, 389, 392, 397

Vahaev, detenuto, 527

Vavilov, N.N., 513,523

Vdovin, detenuto, 259

Vejsberg, Aleksandr, 153

Veselaja, Zajara, 178-179,183

Vidal, Gore, 600

Vilenskij, Semen, 209,460,511

Vivaldi, Antonio, 404

Vladimirova, Elena, 240

Vlasov, Andre), 297, 456

Vogel'fanger, Isaac, 161,225,290-291,337,

361,365,394,396 Volkogonov, Dmitrij, 21,130 Volkonskaja, Marija, 20,186-187 Volkonskij, Sergej, 20,186 Volkov, Oleg, 52, 71 Volovic, Hava, 170, 335,341-342,461 Vorosilov, Kliment, 542 Voznesenskij, Andrej, 528 Vysinskij, Andrej, 126, 141 Vysockij, Vladimir, 558-559

Wagner, Richard Wilhelm, 407

Wallace, Henry, 461-464

Wallenberg, Raul, 452-453

Warwick, Walter, 317

Wat, Aleksander, 154,323,406,440

Waydenfeld, Stefan, 472

Webb, Beatrice, 8

Webb, Sidney, 8

Wedów, Janusz, 465, 472

Weinstock, comandante, 137

Weissberg, Alexander, 181,205,244,251

Wiesel, Elie, 9

Wigmans, Johan, 353

Wolf, giornalista, 90

Zaharova, Anna, 298-299, 371

Zaporozec, Natal'ja, 338

Zarod, Kazimierz, 182,215,217,220,238,

251,301,402,472 Zdanov, Andrej, 322, 538 Zenov, Georgij, 159, 274-275 Zigulin, Anatolij, 184, 294-296, 308, 337,

Zinov'ev, Grigorij, 123, 535 Zorin, Jurij, 244, 365-366, 375, 402, 533 Zubrik, detenuto, 98 Zukauskas, detenuto, 577-578 Zukov, Georgi), 505

Questo volume è stato impresso

nel mese di marzo dell'anno 2004

presso Mondadori Printing S.p.A.

Stabilimento NSM - Cles (TN)

Stampato in Italia - Printed in Itali/

L'"arcipelago Gulag", l'ampia e fitta rete di campi di concentramento sovietici che, quanto a disumanità, erano pari ai lager nazisti, è affiorato alla coscienza del mondo solo nel 1973, con la pubblicazione del romanzo autobiografico di Aleksandr Solzenicyn. Da allora, e in particolare dopo il crollo dell'Unione Sovietica, documenti a lungo tenuti nascosti o inaccessibili hanno gettato nuova luce sul ruolo svolto dal Gulag nella cosiddetta "edificazione del socialismo": oltre a essere lo spietato strumento repressivo di ogni forma di opposizione politica e sociale, esso fu l'arma segreta di Stalin, che fece del lavoro coatto la base dell'industrializzazione a tappe forzate

del paese.

Anne Applebaum ricostruisce per la prima volta in modo completo e documentatissimo il sistema sovietico dei campi, dalla sua nascita subito dopo la Rivoluzione d'ottobre alla sua enorme espansione (negli anni Trenta, il periodo del Grande terrore, fino alla morte di Stalin), al suo smantellamento negli anni Ottanta durante la glasnost' gorbacioviana. Ma soprattutto racconta - anche in base a testimonianze dirette tratte da memoriali o da interviste ai sopravvissuti - quello che fu un "paese nel paese", quasi una civiltà sommersa dell'estremo nord dell'URSS, con leggi, tradizioni, cultura, lingua e persino un'etica autonoma . E ci offre una descrizione accurata, talora straziante, della vita nei campi: ci parla dei prigionieri (del loro inumano sfruttamento, delle loro strategie di sopravvivenza, delle più frequenti cause e modalità di morte, ma anche degli scioperi, delle rivolte, delle evasioni che riuscirono a organizzare), dei comandanti e delle guardie (chi erano, quali rapporti avevano con i detenuti, come potevano resistere allo spettacolo quotidiano dell'orrore da loro stessi organizzato). Ricordare e analizzare questa immane tragedia - soltanto in epoca staliniana gli internati furono circa 18 milioni, e circa 4 milioni e mezzo non fecero più ritorno - è perciò un dovere nei confronti non solo delle vittime ma anche del nostro futuro. "Dobbiamo sapere perché, e ogni vicenda, ogni memoriale, ogni documento della storia dei gulag è una tessera di puzzle, un elemento della spiegazione.

Senza di essi un giorno rischiamo di svegliarci e di renderci conto di non sapere piu' chi siamo.

In sovraccoperta:

II campo di detenzione delle miniere di Vorkuta,

Archivio di Stato della Federazione russa. Elaborazione della copertina di Amy C. King

pi

da

direttore e

<(Spectator" e corrisp  borato inoltre a

l'Unione Sovietica.


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