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TÓPÖI

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3.TÓPÖI

Il famoso argomento di G. E. Moore, di cui si dice che sulla gradinata della Biblioteca di Londra, agitando la sua mano affermasse: "questa è la mia mano", adducendo questa esibizione a garanzia della verità della sua asserzione, è della fo 13113v2110n rma "questo è questo", che indichiamo come la forma del luogo comune, cioè di ciò che mostrando qualcosa ne afferma, per questo stesso mostrare, l'esistenza fuori dalla parola. Così come fa ciascuna dimostrazione ostensiva che si appelli a un elemento fuori dalla parola, cioè un appello all'evidenza del fatto extralinguistico. Una cosiffatta dimostrazione ostensiva illustra ciò che potremmo chiamare un'argomentazione religiosa, quella cioè usata perlopiù dai più. Si tratta di un'argomentazione che prevede necessariamente l'esistenza di un criterio di verità possibile, che si appunta a qualche cosa che deve funzionare come garante di ciò che si afferma. Un garante dell'inferenza. È possibile pensare che ciò che consente di trarre una qualunque conclusione sia altro da un tópos retorico?



Un tópos retorico sia il senso che una procedura linguistica in atto, produce. Una procedura linguistica e un tópos retorico costituiranno allora l'atto linguistico, ciascun atto linguistico.

Affermare che l'implicazione è una procedura linguistica comporta che nell'implicazione "se p allora q", l'implicazione "se... allora" sia simultaneamente una procedura linguistica e un tópos retorico. È una procedura linguistica poiché comporta un elemento costitutivo del linguaggio che, per recursione, afferma p da "se p allora p", ed è un tópos retorico in quanto dirige tale recursione, in accordo con il gioco linguistico che si sta facendo, nel senso che solo "se p allora p", e "se q allora q", posso giungere alla "se p allora q". L'ultima implicazione "se p allora q" non è logicamente necessaria, è un tópos retorico, dice qual è la direzione che il discorso prende lungo tale gioco. Ma l'implicazione "se p allora p" è un tópos retorico? No, è una delle regole che consentono il gioco linguistico e quindi anche il tópos retorico; ma lo comporta, in quanto senso che si produce da tale implicazione.

Nell'elaborazione intorno alla retorica di Anscombre e Ducrot , il connettivo che precede l'ultima implicazione "se p allora q", sarebbe esattamente un tópos retorico. Ma tenendo conto di ciò che andiamo formulando, le cose ci si mostrano altrimenti. In effetti, se si trattasse soltanto di strutture retoriche, allora anche il principio di identità, cioè "se, se p allora p, allora p", sarebbe un tópos retorico, e come tale una variante, mentre qui andiamo affermando che si tratta di un'invariante. E questo perché senza tale procedura il linguaggio in quanto tale non si darebbe in alcun modo. Ma proviamo a considerare che il tópos retorico sia il senso che una procedura linguistica produce ponendosi in atto. In questa accezione nell'implicazione "se, se p allora p, allora p", il connettivo non è affatto un tópos retorico, ma una procedura linguistica, mentre il tópos retorico è esattamente il senso che tale procedura linguistica produce, qualunque esso sia.

Sia l'affermazione "non è tutto oro quello che luccica" un proverbio. Seguendo Anscombre e Ducrot, diremmo che tale proverbio comporta una serie di tópoï intrinseci e estrinsechi, per esempio un tópos intrinseco che afferma che se x luccica allora x è oro, e un tópos estrinseco che afferma che vi è almeno un y tale che y luccica e che non è oro.

Il proverbio si pone come un quantificatore universale e simultaneamente come un quantificatore esistenziale che nega il quantificatore universale: per tutte le x, x luccica, e vi è almeno una x che non luccica, che è propriamente la forma della contraddizione. Tale sia dunque la struttura di ciascuna forma ascrivibile alla forma del proverbio.

Aldilà di questo inciso, che merita comunque di essere considerato attentamente, la presenza del tópos retorico nel proverbio citato indica, per quanto ci riguarda, unicamente la direzione, il senso di ciò che tale proposizione produce. Questo senso si effettua per la presenza di altri tópoï retorici ovviamente, tópoï implicati, o tópoï intrinseci e tópoï estrinsechi, ma comunque sempre strutture "non necessarie" nell'accezione di necessità che abbiamo indicata, e quindi appunto dei tópoï e non delle procedure linguistiche.

Intendiamo dire che i tópoï possono rinviarsi all'infinito, come peraltro avviene, ma che non si tratta di giungere ad affermare che questa considerazione impone quella per cui non essendoci la possibilità di giungere a un tópos ultimo, allora nel discorso non esistono altro che tópoï, e cioè che il discorso sia discorso retorico. Se non si dessero delle procedure, come lo saprebbero? Come potrebbero affermare, Anscombre e Ducrot, che il discorso retorico è "il discorso retorico" anziché qualunque altra cosa?

Ma sia come sia, ciò che ci interessa qui è intendere in termini più radicali la questione della retorica, cioè del senso delle proposizioni. A questo scopo ci avvarremo del proverbio già citato "non è oro tutto quello che luccica". Come abbiamo notato, la struttura di tale proposizione è di essere autocontraddittoria, in quanto per potere affermarsi, afferma un tópos che successivamente nega.

Poniamo la questione in termini estremi: qualunque tópos retorico ha questa struttura? Cioè qualunque cosa le procedure linguistiche producano, questa produzione sarà sempre necessariamente autocontraddittoria? Consideriamo attentamente la questione, perché per questa via può accadere di dovere affermare che l'affermare la non contraddittorietà del principio di non contraddizione sia un'affermazione contraddittoria.

Potrebbe l'affermazione del principio di non contraddizione essere contraddittoria? Dobbiamo considerare a questo punto un elemento che non è trascurabile e cioè: per potere affermare che non è oro tutto quello che luccica, occorre una proposizione implicita che affermi che "tutto ciò che luccica è oro".

Ma torniamo alla nostra domanda: ciascun tópos retorico ha questa forma? Anche la proposizione che afferma il principio di non contraddizione? Riprendiamo la definizione che abbiamo data del principio di non contraddizione:

(ß) Principio di non contraddizione: non può affermarsi che ciascun elemento sia stesso e non sia se stesso. Affermando un qualunque elemento non posso affermare simultaneamente anche il contrario, per potere affermare il contrario di qualcosa occorre che qualcosa si dia, sia cioè affermato. È il darsi di questo qualcosa che non può essere negato, se non dandolo già come affermato.

La questione è semplice dunque: per potere affermare il principio di non contraddizione occorre la contraddizione, ma la contraddizione contraddice che cosa esattamente, se non ciò che afferma nel contraddirlo?

Dobbiamo allora affermare che il principio di non contraddizione, così come il principio del terzo escluso e di identità sono contraddittori? Si e no, lo sono in quanto tópoï retorici, non lo sono, e non lo possono essere, in quanto procedure linguistiche.

Chiariamo meglio. I tópoï di cui parliamo sono contraddittori rispetto al senso, in quanto sono senso, e cioè le proposizioni che sono, sono contraddittorie in quanto per negarsi devono affermarsi, in quanto si negano se e soltanto se si affermano, ma soltanto in quanto proposizioni, in quanto senso prodotto da procedure. Illustrare una procedura comporta sempre affermazioni contraddittorie, poiché ciascuna procedura, essendo in atto in ciò che si illustra, risulta non isolabile da ciò che la sta illustrando e pertanto, affermavamo nello scritto intorno alla procedura che questa

".. non può essere definita fuori da se stessa. Dicendo "la procedura linguistica è questo" la procedura linguistica è già in atto. In questo senso non può definirsi se non come ciò che è sempre, necessariamente già in atto. Con essere in atto di una procedura linguistica dobbiamo intendere ciò che sta avvenendo, qualunque cosa sia. In questo senso qualunque cosa accada non può non essere una procedura linguistica. Se qualcosa accade, allora questo qualcosa è una procedura linguistica."

Una procedura allora non è altro che l'accadere di "ciò che accade". Ma "ciò che accade" è un tópos retorico, non posso dire che una procedura accade senza che questa stia già necessariamente accadendo, se lo dico, allora ciò che dico è un tópos retorico, e non una procedura linguistica. Una procedura linguistica non può dirsi perché si sta già dicendo.

Ma torniamo ancora al tópos retorico, dicevamo che questo è sempre necessariamente contraddittorio, e lo è perché per potere affermarsi deve negare ciò che afferma. Facciamo ancora un esempio utilizzando un altro proverbio: "l'erba del vicino è sempre più verde". Qui non appare nessuna negazione, e quindi possiamo considerare se effettivamente per potere affermarsi, anche questo proverbio deve negare ciò che afferma. Quali sono i tópoï utilizzati innanzitutto, uno intrinseco che afferma che il meglio è sempre desiderabile, uno estrinseco che afferma che ciò che hanno gli altri è sempre migliore di ciò che abbiamo noi. Ora, per potere affermare questi tópoï retorici, per esempio quello intrinseco, che afferma che il meglio è sempre desiderabile, quale operazione occorre compiere? Perché questa affermazione è contraddittoria?

Questa affermazione ha la forma dell'implicazione "se p allora q" cioè, se qualcosa è meglio, allora questo qualcosa è desiderabile. Ovviamente, per potere definire la nozione di "migliore di" siamo costretti a riferirci ad altri tópoï retorici, e questi ad altri ancora; in altri termini, se vogliamo stabilire tale implicazione, siamo costretti a stabilire, per esempio, la nozione di "migliore di" in modo tale che questa nozione, per il principio del terzo escluso, escluda la sua contraria e la sua contraddittoria. Ora, tralasciando questioni etiche ed estetiche, che non sono che altri tópoï, consideriamo che le procedure linguistiche ci consentono di dire soltanto che "migliore di" è "migliore di", e tanto basta, mentre i tópoï ci consentiranno sempre di potere costruire una proposizione che afferma che ciò che è meglio non è desiderabile. Cioè sarà sempre possibile costruire una proposizione che nega il proverbio in questione.

Ponendosi il tópos retorico in questione come un quantificatore universale della forma: per tutte le x, se x è il meglio, allora x è desiderabile, sarà sempre possibile costruire una proposizione che nega il proverbio, affermando che esiste almeno un x che è meglio, ma che non è desiderabile. Basti considerare, per esempio, il proverbio contrario che afferma che "tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino" che invita a non seguire ciò che è più desiderabile in quanto pericoloso. O ancora "la fortuna arride agli audaci", che invita all'audacia vs "la prudenza non è mai troppa" che invita invece alla prudenza, proverbi che sono in aperta contraddizione tra loro.

Consideriamo ancora il proverbio "l'erba del vicino è sempre più verde", ha la forma logica di un sillogismo del tipo Barbara, tre affermazioni universali:

Maggiore: ciò che è meglio è desiderabile;

minore: ciò che hanno gli altri è meglio;

conclusione: ciò che hanno gli altri è desiderabile.

Ovviamente non si tratta di un sillogismo apodittico ma di un epicherema, con questo diciamo che tanto la minore quanto la conclusione non sono contenute, diremmo meglio, non procedono necessariamente dalla Maggiore, che a sua volta risulta non necessaria ma opinabile. Che cosa vuol dire tutto questo?

Innanzitutto che se la conclusione non è necessaria, allora potrebbe non essere così come la conclusione conclude. Come dire che nell'affermare qualunque cosa, cioè qualunque tópos, questa affermazione comporta necessariamente la sua negazione, e la comporta perché se affermo per esempio che "x è meglio", la sua contraddittoria "x non è meglio" (la sua contraria sarebbe invece "non x è meglio") è implicitamente presente come complementare; se affermo che "x è meglio", ciò che mi consente di affermare questo è un tópos retorico che, essendo confutabile per definizione, implicita tale confutazione col suo stesso dirsi. Infatti, se non implicitasse tale confutazione si porrebbe esattamente come una procedura linguistica, necessariamente identica a sé in quanto procedura, ma non come tópos retorico, come abbiamo visto in precedenza, e pertanto possiamo dire che ciascun tópos retorico è autocontraddittorio per definizione, e che se non lo fosse sarebbe una procedura linguistica.

Si tratta di un sofisma evidentemente, ma di cui occorre tenere conto, se si considerano le regole del gioco che stiamo facendo. Il vantaggio di tutto questo consiste nel fatto che consente di potere illustrare un processo linguistico senza la necessità di dovere ricorrere ad alcun elemento extralinguistico, esplicitamente o implicitamente posto, cioè a un atto di fede.

Posta la questione in questi termini, si consideri il tópos come ciò che si dice, qualunque cosa si dica, per qualunque motivo si dica, e si rifletta sulla condizione di autocontraddittorietà di ciascun tópos. Ciò che si impone a questo punto è che il referente di ciascun tópos retorico sarà un altro tópos retorico, come peraltro Anscombre e Ducrot insistono ad affermare, e che quindi qualunque discorso sarà sostenuto, per così dire, da tópoï retorici. Propriamente l'infinitizzazione e la non arrestabilità dei giochi linguistici di cui si era detto nello scritto intorno alle procedure linguistiche.

Se ciascun discorso, in quanto tópos retorico è inevitabilmente autocontraddittorio, allora sostenere un discorso, un qualunque discorso, vale fare un gioco di cui si accolgono, in quel momento, le regole di cui è fatto. Esattamente come in un partita a scacchi.

Si impone qui un'altra riflessione. La proprietà di tutto quanto detto è di essere, fra le altre cose, autocontraddittorio. Cioè tutto quanto detto è vero se e soltanto se è falso. Ciò che stiamo dicendo, è che in questo consista esattamente il senso, il tópos retorico, e cioè che il senso, qualunque senso, sia per definizione autocontraddittorio. Ma il senso non può non darsi, come dire che tale autocontraddittorietà, per quanto detto più sopra, non è in alcun modo evitabile. Che cosa comporta questa affermazione, oltre alla sua autocontraddittorietà? Che essendo quest'ultima inevitabile, qualunque cosa si dirà, questa ricondurrà al tópos da cui procede, e ciò che si mostrerà saranno le regole del gioco che si sta facendo; le regole e cioè ciò di cui il tópos retorico è fatto.

Consideriamo ancora il proverbio "l'erba del vicino è sempre più verde", è un tópos retorico che procede da altri tópoï, che sono fatti di quali regole? Cioè, in altri termini, a quali condizioni posso affermare "l'erba del vicino è sempre più verde"? Quali altri tópoï sono implicitati in questa affermazione? Potremmo in prima istanza reperire il tópos intrinseco, quello che afferma che il meglio è sempre desiderabile, e pertanto devo credere questo per potere dire che "l'erba del vicino è sempre più verde". Ma se non credo una cosa del genere, nel senso che è una proposizione che non so come utilizzare, o meglio ancora che so avere infiniti utilizzi, posso affermare che "l'erba del vicino è sempre più verde"? Evidentemente si, così come posso affermare qualunque cosa, soltanto che l'affermare che "l'erba del vicino è sempre più verde" non potrà costituirsi come la premessa maggiore o minore, necessarie, di nessuna argomentazione. E cioè che qualunque argomentazione che si avvarrà di tale affermazione non potrà non essere posta come gioco o, se si preferisce, come figura, non retorica ma stilistica.

Ciascun discorso si pone come un esercizio di stile? Una questione simile era stata già affrontata in precedenza, affermando che ciascun discorso, ciascun tópos, è un ornato.

Che cosa intendiamo con stilistica? Se la stilistica si pone come l'insieme dei tratti, delle variazioni, delle deviazioni, degli scarti (a seconda della teoria che se ne occupa), ciò che qui non possiamo non dire è che ciò che specifica un discorso, ciascun discorso, è la sequenza dei tópoï di cui è fatto. La stilistica sarà allora la configurazione dei tópoï nel discorso, data dalla loro morfologia e dalla loro sintassi. Con morfologia, in questo contesto si intenda la forma che un tópos retorico assume flettendosi in rapporto ai tópoï da cui è prodotto. Sintassi sia invece ciò che istruisce i sintagmi al fine di ottenere una combinazione tale da risultare "affidabile", o "felice" come preferirebbe dire Austin, e cioè tale da adeguarsi alla produzione di ciò che interviene come obiettivo.

Nel caso dei proverbi il processo sintattico si configura come il più possibile asindetico, allo scopo di eliminare tutte le possibili immissioni di sintagmi che potrebbero, allungando la frase, inserire elementi la cui presenza potrebbe alterare l'inferenza (il valore di verità) che il tópos intende stabilire e consolidare.

Questione importante, perché un discorso si costituisce in molti casi in questo modo, costruendosi come un insieme chiuso alla possibilità che altri elementi possano inserirsi. Da qui la struttura spesso paratattica dei tópoï che costituiscono un discorso religioso, e questa è propriamente la questione da articolare.

Consideriamo ora una proposizione estrapolata dal discorso di Anscombre: "il tópos retorico è una variante di un blocco semantico", questa proposizione viene affermata; affermandosi, potremmo dire che si sarebbe potuto affermare esattamente il suo contrario? Ci stiamo chiedendo, con questa domanda, se è possibile affermare qualcosa negandola allo stesso tempo. Se affermo che la proposizione p è vera, che cosa sto dicendo con questo? Ciò che non possiamo non dire è che questa proposizione si dà nel discorso che la dice, e questo intendiamo dicendo che una proposizione è "vera", che non può negarsi che esista nel discorso che la dice. Dunque, dicendo che "il tópos retorico è una variante di un blocco semantico" si dice qualcosa che si impone nel discorso. Imponendosi, esclude la proposizione contraria. Se non la escludesse, affermare che "il tópos retorico è una variante di un blocco semantico" non significherebbe nulla in quanto violerebbe le regole del linguaggio che impongono che un elemento linguistico non possa essere altro da ciò che è, poiché se lo fosse, il linguaggio cesserebbe di esistere. Ora, rispetto al gioco linguistico in cui è inserita la proposizione "il tópos retorico è una variante di un blocco semantico", possiamo aggiungere che non potrebbe affermare il contrario salvo contraddire alla necessità di coerenza interna al discorso (cioè alle sue regole), per cui affermare una proposizione e negarla allo stesso tempo impedisce di potere intendere che cosa effettivamente si sta affermando.

Per potere affermare questa proposizione dunque, è necessario che nel discorso che Anscombre va facendo esista una regola per cui il tópos retorico sia una variante di un blocco semantico oppure no? Intendendo qui con regola esattamente il tópos retorico, e cioè ciò che consente (giustifica) il passaggio da un antecedente a un conseguente. Ma se "un tópos retorico è una variante di un blocco semantico", occorre un blocco semantico perché possa darsi una variante. Nel caso di Anscombre il blocco semantico è il senso "naturale" di un'espressione linguistica e quindi, stabilita l'esistenza di questo senso "naturale", sarà sempre possibile inserire delle varianti. Per cui, tale affermazione "il tópos retorico è una variante di un blocco semantico" è vera se e soltanto se il tópos retorico è una variante di un blocco semantico, cioè se esiste una regole del gioco che consente di affermare che "il tópos retorico è una variante di un blocco semantico", ma ciò che stiamo considerando è esattamente questo, e cioè se questa regola sia propriamente quella che afferma che il tópos retorico è una variante di un blocco semantico. Come dire, in altri termini, che una affermazione si costituisce, in un gioco linguistico, come una regola di quel gioco linguistico.

Riprendendo un esempio di Tarski, potremmo dire che l'enunciato "la neve è bianca", è vero se e soltanto se la neve è bianca, e cioè se l'affermare che la neve è bianca è una regola (un tópos) del gioco, solo a questa condizione l'enunciato "la neve è bianca" risulta vero, cioè è un elemento del gioco che si sta facendo.

Una questione simile affronta Jaskowski nel 1948, nell'elaborare logiche paraconsistenti, non scotiane. Si tratta, nella sua elaborazione, di un sistema del calcolo proposizionale che ammette la contraddizione come tesi. Jaskowski dunque muove da questa considerazione:

ipotesi che se analizzate in modo troppo rigoroso porterebbero a contraddizioni fra di loro oppure con una data legge riconosciuta, che però adoperiamo in modo abbastanza limitata da non ottenere una falsità evidente. /.../ Di un sistema in cui ogni espressione sensata è una tesi diremo che è un sistema sovracompleto. /.../ I sistemi sovracompleti non hanno significato pratico: nel linguaggio di un sistema sovracompleto non può essere posto nessun problema, poiché in esso ogni proposizione è asserita"

Cioè se in un linguaggio L è possibile dimostrare "p e non p", allora sarà possibile dimostrare qualunque proposizione nel linguaggio L. Per evitare la sovracompletezza del sistema, quindi per evitare lo pseudo scoto (ex falso quodlibet), Jaskowski ricorre alla nozione di asserzione discussiva. ".. di regola nella ricerche logiche fino ad ora si sono presi in considerazione sistemi deduttivi che erano rappresentazioni simboliche di teorie non contraddittorie, e quindi le tesi di ciascuno di essi erano asserzioni di quelle teorie, espresse in un linguaggio simbolico privo di espressioni di significato incerto. Ma supponiamo che ad un sistema deduttivo aggiungiamo tesi le quali non soddisfacciano alle condizioni sopra indicate. Basta, ad esempio, trarre conseguenze da diverse ipotesi in contrasto tra loro e già muta il carattere delle tesi, che non saranno espressione di un punto di vista uniforme. Lo stesso otteniamo riunendo in un sistema le tesi espresse da diversi partecipanti ad una discussione, od anche i nostri punti di vista in un caso in cui non siamo sicuri se fra le espressioni che compaiono in tesi diverse non intercorrano sottili differenze di significato. Chiamiamo un tale sistema, di cui non possiamo affermare risolutamente che le sue tesi esprimano punti di vista concordanti, sistema discussivo. Per rendere evidente il carattere delle tesi di un sistema discussivo sarebbe necessario far precedere ciascuna di esse dalla riserva: secondo il punto di vista di uno dei partecipanti alla discussione, oppure, in un certo ammissibile significato delle espressioni usate".

Confrontiamo queste considerazioni di Jaskowski con quelle di Jakobson che, nel saggio "Che cos'è la poesia" del 1934 scrive:

"... ma in che cosa si manifesta la poeticità? Nel fatto che la parola è sentita come parola e non come semplice sostituto dell'oggetto nominato, né come scoppio d'emozione. E ancora nel fatto che le parole e la loro sintassi, il loro significato, la loro "orma interna ed esterna, non sono un indifferente rimando alla realtà, ma acquistano peso e valori propri. Perché questo è necessario? Perché è necessario sottolineare che il segno non si fonde con l'oggetto? Perché accanto alla coscienza immediata dell'identità tra segno e oggetto (A è A1) è necessaria la coscienza immediata dell'assenza di identità (A non è A1); questa antinomia è indispensabile, poiché senza paradosso non c'è dinamica di concetti, né dinamica di segni, il rapporto tra concetto e segno si automatizza, si arresta il corso degli eventi, la coscienza della realtà si atrofizza."

Possiamo dire allora che "A e non A1" è una tesi se "non A=A1", e cioè se l'elemento linguistico "A" ha differenti accezioni nel sistema discussivo. Due persone possono utilizzare lo stesso lessema in accezioni assolutamente differenti, giungendo pertanto, inevitabilmente, a conclusioni altrettanto differenti. Come dire ancora che "A" e "A1" sono tópoï differenti.

Ma torniamo alla questione iniziale, dove dicevamo dell'eventualità che per potere affermare p, occorra che p sia un tópos retorico, una regola del gioco linguistico che si sta facendo, e che soltanto a questa condizione sia possibile affermare p. Parafrasando Jaskowski, potremmo dire che le conclusioni di un'argomentazione sono vere se e soltanto se la tesi è una regola del gioco che si sta facendo, che è esattamente quanto dicevamo più sopra affermando che la proposizione "il tópos retorico è una variante di un blocco semantico" è vera se e soltanto se il tópos retorico è una variante di un blocco semantico, cioè se esiste una regole del gioco che consente di affermare che "il tópos retorico è una variante di un blocco semantico". E questo è proprio ciò che intendevamo illustrare. Risulta così stabilita la tesi iniziale, e cioè che una affermazione, una qualunque affermazione, può farsi se e soltanto se tale affermazione risulta una regola del gioco linguistico che si sta facendo.

Che cosa comporta tutto questo? Semplificando il discorso di Jaskowski, diciamo che è possibile affermare un'asserzione e la sua contraddittoria (p e non p) se diciamo che p è possibile ma non necessaria, allora saranno possibili tanto p quanto "non p", per definizione, ma senza incorrere nella sovracompletezza del sistema, poiché da "p e non p" non sarà possibile inferire q, se p e "non p" sono possibili, q non sarà necessario. Tutto questo rende conto di ciò che avviene in ciò che si produce parlando, riguarda cioè ciò che abbiamo indicato come retorica del linguaggio.

In ciò che abbiamo chiamato logica del linguaggio, tutto questo non è possibile, poiché la simultaneità fra p e "non p" cancellerebbe tanto p quanto "non p" che, di conseguenza, non potrebbero essere affermate in quanto non sarebbero elementi linguistici che, per definizione, occorre che possano dirsi, e per potere dire p occorre che dica p, e non "non p".

Indichiamo allora con "possibile", solo e unicamente ciò che non è necessario nell'accezione stabilita, quindi, tutto ciò che attiene alla retorica, a ciò che il linguaggio produce e alle sue regole, sarà "possibile". In questa accezione "possibile" non riguarda affatto il vero o il falso, che sono regole per giocare, ma soltanto l'essere non necessario. Diciamo allora che una procedura non è possibile ma necessaria, in quanto condizione del linguaggio, la sua stessa esistenza. Una procedura non può variare senza che il linguaggio cessi di esistere. Pertanto, per definizione, una procedura linguistica non può variare.

Se consideriamo un discorso, un qualunque discorso, quindi anche quello che stiamo facendo, nei termini che abbiamo esposti, ci troviamo di fronte a una sequenza di proposizioni che muovono da affermazioni, implicite o esplicite, che costituiscono le regole del gioco che si sta facendo, regole che peraltro sono, il gioco che si sta facendo. Le asserzioni discussive di Jaskowski, al pari dei tópoï di Anscombre e Ducrot, indicano che ciascuna volta è opportuno precisare quale sia esattamente l'accezione del termine che si sta usando, perché non è affatto necessario che sia uno piuttosto che un altro. Anche se occorre che un elemento linguistico sia riconosciuto in quanto tale, occorre anche che di questo elemento linguistico sia attribuito il senso, al fine di intendere che cosa si stia dicendo. Ed è esattamente a questo punto che si pone la questione retorica, cioè l'attribuzione di un senso a un elemento linguistico. Abbiamo detto in precedenza che un elemento linguistico per potere essere tale occorre che sia già provvisto di significato, il che vuole dire semplicemente che è un elemento linguistico, ma il senso, cioè ciò che si produce, questo costituisce la variante, cioè ciò che abbiamo definito come il "possibile". In questo senso non c'è nulla di ciò che si dice che non intervenga come "possibile". La convinzione più forte, al pari della fede più ferma, sono "possibili", cioè sono "vere" rispetto alle regole del gioco che fanno, per cui tanto p quanto "non p" sono vere rispetto al gioco in cui sono inserite.

Le orazioni di Bruto e di Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare, costituiscono un buon modo di affrontare la questione esposta in precedenza. Si tratta di due tesi avversarie, ciascuna motivata da ottimi motivi, entrambe attendibili, verosimili e persuasive. Che entrambe vengano credute vere ci lascia intendere che entrambe "sono" vere. Rispetto alle regole del gioco di Bruto, il significante "ambizione" comporta necessariamente il gesto di Bruto, cioè l'assassinio di Cesare, perché qui l'ambizione è intesa come volontà di sopraffazione della libertà dei romani, e pertanto è per difendere Roma che Bruto uccide Cesare. Nell'orazione di Antonio, il significante "ambizione" assume un'altra accezione, e cioè la volontà di arricchirsi nel totale disprezzo dei romani. Antonio giunge a questo rovesciamento mostrando che Cesare non era ambizioso in quanto non voleva arricchirsi a scapito dei romani, mostrando il famoso testamento di Cesare e le altre prove. Nel negare a suo modo che Cesare fosse ambizioso, inserisce implicitamente una definizione di "ambizione" che è totalmente differente da quella utilizzata da Bruto. Pertanto, secondo le regole del gioco di Bruto era necessario che Cesare morisse, secondo le regole del gioco utilizzato da Antonio, essendo Cesare innocente, diventava un martire ucciso da assassini.

"È possibile p", "è possibile non p", soltanto le regole del gioco possono stabilire quale asserzione sia vera e in quale gioco. Come dire che la verità di un'asserzione è funzione delle regole del gioco in cui interviene tale asserzione, sono le regole del gioco a stabilire che cosa è vero e che cosa non lo è. Perché non ha alcun senso domandarsi se le regole del gioco sono vere o false? Perché il gioco che si fa nel porre questa domanda, vieta tale domanda, la esclude in quanto non senso. La domanda non è tra le regole del gioco, e pertanto non può farsi.

Consideriamo le tesi di Jaskowski. In una conversazione tra A e B, A sostiene che p, B sostiene che "non p". Apparentemente si tratta sempre di p, e per tutte le logiche scotiane è esattamente così, e cioè "p oppure non p", che equivale a dire "se p, allora non non p". Ma in una conversazione le cose non si pongono in questi termini, né potrebbero porsi in questi termini, in quanto in una logica scotiana perché A possa affermare p occorrerebbe che p fosse necessaria, e cioè che non potesse darsi "non p", e pertanto necessariamente non si darebbe "non p", e la discussione non esisterebbe. Né potrebbe darsi alcuna discussione. Ma, come dicevamo, le cose non stanno esattamente così. All'interno della discussione accade che "non (p = p)": per A, p rappresenta una certa cosa, per B tutt'altra. Ma perché p non è sempre esattamente la stessa cosa? Perché per Bruto e per Antonio l'ambizione non è la stessa cosa?

La questione potrebbe apparire molto banale, ma potrebbe non esserlo se si considera che tutto questo accade anche, e forse soprattutto, nel discorso che ciascuno fa con se stesso e che decide ciò che crederà vero e quindi ciò che farà. Determinare ciò che è vero è principalmente il compito del calcolo delle proposizioni, in un certo senso ciascuno, cercando di stabilire se una certa cosa è vera oppure no, compie un'operazione del genere, e cioè sottopone le sue asserzioni, le sue tesi, a un calcolo proposizionale, calcolo che dovrà decidere che cosa è vero e che cosa non lo è.

Le cose in cui ciascuno crede sono le regole del discorso che fa, e questo rende conto della difficoltà di intendere altrimenti da come si pensa. La questione è che può accadere di pensare che le asserzioni credute vere, anziché essere vere rispetto alle regole del gioco linguistico in atto, siano necessarie per natura, per la logica delle cose, per fede o per qualunque altro motivo. Allora avviene una sorta di sovrapposizione tra ciò che è vero rispetto alle regole del gioco che si sta facendo e ciò che è vero necessariamente, non più quindi rispetto a delle regole del gioco ma rispetto a una necessità extralinguistica. Una struttura che si regga sull'idea di una necessità extralinguistica è propriamente ciò che indichiamo come discorso religioso.

In questo caso il calcolo proposizionale muove dalla supposizione che p e "non p" si escludano, ritenendo p un'invariante, cioè una necessità logica anziché un tópos retorico e quindi una variante linguistica.

Se una qualunque asserzione risulta non potere non essere una variante linguistica, allora il solo fondamento di tale asserzione saranno le regole del gioco che consentono tale asserzione, che a sua volta si porrà come regola del gioco per altre asserzioni e così via. In tal senso la non contraddittorietà di tale asserzione, cioè la sua consequenzialità dalle proposizioni che precedono, illustrerà unicamente il corretto uso delle regole del gioco in atto. Esattamente così come un giocatore di poker deduce che se ha quattro assi allora vincerà, se l'avversario avrà soltanto una coppia di re.

Vincere un agone dialettico, cioè dimostrare la verità della propria asserzione, vale esattamente come per il giocatore di poker: si saranno utilizzate al meglio le regole di inferenza consentite da quel gioco. Nulla più di questo. Se riesco a dimostrare che p è vera e "non p" è vera, allora avrò utilizzate meglio le regole del gioco linguistico. Dimostrando che "non p" è vera, affermo soltanto che esistono delle regole che consentono di fare questa operazione.

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