Tu non conosci il Sud, le case di calce
da cui uscivamo al sole come numeri
dalla faccia d'un dado.
Quando tornai al mio paese nel Sud,
dove ogni cosa, ogni attimo
somiglia a quei terribili polsi dei morti
che ogni
e stancano le pale eternamente implacati,
compresi allora perché ti dovevo perdere:
qui s'era fatto il mio volto, lontano da te,
e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.
Quando tornai al mio paese nel Sud,
io mi sentivo morire.
Una funesta mano con languore dai tetti
visita i forni spenti, le stalle in cui si desta
una lanterna o voce impolverata.
Come da un astro prossimo a morire
S'ode un canto dai campi di tabacco.
Sulle soglie, in ascolto, le antiche donne sedute
- o macchie che la luna ripercuote nell'aria -
socchiudono pupille d'una astratta durezza
dai palmi delle mani, aperte pietre sui grembi.
Che nevoso silenzio,
che sogno miserabile
di carbone e di fango nei sobborghi!
Fra spettinate case qualche fanale a gas
getta nell'ombra la sua ombra verdastra:
lì una coppia dilegua, e nel punto ove sparve,
la coda d'una serpe fra le canne
d'una remota estate un attimo balena.
Una pietà insensata
arida come semi di girasole
gira in folle ai crocicchi,
mentre nella tua terra i contadini
invisibili parlano turchino 11311i82l
dai campi di tabacco, e fra un istante
la notte avrà sapore di oliva verde.
Viviamo in un incantesimo,
tra palazzi di tufo,
in una grande pianura.
Sulle rive
mostriamo le caverne di noi stessi
- qualche palmizio, un santo
lordo di sangue nei tramonti, un libro
lento, di pochi fatti che rileggiamo
più volte, nell'attesa che ci dia
tutte assieme la vita
le cose che crediamo di meritare.
Un
Noi abitiamo in una
Passavano treni in corsa alla periferia
- un gomito sonoro -;
e tutto il resto era un fermento di cieli.
Un meriggio d'inverno, col sole su un muro bianco,
riconoscemmo la nostra amata calligrafia.
Chi avrebbe mai pensato
che voi scriviate come un'ombra d'alberi,
come i pettini freddi
con i denti coperti di capelli!
(S'era in pena per voi.)
Così passammo la notte.
La luna dei Borboni
col suo viso sfregiato tornerà
sulle case di tufo, sui balconi.
Sbigottiranno il gufo delle Scalze
e i gerani - la pianta dei cornuti -,
e noi, quieti fantasmi, discorreremo
dell'unità d'Italia.
Un cavallo sorcigno
Camminerà a ritroso sulla pianura.
Un campanile di sughero
verso i capelli corti della luna
ghiotta d'angurie. Un grande carro fermo
ai passaggi a livello,
fra gli orti coi piselli calpestati
di nottetempo. Dorme
il carrettiere o non dorme,
bocconi
con il capo fra le braccia,
e il fanciullo covava
il desiderio inquieto dei pidocchi
al passaggio del treno verso il Nord.
I preti di paese
hanno le scarpe sporche
un dente verde e vivono
con la nipote.
Presso cassette vuote
d'elemosina
sanguina Cristo in piaghe
rosso borbonico;
esala un'agonia
dura dai banchi
e dai fiori di campo.
In piazza, accoccolati
sulle ginocchia del Municipio,
stanno i disoccupati
a prendere l'oro del sole.
Trotta magro e sicuro
un gatto nel Sud nero.
Qui non vorrei vivere dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l'inverno.
Pigro
come una mezzaluna nel sole di maggio,
la tazza di caffè, le parole perdute,
vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano:
divento ulivo e ruota d'un lento carro,
siepe di fichi d'India, terra amara
dove cresce il tabacco.
Ma tu, mortale e torbida, così mia,
così sola,
dici che non è vero, che non è tutto.
Triste invidia di vivere,
in tutta questa pianura
non c'è un ramo su cui tu voglia posarti.
E infine aranci imbandierati e carichi,
spine e raffiche
di dolcezza nei fichi d'India, uomini
traballanti sui carri
vuoti
per caricare il tufo dalle cave,
col cane morto di sonno.
E stagioni dal becco sottile
di cicogna, che si spulciano il petto,
che prendono pietre da terra
e le buttano più in là.
L'allodola e la luna sole nel cielo:
lei sorta appena e il passero spaurito
dal pino nero e i silenziosi spari
dei finti cacciatori in mezzo al grano nascente.
Nessuno l'attendeva. Nessuno attende.
Volava di traverso con tutto il cielo in gola.
Sotto di lei crollavano i papaveri,
un'ombra cancellava coi grossi pollici
il dolce vino e il viola del tramonto.
In una stanza in fondo, la memoria,
lasciata ai suoi più torbidi solitari,
di te non s'informava, fine d'un grande giorno:
giorno da meditare
davanti a una finestra, col silenzio alle spalle.
Come un polpo sbattuto ancor vivo contro lo scoglio
si arricciavano i miei pensieri
a Bari fra le barche verdi e gli inviti
favolosi dei venditori
di quella iridescente pena; ma io
non avevo che una moneta
d'impazienza e di notte,
una moneta nera dei paesi
dell'interno, che soffoca le case
fra orizzonti di corda su cui oscilla
la tarantola - un'altra pena; e tu un'altra,
quando dicesti: la pietà è più forte
dell'amore. Più rapida è volata
che il mio odio la mano sulla tua guancia.
Sto davanti alla tua caverna.
Esci fuori e arrenditi.
Noi abbiamo la sintassi e la radio,
i giornali e il telegrafo,
e tu non vivi che del mio sonno,
non hai che la roccia a cui ti tieni abbrancato,
e per farmi dispetto
non mi rispondi nemmeno.
Tutto ciò che ti dono
non t'interessa.
Guardi le grandi siepi
gialle,
e il ponticello senz'acqua
o la grottesca ira del pungitopo,
e pensi a un cielo più alto,
non quello su cui corrono
pattinando i miei occhi,
o le gare fra case ed erba, e i gialli
e rossi dei suoi fiori.
Un contadino catafratto spruzza
d'azzurro le sue viti:
se ne tinge il vento
capelli e dita per gioco.
E non è bello? E dunque? Noi viviamo
assieme da tanti anni,
e non posso sapere
cos'è che ti rattrista,
che respingi ogni cosa:
se è l'orgoglio e i belletti del piacere
o se il dispetto di non essere eterno.
Voli basso sulla pianura
amore il cielo
poco ti solleva
come sei verde e nera
la bocca rossa
di rosolaccio.
Vola così e così
t'incurvi bianca
fra le vigne fugaci
e a me torni più viola
mia di colore e tutto
agave mia
che ha imparato a cantare
dal gorgoglio dei pali del telegrafo
un canto nero che va giù e s'interra.
Cresce l'erba
e la capra legata al fico.
Solo quando tu entrasti
la barca fu piena,
e il barcaiolo coi buchi nella maglietta
fece sparire la nazionale
che gli diedi perché remasse di spalla.
Così il mare quel giorno
poté maturare ricordi per dopo.
Al tempo dell'altra guerra contadini e contrabbandieri
si mettevano foglie di Xanti-Yaca
sotto le ascelle
per cadere ammalati.
Le febbri artificiali, la malaria presunta
di cui tremavano e battevano i denti,
erano il loro giudizio
sui governi e la storia.
Così semplice,
che noi non lo avremmo fatto.
Uno l'ho visto io
camminare col capo in giù
sul soffitto,
altri bevevano a un pozzo
di scorpioni e di serpi,
non senza gridi,
nel viola acido e sporco
d'una cappella,
mentre fuori era il chiaro giorno
steso coi piedi avanti
come il Cristo del Mantegna.
Così mi disorienti
se ti guardo vivere:
io vedo tutte le insidie
e tu sei in grande pesce senza testa,
disordinato e prode,
che smuove più acqua del necessario,
e poi d'un tratto ti fermi e indovini il dissenso,
ed è quando mi dici disperata
«Vorrei già avere trent'anni!».
Col tramonto su una spalla
e fasce gialle e blu,
alto, come un gelato
di corvi in mano,
chino la testa e passo
sotto l'arco di Carlo V.
E al passaggio si spegne
il lumino dell'anime sante
che tengono la destra
a cinque punte sul petto,
fra le fiamme del Purgatorio.
Questa è la mia città,
le mura le avete viste:
sono grige, grige.
Di lassù cantavano
gli angeli dei Seicento,
tenendo lontana la peste
che infuriava sul Reame.
Ora c'è fichi d'India, un aquilone,
un ragazzo che tende
il suo elastico rosso
contro qualche lucertola
troppo spaurita e minima
per presentarsi a quel sogno
d'inaudite avventure
di cui s'inorgoglisca il cuore umano.
Ninetta, la poesia
(d'estate) è un pappagallo
dalle penne oro e verdi e la mania
di contraddire.
Così mentre tu sogni
d'arrivare in Versilia
in regola, coi pantaloni gialli,
io penso a un viaggio di sei anni fa.
Ballava la Olivetti
la bombola del gas
sopra il sedile posteriore, il trucco
troppo forte ti sbilanciava il viso -
poi l'ulivo e un paese
dove moriva il giorno
come un gran gallo suicida
sulle terrazze.
Son maturato tardi. È la smania
di vivere troppo presto che m'ha tradito.
Non dar tempo al tempo. Vedere
la bellezza soffrendo
di non poterla usare.
Ho imparato tardi ad accordare
al mormorio del ruscello i moti del cuore,
a ammettere la natura fra i miei pensieri
come un ospite da lasciare a suo agio.
Conosco appena le mani,
le scarpe che metto ai piedi.
Conosco il giorno e la notte
e i terrori del vento.
Ma gli anni? Dove son gli anni,
e tutti i libri che ho letto?
I volti amati si sfrondano
delle loro vicende,
non restano che i nomi.
Tutto nella memoria
cade a pezzi, sprofonda
senza rumore
nelle botole dei morti.
Ah, dove son le acute presenze
del passato, le sue calde forme,
la cera su cui incidevano
i miei sentimenti?
Dove si nasconde il senso
delle cose che ho vissuto,
e i brividi lucenti
e i cieli dell'avventura?
Presi nelle spire del boom ne gustiamo anche noi
gli alti palazzi e le piante nane
piume serpenti chiomati sotterfugi intimi.
L'astrattismo ci punse un dito come una rosa neoclassica.
Tacevano i cani di calce e la civetta veloce
e tutto ciò che un tempo avevamo dentro capovolto come in un negativo.
Solo una luce lontana e senza voce
accucciata davanti al mio mare in tempesta
come la vedova d'un marinaio
era il banco di prova dei tuoi velieri
di solitudine e d'ira,
solo una sera ignara che si versa
nella buca delle lettere.
Alle radici dei gesti
dove amare significa
imbeccare risposte a un passero giallo
chi ti cercò con l'anima
non ti trovò che con gli occhi.
La laguna interiore
insabbiata in accuse
proposizioni vertigini soavi sassi
aveva sogni circondati di vuoto
manifesti gialli
sui quali si leggeva comodamente
che tutto avrebbe potuto
ricominciare daccapo.
Gli occhi d'oro del sole
sequestravano nell'aria
un colore di ponti levatoi.
Persuadeva i tuoi seni di mercurio
l'incerta ubiquità
del pube a filo dell'acqua.
Se bere un whisky è versarlo
sull'arso terriccio della propria tomba
dove l'oscenità canticchia assassinata
dall'ombra d'un cane o dalla furia della ragione
trofei d'occhi inespugnati
come fregi di antiche stamperie
si scioglieranno nell'alcool tra i sadici archivi
di una notte tradita da strambi propositi.
Una finestra morrà.
Morrà sul Bosforo un ferro di cavallo.
L'uomo che s'affeziona al proprio deserto
guarda la proditoria brace
che scolora fra i platani
e sa che il suo pensiero un tempo amante di sfide
non sa andar oltre e quasi di quel limite
s'accontenta.
Lo sfiora appena il sospetto
d'essere prediletto
da quel rosso nulla.
I pomodori secchi
attaccati a uno spago
e le donne dai cuori di cicoria.
I pomodori secchi e i datteri gialli,
e le donne che colgono le olive
fra gli olivastri, con la bocca viola;
tutto è univoco e perso a furia d'esistere.
Dove hai nascosto, cielo, l'altra ipotesi?
Quale parte è la nostra?
Non saremo null'altro
che rozzi testimoni di questo esistere?
O mio dio a cui non credo,
ti leggo come una poesia profonda,
piena d'occulti sensi e di fiumi paterni.
La lezione di musica
bruca l'umido
nel mezzo della via,
sentinella perduta dell'autunno,
e in una scia di zucchero filato
si fa strada l'urlo dei Sioux.
Nessun tempo avrà speso così male
tanta sete d'ignoto:
compra educatamente biglietti di morte
ai botteghini la gente, i giornali
parlano di dischi volanti
da cui ciascuno spera una rivincita.
Il poeta passeggia fra i seni altrui
fra lune altrui
ed intanto si interroga sulla propria
statura d'uomo.
Girano delicatamente
piccoli e grandi emisferi
ma non sanno svelargli
quale delitto lo apparenti
al rosso dell'occaso o dell'aurora nel bosco.
Un tempo il verso d'avvio
cadeva direttamente dalle ginocchia di Giove
bastava riconoscerlo e seguitare
elaborare trascegliere il reale o se stessi
non già questo sporcarsi e intridersi
questa mano accusativa
che non salva e non placa
che lascia tutto come sta.
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